Così Arcieri era riuscito a sapere dai Servizi dove abitava Ciuni, il vecchio siciliano, e a fare in modo di tenere lontano Bertini, almeno per un'ora o due. Tecnicamente aveva ancora il tempo per ottenere le informazioni di cui aveva bisogno, ma l'appuntamento con Bosco si avvicinava minaccioso.
Si ricordava il cognome da ragazza della moglie di Ciuni, ma non dove abitava: probabilmente non l'aveva mai saputo. Trovò sull'elenco telefonico tre indirizzi plausibili. Doveva controllarli e sperare anche che il vecchietto che cercava non fosse andato in ferie da qualche parte.
Lo trovò proprio mentre suonava mezzogiorno. Era in una palazzina nel bel mezzo del bailamme dei turisti, e dovette farsi largo tra tedeschi e americani a caccia di ricordini e prodotti tipici. Ciuni abitava in casa di sua moglie, morta da anni, ma aveva conservato tutte le utenze a nome della donna. Abitudini di segretezza dure a morire. Il vecchio gli aprì la porta e gli fece un cenno di saluto, in silenzio, come se si fossero visti la sera precedente e non oltre vent'anni prima, quando Arcieri era ancora giovane e Ciuni un sottufficiale già avanti negli anni. Mentre saliva le ripide scale dietro di lui, Arcieri lo studiò: basso, ossuto, lievemente curvo, la testa piccola, i capelli bianchissimi. Doveva avere più di ottant'anni. La casa aveva odore di polvere e di muffa. Ciuni lo fece sedere in cucina, davanti al tavolo. C'era la macchinetta del caffè, posata direttamente sul marmo. Gliene offrì una tazza, e Bruno non ebbe il coraggio di rifiutare.
«Lei vuole qualcosa da me, colonnello».
Nessun tono di domanda: era un'affermazione. Ma non aveva affatto perso la testa, e Bruno ebbe la conferma che Bertini gli aveva mentito, quando aveva detto di non avergli potuto cavare nulla.
«Il maggiore Bertini è venuto a trovarla, vero professore?»
«Se lei dice così, signor colonnello, io non posso certo contraddirla».
Aveva ancora l'accento palermitano stretto: ma quello antico, arido come un albero morto.
«Le ha chiesto dei sommergibili tascabili. Ho indovinato anche questo?»
Ciuni negò, alla siciliana, alzando un poco il mento e facendo il verso tipico. Bruno si impose di conservare la pazienza.
«Durante la guerra lei faceva l'informatore per il SIM dell'Esercito, mentre ufficialmente era nella Marina Militare, all'Ammiragliato».
«lo ho servito il Re e la Patria».
«Però spiava gli ammiragli».
«Vendevano i piani di Supermarina agli inglesi...»
«Ma dopo l'8 settembre ha attraversato mezza Italia per raggiungere gli Alleati. Ci siamo conosciuti a quell'epoca, a Brindisi».
«Sono andato dal Re».
«E ha salvato sua moglie, che era ebrea e non sapeva più come nasconderla ai tedeschi e alle spie del Fascio».
Ciuni drizzò la testa e strinse le labbra.
«Che c'entra mia moglie, colonnello?»
Arcieri aveva messo le fotografie dei Levi sul tavolo di marmo.
«Questi bambini li hanno massacrati i nazisti, proprio grazie alle spie del Fascio. Voglio trovare le loro ossa e non mi fermerò fino a quando non ci sarò riuscito. Quindi faccia meno lo scontroso e lasci perdere il segreto che ha giurato a Bertini».
Il vecchio fremette appena, come un grande albero dopo un colpo d'ascia.
«Cosa vuol sapere, colonnello?»
«Cominciamo dai sommergibili tascabili di La Spezia».
«Erano ancora quelli della Grande Guerra. Ci sono stato, a bordo». L'ombra di un sorriso. I ricordi lontani, per qualsiasi vecchio, erano miele. «Le classi A e B furono un fallimento, la Marina non li volle più. Ma la ditta Caproni proseguì lo sviluppo dei progetti».
«Saltiamo i preamboli e arriviamo all'ultima guerra».
