Il baro
La filiale di Asunción della Yuma Savings and Loan fu rapinata nelle prime ore di un lunedí mattina. Alle otto il medico aveva già estratto il proiettile dalla pancia di Elton Goss. Se riesce a cavarsela, aveva commentato, il mondo non ha più bisogno di dottori: siamo tornati nell’era dei miracoli. Alle nove Freehouser, lo sceriffo di Asunción, aveva raccolto tutti i fatti – anche l’identità dei cinque rapinatori – grazie al portiere di notte del Centralia Hotel, che essendo sveglio era riuscito a vederne quattro che sgattaiolavano fuori dalle loro stanze subito dopo l’alba. Poi aveva cercato di collegare quelle facce a dei nomi, ma per quanto si fosse sforzato non era approdato a niente. Il quinto uomo aveva passato quasi l’intera notte nell’atrio dell’albergo, e il portiere sapeva benissimo chi era; ma non aveva pensato che avesse qualcosa a che fare con gli altri. Più tardi, quando Freehouser gli fece vedere gli avvisi di taglia con la scritta WANTED, li riconobbe tutti quanti.
Quattro erano ben noti desperados, pur se le barbe lunghe e l’abbigliamento da cowboy li rendevano simili a chiunque altro. In primo luogo i fratelli Harlan, Ford e Eugene. Ford era il capo: Eugene era troppo pigro per darsi da fare. Poi Deke, un vecchio bracciante il cui vero nome (forse, visto che nessuno lo sapeva per certo) era Deacon qualcosa. Il quarto, Sonny Navarez, era ricercato a Sonora dai rurales e in Arizona dall’ufficio dello sceriffo. Anche lui, come gli altri, si era fatto un po’ di galera a Yuma.
Per quanto riguardava Freehouser, se riusciva a prenderli lui, a Yuma non ci sarebbero tornati. No di certo: Elton Goss aveva un piede nella fossa e suo padre gridava vendetta.
Il quinto fuorilegge fu identificato come Rich Miller, un tizio delle parti di Four Tanks. Chi lo conosceva lo spacciava per uno bello tosto per la sua età, anche se non cosí duro come pensava lui. Aveva quasi diciott’anni e i mutamenti della crescita gli avevano messo strane idee in capo. Il barista del Centralia disse che Rich non aveva fatto altro che entrare e uscire tutto il giorno, come se ce l’avesse con qualcuno. L’opinione comune fu quindi che il ragazzo si fosse sbronzato e fatto convincere a cacciarsi in qualcosa molto più grande di lui.
Un bracciante dell’F-T Connected, un ranch appena fuori Four Tanks, disse che Rich Miller era stato licenziato il giorno prima, quando il proprietario l’aveva beccato sbronzo in una baracca sui pascoli, mentre avrebbe dovuto sorvegliarne i confini. Quindi le dichiarazioni del barista del Centralia potevano pure essere vere. Freehouser disse che era proprio un gran peccato per quel ragazzo, ecco tutto.
Lunedí pomeriggio la posse dello sceriffo raggiunse Four Tanks per poi spostarsi a est, verso le frastagliate cime laviche delle Kofa. McKelway, che rappresentava la legge a Four Tanks, si era unito alla posse in compagnia di cinque uomini, per dare una mano in segno di buon vicinato. Ma quando scoprí a chi stavano dando la caccia divenne difficile tenerlo a freno. I Ford, Deke e Navarez avevano delle belle taglie sulla testa, vivi o morti. McKelway conosceva Rich Miller, e disse che l’unica, con lui, era dargli una bella ripassata e spedirlo a casa. Ma Freehouser la vedeva in un altro modo.
Era rapina a mano armata, quella. Goss, il direttore di banca, e suo figlio Elton, impiegato nella filiale, erano stati tirati via dal letto da due uomini: Eugene Harlan e Deke, come si sarebbe scoperto poi. Ford Harlan e Sonny Navarez erano in attesa accanto alla porta posteriore della banca. La rapina sarebbe filata via liscia se Elton non avesse tentato di prendere una pistola dal cassetto della scrivania. Il vecchio Goss non era sicuro di chi avesse sparato al figlio. Poi erano scappati con dodicimila dollari.
