Il ritorno dell’eroe
Il secondo striscione recitava L’eroe di San Juan Hill. Entrambi erano appesi al balcone del primo piano del Congress Hotel e si affacciavano su La Salle Street a Sweetmary, città che aveva preso nome da una miniera di rame. Sulla facciata dell’albergo, gli striscioni si fondevano in un’unica frase. Quel giorno, in cui si aspettava il rientro a casa del capitano Early, reduce dalla guerra di Cuba finita ormai da due mesi, era il 10 ottobre 1898.
Il direttore dell’hotel e uno dei suoi portieri furono i primi a notare l’uomo di colore che era entrato nell’atrio e aveva lasciato cadere il suo sacco a pelo sul divanetto di velluto rosso, con l’aria di volersi mettere comodo. Un tipo alto e ben piazzato, con un abito che sembrava nuovo di zecca e che, da quanto gli cadeva a pennello, poteva pure essere suo e non ereditato da qualcuno. Sotto il vestito portava colletto rigido e cravatta. Col direttore nei paraggi, che però non si era ancora accorto dell’intruso, fu il giovane portiere a prendere l’iniziativa, alzando la voce per dire a quell’individuo: – Non puoi sederti lí.
L’uomo di colore rivolse la sua attenzione al banco della reception, e aspettò un attimo prima di rispondere: – Come mai?
Il suo tono tranquillo costrinse il portiere a esitare e rivolgere lo sguardo verso il direttore, che se ne stava in piedi con la posta del giorno tra le mani, lettere appena arrivate con la corsa mattutina della El Paso & Southwestern assieme a parecchi clienti ormai registrati in albergo e, in apparenza, assieme anche a quel tizio di colore. Difficile dargli un’età, a parte il fatto che non era più un giovanotto. Comunque sembrava pulito, e il suo sacco a pelo era ben avvolto in una tela ormai stinta.
– L’atrio di un hotel, – disse il portiere, – non è un luogo pubblico, dove chiunque può fare come a casa propria. Cos’è che vuoi?
Quantomeno si era tolto il cappello, e lo teneva in mano. Ma poi disse: – Sto aspettando Bren Early.
– Ah, addirittura Bren, – disse il portiere. – Conosci il capitano Early?
– Da un bel pezzo.
– Lavoravi per lui?
– In un certo senso.
– Lo aspettiamo tutti, il capitano Early, – disse a quel punto il direttore. – Perché non te ne vai fuori e lo aspetti lí? – Fine della conversazione.
Il portiere – che si chiamava Monty – accompagnò l’uomo di colore all’ingresso principale e uscí sulla veranda per guardarlo percorrere, sacco a pelo in spalla, i due isolati della La Salle che portavano sulla Fourth Street, in direzione sud. Monty tornò dietro il bancone e disse al direttore: – È entrato dritto nel Gold Dollar.
Il direttore non alzò gli occhi dalla posta.
Due cowboy del Circle-Eye, un ranch sul San Pedro che riforniva di manzi la compagnia mineraria, sedevano a un tavolo davanti alle loro birre. Uno si chiamava Macon e l’altro Wayman, giovanotti che guardavano il negro da sotto i cappelli macchiati di sudore e calati sugli occhi. Eccolo là, col barista che gli parlava versandogli un whisky e continuava a parlargli mentre lui si scolava il bicchiere e il barista gliene versava un altro. Macon chiese a Wayman se avesse mai visto un negro in giacca e cravatta. Wayman disse che no, proprio non se lo ricordava. Il tempo di finire le birre e accostarsi al bancone, e il tizio di colore se n’era ormai andato. Macon chiese al barista chi cazzo pensava di essere, quel muso di carbone, per entrare là dentro in quel modo. – Lo avresti fatto più uno da bar di minatori.
Il barista parve sorridere, forse perché gli era suonata buffa la considerazione di Macon. – Ragazzi, quello era Bo Catlett, – disse. – Mi sa che Bo è uno che beve quel che gli pare nei posti che gli pare.
– Perché? – chiese Macon, sorpreso. – È uno importante?
– Bo abita su a White Tanks, – gli disse il barista. – All’agenzia indiana. È andato in guerra e adesso è tornato.
Macon strizzò gli occhi seminascosti dalla tesa del cappello. – Nessuno mi ha detto che c’erano dei negri, in guerra –. Come se fosse colpa del barista, che nessuno l’aveva informato. E quando il barista non aggiunse verbo per chiarigli le cose, disse: – Wyatt, il fratello di Wayman, è stato in guerra con i Rough Riders di Teddy Roosevelt. Solo che Wyatt non è tornato a casa come il negro.
