Stivali d’ordinanza

La mattina del 10 maggio 1870 quattro squadroni di cavalleria, usciti da Fort Bowie in assetto di guerra, si scontrarono con un centinaio di Apache Mimbreño, guidati da Chee, a circa un miglio da quella che un tempo era stata Helena. Lo scontro ebbe luogo in campo aperto, su un terreno completamente piatto – una rarità, da quelle parti – e la cavalleria ridusse gli indiani a brandelli. Solo Chee e una manciata di guerrieri riuscirono a scappare.

Sui documenti ufficiali, questo combattimento è chiamato Battaglia di Dos Cabezas. A rigor di termini, però, la definizione è fuorviante, perché le vette gemelle di Dos Cabezas non erano altro che un riferimento geografico, utile a indicare il sud. La battaglia serví a stroncare un’insurrezione apache, ma non è questo il punto. La riserva di San Carlos è una silenziosa testimonianza del fatto che tutte quante le insurrezioni fallirono.

No, l’importanza di Dos Cabezas risiede nelle sue cause; e i documenti ufficiali, da questo punto di vista, sono incompleti, sebbene contengano una dichiarazione che tenta di spiegare come la cavalleria fu in grado di scontrarsi con gli Apache lontano dalla loro cittadella di montagna. E si fa anche cenno all’innaturale chiarore del cielo notturno, la ragione che attirò nel medesimo posto la cavalleria e gli Apache. Ma i documenti ufficiali restano pur sempre incompleti.

In quel periodo a Fort Bowie era presente Stoneman in persona, ovvero il generale di brigata del Dipartimento dell’Arizona. Per questa ragione, gran parte del merito della vittoria è stata attribuita a lui. Comunque, a Camp Grant, una settimana dopo la battaglia, Stoneman concesse una serie di onorificenze relative a quell’azione militare. Il Terzo Dragoni ricevette una menzione speciale. A un certo tenente R. A. Gander toccò un encomio per il coraggio mostrato in battaglia: un premio di consolazione, a fronte di una gamba maciullata. Ed è qui che si nasconde la strana storia di Dos Cabezas.

Ecco come andò.

Come sempre, dapprima c’è silenzio.

Silenzio che striscia sull’oscurità grigiastra del deserto; anche i consueti rumori notturni della natura sono assenti. Lontano, molto lontano, contro il nero totale di una montagna fa la sua comparsa la chiazza rossa e arancione di un falò. Dalla distanza non è che un puntino, luminoso e tremolante, freddo e solitario. E poi...

APACHE IN RIVOLTA!

È un urlo che corre per tutte le baracche di adobe.

Dalla finestra, Kujava scorge la sottile linea rossa che rompe il buio, a est, e si infila meccanicamente, con decisione, gli stivali.

Poi diventa il sergente maggiore Kujava, che passa nelle baracche con voce tonante e un guanto di pelle, alla moschettiera, da sbattere su piedi immersi nel sonno. Kujava conosce gli uomini. Chiede loro se vogliono presentarsi in ritardo davanti alla morte, e lo chiede con una risata fragorosa, cosí che non si possano rifiutare. Con le reclute funziona. Saltano su e urlano e sghignazzano con una frenesia che li indica subito come novellini della frontiera.

E indica anche che non conoscono gli Apache.

Altri rimangono immobili ma con gli occhi aperti: vedono il deserto e i mesquite coperti di sabbia e la polvere e l’abbacinante biancore del sole, tutto combinato a formare una tremula, opprimente foschia che arroventa gli occhi dell’uomo bianco fino a stringergli la fronte in una morsa. E poi la crosta di sale lasciata dal sudore, e l’asfissiante odore di azoto degli animali su cui viaggiano. Silenzio assoluto, e neanche un Apache in vista. Questi sono gli uomini rimasti più a lungo con Kujava.

Su Bud Nagle, svegliarsi all’alba aveva un effetto sconcertante. Schizzò a sedere sulla branda e vide il sergente maggiore correre giù per lo stretto corridoio, ma alle sue orecchie quelle grida non avevano alcun senso. Aggrottò la fronte e si sfregò gli occhi, in tutto quel casino, poi ricadde pian piano sulla branda e rimase immobile. Ma non vedeva il deserto. Vedeva una strada lastricata, con negozi e ristoranti, ed era a est del Mississippi.