«Piano, colonnello. La Caproni varò un tredici metri nel '37. Era buono, il prototipo. Cosi l'Ammiragliato le commissionò la realizzazione di due sommergibili tascabili, CA1 e CA2, di dieci metri appena».
«Che collaudarono a La Spezia».
«A Venezia e a La Spezia. Due anni di fatiche inutili, visto che i nostri mediocrissimi ammiragli non sapevano che farsene. Finirono a secco, come ferri vecchi».
«Li smantellarono?»
«No, con la fame si mangia di tutto. A metà della guerra li recuperarono e li modificarono. lo ero già lì, informavo i nostri».
«Sono questi, i sommergibili che interessano a Bertini e a me?»
Arcieri si accorse troppo tardi di aver fatto un passo falso, per la fretta. Ciuni, che si era un po' rilassato, tornò duro come il legno.
«Che c'entrano i bambini ebrei coi sommergibili?»
Doveva dargli qualcosa in cambio, per far ripartire il racconto. Le foto erano ancora sul tavolo di marmo.
«Sono stati traditi da un maledetto dandy che vendeva ebrei ai nazisti, nel 1944».
«Cos'e un dendi»?
«Un perdigiorno che stava coi ricchi. Si chiamava Ferdinando Albizi. Spia del Fascio. Lo conosceva?»
Ancora il diniego alla siciliana. Arcieri sospirò, la pazienza lo abbandonava.
«Ferdinando Albizi aveva un complice: qualcuno insospettabile, che gli serviva come intermediario con le SS. Non poteva agire direttamente, doveva salvaguardare la sua posizione all'interno dell'alta società. Questo non sono sicuro che Bertini glielo abbia detto».
Di nuovo un no, col mento alzato e il suono smozzicato. Arcieri insistette, a testa bassa.
«Nel dopoguerra Albizi sfugge alle vendette, ma non espatria: vende a qualcuno un' informazione molto importante, in cambio di una nuova identità».
«Non so nulla».
«Ciuni, io sono il suo colonnello».
«E io l'ho sempre obbedita. Ma non so nulla».
Bruno capi che doveva colpire basso.
«Le hanno detto perché erano in tanti a volere la pelle di Albizi?»
«No».
«Sa cosa succede quando si picchia un bambino? Ma sul serio, per fargli davvero male...»
Il vecchio siciliano lo guardò impaurito, ma non aprì bocca.
«C’è una progressione precisa, che hanno studiato i medici nazisti ad Auschwitz. Prima il bambino piange, poi smette. Rimane imbambolato, non riesce nemmeno più a credere al dolore che prova. Il viso non ha più espressione. Lei ha dei nipotini, vero Ciuni?»
II vecchio rimase in silenzio, ma da un lampo cupo nei suoi occhi Arcieri capì che aveva indovinato. Si fece forza, doveva premere a fondo su quel pedale.
«Pensi a uno dei suoi nipotini mentre viene picchiato selvaggiamente da una SS. Ha smesso di piangere, ha gli occhi aperti e fermi, increduli. Poi dalla bocca, insieme al sangue, comincia a uscire un lamento animalesco, in pratica un rantolo. Non ha mai sentito rantolare un bambino?»
«Torniamo ai sommergibili. Colonnello».
«No. II suo nipotino viene preso per i piedi e sollevato in aria, ma non è un gioco. Invece lo sbattono contro il tronco di un albero, fino a spezzargli la schiena. Non ci vuole tanto poco, perché le ossa dei bambini sono elastiche. Ma, dai e dai, si rompono».
«Colonnello, perché mi dice questo?»
«Albizi ha permesso che ai bambini delle fotografie fosse riservato proprio questo trattamento. Dopo la guerra, avrebbe dovuto almeno morire, non le pare? Invece ha venduto qualcosa, per rimanere vivo: informazioni, come sempre. Ma soprattutto il luogo dov'era un carico di denaro rubato, affondato con un sommergibile tascabile, a cavallo dell'8 settembre 1943. Questo Bertini gliel'ha detto di sicuro, Ciuni».
II vecchio sembrava stesse per piangere. Arcieri to incalzò senza pieta, perché non poteva fare altro.
