Capitolo 33

Mentre entrava esausto in albergo, Arcieri sapeva che qualcun altro stava aspettando il suo ritorno dal mare. Aveva una gran voglia di affrettare quell'incontro, ma prima aveva bisogno di una conferma alla sua intuizione. E stavolta Bertini non avrebbe potuto aiutarlo, nemmeno se avesse voluto. Dovette telefonare ancora a Firenze, più volte, e anche a Roma, a persone di cui si fidava e che gli dovevano così tanti favori da non poter mai pareggiare il conto. Alle nove del mattino aveva finito e collezionato molte informazioni e qualche promessa, oltre a un ultimo e cruciale appuntamento telefonico per mezzogiorno. Guardò il suo Tavannes da polso, l'orologio che era con lui dal 1935, e giudicò che avrebbe potuto farcela.

Si concesse un lungo bagno caldo e un'abbondante colazione. Preparò i bagagli, pagò la camera e chiese a un fattorino dell'albergo di portarglieli al deposito della stazione. La Giulia gli sarebbe servita ancora per almeno altre dodici ore: avrebbe telefonato al noleggiatore per mettersi d'accordo sulla restituzione, ma non subito.

Lasciò l'albergo e andò alla casa di Lattes. Stavolta sapeva di non aver bisogno di arrampicarsi fino alla finestra rotta, sul retro. Andò alla porta principale e bussò con forza. La gente che passava lo guardava con sospetto. Come si aspettava, nessuno venne ad aprire. Allora attraversò la strada e si mise a braccia conserte, davanti alla casa. Lo potevano vedere benissimo da tutte le finestre e anche dalla terrazza. Chi lo avesse guardato in quella posa, conoscendo le sue antiche abitudini e i giochi giovanili d'anteguerra, avrebbe capito.

Attese ancora, poi tornò alla porta. Stavolta la trovò socchiusa, come sperava.

Entrò e sentì ancora quel profumo. Sorrise tra sé, perché il cuore gli batteva all'impazzata. Sapeva dove andare. Salì al piano superiore e fece di corsa gli ultimi scalini che portavano sul tetto. La luce del sole lo abbagliò, come la prima volta che aveva varcato quella soglia. Fino al 1940 le feste si spegnevano poco prima dell'alba, e lui si sedeva su una grande sdraio di vimini a contemplare l'aurora. Ma adesso sul pavimento polveroso non c'era più nulla, non i carrelli coi liquori, non le donne bellissime, né le lunghe catene di lampadine elettriche accese, come festoni. C'era un sole disperato.

Ma c'erano anche due antiche sdraio di vimini, e su di una era seduta Elena, con le gambe accavallate, davanti al mare. Per terra, accanto a lei, un bicchiere e una cartellina azzurra. Dove aveva nascosto fino ad allora le sedie? Quella domanda così stupida fu l'unica cosa che gli venne in mente. Si avvicinò e le si sedette accanto. Il mare si vedeva appena ed era solo una striscia bianca di luce.

«Come stai?»

«Non mi hai nemmeno guardata in viso».

Era vero: non ne aveva avuto il coraggio. Sarebbe stato come con Cecilia? Finalmente si girò verso di lei e vide i suoi capelli biondi, morbidi e lunghi, come allora. Il volto non era come trent'anni prima, non poteva esserlo. Ma la bellezza era rimasta intatta. Gli occhi azzurri, il sorriso, la sua pelle chiara. Un elegante abito bianco la copriva dal collo ai piedi. Aveva un braccialetto d'oro al polso destro, nessun altro gioiello. Era Elena Contini, di nuovo accanto a lui. Dopo quanti anni? Dieci. Ma da quanto tempo non erano più davvero uno dell'altra? Più di venti.

«Quando hai capito che ero in questa casa?»

«Forse fin dal primo giorno: ho sentito il tuo profumo».