Avevano fatto il giro dell’edificio, e Rich Miller era uscito dal Centralia per raggiungerli. Per tutto il tempo se n’era stato seduto accanto alla vetrata, come a smaltire una sbronza (secondo il portiere, al quale capitavano spesso cowboy in quelle condizioni, e quando l’albergo era al completo non gliene fregava niente). Ma all’improvviso era come resuscitato, ed era saltato su un cavallo condotto dal messicano. Quindi la sua era stata tutta una finta: stava solo controllando la strada per vedere che nessuno facesse scherzi.
McKelway disse che un ragazzo deve avere la possibilità di commettere un grosso errore, uno solo, prima di ritrovarsi nei guai per i suoi casini. Inoltre, il nome di Rich Miller non era legato ad alcuna ricompensa in denaro.
Martedí mattina i venti uomini della posse si erano ormai addentrati nelle Kofa. Enormi rocce grigie da tutte le parti, territorio selvaggio e, da lí in avanti, fine della pista. Freehouser decise di dividere il gruppo, salire più in alto e aspettare. Di dare un’occhiata in giro, insomma. Rispedí un uomo a Four Tanks per telegrafare a Yuma e Aztec, casomai i fuorilegge riuscissero a valicare le Kofa. Ma era sicuro che fossero ancora da quelle parti, chissà dove.
Mercoledí mattina il suo intuito fu premiato. Uno degli uomini di McKelway scorse un tizio a cavallo, e la posse gli si strinse addosso grazie a un sistema di segnalazioni con gli specchi che avevano studiato in precedenza. Il tizio risultò essere Ford Harlan.
Mercoledí pomeriggio Ford Harlan era morto.
Era riuscito a farsi inseguire per tutta la mattinata, sgusciando dalla rete della posse, ma verso mezzogiorno si era infilato in un canyon senza sbocco, un sito minerario abbandonato che un tempo andava sotto il nome di Sweet Mary n. 1. Ford Harlan stava spingendo il suo cavallo su per un pendio che sovrastava la miniera, diretto a una baracca in adobe appollaiata su uno sperone roccioso circa trecento metri più in alto, quando Freehouser si era portato le mani alla bocca e gli aveva gridato di fermarsi. Harlan aveva tirato dritto. Un istante dopo Jim Mission – il vice di McKelway – l’aveva tirato giù di sella con un solo colpo del suo Remington.
Poi McKelway e Mission si offrirono volontari per riportare giù Ford Harlan. McKelway legò un fazzoletto bianco alla canna del suo Sharps in segno di tregua, e i due attaccarono la salita per andare a recuperare il corpo. – Se volete prendere Ford, – disse Freehouser, – fareste meglio ad andare ancora un po’ avanti e chiedere agli altri di arrendersi –. Avevano quasi raggiunto il cadavere, quando dall’alto partí una scarica di revolverate. McKelway e Mission si gettarono a terra, poi si riunirono alla posse. Freehouser sorrideva.
Erano tutti lassù, Eugene e Deke e il messicano e Rich Miller. Uno di loro aveva perso la calma e aperto il fuoco. Sul volto di Freehouser si leggeva chiara la soddisfazione. Erano intrappolati in una vecchia baracca di minatori sormontata da una liscia parete di arenaria – crepacci sottili come ombre che separavano slanciati pinnacoli – e con una sola via d’uscita. L’ingresso originario della miniera era allo stesso livello, e forse proprio là dentro avevano nascosto i cavalli.
Freehouser era soddisfatto: aveva tutto il tempo di studiare come fare a stanarli da quella casupola. Fu persino disposto ad ascoltare McKelway e ammettere che sí, magari il giovane Rich Miller non era da impiccare assieme agli altri… se riusciva a non farsi sparare.
Alcuni dei membri della posse tornarono a casa, perché dovevano ripresentarsi al lavoro, ma ne arrivarono altri, da Asunción e Four Tanks, a godersi lo spasso.
Parve logico che fosse Deke a prendere il comando. Nessuna discussione, e nessuno pensò per un solo istante a un’alternativa. Ford era morto. A Eugene non fregava niente. Sonny Navarez era messicano, e Rich Miller un ragazzino. Ragazzino che si era sempre chiesto perché il capo non l’avesse fatto Deke dall’inizio. Forse non aveva il coraggio di Ford, ma a suo vantaggio andavano l’età e l’istruzione. D’altra parte, quando un uomo invecchia è sempre più pieno di dubbi e rimpianti. E certe volte Deke metteva paura, per come parlava del destino e di Dio che manovrava gli uomini neanche fossero marionette, spostandoli dove loro proprio non volevano andare.