Wayman, che non aveva più di diciott’anni, si era messo ad annuire.
Visto che tutta quella storia per lui non aveva senso, Macon si stava incazzando. – Hai mai visto un negro vestito in quel modo? – ripeté a Wayman. – Cristo santo.
Bo Catlett risalí La Salle Street cercando di non sforzare troppo la gamba sinistra, anche se la sua zoppia – causata dalla pallottola di un Mauser o dal chirurgo del reggimento che gliel’aveva estratta dall’anca – era appena visibile. Si mise a fissare gli impianti minerari che si stagliavano contro il cielo, brutti, certo, ma con qualcosa di monumentale: ce li aveva proprio davanti, tutti su per la collina, l’impalcatura del pozzo principale e gli uffici della compagnia, più in basso il mulino di frantumazione, gli scarti delle estrazioni ammassati in lunghe montagnole che andavano a finire ai confini della città. Un posto deprimente, buio e desolato; gli operai risalivano la collina dalle loro stanze in affitto di Mill Street per passare sottoterra metà della loro vita, già sepolti prima ancora di tirare le cuoia. Con tre whisky in corpo, Catlett ritornò all’hotel sull’angolo della Second Street, alzò gli occhi sullo striscione che recitava Viva il capitano Early, e gli scappò una risatina. L’eroe di San Juan Hill, col cazzo.
Catlett imboccò gli scalini della veranda, dove lasciò cadere il sacco a pelo e prese una delle sedie a dondolo che vi erano allineate, il portico deserto, ormai quasi mezzogiorno ma nessuno a sedere, niente commessi viaggiatori in visita alla La Salle Mining del New Jersey, compagnia ancora in attività ma sempre più a corto di rame da vendere e che adesso si limitava ai turni di giorno. Le sedie a dondolo, tutte in verde scuro, avevano bisogno di una mano di vernice. Erano di vimini, comunque, e belle comode, e cigolavano che era un piacere, avanti e indietro, avanti e indietro... Bo Catlett vide due tizi a cavallo risalire la strada, un paio di cowboy... Si chiese quante volte si fosse piazzato su una vera sedia dal venticinque aprile, ovvero da quando era stata dichiarata la guerra e lui aveva lasciato l’Arizona per andare in cerca del suo vecchio reggimento, ne aveva seguito le tracce fino a Fort Assinniboine nel dipartimento dei Dakota, poi dritto attraverso il Paese fino a Camp Chickamauga in Georgia e da lí fino a Tampa, dove finalmente l’aveva raggiunto e dove il tenente John Pershing, dopo aver guardato il suo stato di servizio – ventiquattro anni – l’aveva proposto come sergente maggiore dello squadrone. E non sembravano ventiquattro anni qualunque…
A partire da quando si era aggregato ai First Kansas Colored Volunteers nel 1863, quindicenne. Ferito a Honey Springs, lo stesso anno. Aveva sorvegliato prigionieri nemici a Rock Island, preso parte all’occupazione di Galveston. Poi, dopo la guerra, era stato spedito nel Decimo Cavalleria (tutti neri) nelle zone di frontiera, Territorio dell’Arizona, a trattare con gli Apache ostili. Nel 1887 era andato in Messico col tenente Brendan Early di Fort Huachuca – Bren e una guida a contratto chiamata Dana Moon, adesso agente indiano alla riserva di White Tanks – e ne era tornato con un Mimbreño di nome Loco, un Apache rinnegato con un occhio solo, e con la donna bianca che Loco aveva rapito (e che poi aveva sposato Dana Moon), e tutti quanti erano finiti con la foto sui giornali. Congedato lo stesso anno, 1887... Aveva guidato un carro per la Hunting Expeditions Incorporated del capitano Early, prima di andarsene a lavorare per Dana a White Tanks. Quella sera si sarebbe seduto sulla veranda di Dana, con un bicchiere di mescal, e Dana gli avrebbe detto: «Be’, ormai le hai viste proprio tutte, e immagino che ti sia passata la voglia di restare da queste parti». La sua risposta: ormai ne aveva viste di tutti i colori, già da un bel pezzo, e non è che fosse rimasto poi tanto impressionato. E proprio in quel momento un’altra voce, non quella di Dana, lo apostrofò:
– Cosí sei stato in guerra, eh?
