La legge dei perseguitati
1.
Il primo a vederlo fu Patman. L’improvviso bagliore del sole sul metallo; poi, sul ripido fianco della collina, una scintilla che rimase immobile nell’accozzaglia di roccia e sterpi. Una scintilla ormai priva di riflessi, che non aveva alcun significato, ma per Virgil Patman quel bagliore metallico era stato più che sufficiente.
Sbuffò lentamente, lasciando cadere lo sguardo dalla scintilla sulla parete ripida per farlo vagare sugli spazi angusti che aveva davanti a sé, in maniera del tutto naturale. Ma continuò a serrare i pugni attorno alle redini. – Razza di stupido, – borbottò tra sé. Chi lo copriva era a una trentina di metri di distanza, o forse più, e a trenta metri un fucile può fare la sua parte di danni.
Il ragazzo non lo vede, pensò. Altrimenti si sarebbe già messo a sparare. Poi gli vennero alla mente altre parole. Perché ritieni che quel ragazzo sia più stupido di te?
Spostò il fianco sulla sella e voltò la testa. Dave Fallis era a pochi passi da lui, di lato. Si stava guardando le mani posate sulla parte piatta e larga del pomo della sella, immerso nei propri pensieri.
Patman tirò fuori il tabacco e le cartine da una tasca della giacca e rallentò il cavallo perché il ragazzo lo raggiungesse.
– Non alzare troppo in fretta la testa e non fare mosse avventate, – disse. Si passò la cartina sulla punta della lingua, poi le dette forma con un abile gesto delle dita ossute e macchiate dal sole. Non stava guardando il ragazzo, ma si era accorto che aveva alzato la testa di scatto. – Cos’è che ti ho appena detto?
Accese un fiammifero e lo mise davanti alla sigaretta di carta marrone. Aveva gli occhi sulla fiammella, e biascicò qualche parola con la sigaretta in bocca. – Dave, datti una calmata. Abbiamo un fucile puntato addosso. A forse cinquanta metri, di fronte a noi, e quasi in cima al pendio –. Gli porse l’occorrente per fumare. – Rollatene una, fa’ conto che sia una domenica pomeriggio sulla veranda di casa.
I loro cavalli avanzavano al passo costeggiando il lato sinistro, tutto di pietra liscia e quasi verticale. In quel punto, e a perdita d’occhio, il lato destro saliva con una notevole pendenza, in un ammasso quasi violento di ciottoli, rocce e sterpi, per raggiungere infine, in alto, un intrico di pini che qua e là costellavano anche la salita. Patman osservò il ragazzo che si infilava tra le labbra la sigaretta mezza storta per poi accenderla, con mano ferma e all’altezza del volto.
– Quando puoi, – disse Patman, – cerca di dare un’occhiata verso la metà del pendio, poco prima di quel canalone. Appena vedi una macchia gialla di fichi d’India, guarda sopra quell’ammasso di rocce e dimmi cosa vedi.
Fallis si calò il cappello sulla fronte e aguzzò la vista verso il fondo del canyon, prima di spostare noncurante lo sguardo su per il pendio. Il suo volto non mutò espressione, neanche una strizzata d’occhi, la tesa ben salda al livello delle sopracciglia. Un volto ossuto, dagli zigomi tirati e quasi cotto dal sole, ma giovane e con una bocca ben disegnata che sembrava quasi sempre pronta a sorridere, anche se non in quel momento. Poi il ragazzo abbassò lo sguardo sul passo e tirò una boccata dalla sigaretta.
– C’è qualcosa che brilla, lassù, ma non riesco a capire cos’è, – disse.
– È un fucile, ecco cosa. E diamo per scontato che dietro al fucile c’è qualcuno.
– Indiano?
– Dubito, visto che quell’arma brilla da quanto è lucida, – rispose Patman. – Tu continua ad andare avanti, e tienimi d’occhio. Ipotizziamo che sia un bianco e che si comporti come tale.
Fallis cercò di parlare con voce ferma. – E se spara e basta? – La domanda grondava eccitazione. Magari il ragazzo non ha la paura che ho io, pensò Patman. Giovane, e troppo eccitato per avere paura. A diventare vecchi, si perde fin troppo tempo nel fare le stesse cose che ti hanno tenuto in vita quando eri giovane. Ma perché continuo a pensare a lui? Ce l’ho anch’io una pelle, sai com’è.
Poi rispose: – Se spara, vedremo il da farsi, e tu potrai combinare la prima cosa che ti passa per la testa.
– Tipo saltarti addosso, – sorrise Fallis, – per averci trascinato in questo ginepraio.
Il volto segaligno di Patman parve diventare di pietra, con un sorriso triste sotto i folti baffi. – Se hai voglia di scherzare, – disse, – trovati qualcun altro.
– Quindi cos’è che facciamo, Virg? – Ora Fallis era serio. Quando non sorrideva, una simile espressione gli induriva il volto, con gli zigomi alti a sovrastare la mascella ben definita.
– Di scelte ne abbiamo poche, – disse Patman. – Se ci mettiamo a correre, o cambiamo direzione troppo in fretta, rischiamo sul serio di beccarci una pallottola. Mica vorrai rischiare che il tipo lassù sia uno nervoso? E se attacchiamo a sparare, qui attorno non c’è un solo riparo, se quello risponde al fuoco.
– Possiamo metterci dietro i cavalli, – udí dire al ragazzo.
– Preferisco farmi sparare, piuttosto che tornare a casa a piedi. Hai qualcosa da obiettare, se andiamo avanti e facciamo finta che non ci sia nessuno?
Fallis scosse il capo e deglutí. – Come vuoi tu, Virg. Magari è solo a caccia di tacchini... – Mise il suo cavallo dietro a quello del compagno più anziano, e i due costeggiarono la liscia parete del canyon fino a lasciare tre metri di distanza tra i due animali.
Avanzavano a schiena rigida per una semplice abitudine, ma con testa e braccia ben sciolte, tanto da suggerire una completa mancanza di tensione. In parte era un fatto naturale, anche questo dettato dalla consuetudine, in parte ciascuno cercava di far credere al compagno di non avere paura. Patman e Fallis si completavano bene. L’avevano imparato nell’esercito.
In quel momento, lo stomaco contratto, avevano le orecchie tese per captare ogni rumore. Nel silenzio quasi intollerabile, lo scalpitio degli zoccoli produceva un suono sordo. E ancora le orecchie tese.
Entrambi erano quasi sicuri che, da un momento all’altro, avrebbero udito la violenta esplosione di un fucile. Si preparavano al peggio, perché ogni altra cosa sarebbe stata rimediabile. Il suono dei sassi che rimbalzavano giù per il pendio li faceva sobbalzare, come un ammonimento a voltare la testa e alzare lo sguardo.
L’uomo era in piedi proprio là dove aveva detto Patman, il fucile puntato cosí da impedire la vista di ciò che stava sotto il cappello. Senza volto.
– Muovete un dito e siete morti! – La voce era forte e chiara. Poi l’uomo abbassò il fucile e disse: – Restate fermi, che scendo.