Alla fine del primo mese Bud Nagle si era reso conto di non avere la stoffa del cavalleggero. Già sapeva di non essere neppure un soldato, ma dopo sette mesi era troppo tardi per farci qualcosa, e neanche la porta dell’ufficio di Milwaukee con la scritta L. V. NAGLE, AVVOCATO era in grado di cambiare le cose. Una volta che ti sei arruolato non puoi mica tornare indietro, anche se da recluta ti rendi conto di essere fuori posto; e di sicuro non potevi farlo in quella primavera del 1870 quando l’intera Apacheria, dai Dragoon ai San Andres, vibrava al battito di centinaia di tamburi di guerra. Gli Apache erano in rivolta, e Cochise sembrava inarrestabile.

Ora, davanti agli occhi riaveva la strada. La gente che gridava e rideva, le ragazze di solito timide che ridacchiavano e gettavano le braccia al collo dei reduci e li baciavano davanti a tutti. Proprio su Wisconsin Avenue. Gli tornarono in mente le divise blu scuro e gli stivali lustri e i berretti inclinati su un occhio, e lui che non vedeva l’ora.

Le divise scomparvero dalla strada lastricata. Erano sparite da cinque anni, ma mai dalla mente di Bud Nagle. Ragazze sorridenti e stivali lustri.

Quando scoprí quanto durasse il lucido da scarpe su un paio di stivali dell’esercito, era troppo tardi. Era finito in territorio apache.

Aprí gli occhi e si ritrovò a guardare il volto terrorizzante del sergente maggiore. Guance scavate color marrone scuro, e giganteschi baffoni da cavalleggero.

– Alzati da ’sta branda, prima che ti faccia arrivare all’adunata a calci in culo! – E ripartí lungo il corridoio.

Sempre la stessa storia. Kujava lo tirava giù dalla branda e lo strapazzava fino a fargli tremare le gambe. Il caporale bestemmiava e gli rifilava ore supplementari d’addestramento, attrezzatura completa, quattro ore di marcia. Nagle era sempre il primo a far da bersaglio alle loro incazzature, e non imparava mai a tenere la bocca chiusa. Il fatto che nessuna delle sue azioni avesse la minima parvenza militaresca lo rendeva doppiamente inviso ai sottufficiali, e il contagio delle loro prepotenze si era diffuso persino fra la truppa.

Era un tipo facile da insultare, e sembrava addirittura che se le andasse a cercare, le rogne. Non era un soldato fra altri soldati. Cercava di comportarsi come un uomo senza sembrare tale. E si lamentava. Certo, questa è una parte della vita militare. E neanche tanto piccola. Ma lui si lagnava quando avrebbe invece dovuto rompere i coglioni come un vero uomo. I soldati conoscono i propri simili. Ma non conoscevano Bud Nagle.

Dopo solo tre settimane a Camp Grant si ritrovò da solo. Con la forza dell’abitudine, proseguí una patetica campagna per inserirsi nella truppa, ma di notte – nell’oscurità delle baracche, quando il silenzio gli consentiva di pensare – Bud Nagle si rendeva conto di odiare l’esercito e chi ne faceva parte. Li odiava tutti, dal più profondo dell’anima.

A metà pomeriggio lo squadrone B era quasi trenta miglia a sud di Camp Grant. A sud-ovest c’erano i monti Dragoon e a est i Chiricahua, che incombevano in lontananza, immersi nella foschia ma ugualmente minacciosi. Da qualche parte, su quelle vette torreggianti, c’era la cittadella di Cochise. Quel corridoio ampio e semideserto era il passaggio per la Sonora, e gli Apache se ne servivano per spingere le loro scorribande fino in Messico. Il Dipartimento dell’Arizona, comandato da Stoneman, si stava scuotendo di dosso il letargo invernale spedendo pattuglie in ogni angolo della frontiera.