Era uno dei cowboy. Ancora a cavallo, un piccolo quarter horse rossiccio, accanto alla ringhiera della veranda , appoggiato al pomo della sella per far vedere quanto fosse a suo agio, cappello calato sugli occhi che fissavano Catlett sulla sedia a dondolo. L’altro, sempre a cavallo – un baio, nel suo caso –, si teneva più verso il centro della strada, quasi per mettersi in disparte. Non era a suo agio, ma irrequieto. Catlett si ricordò di averli visti al Gold Dollar.
– Cos’è che ci facevi, laggiù a Cuba? – disse quello più vicino.
Intendeva un uomo di colore. Cosa ci faceva, un uomo di colore. Come quasi tutti, non sapeva niente dei soldati neri in guerra. E ’sto ragazzo che lo guardava a occhi socchiusi aveva la stazza e magari l’ostinazione di voler dire tutto ciò che gli pareva, o di usare un tono di voce studiato per infastidire il suo interlocutore. Proprio come in quel momento.
– Cos’è che ci facevo, laggiù? – disse Catlett. – Quello che ci facevano tutti. Ero in guerra.
– Badavi al bestiame dei Rough Riders?
– Com’è che ti è venuta ’sta idea?
– Ti ho fatto una domanda. Era questo che facevi? Badavi al bestiame?
Catlett decise di comportarsi da persona civile, per vedere se magari quel ragazzo si toglieva dai piedi. – Di bestiame non ce n’era, – disse. – I Rough Riders, anche i famosi Rough Riders, andavano a piedi. Gli unici con i cavalli erano quelli dell’artiglieria, per tirare i carri di munizioni con sopra le Hotchkiss e i macinacaffè. Cioè le Gatling, «macinacaffè» era un soprannome. E poi, vediamo... – continuò Catlett. – Ah sí, c’erano anche dei muli, ma io non badavo alle bestie di nessuno.
– Suo fratello era un Rough Rider, – disse Macon, alzando una mano per indicare col pollice Wayman. – Sotto il colonnello Teddy Roosevelt, ed è morto in un’imboscata. Solo cosí sanno combattere, i mangiatortillas. Vorrei sapere cos’è che faceva, la tua gente, mentre suo fratello Wyatt ci lasciava le penne.
La tua gente. Guardalo, come cerca d’attaccar briga.
– E secondo te è colpa mia, se lui s’è fatto ammazzare?
– Ti ho chiesto cos’è che facevi.
E non c’entrava neanche, quel ragazzo. Be’, vediamo di dargli una lezione, pensò Catlett, e disse: – Las Guásimas. Mai sentita nominare?
Il ragazzo lo fissò con gli occhi mezzi chiusi. Sospettoso, oppure vuole convincermi che fa sul serio, pensò Catlett. Sguardo attento e cattivo; difficile fargli passare qualcosa sotto il naso.
– Cos’è, un posto da quelle parti?
– Esatto, Las Guásimas, è là che è successo. Sulla strada per Santiago de Coo-ba. Sedici uomini uccisi, quel giorno, quasi tutti a fucilate, e una cinquantina di feriti. Solo che non è andata come hai detto tu, non era un’imboscata degli spagnoli. Sono stati più i Rough Riders, a non badare a dove stavano andando.
Il cowboy, Macon, disse: – Cristo santo, stai dicendo che i Rough Riders non sapevano cosa facevano? – Come se fosse impossibile crederci, a un simile discorso.
– Magari un’idea ce l’avevano, di cosa stavano facendo, – disse Catlett, – solo che non era la cosa giusta da fare. Capisci la differenza? – E pensò: ma che glielo spieghi a fare? Col ragazzo che lo guardava ancora di traverso, pronto a difendere i Rough Riders. Insomma, se era cosí orgoglioso degli uomini di Teddy, perché non c’era andato anche lui, con loro?