Si voltò e si fece largo tra le rocce sparse, finendo quasi per scivolare nel canalone che gli stava alle spalle. Quel canalone raggiungeva il fondo del canyon in maniera meno ripida, con rocce più sicure sulle quali poggiare i piedi e nocchiosi mozziconi di cespugli cui sorreggersi.
Per un attimo la testa dell’uomo scomparve alla vista, per poi riapparire alla stessa velocità. Il tizio esitò, tenendo d’occhio i due uomini sulla pista sotto di lui, e più avanti di circa cinque metri. Poi scomparve ancora in un tratto più profondo del canalone.
La mano di Dave Fallis saettò verso la fondina.
– Sta’ fermo! – Il sussurro di Patman era come un ringhio, sotto quei baffoni, e i suoi occhi guizzarono sul canalone. – Non è solo! Ti pare che sarebbe sparito in quel modo, altrimenti?
La mano del ragazzo tornò a scivolare sul pomo della sella, e il suo sguardo si alzò. Solo il vento caldo muoveva la sterpaglia.
Raggiunta la pista, l’uomo venne verso di loro con passetti brevi e gambe arcuate, il volto tenuto basso sul fucile alzato. Quando fu a una decina di passi dal cavallo di Patman, sollevò la testa e gridò: – Tutto a posto! – a qualcuno nascosto sopra le loro teste. Fallis udí Patman borbottare: – Mi prenda un colpo! – L’aveva riconosciuto, quell’ometto col fucile e le gambe storte.
– Ehi, Rondo! – Patman aveva sfoderato il suo triste sorriso. – Cos’è ’sta storia? Fai pagare il pedaggio a chi passa di qui? – Poi scoppiò a ridere, con un tono di sollievo. – Ti avevo già visto da un pezzo. La tua cassetta dei pedaggi brillava al sole –. Continuò a ridere e infilò la mano nella tasca della giacca.
Il fucile gli salí contro il petto. – Tieni quella mano bene in vista! – disse secca la voce dell’uomo.
Patman lo guardò stupito. – Che ti prende, Rondo? Sono io, Virg Patman –. Spostò il braccio di lato. – E lui è Dave Fallis. Abbiamo passato gli ultimi cinque anni insieme, nel Terzo.
Il volto baffuto di Rondo ricambiò lo sguardo, le profonde rughe immobili come scolpite nella pietra. Anche il fucile era immobile contro il torace di Patman.
– Ma che cazzo ti prende? – ripeté Patman. – Non te lo ricordi, che per due mesi a Fort Thomas sono stato io a portarti la sbobba?
Rondo aprí leggermente la bocca, e la sua barba si divise in due parti. – Tu non eri dentro, se ricordo bene.
Patman imprecò con un grugnito. – Cazzo, neanche te l’avessi affibbiata io, quella condanna! Razza di stupido, ma per chi mi hai preso? Ero un caporale, mica un giudice –. Si voltò verso Fallis. – Questo rubagalline dalle gambe storte spara a un indiano della riserva, si becca sessanta giorni di gattabuia e poi dà la colpa a me. Te lo ricordi, quand’era dentro?
– No. Mi sa...
– Giusto, – tagliò corto Patman. – Tu ancora non c’eri, all’epoca.
Rondo guardò alle loro spalle.
– Ma io sí –. Era di là che veniva la voce.
Era accucciato su un dosso che spuntava dal pendio, appena sopra le loro teste e circa tre metri dietro di loro, e sembrava che fosse appostato lí chissà da quanto. Nel guardarlo, a Fallis venne in mente un avvoltoio appollaiato su una carcassa ancora gonfia.
Erano la testa e la magrezza del corpo a dare quell’impressione. Aveva capelli scuri e tagliati corti, con un ciuffo pettinato in avanti che gli copriva la fronte e finiva, appuntito, nei pressi delle sopracciglia. Come i capelli, anche le estremità di un sottile paio di baffi puntavano verso il basso; baffi che avevano appena iniziato a crescere e gli allungavano la linea del viso, che era di carnagione giallastra e tutto contratto al riverbero del pomeriggio.
L’uomo saltò giù dal dosso con agilità, le braccia tese e una pistola per mano, anche se al fianco aveva solo una fondina.
Fallis lo guardava a bocca aperta. Indossava una camiciola stinta e dei calzoni ficcati in stivali al ginocchio. Attorno alla gola si era annodato una striscia di cotone rosso, proprio sopra lo scollo della camiciola. Il tutto sormontato da quella faccia giallastra, una vera morte secca. Fallis lo guardava perché non gli era possibile fare altrimenti. Per come muoveva il corpo e la testa, con una tracotanza quasi affascinante: era impossibile non guardare quell’uomo. E risaltavano, i suoi tratti, anche con un abbigliamento tanto sgangherato. Per come impugnava le pistole. Fallis se lo raffigurò come un capitano di cavalleria, la sciabola sguainata. Poi vide un bucaniere dalla barba nera.
– Me lo ricordo, io, quando Rondo era dietro le sbarre a Fort Thomas –. Aveva una voce brillante ma bassa, e scandiva moltissimo ogni parola. – Parecchio tempo prima che tu mi trascinassi a Yuma, o sbaglio?
Patman scosse il capo. La sorpresa gli aveva già abbandonato il volto. Scosse il capo con disincanto, come se tutto questo appartenesse a un lontano passato. – Se c’è ancora qualcuno con cui ho avuto a che fare per lo stesso motivo, tiratelo fuori e non perdiamo altro tempo –. Scosse il capo per l’ennesima volta. – È il giorno delle sorprese, questo. Sinceramente pensavo di non rivederti mai più, De Sana.
– Allora cos’è che ci fai, qui? – La voce partí nitida, ma si abbassò alla fine della domanda, come se il tizio avesse già deciso per quale motivo si trovassero lí.
Patman lo capí subito.
A Fallis ci volle un po’ di più, perché non conosceva tutti gli elementi, ma alla fine riuscí a capire anche lui e si mise a guardare a turno i due uomini, prima De Sana e poi Patman.
La voce di Patman era salita di tono. – Credi che stiamo cercando te?
– Quel che ho detto, – ripeté De Sana, – è cosa ci fai qui.
– Non stiamo cercando te, cazzo! Siamo stati smobilitati la scorsa settimana. Stiamo andando a ovest in cerca di un lavoro sui pascoli, oppure per firmare un contratto come cacciatori di bisonti.
De Sana lo fissava senza parlare. Le mani gli penzolavano ai fianchi, i due revolver in pugno.
– Cosa vuoi che me ne freghi, se sei evaso di galera? – gridò Patman, poi parve rilassarsi, darsi una calmata. – Ascolta, – disse, – siamo stati smobilitati, te l’ho appena detto. Dave, qui, ha fatto un solo periodo di ferma, e io ho più anni di esercito alle spalle di quanti mi piaccia ricordare. Ma adesso ne siamo fuori, e quel che combina l’esercito sono cazzi suoi. Lo stesso vale per te. Io posso scordarmi di te cosí, – e schioccò le dita, – perché tu, per me, non significhi nulla. E quel viaggio in treno da Willcox a Yuma, a mangiare polvere, posso scordarmi anche quello, perché mi è rimasto di traverso proprio come a te, anche se tu eri convinto di non avere il biglietto di ritorno. Sei della stessa fatta del tuo amico Rondo. Visto che facevo servizio di guardia su quel treno, pensi che sia colpa mia se ti hanno sbattuto a Yuma. Mi spiace, ma io ti ho trattato bene. Certi altri soldati ti avrebbero preso a calci nelle gengive solo per una questione di principio.