Il tenente R. A. Gander, alla testa dello squadrone B, aspettò di trovarsi davanti alle vette gemelle dei Dos Cabezas, a un’angolazione di circa trenta gradi e a meno di un miglio in direzione sud, poi concesse alla pattuglia un’ora di riposo prima di riprendere la marcia verso est. Lo squadrone B era all’estremità meridionale del suo giro di pattuglia. Da lí si sarebbe diretto a est per una trentina di miglia, piegando poi leggermente a nord per bivaccare nei pressi di Fort Bowie, all’imboccatura dell’Apache Pass. L’ultimo tratto, infine, erano le trenta miglia del tragitto di ritorno a Camp Grant.

Ben presto giunsero ai piedi dei Chiricahua. Le montagne si levavano alte a sud, e tutt’intorno c’erano colline fittamente alberate ed enormi formazioni rocciose su cui s’inerpicava la pista, cosí contorta che la visuale non era mai superiore a un centinaio di metri.

Pericoloso, portare una pattuglia da quelle parti. Gander lo sapeva, ma certe volte per combattere gli indiani era necessario offrir loro una piccola esca. Inoltre, è cosa nota che un giovane ufficiale tende, dopo troppi mesi di vita di guarnigione, a gettare la prudenza alle ortiche e mostrarsi impaziente. E Gander non vedeva un Apache da sei mesi.

Cavalcava convinto di essere un comandante nato. Di quelli che non delegano a nessuno. Seguiva alla lettera le istruzioni del servizio di pattuglia, una routine codificata da autorità ben più elevate della sua, e il tenente Gander aveva una fede assoluta nei suoi superiori. A West Point era diventata, per lui, un qualcosa di naturale: come camminare.

Aveva spedito alcuni uomini in avanscoperta, per evitare le imboscate, e con l’ordine esplicito di tenersi in ripetuto contatto.

Nessun pericolo di essere tagliati fuori. Era una rigida procedura militare, stare sempre all’erta. Una precauzione necessaria per il servizio di pattuglia, descritta e spiegata in dettaglio nel Manuale. Di conseguenza, Gander si sentiva al sicuro.

Purtroppo per lui, Chee non aveva letto il Manuale. E neanche i suoi Apache Mimbreño.

Sul tenente Gander e i suoi quaranta uomini di pattuglia, Chee sapeva tutto quel che gli serviva sapere. E lo sapeva già da prima che lo squadrone fosse cinque miglia a sud di Camp Grant. Le dimensioni della pattuglia, il suo equipaggiamento e la sua esperienza. Nell’infinita distesa del cielo dell’Arizona si levavano sottili volute di fumo e improvvisi bagliori dovuti al sole che si rifletteva sul metallo lucido. Quella mattina i segnali erano stati parecchi, e Chee decise di far scendere ai piedi delle colline un centinaio di guerrieri di stanza nella rancheria sugli alti contrafforti dei Chiricahua.

Poi li dispose ai lati della pista, là dove il tracciato irregolare si apriva per digradare in un’area piatta e larga, lunga quasi un miglio e larga trecento metri. Li fece nascondere dietro le rocce e i cespugli, qualche ora prima che la pattuglia raggiungesse i Dos Cabezas e piegasse a est ai piedi delle colline. E organizzò l’imboscata in totale disprezzo per quel soldato che era cosí stupido da continuare a muovere delle truppe in territorio nemico.

Quando l’avanscoperta di Gander apparve sulla pista, stretta e in discesa, Chee non dette alcun segnale. Il suo volto scuro era impassibile, privo d’espressione, ma in quell’apparente tranquillità, in quegli occhi socchiusi, si leggeva una determinazione che raccontava ben altro. Vale a dire di quando a suo padre, Mangas Coloradas, avevano sparato alle spalle mentre giaceva al suolo, legato mani e piedi. Incaprettato e colpito alla schiena, dopo aver accettato un colloquio di pace che nascondeva una trappola.

Il sergente maggiore Kujava, che cavalcava in testa, mandò due uomini – uno per parte – a ispezionare i punti più lontani della spianata. Cavalcava in silenzio, la testa che si girava a destra e a sinistra, scrutando ogni pietra e cespuglio, lo sguardo che risaliva le pareti impenetrabili di sterpaglie e roccia che si ribellavano alla distesa di sabbia per elevarsi ripide su entrambi i lati e trasformarsi poi in colline ondulate. Non prestava la minima attenzione a Bud Nagle, che gli cavalcava a fianco. Aveva smesso di indottrinarlo a Dos Cabezas.