– Guarda, – disse Catlett, cercando di suonare calmo, – è andata che gli spagnoli avevano messo dei tiratori scelti tra quegli alberi, un boschetto di manghi e palme cosí fitto che non ci si vedeva un accidente. Capito? Li avevano nascosti là dentro, uomini in gamba, con dei Mauser di quelli a cordite. Gli uomini di Teddy scendono lungo un crinale pieno zeppo di quegli alberi e vanno dritti a sbattere negli spagnoli, e questi ne fanno passare un po’ e poi saltano addosso agli altri. Quindi, sí, in un certo senso è stata un’imboscata –. Catlett si fermò. – Noi eravamo più giù, sulla strada, e quando ci rendemmo conto di quel che succedeva andammo in quella direzione –. Tacque di nuovo, gli era tornata in mente una cosa che aveva detto il cowboy e che gli dava fastidio. – Non c’è nulla di male, in un’imboscata, – disse. – Com’è ’sta storia, che non sarebbe corretta? Se riesci a prepararla e a tenere i tuoi uomini al sicuro, falla pure. C’era un capitano, con i Rough Riders, secondo lui un ufficiale non doveva mai mettersi al riparo, doveva restarsene lí a dare l’esempio ai suoi uomini. Non c’è pallottola spagnola capace di ammazzarmi, aveva detto quel capitano. Poi è uscito allo scoperto e se n’è beccata una in testa.
Una coppia di cowboy simile a quella a cavallo era uscita dal ristorante cinese frugandosi tra i denti con uno stecchino, per poi fermarsi a vedere cosa succedeva. Altra gente era uscita dall’hotel e si era fermata sui gradini.
Catlett se ne accorse e tacque di nuovo, cosí da chiarirsi bene le idee e dire come certe compagnie del Decimo e del Primo, esercito regolare, si fossero tolte dalla strada per poi risalire il pendio aprendo il fuoco e mettendo in fuga gli spagnoli, prima che i Rough Riders finissero tutti quanti a brandelli; i Rough Riders che erano dei volontari, quindi privi d’esperienza in quel genere di situazioni, e proprio per questo non sapevano un cazzo di come si avanza in territorio nemico o, diciamo le cose come stanno, di cosa ci facevano lí a Cuba; gente che era andata in cerca di gloria e si era ritrovata preda di tiratori scelti armati di Mauser e di zanzare con febbre gialla incorporata. Insomma, raccontagli per filo e per segno com’è andata, a questi cowboy. Il generale Wheeler, il «Fightin’ Joe» dei Confederati nella Guerra Civile, adesso un vecchio con la barba bianca, trentatre anni dopo, vede gli spagnoli battere in ritirata a Las Guásimas e dice: «Ragazzi, li abbiamo fatti scappare, ’sti Yankees». Uno come lui, a guidare una battaglia...
Raccontagliela tutta, la storia, già che ci sei, torna a quando sei rimasto per un mese nella stiva della nave a Port Tampa, col divieto di scendere a terra per paura di provocare qualche incidente coi bianchi, che non volevano gli uomini del Decimo nei loro negozi e nei loro caffè a mettere in fuga i clienti. Diglielo... cosí sbarchiamo a Cuba in un posto chiamato Daiquirí... e ancora diceva a se stesso: statemi a sentire. Era il Decimo a Daiquirí, il Nono a Siboney. Reggimenti di cavalleria dalla lunga esperienza, che vengono da zone di frontiera dopo trent’anni passati a trattare con ribelli e rinnegati, tagliagole e ladri di cavalli, indiani che scappano dalle riserve, insomma, arriviamo a Cuba e ci mettono a scaricare le navi, mentre gli uomini di Teddy partono subito per andare incontro al nemico e conquistare qualche medaglia, già, come no, sarebbero stati spazzati via a El Caney e San Juan Hill se non fossero arrivati i ragazzi di colore a salvare il culo del colonnello Teddy e dei suoi Rough Riders, a fargli vedere come si fa a risalire una collina e conquistare un fortino. A salvargli il culo, certo, cosí i Rough Riders potevano diventare gli eroi dell’America.
Tutto questo frullava nella testa di Bo Catlett, sulla quale pendevano gli striscioni di benvenuto al capitano Early.
Uno dei cowboy usciti dal cinese doveva aver chiesto cos’è che stava succedendo, perché il sapientone che aveva apostrofato Catlett aveva voltato il cavallo e si era messo a parlare, tornando ogni tanto a lanciare occhiatacce sotto il portico. I due del cinese se ne stavano coi pollici nella cintura dei calzoni, mentre il cowboy a cavallo li aveva infilati sotto le bretelle. Nessuno di loro portava cinturone o pistola. Poi quelli a cavallo scesero di sella e seguirono gli altri due lungo la strada fino a un posto chiamato Belle Alliance, un saloon da minatori.