De Sana si inumidí con la lingua il labbro inferiore, con fare pigro, pensando al passato e, contemporaneamente, al futuro. Un uomo deve credere in qualcosa. In cosa, non ha importanza. Poi guardò i due uomini a cavallo e sentí il peso delle pistole che aveva in mano. C’era una facile scappatoia. Li guardò, mentre loro facevano altrettanto con lui, a disagio, e aspettavano una sua mossa.
– In cerca di un lavoro sui pascoli, eh? – disse con voce quasi impercettibile.
– Esatto. Oppure a cacciare bisonti. Gira voce che la ferrovia paghi fior di quattrini, – disse Patman.
– Come faccio a sapere, – disse lentamente De Sana, – che non vi fermerete dal primo sceriffo lungo la strada per gridare al lupo?
Patman tacque, muovendo le dita lungo la mascella. – Mi sa che dovrai prendere per buona la mia parola. Ovvero che ho una cattiva memoria, – disse infine.
– E il tuo amico, che razza di memoria ha? – disse De Sana, guardando storto Dave Fallis.
– Non ha mai visto pistole grosse come le tue, lui, – rispose Patman.
Rondo salí in groppa al cavallo di Patman e gli indicò la strada, su per lo stretto canalone che s’inerpicava a partire dalla pista principale per circa un quarto di miglio. Si diramava dal passo e saliva con tutta una serie di curve, ma a un certo punto piegava ad angolo per proseguire nella direzione da cui erano venuti. Alle ultime parole di Patman, Rondo si era messo a ridere. La tensione era svanita. Visto che De Sana aveva dato la sua approvazione, Rondo aveva fatto altrettanto, spingendosi perfino più in là e parlando di ospitalità e caffè e festeggiamenti, anche se nessuno degli altri tre era riuscito a sentirlo. Discorsi senza senso; ma utili a riempire il silenzio e allentare la tensione.
2.
Alla loro partenza, De Sana era rimasto a guardarli dal passo, ma quando Fallis voltò la testa scorse il fuorilegge che attaccava a risalire il canalone.
Alla fine del canalone, i tre uomini si ritrovarono in cima alla cresta, proprio sopra il punto in cui erano stati aggrediti. Qui i pini erano assai fitti, ma più avanti si diradavano, sparpagliandosi man mano che il terreno saliva e si faceva più roccioso.
Ritrovarono De Sana che li aspettava in mezzo agli alberi. Prima che lo potessero raggiungere, si era già voltato per fare da battistrada tra i pini. Fallis si guardò attorno, incuriosito; si sentiva addosso lo stesso disagio che aveva provato al primo incontro con De Sana. Poi riportò gli occhi di fronte a sé e vide la baracca a una quindicina di metri di distanza.
Era bassa, senza finestre e col tetto piatto, fatta di tronchi grezzi e irregolari tenuti assieme dall’adobe. Su un lato si apriva una tettoia che serviva per cucinare. Quando uscirono dai pini, una ragazza stava appendendo delle strisce di carne al basso soffitto, e nell’avvicinarsi la videro voltarsi con una mano sul fianco, mentre con l’altra si sistemava una ciocca ribelle.
Li guardava con aperta curiosità, come un bambino resta a fissare il mistero di una persona sconosciuta. C’era qualcosa in lei, una delicatezza di tratti e di corporatura che accentuava questo aspetto, che la faceva sembrare ancor più infantile, in quella sensibilità cosí evidente. De Sana le lanciò un’occhiata, e lei abbassò lo sguardo, tornando alla sua carne secca.
– Metti su il caffè, – le gridò. Lei annuí senza voltarsi. – Rondo, tu bada ai cavalli e torna al tuo posto.
Rondo aprí la bocca per dire qualcosa, ma ci ripensò; poi, quando prese le redini dei due cavalli e fece loro attraversare la piccola radura fino al corral, cercò di assumere un’espressione naturale. Il corral era un po’ spostato rispetto alla baracca, e se ne intravedeva una parte soltanto, mentre il resto era nascosto dai pini. A un’estremità della piccola area recintata c’era un capanno aperto su tre lati.
– È di Rondo, quello, – disse De Sana indicandolo. Mentre si avviava, chiamò di nuovo la ragazza. Questa volta, lei non scosse il capo. Fallis ebbe l’impressione di aver visto le sue spalle tendersi sotto lo stinto vestito grigio. Ma lei non si voltò, né rispose.
L’interno della capanna era identico all’esterno: tronchi grezzi tenuti assieme con adobe, e un pavimento in terra battuta. Un tavolo e due sedie, tutte crepate e rese grigie dall’età, erano piazzati proprio al centro della stanzetta. Nell’angolo più lontano, un pagliericcio, sul quale era ammucchiata una coperta. Lungo la parete opposta, un’asse era stata inchiodata alla parete per servire da tavolo di lavoro; accanto, tre scatoloni impilati fungevano da credenza e contenevano qualche capo di vestiario, tutto accatastato, confezioni di cartucce e cinque o sei bottiglie di whisky.
I due uomini guardarono De Sana che ficcava la sua seconda pistola in una fondina appesa vicino alla credenza. L’altra, ce l’aveva al fianco. Poi il fuorilegge prese dal ripiano una bottiglia mezza piena e si diresse al tavolo.
– Giusto in tempo, vedo –. Sulla soglia c’era Rondo, che sorrideva con una borraccia che gli pendeva dalla mano. – Dammi un rinforzino, jefe, tanto per starci un po’ meglio, su quel nido d’aquila.
De Sana alzò la testa di scatto e girò attorno al tavolo con aria minacciosa, gli occhi inchiodati sull’uomo nel vano della porta. – Torna giù al passo! – La mano gli scese verso la pistola, in maniera del tutto naturale. – Va’ a fare la guardia! Sei pagato per questo! E se ti fai scappare qualcosa, laggiù... – La voce si spense, ma per un istante tremò di eccitazione.
– Cazzo, Lew. Chi vuoi che ci possa trovare, qua? – obiettò Rondo in maniera poco convinta.
Patman lo guardò sorpreso. – I cani da caccia di Cima Quaine riuscirebbero a rintracciare un uomo fino in Cina.
– Cazzo, San Carlos è a cento miglia da qui. Nessuno è in grado di trovarci, a questa distanza, neanche la polizia apache.
– Non te lo ripeto una seconda volta, Rondo, – disse De Sana. Rondo guardò di sottecchi la mano sul calcio della pistola e si allontanò dalla soglia.
Ma nell’attraversare i pini, verso il limitare del canyon, si portò la borraccia all’altezza degli occhi e le dette qualche scrollone. Sentí il whisky che sciaguattava all’interno, e valutò che dovesse essere piena almeno per un terzo. Poi sorrise, togliendosi dalla mente quel truce volto giallastro. Per quanto gliene fregava, a lui, Lew De Sana poteva allegramente andarsene a fare in culo.