Deke si appoggiò al muro, il volto accanto al telaio della finestra, la carabina in equilibrio sul davanzale. Eugene se ne stava indietro di un passo. Era di corporatura massiccia, le spalle che tendevano la stoffa della camicia, e di alta statura, anche se in posizione eretta Deke era più alto di lui. Eugene si staccò la camicia dal corpo, fradicia di sudore. Il sole era a picco, e il calore si riversava nel canyon senza che le rocce circostanti riuscissero a deviarlo.
Eugene Harlan ruppe il silenzio. – Ho fatto male a sparargli.
Non c’era bisogno di dirlo. Deke fece spallucce. – Ormai è andata.
– L’ho fatto senza pensare.
Deke non si prese neanche la briga di guardarlo. – Comincia ora, che è meglio.
– Non è stata colpa mia. Li ha portati Ford, quassù!
– Nessuno ti dà la colpa di niente. Ci avrebbero preso lo stesso, prima o poi. Era scritto.
Eugene tacque, per poi riprendere. – Che succede se ci arrendiamo?
Adesso Deke si decise a guardarlo. – Secondo te?
Sonny Navarez fece un sorrisetto. – Per me, è come invitarli a nozze.
– È stato Ford a sparare al ragazzo della banca, – protestò Eugene. – E l’hanno già beccato.
– Come fanno a sapere che è stato lui? – disse Deke.
– Glielo diciamo noi.
Deke scosse il capo. – Beviti qualcosa, fa’ contenti i tuoi nervi.
Sonny Navarez e Rich Miller guardarono Deke con un sorriso, ma non dissero niente, e subito dopo spostarono gli occhi giù per il pendio, che scendeva liscio e ripido. Appena a sinistra, dietro un cumulo di detriti, s’innalzava l’incastellatura del pozzo principale, grigiastra e logorata dalle intemperie; sotto di essa, la traballante struttura del mulino di frantumazione e più giù, a circa trecento metri, sei enormi contenitori arrugginiti inseriti in un telaio di legno ormai marcio. Dopo altri cento metri si raggiungevano le baracche della compagnia mineraria, sparpagliate in fondo al pendio.
Un’insegna che pendeva dalla veranda della baracca più grossa recitava: SWEET MARY N. 1 – SOCIETÀ MINERARIA EL TESORERO, FOUR TANKS, TERRITORIO DELL’ARIZONA. Quasi tutti i componenti della posse erano seduti all’ombra di quella baracca.
Deke sollevò di nuovo il cappello e si passò la mano prima sulla pelata, poi sul volto segnato e ispido, in contrasto con il delicato biancore del cranio. Lo sguardo di Rich Miller risalí il pendio, indugiando sul corpo a faccia in giù di Ford Harlan. Poi anche lui si tolse il cappello, si passò una manica sulla fronte e tornò ad abbassare sugli occhi la tesa ricurva.
Udí Eugene che diceva: – Va’ a sapere che intenzioni hanno.
– A Yuma non ci rimandano, – disse Deke. – Su questo ci puoi contare. E tirare su una forca costa. Piuttosto sistemano le cose qui, a fucilate, da veri sportivi.
– Una volta, proprio in questo canyon, – disse Sonny Navarez, – ho fatto secca una pecora che pesava quanto un uomo.
– C’erano segni fin dall’inizio, – disse Deke. – Sono stato stupido a non farci caso. Adesso è troppo tardi. Qualcosa ci ha portato fin qui, a morire tutti assieme, e non possiamo scamparla. Non si può sfuggire al destino.
– Secondo me sono stati quei dodicimila dollari, a portarci fin qui, – disse Sonny Navarez.
– In un certo senso è colpa dei quattrini, eccome, – disse Deke. – Ma non facevamo altro che pendere dalla bocca di Ford… Quattrini facili, quelli in banca, lí in attesa di essere portati a Yuma… E non abbiamo visto i segni. Tutta una serie di cose mai successe prima. Come Ford che insisteva per essere in cinque, e che ha finito per prendere ’sto ragazzo…
– Un momento! – disse Rich Miller. Non gli sembrava giusto.