«Se lo meritava, Albizi, di restare vivo? Ora le racconto qualche altro particolare della morte dei bambini Levi».
Bruno caricò ulteriormente, se possibile, l'orrore di quell'episodio del 1944.
Vide che il siciliano si irrigidiva ancora di più: sembrava combattere disperatamente contro qualcosa. Poi d'un tratto si rilasciò, come una corda tesa che si spezza. Gli parve addirittura che si afflosciasse. Doveva dargli l'ultima spinta.
«Allora, Ciuni. Ferdinando Albizi, dopo aver fatto i soldi sulla pelle dei bambini, ha venduto il carico di denaro rubato, affondato col sommergibile».
«I due mini sommergibili CA1 e CA2 servirono al piano dell'azione dimostrativa nel porto di Nuova York». Il vecchio professore si stava liberando dall'orrore: la prendeva larga, ma era fatta. «Il primo rimase a La Spezia, presso la Decima, dopo le modifiche necessarie. L'altro, il CA2, fu portato a Bordeaux. L'avrebbe trainato il Da Vinci. Eravamo ancora nell'estate del '42».
Bruno tirò un sospiro di sollievo. «Ma il Da Vinci fu silurato prima che il progetto fosse pronto, vero?»
Ciuni annuì appena.
«Il CA2 restò a Bordeaux».
«Quanti uomini imbarcava?»
«Un ufficiale e un operatore».
«Allora non può essere il relitto che intendo io».
«E chi ha detto che lo era? Quello che hanno trovato è un'altra cosa, ma deriva dal CA1 e dal CA2. La Marina commissionò alla Caproni altri due modelli simili. Avevano sempre in mente il Nord America, quelli della Decima. Realizzarono il CA3 e il CA4, un po' più lunghi, con tre uomini a bordo. Che poi forzarono a quattro. Era il gennaio del '43».
«Il relitto è uno di questi?»
«No. Quelle due scatolette erano a La Spezia, l'8 settembre. Furono auto affondati, ma i tedeschi li recuperarono per copiarli. Uno finì in Germania, l'altro rimase alla base e dopo la guerra fu demolito».
«E allora?»
«La Caproni aveva progettato anche un'altra serie, i CB. Questi erano lunghi quindici metri, l'equipaggio era di quattro uomini. Ne fecero due squadriglie di sei unità ciascuna, prima dell'8 settembre...»
Arcieri sbirciò il suo orologio da polso. Mancava pochissimo all'appuntamento con Bosco. Doveva rischiare.
«Proseguo io, Ciuni. Il futuro ammiraglio Fedele Argenti era al comando di uno di questi sommergibili, che però non era ancora a punto, per una missione di trasporto di denaro rubato. Una missione ultra segreta, nota solo a pochissimi. Ma che lei riuscì a spiare».
Il vecchio serrò le labbra. Nessuna risposta. Bruno strinse i denti e andò avanti. Rischiava di farsi cacciare di casa, ma il professor Ciuni ormai aveva perso la sua personale battaglia con l'obbedienza cieca e assoluta, e alla fine aprì bocca.
«Come ha fatto, questo Albizi, a sapere della cosa?»
«Tramite il suo ex complice, che comandava quella missione segreta...»
«Vuol dire che il complice di Albizi era Fedele Argenti? Che l'ammiraglio collaborava a far ammazzare bambini ebrei?»
«Sì. Ha permesso che li prendessero per i piedi e li sbattessero sul tronco di un albero, come si fa per ammazzare un gatto. Li ha guardati mentre sputavano sangue».
Ciuni si alzò in piedi e si mise quasi sull'attenti. Ora, più che parlare, declamava.
«Basta, signor colonnello. Non era denaro, era oro. E non era affatto rubato. Verghe d'oro regolarmente in possesso della Quarta armata, rientrata in Italia e dispersa in Piemonte: una parte servi a finanziare i partigiani. ma il grosso doveva prendere un'altra via. Doveva essere trasportato all'isola della Maddalena, al sicuro sia dai tedeschi che dagli Alleati. perché si preparava l'armistizio. Usarono un CB ulteriormente modificato, per imbarcare più carico e più uomini. Ma non ne troverebbe mai traccia, nei registri. Non era collaudato, non andava bene. Lo doveva comandare Argenti, che però cambiò idea, si disse per paura. Il comando fu dato a un giovane guardiamarina».