La ragazza teneva le dita infilate nei manici delle tre tazze smaltate e gli occhi bassi sul tavolo. Con l’altra mano posò il bricco del caffè e, subito dopo, le tazze.
– Sembra buono, – disse Patman.
Lei non rispose ma alzò per un istante gli occhi su di lui, per poi spostarli rapidamente sulla parte opposta del tavolo, là dove si trovava Fallis, e riabbassarli subito. Aveva leggermente voltato la testa, quanto bastava a Fallis per scorgere il livido sullo zigomo. Una chiazza blu scuro, che partiva da sotto l’occhio e si allargava, facendosi giallognola, nel morbido incavo della guancia. Quegli occhi scuri sembravano privi di vita, e forse pieni di paura. Fallis continuò a fissarla, notando l’estrema rassegnazione che le si leggeva in faccia ed era evidente anche nei gesti, nel modo di muoversi. Come se avesse alzato bandiera bianca, e non avesse alcun interesse per cosa poteva succedere. Poi, quando lei tornò a guardarlo in maniera del tutto casuale, Fallis notò di nuovo i suoi occhi: scuri e stanchi, con una certa voracità molto ben nascosta. No, non si trattava di paura.
De Sana prese la tazza appena riempita dalla ragazza e vi versò una bella dose di whisky. Posò la bottiglia sul tavolo e si portò la tazza alla bocca. Mosse le labbra, come per valutarne la qualità, e disse: – È freddo, – guardando la ragazza con un’aria che rendeva inutili altre parole. Poi rovesciò la tazza, versando il liquido scuro sul pavimento.
Che razza di idiota, pensò Fallis. Chi vuole impressionare? Spostò lo sguardo su Patman, ma l’ex caporale stava osservando De Sana come se rovesciare il caffè sul pavimento fosse la cosa più naturale del mondo.
La ragazza prese il grosso bricco, ma la mano le tremò per il peso e lo riappoggiò sul tavolo prima ancora di riuscire a mettere l’altra mano sul beccuccio.
– Venga, che l’aiuto, – propose Fallis. – È un bricco enorme.
Ma non appena lo prese alla ragazza, udí De Sana che diceva: – Giù le mani da quel bricco!
Fallis lo guardò, stupito. – Come? Volevo solo aiutarla.
– Le faccende di casa può sbrigarsele da sola –. La voce di De Sana era tranquilla. – Mettilo giù e basta.
Dave Fallis si sentí avvampare. Si chiedeva sempre se la furia, quando gli capitava di andare su di giri, gli si leggesse in volto. E certe volte, come per esempio in quel preciso istante, non gliene fregava un accidente. Il cuore prese a battergli più in fretta, assieme alla rabbia che gli faceva rizzare i capelli sulla nuca e salire certe parole alla bocca. Parole che doveva dire subito, e con forza, se voleva sentirsi meglio.
– Ma a chi cazzo crede di parlare? Le sembro il tipo da comandare a bacchetta? – Fallis si interruppe, ma continuò a guardare quel volto magro e giallo, sperando di farsi venire in testa qualcosa di buono da dire prima che gli passassero i cinque minuti.
Patman gli si avvicinò. – Datti una calmata, Dave, – disse con una risata che suonò fasulla. – Un uomo ha il diritto di mandare avanti casa sua come gli pare e piace.
Lo sguardo di De Sana passò in rassegna i due uomini, prima di tornare sulla ragazza. – Allora? – le disse. – Cosa stai aspettando? – E continuò a fissarla fino a quando lei non si decise a uscire. Poi aggiunse: – Amico, forse è il caso che ci fai due chiacchiere, col tuo ragazzo.
Fallis udí la voce di Patman. – Sangue irlandese, Lew. Tutto qui. Sai com’è, i giovani si infiammano alla svelta –. Fissò il vecchio cavalleggero – vecchio non più di tanto, ma sempre con il doppio dei suoi anni – e cercò di leggere bene nel suo volto triste dai baffoni cadenti, perché sapeva che non era il vero Virg Patman a parlare, a chiamare quello col suo nome di battesimo neanche fossero vecchi amici. Che gli era preso, a Virg? Sentí svanire la rabbia, rimpiazzata dallo stupore. E la cosa lo metteva a disagio, lo faceva sentire stupido, lí in piedi com’era, le mani sul piano del tavolo, impegnato in una guerra di occhiate con un pistolero pelle e ossa che lo guardava come si fa coi ragazzini e sembrava volergli dire che parlare con lui era tutto tempo perso. La cosa lo fece infuriare ancora di più, e non disse quel che aveva in mente per non passare da spaccone. Tutta pompa, tutta aria fritta, se paragonata alle gelide, sommesse parole di De Sana.
De Sana che disse: – Me ne frego, della sua nazionalità. Ma penso che faresti meglio a raccontargli le cose della vita.
Fallis si sentí avvampare per l’ennesima volta, ma Patman vide la mala parata e si inserí con la sua solita risatina.
– Cazzo, Lew, – disse, – siamo venuti a bere, quindi riprendiamo da lí. Nessuno cerca rogne.
De Sana si toccò pensieroso l’ombra scura dei baffi. – Già. Va bene, – disse poi, in fretta. E aggiunse: – Visto che siete qui, potete pure passarci la notte e andarvene domani mattina. Se avete provviste, con voi, tiratele fuori. Qui non si fa beneficenza. E fuori dai piedi, alle prime luci dell’alba. Capito?
Più tardi, durante la cena, De Sana parlò poco o niente, rispondendo a monosillabi alle domande di Patman. Non si rivolse mai a Fallis, e a Patman solo quando era indispensabile. Poi si alzò da tavola prima ancora di aver finito di mangiare. Si avviò alla porta mentre già si rollava una sigaretta. – Vado a dare il cambio a Rondo, – disse. – Voi restate qui, niente passeggiate in giro.
Fallis lo guardò attraversare la radura, e quando l’ebbe visto sparire tra i pini si voltò di scatto verso Patman, seduto al suo fianco.
– Ma che ti piglia, Virg?
Patman alzò una mano. – Adesso calmati. Sei troppo nervoso, cazzo.
– Nervoso? Cristo, Virg, in vita tua non sei mai strisciato davanti a un sergente maggiore come hai fatto poco fa con quel galletto. Quando eravamo al passo l’hai subito messo al suo posto, appena è saltato alle conclusioni. Adesso, invece, lo stai lisciando ben bene, neanche ti avesse spaventato a morte.
– Un momento –. Patman si passò le dita tra i capelli radi, un gomito sul tavolo. Aveva un’aria sfinita, e il volto un po’ equino sembrava crollare sotto il peso della tristezza. – Se vuoi fare il grosso, devi saper scegliere il momento giusto, altrimenti tutta la tua vanagloria non significa un beato cazzo. Queste colline sono piene zeppe di eroi, tanto che nessuno sa più dove piantarci sopra un fiore. Poi ti capita addosso un tizio uscito fresco fresco da Yuma, e anche con le maniere forti, uno che magari ogni sera spara alla sua stessa ombra e non si fida di anima viva perché rischia di farsi sbattere di nuovo in una cella di adobe. Intanto, là dentro ce l’avevano mandato perché aveva sparato a un agente indiano in una rapina. Non l’ha fatto secco, no, ma figurati se per lui sarebbe stato un problema... e non credere che non gli sia già successo.