Avanzava lentamente, e ogni tanto si alzava sulle staffe per guardare avanti a sé. Nella mente sveglia del sergente maggiore Kujava si era insinuato un certo disagio. Quel silenzio non gli piaceva.

Bud Nagle si passò il dorso della mano sulla bocca e abbassò sugli occhi la tesa del cappello, mentre con la lingua si toccava le labbra incrostate dall’arsura. Lo maledisse sottovoce, quel posto, e si costrinse a pensare a luoghi lontani, pieni di verde e brezza e binari di tram.

Lasciò cadere lo sguardo spento sulla camicia della divisa, che si stava scolorendo per via del sudore. Girò la testa di lato e si guardò gli stivali, che sotto la crosta di polvere bianca potevano essere di qualunque colore.

All’estremità nord della spianata, dove roccia e sterpaglie tornavano a saldarsi, rade e irregolari, la scarsa ampiezza della pista costrinse i due uomini in avanscoperta a unirsi al sergente e a Nagle. Più avanti iniziava la discesa, non ripida, che superava un valico roccioso per poi allargarsi in un lungo passaggio fiancheggiato da alberi. La marea gialla che si scorgeva in fondo indicava la pianura.

Kujava fece fermare i suoi uomini e si voltò sulla sella per vedere la pattuglia che stava entrando in campo aperto.

– Sgranchitevi le gambe, – disse. – Sono troppo indietro, quelli. È cosí che si resta tagliati fuori.

I due della staffetta scesero da cavallo e condussero le loro bestie su un lato della pista, dove un grappolo di pini gettava un’ombra triangolare. Sedettero sul terreno e allungarono le gambe rigide.

Kujava voltò il cavallo. Un po’ scomposto, si sistemò in sella in modo da agganciare una gamba al pomolo e osservò la vaga e distante linea azzurra che si stava avvicinando. Vide la pattuglia raggiungere il centro della spianata, mentre quel silenzio cosí innaturale continuava a trapanargli il cervello e a sfondargli le orecchie. Riportò lo stivale nella staffa, a disagio: voleva essere pronto, e proprio in quell’istante udí lo scatto.

Non era rumore di legno, come un ramoscello che si spezza. Era metallo su metallo, nitido e penetrante quanto bastava per mettergli in corpo una fiammata di genuina paura, per spronarlo alla tipica reazione di chi è abituato a combattere. Dette un brusco colpo di redini per richiamare all’ordine il cavallo e, contemporaneamente, tirò fuori la carabina dal fodero, perché l’apertura dell’otturatore di uno Spencer produce quell’identico suono, e lo scatto è forte se il fucile è arrugginito, oltre che mal tenuto. Come la carabina di un Apache!

Lanciò un urlo e sollevò la sua carabina, ma il grido fu sommerso da una scarica di fucilate e il gesto andò perduto nell’illusione di cento sensazioni diverse: l’imboscata esplose nella valle, afferrando lo squadrone B alla gola.

Kujava attaccò a gridare, sparare e gridare, e vide i due uomini della staffetta distesi in una posa scomposta nel loro triangolo d’ombra. Poi vide Bud Nagle ancora a cavallo, le mani paralizzate sul pomo della sella, la schiena dritta come un fuso e gli occhi sbarrati in due bianchi cerchi di paura e incredulità.

– Scappa, Nagle! Scappa! – Kujava mulinò il braccio per colpire alla spalla l’impalato Nagle, e continuò a gridargli in pieno viso.

– Togliti di qui, torna a Bowie più in fretta che puoi, prima che ci saltino addosso!

Nagle si mosse, e di colpo parve sommerso dall’eccitazione, che gli passò sopra come un’ondata portandosi via tutto il suo coraggio e la sua razionalità.

E il candore di Bud Nagle disse: – Mica lo so, dov’è.

Succedono strane cose, in battaglia. Kujava rimase a bocca aperta. Gli scappava da ridere, anche in mezzo alle pallottole… anzi, proprio per le pallottole, ma fu solo un istante.