«Teseo Mori».
«Non ricordo il nome. Il sommergibile partì col suo carico. Niente radio a bordo, che poteva essere individuata. Ebbe un'avaria. Era la notte fatidica, quella dell'8 settembre. I pochissimi che sapevano, lasciarono che il sommergibile dormisse sul fondo: altrimenti l'avrebbero recuperato i tedeschi».
«E lei, Ciuni, che cosa fece?»
«Nulla, che dovevo fare? Stavo scappando a sud, con mia moglie. Quelle furono le ultime cose che riuscii a sapere: informazioni vaghe. nel caos. Feci rapporto verbale, a Brindisi, ma nessuno mi stava ad ascoltare. Lei sa com'eravamo considerati noi del SIM, in quei giorni e in quella situazione».
Bruno annuì, ripensando alla fuga del Re a Brindisi, al governo di Badoglio controllato dagli anglo-americani, mentre i tedeschi occupavano l'Italia centro-settentrionale... Ciuni aveva ragione: quell'episodio si era perso nella più colossale confusione della storia d'Italia. nel crollo verticale dello Stato. I pochi che sapevano del trasferimento dell'oro della Quarta armata avevano opportunamente deciso di lasciarlo sul fondo. E nel dopoguerra, se erano rimasti vivi, non avevano potuto fare nulla. Ma Argenti ne aveva parlato ad Albizi, e lui aveva venduto l'informazione a chi, in cambio, gli poteva salvare la pelle, trasformandolo in Luca Bianchi. Non poteva che essere andata in quel modo. Ma dopo la guerra, tagliati fuori dai centri del comando, quelli che lo avevano aiutato si erano resi conto di non poter mettere le mani sul carico del sommergibile, almeno non con i mezzi che avevano a disposizione. Così avevano lasciato Albizi in zona per vent'anni, come una specie di sorvegliante. Solo dopo molto tempo le cose avevano preso una nuova piega: a un tratto qualcuno aveva deciso di dar loro una mano. Chi? In cambio di che cosa? Era sicuramente su questo che indagava Bertini. Doveva lasciarlo lavorare, senza interferire in alcun modo. Ma quella ricostruzione non spiegava ancora chi aveva reclutato Angela e che cosa aveva scoperto Tom, per meritare la morte. Solo se avesse scovato una risposta a quelle domande, poteva sperare di pescare Lazzeri e ottenere da lui l'unica informazione che voleva davvero: il luogo della tomba dei Levi.
Bruno trovò Romolo Bosco ad attenderlo sulla soglia del ristorante, un locale di gran lusso. L'industriale sorrideva, ma era evidentemente un po' seccato.
«Sono riuscito a tenere il tavolo perché i camerieri mi conoscono bene... Ma anche lei, perbacco! Sono quasi le tre».
«Abbia pazienza. c'è voluto più tempo di quanto pensassi».
Un cameriere in livrea li accompagnò a un tavolo defilato. Nel locale c'era ancora gente, soprattutto uomini e signore di età, molto eleganti.
«Credevo che lei si fosse ritirato dal servizio attivo. Non pensi, per carità, che voglia chiederle qualcosa riguardo la sua segretissima missione romana, ma...»
«È meglio che parliamo di jazz, Bosco».
L'industriale, che stava consultando la carta dei vini, sorrise disarmato.
«Ha ragione. Deve venire a vedere la mia collezione di 78 giri. Anzi, mi piacerebbe che fosse mio ospite un paio di settimane, per una vacanza. La casa è molto grande, e da quando non c'è più mia moglie, mi sento solo».
«È molto gentile, mi piacerebbe accettare. Nell'anteguerra lei era già un collezionista di tutto rispetto, vero?»
Bosco restituì la carta dei vini al cameriere, mormorando qualcosa sulle ordinazioni.