Patman sbuffò e prese il tabacco dalla tasca. – Insomma, ti capita uno del genere, uno che tiene il conto dei suoi respiri come fai tu con i tuoi colpi di fortuna, e metti su una rissa perché non ti va come tratta la sua donna.
– Mica ci si può sempre far pestare i piedi e sorridere pure, – disse stizzito Fallis.
Patman soffiò via il fumo, un po’ stufo. – Forse il periodo di ferma ti ha fatto perdere i contatti con la realtà. Bande militari e via, nessun pensiero al mondo. Rincorrere una nuvola di polvere lasciata chissà quando dagli Apache non è come stare di fronte a Lew De Sana con un metro di tavolo fra te e e lui. Secondo me hai avuto culo.
Fallis raccolse il cappello e si avviò alla porta. – Vedremo, – disse.
– Aspetta, Dave –. Fallis si voltò, già sulla soglia.
– Certe volte bisogna scegliere il male minore, – disse Patman. – Che so, tra un pestone su un piede o una pallottola in pancia. Ricordati che quello ha una taglia sulla testa, Dave. È un tipo losco. E un’altra cosa. Non ci avrebbe messo niente, a piantarti una palla in mezzo agli occhi senza neanche smettere di bere il caffè.
La pazienza non era un articolo che veniva spontaneo, a Dave Fallis. L’inerzia gli dava sui nervi, e lo rendeva agitato come un animale in gabbia. La ferma nell’esercito gli aveva fatto proprio quest’effetto. Lavoretti del cazzo, sempre i soliti, e l’inerzia assoluta: nelle loro baracche cosí come nel piazzale infestato dalla polvere, durante l’addestramento. Una routine che diventava a tal punto parte di te da farti smettere ogni pensiero autonomo.
Ma la cavalleria ce l’aveva, un rimedio per quella inquietudine. Quattro giorni di pattuglia. Quattro giorni che a volte diventavano venti, e oltre alla cura rimettevano in gioco anche la malattia. Perché sella e tedio si accoppiano a meraviglia, e dodici ore a cavallo fanno saltar fuori la noia alla velocità del fulmine, soprattutto quando davanti agli occhi non hai altro che terreno piatto e desolato, immerso in un silenzio rotto solo dal monotono rumore degli zoccoli e foriero di nient’altro che polvere, e un puzzo di sudore che il giorno ti resta appiccicato e la notte ti si ghiaccia addosso. Dave Fallis era uno che si lamentava perché non succedeva nulla, perché di azione neanche a parlarne. E tutti gli dicevano che mica se ne rendeva conto, lui, dalla sua fortuna. Che mica lo sapeva, di cosa stava parlando, era solo un ragazzo. E niente lo faceva incazzare più di un uomo tanto ignorante da far valere il peso dell’età.
Adesso, sulla soglia, si mise a scrutare la radura. Si appoggiò allo stipite, i pollici nel cinturone, e decise di rilassarsi. Il sole gli era proprio davanti, sopra gli alberi, e gettava una morbida fascia di luce sulle scure colline in lontananza. Quello era un sole che si poteva guardare senza stringere gli occhi o calcarsi il cappello sulla fronte. Un sole che, tempo un’ora, sarebbe scomparso.
Vide apparire la ragazza, diretta al capanno di fianco alla baracca. Camminava con passo lento e svogliato.
Fallis si spostò dalla soglia e prese a bighellonare davanti alla baracca. Aspettava che lei entrasse nel capanno. E quando chinò il capo per entrare a sua volta sotto la bassa tettoia, trovò la ragazza impegnata a togliere dalla pentola pezzi di stufato di cervo e disporli su uno dei piatti di stagno.
Al rumore dei suoi passi, la ragazza si voltò rapida e gli finí quasi addosso, fermandosi giusto in tempo, la bocca appena socchiusa, il volto più in basso del suo ma a neanche trenta centimetri di distanza.
Al suo voltarsi, Fallis le fece un sorriso, che svaní quando si accorse che lei continuava a fissarlo, la bocca ancora socchiusa e invitante che ben si adattava ai tratti morbidi e delicati del naso e degli zigomi. Il livido, adesso, non si notava più di tanto, ma la sua presenza le conferiva una certa tristezza facendole, allo stesso tempo, brillare gli occhi castani che lo fissavano immobili.
Lui sollevò le mani per afferrarle le spalle, tirandola con dolcezza verso di sé mentre chinava il volto verso il suo. Lei cedette alla lieve pressione delle sue mani, avvicinandosi, e Fallis la vide gettare il capo all’indietro e chiudere gli occhi, ma quando lui chiuse i propri le spalle della ragazza si liberarono brusche dalla sua stretta. Poi i capelli neri e lisci, dritti fino alle spalle, le chiusero il viso come un sipario.
– Perché l’ha fatto? – Aveva una voce bassa e, ora che gli dava la schiena, a stento udibile.
– Ancora non ho fatto niente, – rispose Fallis, tentando di assumere un tono scherzoso. La ragazza non rispose e rimase immobile, la spalla vicina alla sua.
– Mi spiace, – disse lui. – Siete sposati?
Lei scosse il capo da una parte all’altra, con due secchi movimenti, ma non aprí bocca. Fallis la fece voltare con gentilezza, posandole di nuovo le mani sulle spalle, e nel girarsi lei abbassò la testa cosí da non farsi vedere in viso. Lui però le passò un dito sotto il mento, sollevandolo, e spostò la mano a toccarle il livido sullo zigomo.
– Perché non lo pianti? – le disse, in un mezzo bisbiglio.
La ragazza tacque per un istante, e abbassò gli occhi. – Non saprei dove andare, – disse infine. La sua voce recava tracce di un accento.
– Cosa c’è di peggio che vivere con lui e farsi picchiare come un animale?
– Mi tratta bene... il più delle volte. È stanco e nervoso e non sa quel che fa. Me lo ricordo, quand’era più giovane e veniva a trovare mio padre. Allora sorrideva spesso, e si comportava bene con noi.
Le sue parole scorrevano più veloci, adesso, come se fosse ansiosa di parlare, e alzò addirittura il viso per guardare quello di Fallis, gli occhi imploranti che sembravano dire: «Ti prego, credimi, dimmi che faccio bene».
– Mio padre, – proseguí, – aveva una piccola fattoria dalle parti di Nogales, che ricordo fin dalla mia prima infanzia. Lavorava sodo, ma come contadino non era un gran che, e ho sempre avuto la sensazione che si fosse pentito di essersi sposato e stabilito laggiù. Sai, mia madre era messicana, – e abbassò gli occhi quasi in segno di scusa.
