Capitolo 17

Arcieri lasciò la Giulia dov'era e andò in centro a piedi, affrontando il bailamme delle auto imbottigliate nelle strette strade medievali. Mentre attraversava a stento le piazze trasformate in caotici parcheggi a pagamento, ripensò alle parole di Barbagli. Quand'era un giovanissimo carabiniere, era stato un paio di volte in certi locali notturni molto particolari, sia a Milano che a Firenze. Una volta avevano fatto irruzione in un'incredibile caverna a cui si accedeva da una botola, nel retrobottega di un ristorante. Doveva essere stato nel '25 o nel '26, pensò. Alle tre di notte avevano aperto la botola ed erano scesi sottoterra. Avevano l'ordine di fare una retata ma di rilasciare subito alcuni ospiti, perché fra di loro c'erano un parlamentare e un pezzo grosso del Fascio. Mentre i militi arrestavano tutti gli altri, aveva ammirato una scena affascinante e diabolica: tavole imbandite sontuosamente con servizi d'argento, e al centro solo delle zuppiere, colme di fine polvere bianca.

In piazza della Signoria e in piazza del Duomo, il fumo dei gas di scarico gli faceva venire le lacrime agli occhi: un inferno che non aveva nulla a che vedere con la sua Firenze del 1938. Anche il negozio dove prima della guerra andava a comprare i dischi di Armstrong e di Ellington, era cambiato. Le vetrine erano piene di figure di cartone a grandezza naturale che ritraevano Mina, Don Backy, Caterina Caselli. Ma anche lì si ripeteva il miracolo di tutta Firenze: c'era solo un vago odore di fango e nafta, ma ben pochi segni dell'apocalisse di novembre. Pensò che il luridume doveva essere nascosto dietro gli sporti chiusi delle botteghe artigiane, rimosso alla vista dei turisti, con un'ipocrisia tutta fiorentina: ma era anche vero che la città aveva rialzato il capo e l'aveva fatto da sola. In alto, sugli scaffali, c'era ancora qualche polveroso cimelio a 78 giri e pubblicità della Cetra e della Voce del Padrone. La cassa era al suo posto di sempre, in fondo a destra. Dietro c'era uno dei proprietari, un uomo ancora giovane, con gli occhi dolci e il sorriso aperto. Nel '38 era appena un ragazzino, ma già malato di jazz. Si riconobbero subito, malgrado Bruno fosse passato l'ultima volta da quella soglia quasi vent'anni prima. Il volto del negoziante si illuminò.

«Capitano Arcieri! Chi non muore, come si dice...» Gli strinse energicamente la mano. «Che bella collezione, che aveva. È ancora tutta in ordine?»

«Tutto distrutto, Bellacci. È andata sotto cinque metri d'acqua putrida».

Il negoziante scosse il capo.

«È successo a tanti. Ma ha provato a pulire i dischi? I 78 giri sono resistenti. Magari le buste sono da buttare via, però la lacca si salva: ho inventato una soluzione d'acqua, glicerina e alcol...».

«No, i miei dischi per il momento restano lì. Non sono nemmeno andato a vedere in che condizioni è adesso la casa in cui li avevo lasciati».

«Può sempre rimpiazzarli. Ci sono belle novità, se le interessano. Certe etichette minori che ristampano Morton, Oliver, l'Armstrong degli Hot Five... E hanno fatto miracoli, col suono».

Bruno ebbe una fitta di nostalgia per l'epoca in cui ogni disco che riusciva a procurarsi era una grande gioia. Una volta, nel '38, perfino in missione illegale, a Marsiglia, aveva trovato il modo di visitare un negozio e per un pelo non si era comprato un Coleman Hawkins. Forse ora che era libero avrebbe potuto ricominciare, e guardò con curiosità i 33 giri che il negoziante gli mostrava.

«No, grazie, Bellacci. Un'altra volta. Però ho bisogno di parlarle un istante».

Il cassiere diede il resto a una ragazzina e fece cenno ad Arcieri di seguirlo nel retrobottega. C'erano un piccolo tavolo, una sedia e montagne di dischi in attesa di essere messi nelle buche per il pubblico.

«Si sieda, capitano, e mi dica».

«Lei, Bellacci, nel '38 era poco più di un bambino...»

«Sì, avevo i pantaloni corti, ma nel '34 ero già andato a Torino a sentire Armstrong, l'unico concerto italiano prima della guerra! Eravamo due fiorentini soli: io e il marchese Ginori, che mi accompagnava».

«È vero, lei era un cat, come si diceva allora».

«Può giurarci, capitano. Si ricorda? I primi Ellington d'importazione glieli ho scovati io, nel '37. Mi ricordo che un Goodman lo feci venire da Genova, perché da noi non si trovava e lei ne aveva bisogno subito, mi pare per un regalo».