Deke alzò la mano. – Sto parlando dei segni… e a Ford che di colpo gli prende la voglia di fare un sopralluogo, quando non l’aveva mai fatto prima. Tutto quanto puntava a questa fine qua… e adesso non possiamo farci nulla.
– Non voglio mica farmi sparare, io, solo perché tu ti sei fissato su queste assurdità, – disse Eugene.
Deke scrollò il capo, sconsolato. – Ormai è fatta. Quando il destino ti fa capire com’è che si stanno mettendo le cose, vuol dire che è troppo tardi.
– Non gli ho sparato io, a quello in banca!
– E secondo te si prenderanno la briga di chiedertelo?
– Glielo dirò io, porca puttana… e dovranno dimostrarlo, che sono stato io!
– Se riesci ad andargli vicino senza farti sparare, – disse Deke sottovoce. Poi tolse un binocolo dalla sacca della sella, piazzata sotto la finestra, e se lo portò agli occhi, muovendolo pian piano sugli uomini davanti agli edifici della compagnia.
– Cosa vedi? – gli chiese Rich Miller.
– Lo stesso che vedi tu, solo più grande.
– Penso, – disse Sonny Navarez a Deke, – che hai detto una cosa giusta, ce la metteranno tutta per farci fuori, ma penso anche che il ragazzo non è uno di noi. Se si arrende, secondo me, non lo ammazzano. Finirà in galera, forse, ma meglio in galera che sottoterra.
– Pensa per te, – disse Rich Miller.
– Il momento del coraggio, – disse il messicano, – è quando si danno le medaglie.
– L’hai sentito, – disse Deke. – Pensa alla tua, di pellaccia. Più ne facciamo secchi, più resistiamo. Non sta scritto da nessuna parte che uno debba sbrigarsi a farsi ammazzare.
Rich Miller guardò Eugene che tornava al tavolo lungo la parete alle loro spalle, a prendere la bottiglia di whisky. Il ragazzo si passò la lingua sulle labbra secche, gli occhi su Eugene che beveva. Un drink non ci starebbe male, pensò. Invece sí. Sarebbe uno sbaglio. Hai già alzato il gomito una volta, e guarda in che guaio ti sei cacciato. O ti sparano o ti impiccano.
Ma in tutta onestà non riusciva a credere alle parole di Deke. Al fatto che erano ormai arrivati alla fine, in un modo o nell’altro. La posse in fondo al pendio era molto lontana: uomini piccoli come puntini, troppo piccoli per rappresentare una minaccia. Non si era pentito di essersi fatto coinvolgere nella rapina, perché si era imposto di non pensarci. Provava un vago dispiacere per il tizio della banca. Ma non avrebbe dovuto cercare di prendere quella pistola. Chissà cos’avrei fatto io, pensò.
Non si stava poi cosí male, nell’adobe. Acqua e cibo in abbondanza. Magari finiamo pure per spassarcela, tutto sommato. Guarda quel pazzo di messicano che blatera di pecore di montagna.
A essere già in galera, uno poteva pur sempre ammettere di aver commesso un errore; ma come fai a parlare di errori quando sei ancora vivo e con duemila dollari in tasca? Cristo, sai quante cose si possono fare, con duemila dollari? Più o meno tutte.
Freehouser era seduto all’ombra e taceva. McKelway gli andò vicino, mordicchiando distratto la pipa, e dopo un po’ si mise a indicare l’incastellatura della miniera, facendogli notare come un buon tiratore avrebbe potuto prendere la mira e piazzare un colpo nell’apertura della baracca, a patto che si appostasse in cima al traliccio di legno.
Freehouser valutò con lo sguardo i cumuli di detriti che partivano dal pendio fino a raggiungere entrambi i lati della baracca. Se mandava qualcuno alla baracca in cima al pendio, rischiava di finire dritto in bocca ai fuorilegge, sotto tiro. Forse McKelway aveva ragione. Cerchiamo di fargli abbassare un po’ la cresta, a quelli.
Starsene in piedi accanto alla finestra a tenere d’occhio gli uomini della posse, che non si muovevano, divenne stancante. Cosí i banditi, a turno, si attaccavano alla bottiglia di whisky sul tavolo. Rich Miller decise di andarci piano, solo un assaggio, anche se era proprio quel che ci voleva.