– Un giorno arrivò un tizio che voleva comprare del caffè. Non ne avevamo, ma lui rimase a lungo a parlare con papà, e sembravano intendersela bene. Poi cominciò a tornare spesso, diciamo due-tre volte al mese, e ci portava sempre dei regali, certe volte perfino del denaro, che mio padre accettava e per me faceva malissimo, anche se ero una bambina. Poco dopo mia madre morí di malattia, e mio padre mi portò ad abitare a Tucson. E da allora cominciò a sparire per settimane intere in compagnia di quell’uomo, e quando tornava aveva dei soldi in tasca ed era ubriaco fradicio. Ogni volta che ripartiva, io mi mettevo a pregare la Madre di Dio, perché sapevo cosa stava combinando.
– Poi, una volta, partí e non tornò più, – nella sua voce c’era una traccia di disperazione, – e io iniziai a pregare per dare eterno riposo alla sua anima.
– Mi spiace, – disse Fallis a disagio, ma la ragazza proseguí come se non l’avesse neanche sentito.
– Qualche mese più tardi riapparve quell’uomo, e iniziò a trattarmi in un altro modo –. Il suo volto prese un lieve colore. – Come se fossi più adulta. Era gentile, mi disse che sarebbe tornato presto per portarmi via da Tucson e andare in un bel posto che mi sarebbe piaciuto... Ma passarono due anni, e una notte venne un tale che si chiamava Rondo, mi prese e mi portò da quell’uomo. Me ne ero quasi dimenticata. Mi aspettava fuori città, con dei cavalli, e mi costrinse ad andare con loro. Non l’avevo neanche riconosciuto, era cosí cambiato... d’aspetto, e anche di voce. Siamo qui da quasi due settimane, e solo qualche giorno fa ho saputo dove ha passato quei due anni.
All’improvviso, gli nascose il volto sul petto e attaccò a piangere in silenzio, tra i singhiozzi.
Fallis le circondò con le braccia le spalle sottili e la strinse forte a sé. – Non piangere, – le borbottò tra i capelli, e strinse gli occhi per farsi venire in mente qualcosa da dirle. Nel sentirsi addosso il suo corpo tremante, riuscí solo a immaginarsi una ragazzina sorridente e dai capelli scuri che guardava stupita lo spensierato, generoso americano che le piombava a cavallo davanti a casa con una sacca piena di regali. E poi la ragazzina non sorrideva più, aveva uno zigomo bluastro e teneva in mano due litri di caffè. E lo spensierato americano era diventato una morte secca giallastra che lei chiamava solo «quell’uomo».
Col viso contro il petto di Fallis, la ragazza riprese a parlare. Dapprima lui non riuscí a distinguere le parole, incoerenti in mezzo alle lacrime, poi si rese conto che lei stava ripetendo all’infinito: – Non mi piace. Non mi piace –. Come farà a usare parole cosí semplici? si disse. Poi le sollevò il capo – lei aveva ancora gli occhi chiusi – e premette le labbra contro le sue. Solo allora il «Non mi piace» cessò.
Malvolentieri, la ragazza si staccò da Fallis, il volto in fiamme, smorzando il sorriso sulla faccia di lui, disse: – Adesso devo andare a far legna per domattina.
Ma il sorriso tornò non appena Fallis abbassò lo sguardo sul suo volto da bambina, adesso cosí serio. Prese l’accetta dalla legnaia e assieme si avviarono nella radura, tenendosi vicini.
Virgil Patman, sulla soglia, li guardò sparire nell’oscurità dei pini.
Be’, che intendi fare? Forse non è sempre la soluzione migliore, pensare agli affari propri. E il ragazzo sembra cavarsela benissimo a pensare a quelli altrui. Eppure, rifletté, certo che le sta proprio complicando, le cose. Fissò la luce gelida e immobile della prima sera e sentí ancora una volta la sua stessa voce. Gli hai dato un sacco di consigli, ma non è che hai fatto davvero qualcosa di concreto, per lui. È un bravo ragazzo. Si merita una possibilità. Se prende una cotta dopo cinque minuti, saranno affari suoi. Perché non cerchi di dargli una mano?
Patman sbuffò, esausto, e rientrò nella baracca. Sfilò la pistola di De Sana dalla fondina appesa al muro e se la ficcò nei calzoni. Prese la scatola di cartucce dalla credenza, tenendola in braccio, e raccolse anche un Winchester che vide casualmente in un angolo e del quale non si era accorto. Girò attorno alla tettoia e passò sul retro della baracca, per poi infilarsi tra i pini nelle immediate vicinanze. Tempo qualche minuto, ed era rientrato nella baracca, scuotendosi la sabbia dalle mani. Niente di che, pensò, ma forse potrà servire. Prima di mettersi a sedere e farsi un drink tirò fuori la pistola e la mise sul tavolo, a portata di mano.
3.
Two Cents la conosceva bene, la pazienza. Per lui era naturale come il respiro. E non riuscí a trattenere un sorriso, alla vista dell’uomo bianco che, a una trentina di metri di distanza e poco più in alto di lui, sulla parete opposta, faceva spuntare la testa sopra le rocce, concentrandosi sulla pista che, in fondo al canyon, si infilava nel passo. Rondo stava di guardia, come gli aveva ordinato De Sana, e se il suo sguardo vagava dall’altra parte del canyon, era solo per riportarlo subito sulla sua postazione e per lanciare una veloce occhiata alla sterpaglia e a quella roccia liscia, quasi verticale.
Two Cents aspettava e osservava, scrutando quell’uomo bianco che non sapeva nascondersi. Magari sta facendo da esca, pensò, per coglierci di sorpresa. Serrò le labbra, cancellando il sorriso. Vide la testa dell’uomo voltarsi a guardare gli alberi che lo sovrastavano. Poi la testa tornò dritta e l’uomo si portò alla bocca la grossa borraccia. Two Cents aveva tenuto il conto, ed era la sesta volta che capitava, nell’ultima mezz’ora. Quella sete doveva essere di fuoco.
Sentí una mano sulla caviglia e iniziò ad allontanarsi dall’orlo del canyon, avviluppato dalla sterpaglia. Si ritrasse con cautela, per evitare cadute di sassi che potessero rivelare la sua presenza, e annuí una sola volta in direzione di Vea Oiga, che gli strisciò accanto per prendere il suo posto.
Una decina di metri più indietro, dove il terreno iniziava a discendere, si alzò in piedi e si girò a guardare Vea Oiga. Anche a quella breve distanza riusciva a malapena a distinguere la figura accucciata.
Si sfilò la cartucciera da sopra la testa e si tolse con cura la giacca azzurra e scolorita, lisciandone le maniche prima di deporla sul terreno, piegata, accanto a quella di Vea Oiga. Se si comportava da valoroso, pensò, magari Cima Quaine gli avrebbe messo un riconoscimento dorato sulle maniche. Notò che anche Vea Oiga aveva piegato la sua giacca, cosí da lasciare le tre strisce d’oro rivolte verso l’alto. Forse non tre tutte in una volta, perché Vea Oiga ci aveva messo degli anni, a ottenerle, ma solo una. Chissà come ci sarebbe stata bene. E senza dubbio Cima Quaine avrebbe dovuto riconoscere la loro bravura nello scoprire quell’uomo sul passo.