Bo Catlett era abituato a sguardi carichi d’odio e indifferenza, a gente che lo fissava come se neanche esistesse. Il problema coi bianchi era che facevano fatica a credere che i neri avessero combattuto in guerra. Sulla propaganda d’arruolamento dell’esercito non si vedevano mai dei neri, cosí come i giornali non pubblicavano mai fotografie di soldati di colore. I neri non erano affidabili in guerra, questo credevano i bianchi. E perché mai? Certi neri uccidevano animali selvaggi, persino leoni, con una lancia. Mica con un’arma da fuoco. Con una lancia. E con la criniera ci facevano cappelli. Vedi un uomo di colore pronto ad affrontare un leone che arriva a tutta birra giù per la discesa, correndo come un treno, e lui se ne sta lí con la lancia in mano, neppure si muove, e ancora dici che la gente di colore non è affidabile?
Era uscita una storia, sui giornali, su Teddy Roosevelt: mentre era sulla Hill e si aggirava allo scoperto, aveva visto dei soldati di colore che se la filavano nelle retrovie, e allora aveva tirato fuori il revolver minacciando di sparare a tutti quanti. Poi aveva scoperto che andavano a rifornirsi di munizioni. I suoi Rough Riders erano inchiodati con la faccia a terra, sull’erba, sotto il fuoco dei tiratori scelti appostati nel fortino. Cosí il Decimo aveva fatto vedere, ai ragazzi bianchi, come si faceva a risalire la collina belli incazzati, in un turbine di pallottole e urla e frastuono, per spazzare via quei mangiatori d’aglio...
Avevano trovato Bren Early e la sua compagnia distesi tra le erbacce e gli sterpi. Su quella collina non c’era altro fino in cima, cespugli secchi e sabbia, difficile anche restare in piedi, in certi punti; nessuno riusciva a correre più di tanto, l’unica era tirarsi su dopo qualche metro e mettersi a sparare, cercando di coprirsi l’un l’altro. Avevano trovato Bren Early con un fischietto in bocca. Poi lui si era alzato e aveva preso a soffiarci dentro, a mulinare la spada – avanti, ragazzi, verso la gloria – e il proiettile di un Mauser l’aveva beccato dritto nel culo, visto come stava arringando i suoi, e Bren Early aveva mollato un grugnito, mollato la spada, ed era caduto a faccia in giù tra gli sterpi bestemmiando come un turco per la figura barbina di essersi fatto sparare dalla parte sbagliata. Bo Catlett era convinto che Bren Early non l’avesse visto, raccattare lui la spada. Già, l’aveva raccolta da terra e agitata davanti ai Rough Riders e ai suoi compagni del Decimo Cavalleria, e si erano tutti fiondati su per la collina urlando, e certi suoi compagni cantavano, cantavano There’ll Be a Hot Time in the Old Town Tonight. Cantavano e sparavano, com’è vero Iddio, e gli spagnoli erano scappati dal fortino a gambe levate. Alla sommità del crinale Catlett si era beccato una pallottola nel fianco destro, e l’avevano portato all’infermeria del Terzo Cavalleria, allestita sul fiume Aguadorse in un posto chiamato «guado di sangue», visto che era rimasto sempre sotto tiro, fino alla presa completa della collina. Catlett si ricordava di non aver mai mollato quella spada, neanche per un istante, mentre il chirurgo del reggimento gli cavava la pallottola dal fianco e lui cercava di non urlare, mordendosi la bocca a sangue. In seguito era stato rispedito a casa, e aveva passato un mese a Camp Wikoff, dalle parti di Montauk, Long Island, con una forma leggera di febbre gialla. Aveva visto il presidente McKinley, che era venuto a tenere un discorso il tre settembre e aveva detto che quel che avevano fatto a Cuba «richiedeva l’assoluta lode di tutti i vostri compatrioti». Fin quando non se n’era andato da Montauk ed era tornato alla vita civile, il sergente maggiore Catlett era stato davvero convinto che lui e gli altri membri del Decimo sarebbero stati considerati degli eroi.
Non vedeva l’ora che Bren arrivasse in città. Glielo avrebbe chiesto di persona, all’eroe di San Juan Hill, se gli faceva ancora male il culo e se era sommerso da tutte quelle gran lodi. E se Bren non fosse arrivato alla svelta, sarebbe andato a cercarlo in un’altra occasione. Nel frattempo, avrebbe preso un cavallo alla rimessa per tornare a White Tanks.