Sbatté la carabina sul posteriore del cavallo di Nagle, facendolo schizzare via come un fulmine giù per la stretta discesa.

– Forza, cazzo! Forza!

Le mani di Nagle erano bloccate sul pomo della sella, gli occhi ancora sbarrati e incapaci di vedere alcunché. Il cavallo s’infilò al galoppo nella strettoia sassosa, quasi scivolando sulla ghiaia, sbandando da una parete all’altra, fino a che gli zoccoli non riuscirono a trovare un saldo appiglio sul terreno e sfrecciarono, sempre più veloci, lungo il passaggio alberato.

Nagle si sforzò di scrutare in lontananza, come se questo potesse servire a rendergli più vicina la salvezza; come se tenere il collo rigido e cercare di guardare solo in avanti gli fornisse uno scudo all’opprimente oscurità di quei grossi alberi. Da un certo punto di vista era un aiuto, ma fu proprio questo a impedirgli di vedere i quattro pony che sbucavano dagli alberi dietro di lui. Quattro pony dipinti coi colori di guerra, cavalcati da Apache Mimbreño.

Raggiunse il fondo del passaggio e sterzò sulla pianura, in campo aperto, galoppando nell’immensità e incerto su dove andare, pungolando frenetico la sua cavalcatura verso l’orizzonte lontano. Gli zoccoli sbattevano sulla sabbia compatta, e il loro suono gli vibrava nel cervello, glielo comprimeva, prendendo il posto dell’eccitazione di quella battaglia che, ormai, era solo un lieve, lontano tintinnio alle sue spalle.

Tale era la sua paura, che aveva perso ogni cognizione del tempo, gli occhi sempre protesi a guardare lontano. Poi, nella foschia, l’orizzonte mutò. Una linea scura interruppe la monotonia della pianura, dilatandosi e prendendo forma. Metro dopo metro fu più vicina, e alla fine si rivelò una città. Una vera città!

Era a un miglio di distanza o poco più, quando alle sue spalle esplose uno sparo. Si voltò e vide gli Apache a meno di duecento metri; pungolò con forza il cavallo e piegò verso le case che si scorgevano in lontananza.

I Mimbreño ridussero le distanze di un’altra ventina di metri prima ancora che Bud Nagle fosse arrivato ai confini della città e, mentre il soldato sterzava per imboccare la strada, un secondo sparo sferzò l’enorme distesa al pari di una botte che cade sul cemento: cavallo e cavaliere andarono giù.

Bud Nagle rimase tramortito. Seduto nella polvere che a poco a poco si diradava, continuò a scuotere il capo, via via che gli si schiarivano le idee. Era spossato, ma il rimbombo dei pony alle sue spalle lo fece schizzare in piedi, barcollante. Tentò di mettersi a correre ancor prima di essere in posizione eretta, cadde a quattro zampe, strisciò, si rialzò di nuovo e corse per qualche metro strillando come un’aquila. Poi inciampò ancora una volta e cadde lungo disteso nella densa polvere della strada.

Polvere che gli riempí la bocca aperta e soffocò le sue grida d’aiuto, rendendo incoerenti e soprattutto penose le sue parole. Urlò, tossí, mulinò le gambe con tanta ferocia da cadere per l’ennesima volta davanti ai tre gradini di una veranda, battendo le ginocchia più e più volte su quegli stessi gradini finché non riuscí ad arrivare in cima e fiondarsi attraverso le porte a battenti dell’edificio.

All’interno era buio. Nagle si fermò, allungando le braccia per riposarsi a un palo di sostegno al centro della stanza. Sollevato, appoggiò la testa al palo, tentando di riprendere fiato.

Era roca, la voce che gli uscí dalla gola a formare le parole: – Apache… Apache! Appena fuori città!

Gli rispose il silenzio. Cosí forte e beffardo da bloccargli il respiro in gola.

Alzò lentamente la testa, perché già sapeva cosa avrebbe visto e non lo voleva vedere. Infine la tirò su del tutto e guardò la polvere: non poteva risalire a meno di una dozzina d’anni prima e copriva ogni possibile superficie della stanza nuda.