Meno di un’ora prima avevano percorso la pista fino al punto in cui, dopo una serie di curve, s’infilava nel passo; poi si erano fermati, per tornare indietro fino a una sorta di frana che, a risalirla, portava alla sommità del canyon. Avevano legato i cavalli e, a piedi, erano arrivati sul bordo del canyon, proprio di faccia al pendio opposto. Era stata una cosa naturale, fatta senza pensarci due volte, perché in primo luogo era il loro mestiere, e anche perché – se avessero progettato un’imboscata – avrebbero scelto esattamente quel punto, dove il passo si restringeva e per una trentina di metri si viaggiava allo scoperto. Qualche minuto dopo il loro arrivo, era apparso Rondo in un acciottolio di sassi, in piedi e in bella vista.
Vea Oiga gli aveva sussurrato il da farsi dopo aver scrutato l’uomo bianco per un po’. Quindi era tornato indietro a prepararsi. Con Cima Quaine e il resto degli scout coyotero a meno di un’ora di distanza, avrebbero fatto appena in tempo a sistemare le cose e dedicarsi al lavoro sporco di togliere di mezzo la sentinella. Two Cents sperava solo che il capo degli scout si sbrigasse, cosí da essere lí quando lui si sarebbe arrampicato a beccare il bianco di guardia. Lanciò l’ennesima occhiata alla sua giacca di cavalleria, dismessa da chissà chi, e si immaginò il gallone dorato sulla manica; ai suoi occhi era vivido e solenne come i gradi di sergente di Vea Oiga.
Poi si mise a guardare le punte ricurve dei propri mocassini, e sciolse i lacci che li tenevano fermi sotto il ginocchio, arrotolandosi i calzoni sopra la rotula. Infine li allacciò di nuovo. Si strinse il perizoma in vita, si sputò sulle mani una mezza dozzina di volte, sfregando la saliva sulle braccia e sul torso fino a farne luccicare il colore marrone spento. Quando ebbe finito di inumidire ogni tratto visibile della persona, si gettò a terra per rotolarsi nella polvere, sfregandosi il volto e le braccia con la sabbia che si era attaccata alla pelle umida.
Infine si mise in ginocchio e rimase immobile come una pietra o un ceppo, il corpo dello stesso colore di tutto ciò che gli stava attorno e, adesso, parimenti immobile e irreale nella sua concentrazione.
Lentamente alzò le braccia verso il cielo sempre più opaco, e i suoi pensieri salirono a U-Sen. Supplicò la divinità di dargli la forza di comportarsi da valoroso, nelle sue azioni future, e se era la volontà di U-Sen che dovesse morire quello stesso giorno, magari lui sarebbe stato felice che non accadesse dopo il tramonto. Essere ucciso di notte significava vagare nelle tenebre eterne, e nella sua immaginazione non c’era nulla di più terribile, soprattutto se per mano di un uomo bianco disprezzato anche da tutti gli altri suoi simili.
Quando Two Cents fu scomparso tra le rocce, in basso, Vea Oiga si allontanò dall’orlo del canyon fino a che fu sicuro di non poter essere visto. Poi corse via, accucciato, scartando tra il mesquite e i macigni, per trovare un nuovo punto lungo il bordo, fitto di sterpi. Da lí si scorgevano ancora la testa e il fucile di Rondo, ma adesso Vea Oiga riusciva a vedere, in basso a destra, il tratto in cui la pista entrava nel passo. Rimase a terra, immobile, a osservare l’uomo bianco; fin quando non udí il richiamo – una sorta di sommesso ululato – arrivare dal fondo del canyon. In quell’istante scrutò Rondo con maggiore attenzione e vide la testa dell’uomo sollevarsi di scatto per guardare nella direzione da cui era giunto il suono; dopo qualche secondo però la testa sparí di nuovo, rassicurata. Vea Oiga sorrise. Adesso toccava a lui.
La figura dalla parte opposta del canyon rimase immobile più a lungo del solito, ma alla fine lo scout vide la testa tornare a muoversi, lentamente, per guardare indietro e in alto, verso i pini. Vea Oiga rotolò su un fianco e portò le mani a coppa davanti alla bocca. Quando vide la borraccia alzarsi al livello del volto dell’uomo, lasciò partire un fischio tra le mani unite, un suono che parve quasi un lamento e che rimase sospeso in aria come se venisse dal nulla. Rotolò ancora, in tempo per scorgere Two Cents che dalla pista sfrecciava nel passo, fino alla parete opposta. Two Cents rimase immobile alla base della parete per qualche minuto, poi iniziò a risalirla poco per volta, sotto lo sguardo del suo sergente.
Quando Vea Oiga ebbe completato il suo giro per raggiungere la confluenza tra pista e passo, Two Cents era arrivato quasi in cima. Vea Oiga si appiattí contro la parete e sporse leggermente la testa dietro l’angolo, per osservare il passo. Vide del movimento. Un dosso – che sporgeva dal terreno – parve spostarsi di qualche metro e poi fermarsi. E ben presto poté osservare quella montagnola che strisciava proprio sotto il punto in cui era piazzato l’uomo bianco, e sparire nel canalone che saliva per la ripida parete, appena dopo la macchia gialla dei fichi d’India. E al di sopra di quei fiori gialli, il fucile non si scorgeva più. Una chiazza rossa che si allargava in cielo, dietro i pini, era tutto quel che restava del sole.
Vea Oiga si girò in fretta e risalí di corsa la pista. Si fermò su una cengia e guardò verso la pianura, punteggiata in lontananza di colline. I suoi occhi si mossero lentamente, tracciando un piccolo arco, per poi fermarsi. Ecco! Sí, ne era certo. Forse erano a tre miglia di distanza, ma non di più, il che significava che Cima Quaine li avrebbe raggiunti in quindici, venti minuti. Ma Vea Oiga non aveva tempo di aspettare il resto della compagnia. Corse di nuovo all’imboccatura del passo dove, su un lato della pista, dispose tre pietre l’una sull’altra. Su quella in cima, e alla base di quella in basso, tracciò dei segni col coltello, dopo di che si lanciò verso le stesse rocce dalle quali aveva osservato l’avanzata di Two Cents. E, mentre il suo sguardo si spostava oltre le rocce, scorse un movimento dietro e sopra la postazione dell’uomo bianco, come se qualcosa gli stesse franando in testa.
In quell’istante, Vea Oiga si mosse come un’ombra sul passo. L’ombra risalí in fretta il pendio e ben presto scomparve tra le pietre e l’oscurità dei pini sparpagliati lungo la salita.
Nell’attraversare la striscia di sabbia, Lew De Sana provava una sensazione sgradevole. Niente di nuovo, solo l’intensificarsi del nervosismo che l’aveva invaso fin dall’arrivo dei due uomini. Come se ogni parte del suo corpo sapesse che qualcosa stava per accadere, ma non fosse disposta a rivelarlo al cervello. E, pensandoci su, si rese conto che no, non poteva farlo risalire all’arrivo di quei due. Se lo portava dentro fin dal primo giorno dei suoi due anni a Yuma, ed era aumentato d’intensità la notte in cui Rondo l’aveva aiutato a fuggire, per poi raggiungere una forza dilaniante la notte, a nord di Tucson, in cui avevano portato via la ragazza.