E comunque non successe nulla, fin quando Eugene non ebbe un’idea e andò a prendere un mazzo di carte che aveva nella sacca.
– Non gioco spesso, – disse Sonny Navarez.
– Resta un po’ alla finestra, – gli disse Deke. – Poi qualcuno ti darà il cambio. Di quattrini, per imparare, ne hai a sufficienza.
Eugene scosse il capo pensando a suo fratello, che si era preso il doppio degli altri perché l’idea della rapina era venuta a lui. – Quello stronzo di Ford ne aveva quattromila, in tasca…
Iniziarono a giocare, usando fiammiferi come fiches. Ciascuno valeva un dollaro. Rich Miller disse che gli sembrava un po’ troppo, visto che prima d’ora non aveva mai giocato altro che spiccioli, ma cominciò a vincere subito e cambiò atteggiamento. Giocarono soprattutto a five-card stud, che secondo Deke era una cosa da uomini veri, e questo lo disse alzando gli occhi su Rich Miller. Deke giocava con espressione impassibile, ma si metteva a sorridere ogni volta che veniva distribuita l’ultima carta, come se andasse sempre a formare una coppia con una delle sue. E perdeva regolarmente. Eugene e Rich Miller continuarono a vincere a turno, e dopo un po’ Deke smise di sorridere.
– Alziamo la posta, – disse infine. – Ogni fiammifero vale dieci dollari –. Non gliene rimaneva che qualche centinaio.
Eugene si fece un goccio, si pulí la bocca e mollò un sorrisetto. – Non li perdi abbastanza in fretta?
Rich Miller sorrise a sua volta.
– Da’ le carte e chiudi il becco, – disse Deke.
McKelway raggiunse la piattaforma alla sommità dell’incastellatura, e calò la fune per tirare su i fucili: il suo Sharps e il Remington a blocco oscillante di Jim Mission. Che salisse anche Jim gli faceva piacere. Era di compagnia, e forse sparava perfino meglio di lui.
Quando Jim arrivò in cima, i due si salutarono con un cenno del capo, sorridendo, poi caricarono i fucili e si allenarono a prendere di mira il vano della porta. – Cerca di non beccare il ragazzo, – disse McKelway, – ma tieni presente che buttar giù gli altri significa fare un grosso piacere all’umanità –. Mission rispose che per lui andava bene.
Eugene si alzò barcollante dal tavolo, spingendo indietro la sedia. Sorrideva e si ficcava manciate di soldi nelle tasche dei calzoni. In due ore aveva ripulito Deke e Rich Miller fino all’ultimo cent. I due rimasero seduti, guardandolo storto e pensando che avevano fatto una vera cazzata a cercare di rivincere in un paio di mani tutto quel che avevano perso. Eugene si attaccò di nuovo alla bottiglia, si ripulí la bocca e li guardò a sua volta, limitandosi a sorridere.
– Sonny! – gridò al messicano che indugiava accanto alla finestra. – Tocca a te farti spennare.
Il messicano scosse il capo. – Non posso farcela, con questa fortuna.
– Forza!
Sonny Navarez scosse ancora il capo e sorrise.
Harlan lo guardò fisso e corrucciato. – Vuoi giocare o no?
– Perché dovrei darti i miei soldi?
– Se non vieni tu, vengo a prenderti io.
Adesso il messicano non sorrideva più, e nella stanza era calato il silenzio. Rich Miller fece per alzarsi, ma Deke era già in piedi. – Gene, se vuoi attaccare briga con qualcuno, là fuori c’è un sacco di gente.
Eugene lo ignorò, continuando ad avanzare verso Sonny. La mano del messicano scivolò sulla fondina.
– Gene, adesso siediti, – disse rigido Deke.
Eugene entrò nel rettangolo di luce proiettato come un tappeto dal vano della porta. Ne stava uscendo, quando un colpo di fucile esplose, quasi cantando, nell’immobilità assoluta. Eugene si portò le mani al volto, come a volersi strappare la faccia, e cadde senza emettere un suono.
McKelway ricaricò in fretta. Uno l’aveva beccato, ne era sicuro. E non gli sembrava il ragazzo, altrimenti non avrebbe sparato. – Un bel tiro, – gli disse Jim Mission. Poi McKelway si mise a fare qualche calcolo.