«Andavo spesso all'estero, potevo procurarmi un sacco di roba. Ma soprattutto aspettavo l'arrivo dei transatlantici. Scendevano i musicisti italiani, che suonavano sulla tratta Genova-New York. Andavano nella cinquantaquattresima strada, quella dei locali aperti tutta la notte, in cui si creava l'autentica improvvisazione delle jam sessions e il jazz progrediva dal vivo, molto prima che le novità apparissero sui dischi. I nostri musicisti conoscevano tutti i grandi, facevano il pieno di spartiti e di incisioni, ma soprattutto di arrangiamenti copiati a mano, al volo. E io, dopo che loro li avevano usati, ricompravo i dischi. A peso d'oro.
«Io mi accontentavo di quel che passava la Cetra e la La voce del Padrone».
Bosco ridacchiò.
«Le tristezze di San Luigi... Quelle traduzioni idiote. Però sì, qualcosa arrivava anche coi canali ufficiali».
«Avevamo anche la radio» disse Bruno, pensando alle sue antiche serate solitarie. «Fino al 1935 c'era qualche trasmissione jazzistica. Io ero un giovane carabiniere senza soldi, allora, e quando potevo mi incollavo all'apparecchio».
«Sì, trasmettevano da Radio Torino. Ma dopo il '36 il Regime diede un giro di vite. Chi non trovava i dischi originali, doveva accontentarsi di Rabagliati, del Trio Lescano, di Natalino Otto... Con la guerra, poi, amen».
«Mica male, il Trio Lescano». Bruno sognava il passato. «Avevano swing».
«Non dico di no. Ma insomma, non possiamo nemmeno paragonarle alle Boswell Sisters».
«Certo che no. Dice bene: con la guerra ci fu l'astinenza quasi totale. A parte Radio Tevere».
«Ascoltava anche lei quell'emittente, colonnello?»
«In realtà no. Però so che ci hanno suonato in tanti, fra i nostri migliori jazzisti. Anche Pippo Squà Squà, sebbene in incognito».
Bosco lo guardò con aria meravigliata.
«Ne è sicuro? Come l'ha saputo?»
«Ho fatto un paio di chiacchierate interessanti, qualche giorno fa».
«In quel periodo ero a Milano, e qualche volta sono andato dove trasmettevano. Suonavano sempre dal vivo: niente dischi, quindi ci raccattavo poco. Non ero il solo, molti altri collezionisti e appassionati facoltosi facevano il giro delle radio. Era diventata un'abitudine, anche per dimenticare la guerra». Bosco fece una smorfia. «Nonostante i gerarchetti e le loro donnine...»
«Bartalesi avrà conosciuto un sacco di gente, in via Ripamonti».
«Certo, se davvero c'era. Era un porto di mare, può aver incontrato chiunque».
«Anche gente poco raccomandabile».
Bosco rise di gusto.
«Erano tutti poco raccomandabili! Che periodo, colonnello... Non dico che lei al fronte stesse meglio, ma le assicuro che anche noi eravamo immersi nella... Be', sono stati anni difficili per tutti».
«Ha mai conosciuto qualcuno che orbitava nei Servizi di Salò?»
Bosco divenne serio.
«Colonnello, che domande mi fa... Bisognava sopravvivere. E quelli, che poi se non sbaglio erano stati i suoi colleghi... c'erano sempre».
«Ma lei aveva dei rapporti più stretti con qualcuno in particolare? Per la sua attività imprenditoriale, intendo».
Bosco smise per un momento di mangiare e puntò la forchetta verso Arcieri.
«Alla fine, colonnello, questa gente chiedeva solo denaro. Non ne ho mai conosciuto uno che ci credesse davvero, nella famosa "vittoria finale". Tutti cercavano di accumulare soldi, gioie, pellicce, per il dopo. E ovviamente noi industriali eravamo quelli da mungere di più».
«Mi dica, Bartalesi sarebbe potuto entrare in contatto con qualcuno di questi... mungitori?»
«Non lo so. Davvero».
«Non ha mai rievocato l'epoca di Radio Tevere, con Tom?»
«È un periodo che è meglio dimenticare, per il bene di tutti.