Si costrinse a ruotare il capo, cogliendo con gli occhi la striscia rettangolare di pavimento più chiaro, là dove un tempo stava il bancone di un bar, e proseguí con lo sguardo fino alla parte anteriore della stanza. Il suo corpo si mosse, e uno stivale raschiò sul pavimento incrostato.

Le spalle gli scattarono verso l’alto e la sua intera persona si tese in una posizione rigida, innaturale. Lo sguardo gli affondò in un angolo sudicio, e Nagle si impose di fissare il punto d’incontro tra le due pareti come se, rifiutandosi di vedere alcunché, nessuno potesse vedere lui. A poco a poco i muscoli del collo gli si rilassarono, e la linea della mascella si allentò. I suoi occhi si mossero verso la soglia.

Sopra le porte a persiana si scorgeva una chiazza di luce color grigio sporco. In basso spiccava un riquadro della veranda anteriore, racchiuso tra il nero delle porte e la deprimente oscurità della stanza. Le porte se ne stavano silenziose nella luce della sera, cosí sgangherate da poter crollare da un momento all’altro: poco più di una sottile, misera barriera contro l’esterno.

Si era reso conto di essere solo in una città costituita da un unico isolato. Solo, con quattro Apache.

E quella città desolata, muta come una tomba, s’infilava nel buio sempre più fitto, avvolta in un frastornante alone di silenzio, capace di ricacciare nell’ombra la magra figura di Nagle.

E lui arretrò, la divisa che gli pendeva addosso a tal punto da sembrare vuota; alzava i piedi con cautela, teneva le braccia accostate ai fianchi. Il braccio destro sfiorò la fondina all’anca, e Nagle abbassò gli occhi per rialzarli all’istante, come se temesse di perdere di vista la soglia. Ma il suo volto tirato si rilassò per un attimo, quando la mano brancolò attorno alla fondina e ne estrasse il revolver a canna lunga.

Di colpo Nagle si fermò. Qualcosa di appuntito gli batté sulla spina dorsale, e lui si girò su se stesso, aprendo il fuoco senza controllo. Sparò quattro volte e attaccò a correre, barcollante, verso la rampa di scale in fondo alla stanza. I colpi esplosero violenti nella stanza vuota, rimbalzando da una parete all’altra con un rimbombo da spaccare i timpani, seguito da un acuto tintinnio di vetri rotti. Nagle corse su per le scale, abbandonando il salone del bar, completamente vuoto escluso il palo centrale di sostegno sul quale era andato a sbattere.

E di nuovo il silenzio.

Nella stanza al piano di sopra si appiattí rigido contro il muro, di schiena, appena dietro la porta; poi ansimante, la testa in preda a fitte di dolore, spostò gli occhi sulle finestre che davano sulla strada, riquadri grigi e semibui che mettevano in evidenza la sera. Lentamente scivolò lungo il muro per raggiungere una finestra d’angolo, e appoggiò la guancia al telaio.

Da lí riusciva a vedere quasi per intero l’unico isolato della città. Adobe e compensato, schiacciati l’uno contro l’altro, tetri e sgradevoli e con un deprimente squallore che ne gridava forte l’abbandono. Da gran parte delle facciate sporgevano delle ramadas malconce e cadenti, che si spingevano sulla strada sterrata per restringerla a poco più di una pista dai profondi solchi. Le ramadas nascondevano quasi tutte le finestre dei pianterreni e le porte che si aprivano sulla via, gettando un’ombra ancora più profonda nell’oscurità ormai avanzata.

Poi, al piano inferiore si udí lo scricchiolio di un’asse che si piegava su un chiodo rugginoso. Nagle si bloccò contro il muro, immobile, e il rumore cessò.

Quel suono gli aveva irrigidito ogni muscolo, ogni nervo; ma riuscí comunque a muovere le gambe, la mano resa tremante dal peso del revolver. Attraversò la stanza, fino alla porta, e guardò sul bigio pianerottolo, sporgendosi dalla ringhiera a orecchio teso, ma solo i suoi stessi, mozzi respiri rompevano il silenzio. Arretrò dalle scale lungo un breve corridoio che finiva un paio di metri dietro di lui.