«Sì, era I can't give you anything but love. Gliene sarò sempre grato, Bellacci».

«Eh, ne è passato di tempo...»

«Però nel '24 o nel '28 lei il jazz non lo seguiva ancora». Bellacci rise in modo aperto e sincero. Gli brillavano perfino gli occhi.

«Ero appena nato, capitano! Che le serve di quel periodo? Le ho detto, gli Hot Peppers e gli Hot Seven li stanno ristampando proprio ora».

«No, vorrei incontrare dei musicisti in carne e ossa. Italiani degli anni Venti».

«Italiani? Questa è bella. Non c'era nessuno: Angelini, Kramer, Barzizza, hanno cominciato tutti dopo il '30».

«Non è vero. C'è stata una generazione precedente. Io li ho ascoltati».

La faccia di Bellacci si rabbuiò.

«Quelli sono tutti morti».

«Ma c'erano anche dei giovani...»

«Morti anche loro. Tutti. Ma se le fa piacere, uno glielo posso far conoscere».

«Al cimitero?»

«No, sono morti in un altro modo. Se vuole possiamo andarci subito, lavora qui vicino».

Bellacci lasciò delle istruzioni a un commesso e uscì in strada con Arcieri.

Il negozio di dischi era molto vicino a uno dei più antichi mercati coperti di Firenze: una costruzione in vetro e ferro della fine dell'Ottocento, piena di gente, di colori, di grida e di odori.

Dovettero farsi largo quasi a gomitate, fra la folla in coda ai banchi. Bellacci lo portò davanti al lungo tavolo di marmo dove veniva esposto il pesce fresco, appena arrivato con le cassette refrigerate. Tre uomini facevano avanti e indietro da un camion, parcheggiato subito fuori. Aprivano le cassette e ne rovesciavano i] contenuto sul marmo. Per terra, il cemento era coperto da minuti pezzetti di ghiaccio. Bellacci chiamò uno di quegli uomini:

«Vieni un momento qui, Michele, c'è un signore che ti vuol parlare!»

Era anziano, forse oltre i settanta, piccolo e tozzo, e ricordava un vecchio pugile suonato. Ma quando si girò, Bruno vide che aveva gli occhi chiari e intelligenti.

«Signor Bellacci, non posso, c'è da scaricare...»

«Parlo io al tuo padrone».

Bellacci andò a discutere con un giovanotto alto, coi capelli lunghi, che sulle prime sembrava non volerne sapere, ma poi fece un gesto con la mano al vecchio operaio: cinque dita, a significare altrettanti minuti.

Andarono al tavolo di una mescita, sulla piazza del mercato. L'uomo che Bellacci aveva chiamato Michele puzzava forte di pesce e l'oste lo guardò male. Bevve volentieri il vino che gli offrirono.

«Tu suonavi il jazz prima del '28, vero, Michele?»

Sul volto del vecchio parve splendere il sole.

«Non si chiamava così, ma One-step, Charleston... Jazz lo chiamarono dopo. Ma si suonava, eccome. Anche prima del '20, appena passata la Grande Guerra. Io ho suonato il sassofono a Torino, al Trianon, e a Roma in vari locali».

«Anche qui a Firenze».

«Certo, specie alle feste private. Mi ricordo un ricevimento del principe Corsini... Ci perquisirono all'entrata e all'uscita: prima per vedere se portavamo armi, poi per controllare che non avessimo rubato l'argenteria».

«Perché hai smesso, Michele?»

L'uomo non rispose. Fece un sospiro e guardò il magnifico e terribile padiglione del mercato, dove lo attendeva la sua fatica quotidiana, un triste lavoro al nero.

«Lei ha conosciuto Pippo Squà Squà?» chiese Arcieri, versandogli un altro po' di vino.

«Porca miseria!» ribatté Michele. «Era un diavolo con la tromba, lo chiamavano la campana d'argento».

Bruno annuì. «Ha suonato con lui? Gli era abbastanza amico da sapere cos'ha combinato negli anni seguenti?»

«È stato uno dei pochi della nostra età che ce l'ha fatta ad andare avanti, dopo il '30. Cambiò tutto, allora. Avevamo contro anche il Fascio e ci fecero tribolare... Ma era soprattutto la gente, che non ci seguiva più. Nel '25 il Jazz Band era richiestissimo ovunque, abbiamo suonato anche sette sere di seguito e per tutta la notte. Ma dieci anni dopo la gente sentiva il Trio Lescano alla radio e si accontentava. Le cose cambiano, lo vede come sono ridotto, ora?»