Dalla cresta del cumulo di detriti che avevano di fronte, c’era una cinquantina di metri per arrivare alla baracca. L’unico problema era che quei cinquanta metri erano allo scoperto. Ne parlò a Jim Mission, che suggerí di provarci al calar della sera: anche se la visibilità fosse stata nulla, potevano sempre sparare nella direzione di eventuali rumori. McKelway rispose che non aspettava altro.
Quel pomeriggio non giocarono più a poker. Deke aveva trascinato Eugene via dalla soglia, prendendolo per gli stivali, e l’aveva sistemato conto il muro con le mani sul petto: non incrociate, ma ficcate dentro la giacca. Poi gli tolse i soldi dalle tasche – seimila dollari – e li mise sul tavolo. Infine si sedette a guardarli.
Rich Miller si schiacciò contro la parete, accanto alla finestra, a scrutare il pendio e a chiedersi dove fosse il tizio col fucile. Lo sguardo gli andò a cadere sulla malconcia incastellatura della miniera, e la situazione non gli parve più cosí spassosa.
– Ci siamo quasi, – disse a un certo punto Deke, ma nessuno si disturbò a chiedergli spiegazioni.
Sonny Navarez non si scostò dalla finestra. Ogni tanto guardava il cadavere di Eugene, ma più che altro teneva d’occhio il sole morente. Rich Miller se ne accorse, immaginandosi però che il messicano stesse pensando a Dio – al paradiso o all’inferno, comunque –, visto che c’era un morto nella stanza. Sonny si era fatto il segno della croce quando Eugene era stato abbattuto, anche se un istante prima l’avrebbe ucciso lui senza problemi.
E quando Sonny Navarez tirò fuori la pistola, il sole era ormai sceso sotto il livello del canyon, sebbene il cielo fosse ancora striato di rosso e arancione.
Deke aveva la bottiglia in mano. Lanciò un’occhiata veloce al messicano, poi bevve una lunga sorsata e passò il whisky a Rich Miller. Ma il ragazzo stava fissando Sonny Navarez. Deke voltò la testa di scatto. La .44 a canna lunga di Sonny era puntata verso di loro.
Deke posò la bottiglia con estrema calma. Alzò di nuovo lo sguardo. – Che ti passa per la testa?
– Quand’è buio me ne vado, – disse il messicano.
Con la testa, Deke indicò la pistola. – E pensi che cerchiamo di fermarti?
– Forse. I soldi li prendo io.
– Stai perdendo tempo.
Sonny Navarez fece spallucce. – Qué va… Io ci provo. Non importa dov’è che muori, da lí all’inferno la distanza è la stessa.
– Non hai la minima possibilità, – disse Rich Miller. – Là fuori, e neanche tanto lontano, c’è qualcuno con un fucile puntato sulla porta.
– Per questi soldi vale la pena rischiare, – disse il messicano. – E comunque non me ne vado prima del buio –. Poi disse loro di mettersi con la faccia contro il muro. Dopo di che, prese i mucchi di banconote e cominciò a ficcarseli nella giacca.
– Sei convinto di farcela? – disse Rich Miller.
– Probabilmente no.
– Sei un vero idiota, – disse Deke.
– Se me la cavo, – disse Sonny Navarez, – vado da un prete e gli faccio un’offerta per la sua chiesa. Poi cambio mestiere.
– Troppo tardi, ormai, – disse Deke. – Per quello, e tutto il resto.
– No, – insisté il messicano. – Il mio pentimento sarà sincero. Con quel che non avrò dato al prete comprerò una casa a mia madre, a Hermosillo, poi dirò il rosario tutti i giorni.
Deke scosse il capo. – Se siamo in questa situazione, è per un motivo che non sappiamo. E tu puoi farne di tutti i colori, ma non riuscirai a cambiare le cose.
Il messicano fece spallucce. – Qué va…
Il buio era quasi totale, quando Sonny Navarez si avviò alla porta. Fermo accanto alla soglia, infilò la pistola nella fondina e prese il suo fucile, appoggiato alla parete. Fece scorrere una cartuccia nell’otturatore e, leggermente curvo, iniziò a uscire. Poi esitò, come in ascolto, si voltò verso i due uomini seduti al tavolo e annuí. Mentre si voltava di nuovo, il silenzio e il buio furono squarciati da un colpo di fucile che riecheggiò su per il canyon. Sonny Navarez si piegò in due, sulle ginocchia, e parve restare sospeso per un attimo, come in preghiera, prima di cadere di traverso nel vano della porta.