Una porta a pannelli di vetro si apriva su un pianerottolo esterno la cui scala in disfacimento scendeva ripida fino a terra. L’ultimo bagliore della luce serale filtrava nell’angusto spazio tra i due edifici, perdendo gran parte della sua intensità nel tentativo di penetrare i luridi vetri della porta. Nagle si lanciò un’occhiata alle spalle, attraverso uno dei pannelli, e vide solo il pianerottolo e la marcia parete di legno dell’edificio adiacente, che era una rimessa per cavalli.

Si accostò di nuovo alla tromba delle scale, completamente buia, e nello sporgersi udí ancora una volta il suono attutito che giungeva dal piano inferiore. Era fievole, lontano, simile a cuoio su legno, ma gli raschiò la spina dorsale come un accordo dissonante, e si sentí rizzare i capelli sulla nuca.

Immobile e rigido, aprí la bocca per gridare, ma il grido si trasformò in un lamento che a sua volta si trasformò in un singhiozzo, e continuò a dire: – Dio, ti prego… Dio, ti prego… Dio, ti prego… – fin quando non decise di voltarsi, sbattendo contro la porta, sbattendo la pistola sui pannelli di vetro perché la porta non si apriva, prendendo i pannelli a calci e ginocchiate.

Poi si ritrovò all’esterno e imboccò le scale, fermandosi un istante nello stretto vicolo per guardare da entrambe le parti. Un attimo dopo scomparve oltre la porta laterale dell’edificio attiguo.

Al piano superiore, un’ombra sfocata emerse dall’oscurità delle scale sul pianerottolo dove si era fermato Bud Nagle. Una figura indefinibile; ma l’ultimo, lieve raggio di luce della sera batté fioco sulla punta di una lancia da guerra mimbreño.

Un Apache Mimbreño non è un fanatico. Non la butta via, la sua vita. Se è ferito a morte, è capace di gettare al vento ogni precauzione purché il suo ultimo gesto sia quello di uccidere un uomo bianco. E molti bianchi farebbero lo stesso. Non si tratta di fanatismo; è rassegnazione assoluta. Fatalismo, col destino che ti guarda dritto in faccia.

Un Mimbre è piccolo di statura, meno di un metro e settanta, ma è come una correggia di cuoio ben ingrassata, piena di strettissimi nodi da un capo all’altro. Porta una bandana per tenere ferma una capigliatura che gli arriva alle spalle, e i suoi mocassini raggiungono la metà della coscia. Indossa un perizoma di cotone e ha il torso dipinto di rosso vermiglio, direttamente sullo sporco.

Il suo Dio è U-Sen, e il Mimbre è il miglior guerrigliero del mondo. È un dono di natura. Il Mimbre è uno stratega. Vive per uccidere, e ci rimugina sopra dalla mattina alla sera, bevendo tizwin per essere sicuro che la brama di uccidere non lo abbandoni mai. Ricordatevelo bene: non la butta via, la sua vita.

Per questo motivo le tre ombre si erano dirette verso la rimessa, ma senza grida di guerra, senza lanciarsi all’assalto. E senza il minimo rumore. Le ombre erano irreali, e si confondevano con l’oscurità. Si spostarono sul lato dell’edificio per riunirsi alla quarta ombra che le aspettava nel vicolo stretto. E quelle figure fantasma si fusero assieme per diventare parte dell’ombra ancor più scura vicina alla fiancata della stalla.

Di lí a poco le nere sagome riapparvero. Si muovevano in fretta, e nel raggiungere la strada assunsero una forma ben precisa, per poi svanire di nuovo mentre passavano sotto le ramadas sull’altro lato. E in quello stretto vicolo c’era uno sfarfallio di luce. Un puntino luminoso che ondeggiava, danzava. Poi un arancione vivo a contrasto del nero, col fuoco che gradualmente risaliva il cadente muro della rimessa.

Fu questione di pochi minuti. Le fiamme si arrampicarono sulla parete laterale, dapprima lentamente; piccole lingue arancioni sparse sulla superficie arida, che infine si mangiarono l’una con l’altra per erompere in una brillante massa di fuoco.

Per la figura accucciata nella rimessa non vi fu scelta. Scivolò fuori da un box e si spostò verso la parte anteriore della stalla, fissando affascinata il fuoco finché le fiamme non raggiunsero il solaio sopra la sua testa e il calore divenne soverchiante, soffocante.