«Mi parli ancora di Pippo Squà Squà».

«Si chiamava Bartalesi. Era un dritto, un vero artista. Nel '37 sparì e non si vide più. Era entrato nel giro grosso, tutta gente più giovane, come Gorni Kramer. Ha visto? È sempre in TV, non suona più il jazz ma gli dispiace e si sente».

«È vero. Che fece Bartalesi, dopo il '37?»

«Sparì, gliel'ho detto. Mi dispiace, non so altro di lui. Dopo l'ultima guerra ho dovuto lavorare duro, per campare. Nel '25 mi chiamavano il Golden Boy, lo sa? Il Golden Boy del sassofono tenore...»

Il vecchio Michele non riuscì a trattenersi e gli colarono due lunghe lacrime per il viso mal rasato. Arcieri avrebbe voluto dargli tutti i soldi che aveva in tasca, ma si sentì un verme solo al pensiero.

«C'è qualcun altro che potrebbe raccontarmi di Bartalesi?»

«Non quelli della nostra generazione: sono tutti morti, peggio di me, e non saprebbero dirle nulla di Pippo Squà Squà. Qui a Firenze potrebbe sentire invece Lama, un chitarrista eccezionale. Abita in Santa Croce, lui lo conosceva bene».

 

Nel quartiere di Santa Croce, Arcieri fu colpito dall'evidenza che le ferite dell'Alluvione, nonostante le apparenze del salotto buono, erano ancora vive: fango secco, fondi e cantine maleodoranti, i terribili segni orizzontali lasciati sui muri dalla nafta. Lama abitava in una casa-torre medievale di via dell'Anguillara e dalle sue finestre si ammirava uno dei più bei panorami di Firenze, con il mare rosso dei tetti dal quale spuntavano i monumenti come grandi scogli: il Duomo, Palazzo Vecchio, Palazzo Pitti. Bruno guardava fuori dalle finestre e con gli occhi del ricordo vedeva un quarantenne atletico, lucido di sudore e completamente pazzo che saltava su quelle tegole, più agile di un gatto, armato di un fucile dell'ultima guerra e di una Luger. Aveva ancora nelle orecchie il rumore delle pale dell'elicottero che lo aveva preso di mira e i colpi secchi degli spari: sembravano passati anni, ed erano solo pochi mesi.

Aveva fatto telefonare a Lama da Bellacci, chiedendo un incontro urgente, e il chitarrista aveva accettato subito. Era un signore alto, magro, molto distinto e gentilissimo. Sedeva davanti a lui, le gambe accavallate e una sigaretta tra le dita. Gli parlava con una voce quasi flautata:

«Ho saputo da alcuni amici che Bartalesi era riapparso nei dintorni e teneva addirittura dei concerti. Ora lei mi dice che è mancato e questo mi rattrista moltissimo...»

«Quando l'ha conosciuto?»

«Nel '34 o nel '35, non ricordo esattamente. Era più vecchio di me, lo ammiravo molto. Dopo il '37 sparì dalla circolazione».

«È possibile che abbia lavorato a Radio Tevere, nel '44 e nel '45?»

Arcieri aveva gettato la domanda come un'esca. Lama non rispose subito. Finì di fumare la sua sigaretta e poi servì da bere a Bruno e a se stesso da una bottiglia di vetro elaborata e all'apparenza antica.

«Abbiamo suonato insieme, per pochi anni ma con grande frequenza, ed eravamo molto amici. Nel '37, mi pare proprio che fosse in primavera, mi disse che se ne andava, doveva fare una cosa urgente. Però non mi spiegò quale».

«Non le disse che era stato costretto ad arruolarsi volontario in Spagna? Aveva fatto un torto a un fascista di spicco, per una scrittura poco chiara».

«Ah, forse capisco a cosa allude. No, non lo sapevo e non ho mai collegato quella storia alla scomparsa di Bartalesi. Quindi lei ne sa più di me, colonnello».

«Forse, ma solo per certi snodi temporali. Lei invece lo ha conosciuto intimamente».

«È una parola grossa. Le ho detto che eravamo amici, questo sì».

«Faceva uso di droghe?»

Lama alzò le sopracciglia e guardò Bruno con sorpresa e un po' di ostilità.

«Mai, che abbia saputo».

«Nessun sospetto?»

«Se si drogava, ha iniziato dopo essere sparito dal giro».

«A Radio Tevere?»

«Non posso saperlo. Ma sì, è possibile. A Milano circolava brutta gente, in quei giorni».

«Lei non ha lavorato a Radio Tevere

Lama perse il sorriso e divenne un po' rigido.

«No».

«Eppure era quasi un porto di mare, per i musicisti jazz...»