Elena sorrise. «Sei sempre lo stesso ingenuo sentimentale. E forse sei più bello di allora, lo sai?»

Bruno non ricambiò il complimento. Non avrebbe potuto, ed Elena lo sapeva.

«Hai visto le lettere?»

«Sì»

«Perdonami, Bruno, non c'era altro modo».

«Me l'avevi anche scritto: ci incontreremo di nuovo. Eccomi qui, eccoti qui. Sei sposata a un israeliano?»

«lo sono un'israeliana, Bruno. Ma non sono sposata nel senso che intendi tu».

Quella risposta sciolse la sua ansia. Era un sollievo senza senso, riconobbe, ma lo provò, e ne fu silenziosamente grato a Elena.

«Che cosa... che cosa è stato della tua vita, in tutti questi anni?»

«Rimandiamo a dopo le confidenze, Bruno. Adesso ti devo una spiegazione».

«Non mi importa, molte cose le conosco già. Lo sai perché sono rimasto qui, perché ho fatto quel che ho fatto? Aspettavo solo di vederti».

«Allora non vuoi che ti racconti?»

Bruno annuì. Certo che voleva. Provò a sfiorarle la mano. Elena intrecciò subito le sue dita con le proprie.

«Io vivo con un alto funzionario del Mossad. Un giorno è arrivata una proposta di collaborazione».

«Questo significa che anche tu lavori per loro. L'uomo che vive con te non può averti parlato di cose tanto riservate». Elena non rispose e continuò il suo racconto.

«I nostri Servizi mantengono contatti un po' con tutti: di qua e di là della cortina di ferro, ma non solo. Anche in ambienti decisamente ostili a Israele. Una persona, che tu non conosci, ha fatto un'offerta interessante: ci avrebbe consegnato i documenti di un criminale di guerra ufficialmente morto nel 1945, Ferdinando Albizi».

«Una dannata carogna. Una spia che vendeva ai nazisti gli ebrei facoltosi».

«Una specializzazione molto redditizia» disse Elena. «L'uomo che ci ha interpellato appartiene a un gruppo politico italiano. Avevano bisogno di finanziamenti e pensavano di recuperare dell'oro, affondato nel '43 con un piccolo sommergibile. Ma non riuscivano a trovarlo, nonostante il loro amico Albizi avesse indicato con precisione il punto del naufragio. Non potevano rivolgersi ad altri e così hanno chiesto aiuto a noi».

Bruno non abbandonava l'intima stretta di mano.

«E avete accettato di trattare coi fascisti?»

«I documenti di Albizi ci avrebbero dato la possibilità di rintracciare molto denaro rubato agli ebrei durante la guerra. Ma avremmo ottenuto anche informazioni su vecchi nazisti sfuggiti alla giustizia. Lo sai che in Sud America non si era rifugiato solo Eichmann...»

«Ma tu volevi anche lo stesso Albizi, perché hai scoperto quel che aveva fatto, esaminando il suo dossier».

Elena sospirò.

«I nostri capi decisero di accettare la transazione e di lasciarlo vivere: dicevano che sarebbe stato tutto più semplice. Oltretutto, un'azione diretta dei nostri operativi avrebbe potuto causare problemi con il Governo italiano, che è l'ultima cosa di cui abbiamo bisogno, in questo periodo. Decisero perciò di recuperare l’oro, una volta localizzato il relitto, e di consegnarlo agli italiani. Ma nel frattempo, io avevo fatto un'altra scoperta».

Elena si girò verso Bruno. Gli prese anche l'altra mano e lo guardò negli occhi.

«Quello che sto per dirti potrebbe costarmi la vita, anche se i miei hanno ottenuto quel che volevano. Ciò che ho fatto equivale a un tradimento nei confronti di Israele».

«Che cosa hai scoperto?»

«Ho capito chi era il gruppo di italiani che si era messo in contatto con noi».

«Chi erano?»

«I tuoi amici, Bruno».