Per qualche minuto Nagle si dimenticò degli Apache, la mente in grado di affrontare una sola cosa alla volta, incapace di associare il fuoco agli indiani. Era come ipnotizzato e si muoveva lento, riluttante a distogliere lo sguardo dalla danza delle fiamme, fino a che il calore non gli fu vicino e lui non fu costretto a voltarsi per ritrovarsi all’entrata principale.

Nascondersi era fuori discussione. Sconvolto dal fuoco e dal panico che gli fasciava la mente e gli faceva battere il cuore contro il petto.

Panico, e nessuna scelta.

Fu cosí che prese a spallate la massiccia porta a battenti e si infilò a forza nell’angusta apertura. Esitò per un lungo istante, poi corse a sinistra, ingoiando in quattro passi il marciapiede di tavole e risalendo i gradini della veranda del saloon. Esitò di nuovo, nella fitta ombra della ramada, guardò alle proprie spalle verso la rimessa – digrignando i denti per non urlare – poi attraversò di corsa la veranda.

In fondo al portico voltò di nuovo la testa, e fu questo il suo sbaglio.

Ruotò su se stesso per scappare a gambe levate, ma era proprio in cima alle scale e si lanciò in avanti, gettando le braccia innanzi a sé. Vi furono un mezzo grido e un’esplosione, e fu tutto. Cadde sulla schiena, la faccia verso l’alto. Un piccolo foro nel petto indicava il punto in cui si era sparato da solo. E le punte dei suoi stivali d’ordinanza erano rivolte al bagliore rosso che si stava allargando nel cielo.

Era lo stesso bagliore che il mattino seguente portò gli Apache e la cavalleria a scontrarsi sulla pianura a est della città di Helena.

Causa ed effetto sono una legge di natura. La cavalleria aveva seguito il bagliore nella notte per ovvi motivi. Per questo c’era una guarnigione, a Fort Bowie. Chee vi aveva condotto i suoi Mimbre per un errore di valutazione. Cielo in fiamme a nord-est, in direzione di Fort Bowie. E Cochise, con oltre duecento Chiricahua, camminava sul sentiero di guerra all’incirca nella medesima direzione. Fu facile per Chee abbandonare l’agguato allo squadrone per cogliere la possibilità di prendere parte al saccheggio di un’intera guarnigione.

Un errore di valutazione ed eccessiva impazienza. E quando Chee scoprí il proprio errore, ormai era troppo tardi. Era allo scoperto. Uno degli scout di Stoneman lo venne a sapere da un Mimbre scampato alla battaglia. E quella storia influenzò le argomentazioni di Stoneman. Nessun dubbio in proposito.

Quel pomeriggio trovarono Bud Nagle. La pistola scarica, e il corpo mutilato. Mano e piede destro amputati. C’era una sola conclusione possibile.

A Camp Grant, la settimana successiva, Stoneman conferí a Bud Nagle, alla memoria, la medaglia con la testa di Minerva. La Medal of Honor.

L’orgoglio del reggimento è una strana cosa. Un soldato vi si aggrappa perché è importante, ed è anche disposto a lasciarsi condizionare nel proprio giudizio. A ovest dei San Andres c’era poco altro, se non l’orgoglio del reggimento.

Stoneman concesse a Nagle la Medal of Honor per aver sacrificato la propria vita a vantaggio del suo squadrone. Aveva appiccato il fuoco alla città per lanciare un segnale alla guarnigione di Fort Bowie, immolando se stesso. Stoneman lasciò anche intendere che Nagle aveva dato quel segnale con l’intenzione di attirare Chee in un tranello. Non lo disse chiaro e tondo, ma ci girò attorno con terminologia strategica.

A questo può portare l’orgoglio del reggimento. A un eroe. Il cui nome è scritto per sempre nel Roll of Honor, l’albo d’oro dello squadrone B, Terzo Dragoni. E molti vi credettero, pur conoscendolo bene, Bud Nagle. Sí, a questo può portare l’orgoglio del reggimento.

Cavalry Boots, apparso per la prima volta in «Zane Grey’s Western», dicembre 1952.