Più tardi McKelway e Mission si calarono giù dal cumulo di detriti e fecero rapporto a Freehouser. Lo sceriffo disse che averne fatti fuori tre su cinque non era un cattivo risultato, per una giornata di lavoro. Erano seduti in veranda, le sigarette che brillavano nel buio, quando arrivò un uomo a cavallo da Asunción e riferí che Elton Goss se la sarebbe cavata.
Freehouser scoppiò a ridere. – L’era dei miracoli è tornata, – disse, – il dottore ci aveva azzeccato. Bella botta di culo, eh?
La notizia mise tutti di buonumore, perché Elton era un bravo figliolo. McKelway fece notare che Rich Miller avrebbe passato molti meno guai.
Lo sguardo fisso nel buio della notte, il ragazzo riusciva a malapena a distinguere le sagome delle baracche della miniera e delle vasche da cianuro, che secondo Deke potevano contenere duecentocinquanta tonnellate di minerale e dovevano essere trascinate da Yuma per tutto il deserto. Com’è che aveva detto? Il minerale cadeva nel frantoio – morse e rulli che lo riducevano quasi in polvere – poi finiva nelle vasche e restava a bagno nel cianuro per nove giorni. Cinque libbre di cianuro ogni tonnellata d’acqua, questa la percentuale. Perché mi ricordo questa cosa? pensò.
Che strano, rifletteva Rich Miller. Guarda come può cambiare un uomo, in due giorni. Da cowboy a trenta dollari al mese a fuorilegge, senza neanche accorgersene. Come se non ci avesse niente a che fare. Come se l’avessero preso al lazo e scaraventato in questa o quella situazione.
Gli venne in mente che poche ore prima moriva dalla voglia di provare qualche tiro dalla lunga distanza, quasi che la faccenda non lo riguardasse. Si chiese come avesse fatto a pensarlo. Adesso in quella stanza c’erano due cadaveri. Ecco la differenza.
Più tardi si mise a pensare a Eugene che faceva saltare il banco, e al messicano. Ciascuno dei due, per qualche momento, aveva avuto in mano tutti quanti i soldi, ed entrambi erano morti. Ford si era preso la fetta più grossa, ed era morto anche lui. Al sorgere del giorno si assopí, e al suo risveglio vide Deke seduto, appoggiato alla parete sotto l’altra finestra.
Deke non apriva bocca. – Quando ci proveranno, con noi? – chiese Rich Miller, tanto per dire qualcosa.
– Quando saranno pronti, cazzo.
Rich Miller non rispose e tacque per un po’. – Potremmo tentare una resa, – disse poi. – Cioè, non una resa vera e propria, ma qualcosa che ci permetta di filarcela più tardi, quando non ne avremo più addosso un centinaio.
– Sai già quel che ti ho detto.
– Ma non ne sei sicuro al cento per cento.
– Direi che sono un po’ più vecchio di te.
Rich Miller non rispose neppure stavolta. Cazzo, non li sopportava, quei discorsi. Non era che i vecchi ne sapevano per forza più dei giovani. Neanche fosse un merito, essere vecchio. E poi cosa c’entrava?
– A che pensi? – disse Deke.
– A darci un taglio.
Deke sbuffò piano. – Lo sai che ti succede, se esci da quella porta.
– Ci sono altri modi.
– Tipo?
– Alzare bandiera bianca.
– Se ti vedo alzare qualcosa, da quella porta, – disse Deke a bassa voce, – ti ammazzo io.
È pazzo, pensò Rich. È pazzo sul serio, e non lo sa. Deke aveva spinto il tavolo contro la parete, sotto la finestra, e adesso i due sedevano uno di fronte all’altro, Deke da un lato della finestra, il ragazzo da quello opposto. Deke aveva diviso in parti uguali gli ottomila dollari, dicendo che per non farsi scoppiare la testa avrebbero giocato a poker. Poi mise la pistola sul bordo del tavolo.