«Un'ancora di salvezza in giorni di fame. C'erano musicisti in gambissima come Franco Cerri, Giampiero Boneschi, Tullio Mobiglia e molti altri. Penso che lei si sia fatto delle idee sbagliate: erano tutt'altro che criminali nazifascisti».

«Su questo non ho dubbi. Però lei non era con loro».

«Ero qui a Firenze». Lama si era messo sulla difensiva, sembrava aver paura. «La prego di non incalzarmi in questo modo, colonnello».

«Ha ragione, mi scusi. Ma ho bisogno di fare dei collegamenti e non riesco a raccogliere informazioni importanti. C'è troppo riserbo».

«Non capisco».

«Sarebbe difficile spiegarle, di molte cose non posso nemmeno parlare. Ma voi musicisti avete avuto contatti con persone di dubbia reputazione, nel corso degli anni...»

Lama rise.

«Certo, caro colonnello. Tanta gente, e dei tipi peggiori. Chi le ha parlato di Radio Tevere

«Persone informate dei fatti, sia musicisti che non».

«Se le hanno detto anche solo una piccola parte della verità, ne sa già abbastanza. Cosa vorrebbe sapere, di Bartalesi e di Radio Tevere? Che tipo di... collegamenti le servono? Io non sono un poliziotto, non ho familiarità col vostro gergo».

«C'era un certo Ferdinando Albizi, fiorentino, che lavorava come informatore per i tedeschi. Ha mai avuto a che fare con Radio Tevere? L'ha mai visto insieme a Bartalesi?»

«Che Albizi fosse una spia, e anche peggio, l'abbiamo saputo subito dopo la guerra». Lama fece una smorfia di disgusto. «Ma poi, per fortuna, è morto».

«Non ha risposto alla mia domanda».

Lama si alzò in piedi di scatto. Arcieri notò che era davvero molto alto e magro, elegante come un indossatore. Gli ricordò un po' Fred Astaire. Si alzò anche lui dalla poltrona, pensando che volesse fargli capire che la visita era terminata.

«Lei era amico di Albizi, colonnello?»

«Esattamente l'opposto».

«Fui contento quando morì, vent'anni fa; era un delinquente e un traditore. Non so perché le interessa e non ho piacere di saperlo».

«Albizi bazzicava Radio Tevere». Lama fece un lungo sospiro, poi guardò Bruno con gli occhi un po' lucidi. «E sì, perbacco, anch'io sono stato in via Ripamonti e l'ho visto, in quegli studi. Ero andato a Milano in cerca disperata di una scrittura, ma non mi hanno preso: li ho quasi implorati, avevo bisogno di lavorare, con una moglie e un figlio di otto anni, ma non mi hanno voluto, dicevano di essere al completo. Non mi aiutarono nemmeno gli amici del jazz, i bei tipi dei giornalisti e degli appassionati ricchi, spesso spie dei fascisti e dei tedeschi, veri e propri agenti provocatori. C'erano anche loro, in via Ripamonti. E infine, sì, c'era pure Bartalesi. Si faceva chiamare in un altro modo. non ricordo più come, e quella fu l'ultima volta che lo vidi, dopo tanti anni, anche se lui fece finta di non riconoscermi e non scambiammo nemmeno una parola. Ritornai a Firenze senza un soldo, il treno fu fermato più volte per gli allarmi, eravamo nel marzo del '44, mi pare. Ci mitragliarono, perfino, ed ebbi paura di non rivedere più mia moglie e mio figlio».

Lama, alto e dinoccolato, sembrava un principe ferito. Arcieri prese il cappello. Aveva ottenuto quel che cercava.

«È meglio che vada».

«Non volevo mandarla via, colonnello. Mi sono alzato perché odio stare seduto. Troppa chitarra...»

«Che cos'altro sa dei rapporti di Albizi con Bartalesi?»

«Niente. Forse ricattava anche lui».

«Ricatti? Faceva pure questo?»

«Anche molte altre cose. Si diceva che riuscisse a intercettare l'oro degli ebrei deportati... Secondo qualcun altro conosceva segreti importanti e ricattava perfino le SS. Ma giravano così tante voci, a quel tempo...»

«Segreti che Albizi avrebbe potuto vendere a caro prezzo, anche dopo la guerra?»

«Se in quelle lugubri leggende c'era qualcosa di vero, poteva assicurarsi un avvenire d'oro, usando le sue informazioni. Ma il destino lo ha punito ed è morto prima».

«Poteva anche comprarsi una nuova identità».

Lama sembrò colpito da quell'affermazione.

«Davvero avrebbe potuto? Vuole forse dirmi che è ancora in circolazione?»

«No, stia tranquillo. Posso assicurarle che è morto».