I quattro cowboy del Circle-Eye sedevano a un tavolo del Belle Alliance con una bottiglia di whisky Green River, e Macon guardava dalla vetrata. L’hotel era dall’altra parte della strada, poco più giù, ma il tizio di colore in giacca e cravatta era ancora seduto in veranda, e Macon riusciva a vederlo bene, a patto di dondolarsi sulle gambe posteriori della sedia e aggrapparsi al davanzale. – Nossignore, – disse, – nessuno me l’aveva detto che in guerra c’erano dei negri.
– Non riesce a buttarla giù, ’sta faccenda, – disse Wayman agli altri due cowboy.
Lo sguardo di Macon si staccò dalla vetrata. – Quello che è morto era il tuo, di fratello.
– Lo so bene, – disse Wayman.
– E non te ne frega niente?
Gli uomini del Circle-Eye lo videro lasciar cadere la sedia, che picchiò forte sul pavimento. Lo videro alzarsi senza aprire bocca e uscire dal saloon.
– Non ho mai avuto una grande opinione dei negri, – disse uno del Circle-Eye, – ma prendermela con loro come fa Macon mi sembra davvero troppo. Cos’è che ha?
– Una gran voglia di sparare a qualcuno, credo, – disse Wayman – Ricordi quando ha sparato a quel tizio di Nogales, quello che raccoglieva il chili? Si era caricato proprio allo stesso modo, Macon.
Catlett vide che il cercatore di rogne stava uscendo dal saloon per montare in sella, le redini del sauro avvolte con un solo giro attorno alla stanga. Redini che, comunque, non fece cenno di toccare. Ficcò invece una mano nella sacca della sella e tirò fuori quella che a Catlett parve una Colt .44. E poi udí:
– Solo gli ospiti dell’hotel hanno il permesso di sedersi qua fuori.
Catlett vide il cowboy che controllava la pistola, che ruotava il tamburo della sua sei colpi, il metallo che coglieva per un attimo il bagliore del sole, anche se la pistola sembrava un vecchio modello, tutto fuorché lucida.
– Devi andartene... subito, – disse Monty, il portiere, lo sguardo fisso su Catlett ma da una certa distanza.
Il cowboy stava guardando da quella parte.
Sta decidendo il da farsi, si convinse Catlett. Ah, ecco, adesso ha deciso.
– Ha sentito quel che ho detto?
Catlett guardò Monty con calma, e poi indicò la strada. – Lo vedi il giovanotto che sta arrivando, con la pistola? Muore dalla voglia di spararmi. Quelli che non stanno in albergo, dici tu, non possono sedersi qua. Allora com’è la faccenda, se non sono vostri ospiti gli si può sparare senza problemi?
Guardò il portiere che, indeciso se farsela addosso o far finta di niente, gli occhi sbarrati, girava su se stesso e filava di corsa nell’atrio.
Il cowboy, Macon, adesso se ne stava in mezzo alla strada, la sei colpi contro la gamba.
– Sei proprio un cattivone, eh? – disse Catlett, ancora sulla sedia a dondolo. – A te non la si fa, eh?
Il cowboy annuí, borbottando qualcosa che Catlett non riuscí a capire, e si voltò a guardare i suoi amici che erano usciti dal saloon e venivano su per la strada. Quando tornò a puntare gli occhi sulla veranda, vide Catlett in piedi e appoggiato alla ringhiera, accanto al sacco a pelo piazzato in verticale sul pavimento.
– Anch’io so essere cattivo, – disse Catlett, sbottonandosi la giacca. – E te lo voglio far sapere, prima che tu ti spinga troppo in là. Capito?
– Hai insultato il colonnello Roosevelt e i suoi Rough Riders, – disse il cowboy, – e hai insultato il fratello di Wayman, ucciso in battaglia a Cuba.
– Com’è che tu non c’eri? – disse Catlett.
– Ero pronto, non ti preoccupare, solo che la guerra è finita prima. Ma è di te che parliamo. Secondo me sei uno sporco negro bugiardo e non hai rispetto per quelli migliori di te. Voglio che ti scusi col colonnello e i suoi uomini e il fratello morto di Wayman...
– Oppure? – disse Catlett.
– Voglio una risposta, – disse il cowboy. – Sei armato? Se no, meglio che ti procuri una pistola.
– Mi vuoi sparare, – disse Catlett, – perché a Cuba io c’ero e tu no.