All’inizio fu un testa a testa. Entrambi vinsero più o meno lo stesso numero di piatti, ma dopo un po’ il ragazzo iniziò a spuntarla. Nel silenzio, pensava a un sacco di cose – come al non essere in grado di arrendersi – e alla fine gliene venne in mente una alla quale non aveva ancora pensato.
– Deke, – disse, – sai perché Sonny e Eugene si sono fatti ammazzare?
– E tu sai quant’è che te lo dico? Perché quello era il loro destino.
– Ma perché?
– Nessuno lo sa.
– Io sí, – il ragazzo guardò attentamente il compagno più anziano, – perché avevano i soldi –. Si interruppe per un attimo. – La fetta più grossa ce l’aveva Ford, e lui è stato il primo. Eugene, quando l’hanno beccato, li aveva tutti lui, esclusi quelli di Sonny. Poi li ha presi tutti Sonny, ed è campato meno di un’ora.
Deke non rispose, ma la sua aria depressa parve peggiorare.
Continuarono a giocare in silenzio, e via via Rich Miller accumulò la maggior parte del denaro. Deke sembrava a disagio, e disse sottovoce che, forse, non era proprio la sua giornata. In meno di un’ora era rimasto con duecentocinquanta dollari.
– Rischi di ripulirmi ben bene, – disse.
Rich Miller tacque, e dette le carte. Le prime, coperte; poi una donna a Deke e un fante a se stesso. Guardò la sua carta coperta. Un dieci di quadri. Deke puntò cinquanta dollari sulla donna.
– Secondo me ne hai due, di donne, – disse il ragazzo.
– Per scoprirlo, sai come fare.
La terza carta di Rich Miller era un re. Quella di Deke un asso. Deke puntò altri cinquanta dollari. La quarta carta fu bassa per entrambi, e quindi inutile. Deke spinse in avanti tutti i soldi che gli restavano.
– Una premonizione, – disse.
Rich Miller distribuí le ultime due carte. Una donna a Deke, che aveva quindi un asso, un cinque e due donne. La sua si rivelò un altro re.
– Hai vinto, – disse Deke, sorridendo. Scostò la sedia dal tavolo e si alzò. – Hai preso tutto, figliolo. Sai che cosa vuol dire.
– Vuol dire che mi arrendo.
– Troppo tardi. Te lo sei spiegato da solo, poco fa. Chi ha tutti i soldi ci lascia le penne –. Deke sorrideva ancora di più. – Adesso io sono al verde.
– Sei proprio sicuro che sarai l’ultimo.
– Sicuro al mille per mille. È un segno del destino.
– E a che ti serve?
– Chi lo sa?
– Visto che sei cosí sicuro, va’ a metterti sulla porta.
Deke tacque.
– Allora, il tuo segno del destino? La logica dice che sarai l’ultimo, e anche allora, va’ a saperlo. Tutta qui, ’sta fandonia?
Deke esitò per un attimo, poi si avviò lento verso la porta. Si fermò poco prima, rigido. Quindi fece per uscire.
Rich Miller tenne lo sguardo fisso su Deke, mentre faceva scivolare la mano sul tavolo. Prese la pistola, la puntò fuori dalla finestra e sparò un colpo in direzione dell’incastellatura.
Allo sparo rispose un sibilo lacerante, che rimase più a lungo nell’aria. Deke barcollò, ruotando su se stesso, ed ebbe il tempo di guardare il ragazzo, gli occhi sbarrati e stupefatti. Poi morí.
Il ragazzo tornò alla finestra dopo aver preso la sua carabina. Legò la bandana all’estremità della canna e mosse il fucile avanti e indietro, in un lento arco. Quando li vide risalire il pendio si mise nuovamente seduto e voltò distratto la sua prima carta. Un dieci.
Gli uomini della posse erano sempre più vicini. Avevano quasi raggiunto il cadavere di Ford Harlan. Rich Miller voltò anche la prima carta di Deke, che cadde sopra le due donne. Tre donne.
Si alzò e si accostò alla soglia. Vide gli uomini pronti a saltare sullo sperone di roccia, poi abbassò gli occhi su Deke e scosse il capo. Devo proprio essere matto, pensò. Mai sentito prima, di qualcuno che bara per perdere.
Uscí dalla porta con le mani sopra la testa.
Blood Money, apparso per la prima volta con il titolo Rich Miller’s Hand in «Western Story Magazine», ottobre 1953.