«Credo che alle serate di Tom ci sia stato qualcuno dei tempi di via Ripamonti, e che lui l'abbia riconosciuto».
Bosco sorrise.
«Tutto può essere, colonnello. A quei concerti c'era molta gente, e tanti facevano anche la fila al camerino, per il nostro povero Pippo. Li ha visti anche lei».
«Davvero Tom non le ha mai detto nulla?»
«Assolutamente no. Perché insiste così, colonnello?»
«È un pensiero che non riesco a scacciare».
«Lei crede che qualche ex di Salò volesse fargli del male?»
«Non lo so. Ma credo proprio che Tom abbia riconosciuto un personaggio molto pericoloso».
Bosco appariva decisamente preoccupato.
«Chi, colonnello?»
«Magari lo sapessi. Ma era senz'altro collegato a Ferdinando Albizi, anche lui un frequentatore di via Ripamonti. Se Tom era implicato nella trama contro di lui, o quantomeno aveva intuito il piano di Angela... allora la morte di Argenti deve avergli fatto capire qualcosa. Ha cercato di informarmi, e per questo è morto».
Bosco aveva un'aria buffa, profondamente stupita e sconfortata.
«Abbia pazienza, colonnello, ma non la seguo proprio più...»
Bruno sorrise.
«Non può. Finiamo di mangiare, poi mi riporti al mare, per favore».
Avevano convinto anche Anteo. Nel capannone lo guardavano tutti: si era ripreso bene, stava in piedi, camminava. La sua faccia rugosa, così singolare da ricordare una maschera del carnevale, era bianca e faceva ancora più impressione.
Gino aveva indossato la tuta, troppo grande per lui, e l'elmo di bronzo sembrava schiacciarlo. Arrancò per lo stanzone trascinando i tubi e il filo del microfono. Gli altri marinai Io osservavano e poi si giravano a studiare la reazione di Anteo. Il vecchio palombaro attese il più possibile, poi scosse il capo, sconsolato.
«Né lui, né Divier. Ci vuole un altro».
Italo lo guardò male.
«Un altro non c'è».
Anteo rivolse uno sguardo inquisitorio gli altri vecchi marinai, quelli che ai tempi dei tempi non avevano mai indossato uno scafandro, che duravano la fatica sui ponti di legno scivolosi e avevano mangiato il fumo delle macchine sotto coperta oppure sopportato il flagello del sole e della pioggia. Uomini di fatica, con la pelle fatta come di terra.
«Ora provate tutti, voialtri».
Si guardarono l'un l'altro, desolati: che voleva, il vecchio palombaro? Mandare a morire loro, che avevano i figlioli grandi e i nipoti già adulti? Morire dopo che ne avevano passate tante e tante, senza nemmeno un briciolo della gloria che invece i palombari, sia pur schivi e disinteressati, avevano comunque ricevuto? Morire di notte, di nascosto come ladri, ignorati da tutti? Non era giustizia. Questo pensavano il vecchio mozzo settantenne, lo sguattero quasi sordo per le antiche esplosioni, il marinaio con le mani e le braccia di carta vetrata, che proprio non potevano muovere i delicati artigli degli scafandri.
Eppure nessuno disse nulla, e uno per uno provarono, per ore, all'interno del capannone. Anteo ne selezionò due, che sembravano farcela, e questi prescelti ridevano, come fossero stati sorteggiati a una lotteria. Fecero anche un'immersione di prova, quell'ultima notte di vigilia, a pochi metri di profondità. Ne sortirono bianchi come la morte, ma respiravano e volevano continuare.
Italo non credeva ai suoi occhi, prese Anteo per un braccio e glielo strinse forte:
«Non ha senso, da soli non combinerebbero nulla, anche se riuscissero a non morire subito».
«Andrà con loro chi li saprà guidare».
«E chi? Divier non può, lo sai, sarebbe peggio».
Anteo alzò la faccia rugosa. Col passare delle ore, riprendeva il vivo.
«Andrò io, li guiderò io».
«Tu morirai di certo!»
«Mi basta durare venti minuti, il tempo di tagliare la lamiera. Lasciatemi nella tuta, coi pesi, voglio marcire laggiù in fondo».