Il cowboy scuoteva il capo. – No, perché racconti balle. Ce l’hai una pistola o no?
– È una sfida, questa? – disse Catlett. – Vuoi un duello?
– Se non ti scusi. Altrimenti trovati una pistola.
– Ma se sono io a venire sfidato, tocca a me scegliere l’arma, o sbaglio? È cosí che funziona, per quel che ho visto in ventiquattro anni di servizio e due guerre nell’esercito degli Stati Uniti. Capisci?
Sotto la tesa del cappello, il cowboy aveva iniziato ad aggrottare la fronte, gli occhi socchiusi e puntati su Bo Catlett. – Pistola, ecco cosa.
– Se lo dico io.
– E che altro c’è?
Confuso, la faccia feroce.
Catlett fece scivolare la mano all’interno del sacco a pelo e cercò di tirarne fuori qualcosa, sotto gli occhi del cowboy, degli uomini del Circle-Eye in mezzo alla strada, del portiere e del direttore dell’albergo sulla soglia, e di parecchi ospiti dell’hotel che erano usciti sulla veranda, tutti a guardare Catlett che tirava fuori dal sacco a pelo una spada, una sciabola di cavalleria, la lama ricurva che brillò subito ai raggi del sole. Catlett passò davanti a tutta quella gente e scese dalla veranda per andare verso il cowboy in cappello e stivali con tanto di speroni che presero a tintinnare mentre lui si voltava per fronteggiare Catlett, più basso di Catlett, con l’aria nuovamente confusa e con la mano sulla sei colpi che portava al fianco.
– Se scelgo di usare la sciabola, – disse Catlett, – per te va bene?
– Io non ce l’ho, una sciabola.
Cattiveria, adesso, nel suo sguardo.
– Meglio che te la procuri, allora.
– Mai tenuta in mano una spada.
Irritato. E pure sbronzo, lo sguardo non a fuoco come avrebbe dovuto. Adesso si era messo a guardarsi alle spalle, a lanciare occhiate ai cowboy del Circle-Eye, come a voler chiedere consiglio sul da farsi.
Uno di loro, non Wayman ma uno degli altri due, gli gridò: – Ce l’hai o no, la .44 in mano? Cos’è che aspetti, allora?
Catlett alzò la sciabola e ne appoggiò la punta sullo sterno di Macon. – Tu usi la pistola e io la sciabola? Va bene, se è questo che vuoi. Vedi un po’ se riesci a spararmi prima che questa lama ti esca dalla schiena. Okay? Dài, parla, ragazzo.
Nella sala da pranzo dell’albergo, davanti a una tazza di caffè, Catlett udí il fracasso all’esterno, le acclamazioni che indicavano l’arrivo del capitano Early. Catlett rimase ad aspettare. Avrebbe voluto farsi riempire la tazza, ma le cameriere erano sparite, cosí come chiunque altro. Dopo una mezz’ora buona il capitano Early entrò nella sala da pranzo e si diresse al tavolo, staccandosi dai suoi accompagnatori. Catlett si alzò e i due si abbracciarono, sotto gli occhi del personale e degli ospiti dell’albergo. E fu proprio mentre lo abbracciava che Bren vide, alle spalle di Catlett, la sciabola posata sul tavolo, l’acciaio ricurvo sulla tovaglia bianca. Bren ne osservò con attenzione l’elsa, poi raccolse la sciabola suscitando l’applauso degli astanti. Il capitano rivolse loro un inchino e sedette col sergente maggiore.
– È con questa che sei arrivato in cima alla collina?
– A qualcuno doveva toccare.
– Mi hanno proposto per una medaglia. «Continuava ad avanzare sotto il fuoco nemico, con coraggio e sprezzo del pericolo, alla conquista della fortificazione spagnola nella battaglia di Las Guásimas, Cuba, il ventiquattresimo giorno del giugno 1898».
Catlett annuí. Poi disse: – Me la dice una cosa? A che serviva, questa guerra?
– Perché abbiamo combattuto gli spagnoli, intendi?
– Già. Me lo dica.
– Per liberare dall’oppressione la gente di Cuba. Sollevarla dalla dominazione spagnola.
– Ah, proprio come pensavo io.
– E sei andato in guerra senza sapere il perché?
– Più o meno lo sapevo, – disse Catlett. – È solo che non ero sicuro.
«Hurrah for Captain Early!», apparso per la prima volta in «New Trails. Western Writers of America Anthology», Doubleday, New York 1994.