Era una sensazione che non capiva. Per questo era preoccupato. Il nervosismo andava e veniva, ma ogni volta che tornava gli sembrava più forte, e quando se ne andava gli sottraeva sempre qualcosa. Una parte del suo essere sulla quale era abituato a far conto.
Va detto che, in questi momenti d’introspezione, De Sana era onesto con se stesso. Ed era senz’altro quella onestà che lo rendeva capace di guardarsi dentro a tal punto da esserne spaventato, ma sempre con una nitidezza insufficiente a fargli capire come stavano le cose. La sua reputazione, se la ricordava bene. Nervi d’acciaio e una fondina girevole che sapeva usare al meglio. Prima di finire a Yuma, certe volte gli era bastata la reputazione. E, più spesso, aveva sperato che sarebbe bastata quella, perché mica era cosí scemo da votarsi mani e piedi solo alla reputazione. Ma ogni tanto gli capitava di doversi dimostrare all’altezza della sua fama, e in qualche occasione era stata dura.
Adesso aveva dei dubbi. In due anni, la gente può dimenticare. E non poco. Quindi De Sana si chiedeva se avrebbe dovuto cominciare da capo per l’ennesima volta. Negli ultimi tempi aveva pensato che, se cosí stavano le cose, non se la sarebbe più cavata, anche se sapeva di essere ancora in gamba con la pistola e, volendo, poteva affrontare qualunque situazione. Ma si sentiva addosso una certa stanchezza, che cozzava con la tensione di un uomo braccato e lo lasciava confuso, quasi disperato e incapace di prendere iniziative.
Avanzava tra i pini con quei pensieri in mente, ammassati l’uno sopra l’altro tanto da essere tutti assurdi. Strinse forte gli occhi, per un attimo, e si passò la mano sul volto sfregandosi la fronte, come se quel gesto potesse placare il turbinio che aveva in testa. Toccò i capelli che gli pendevano sulla fronte, le guance emaciate e i baffi appena abbozzati. Rivide la cella di Yuma e imprecò sottovoce.
Nel muoversi sulla sabbia e gli aghi di pino, i suoi stivali facevano un suono ovattato, un leggero stridio; e, come se solo in quell’istante se ne rendesse conto, rallentò il passo e prese ad avanzare tra gli alberi con maggior cautela.
Su quel terreno friabile si sentí indurire i muscoli delle gambe. Poi si fermò. Rimase immobile, e la pistola gli apparve in pugno prima ancora che lui stesso si rendesse conto di averla estratta. D’istinto piegò le ginocchia e si accucciò; sporgendo il collo in avanti, cercò di scrutare tra la penombra degli alberi ma, se un attimo prima si era mosso qualcosa, adesso era già sparito.
Comunque attese qualche minuto, per esserne sicuro. Emise un lungo sospiro e abbassò la pistola. Non lo tollerava, tutto quel nervosismo. Era ancora colpa di quella strana stanchezza. Era stufo di nascondersi e di sfoderare la pistola ogni volta che il vento soffiava tra i rami. Fino a che punto può arrivare la sopportazione umana, pensò. Se il prezzo era vivere in quel modo, forse non ne valeva più la pena.
Stava per proseguire, quando lo vide di nuovo. La pistola saltò ancora fuori, e stavolta De Sana ne fu certo. L’aveva visto, un movimento, tra i rami degli alberi che gli si paravano di fronte, un’ombra che scivolava da un cespuglio all’altro, a una cinquantina di passi di distanza. E mentre si accucciava a ridosso del tronco di pino che gli aveva dato riparo, si sentí sollevato. Stava bene, il nervosismo era scomparso, e provava una sensazione diversa, qualcosa che non avvertiva più da chissà quanto. Sbirciò nell’intrico dei rami più bassi e vide una sagoma indistinta che, sul sentiero, veniva dritta verso di lui.
La guardò fermarsi ogni pochi metri, ancora avvolta dalla penombra, poi muoversi ancora un po’ prima di bloccarsi e guardare a destra e a sinistra, e perfino dietro di sé. De Sana sentí di nuovo stringersi lo stomaco, incapace com’era di distinguere chi fosse quell’uomo, e di colpo gli tornò il panico. Per un millesimo di secondo si immaginò che una delle ombre che da tempo lo perseguitavano si fosse trasformata in un essere vivente; poi intravide l’Apache seminudo e non ci fu più tempo per immaginarsi alcunché.
Sapeva che alla minima mossa avrebbe fatto rumore, ma non era possibile evitarlo. Aspettò che l’indiano avesse superato di un passo l’albero, poi si alzò. Su una spalla balenarono all’improvviso dei capelli corvini, poi un volto dagli occhi sbarrati, alla stessa altezza del suo, e una bocca aperta che riuscí quasi a gridare, prima che la canna della pistola gli si abbattesse contro la radice del naso e sulla fronte.
De Sana drizzò la testa, tendendo l’orecchio nel silenzio, per poi abbassarsi lentamente sul corpo dell’indiano, appena fu sicuro dell’assenza di ogni altro rumore. Un corpo che giace immobile, pensò, sembra sempre calmare ogni cosa. Come quando cessava una sparatoria, e il silenzio era sempre più profondo. Forse, il silenzio, uno ce l’aveva dentro di sé.
Posò la mano sul torace sporco ed esile, e la tirò subito indietro non appena si accorse dell’assenza di ogni movimento. Non che la morte gli desse fastidio, ma era sorpreso di averlo ucciso, quell’indiano, con una semplice botta in testa. Osservò con calma la figura seminuda e si convinse che c’era qualcosa che non andava. Si chinò, nella penombra. Niente colori di guerra. Neanche una linea. Armeggiò nella fondina dell’indiano e ne estrasse una Colt .44 ben tenuta. Nessuno, tra gli indiani fuggiti dalla riserva, possedeva un’arma del genere; e, ancor meno probabile, un broncho della Sierra Madre che, al massimo, poteva girare con una rugginosa rivoltella a percussione. Si chiese perché non gli fosse venuto in mente subito. Polizia apache! E questo significava Cima Quaine...
Si alzò e rimase per un attimo a orecchio teso, prima di muoversi in fretta tra i pini.
Raggiunse il bordo del canyon e lo costeggiò con cautela, tenendosi aderente alla roccia scistosa e cercando di restare nell’ombra il più possibile, fino a quando non arrivò al canalone che scendeva fino alla cavità che si era scavato Rondo in persona.
Saltò rapido nel canalone che si apriva sotto di lui e rimase immobile nelle tenebre per quasi un minuto, prima di spostare lo sguardo sulla buca di Rondo, una decina di metri più in basso. E vide Rondo riverso sulla schiena, con una gamba – e relativo stivale – appoggiata alla balaustra di roccia, accanto al fucile puntato sul passo sottostante.
Non c’era tempo da perdere. Risalí in fretta, quasi con frenesia, fino al boschetto di pini, e si mise a correre sbattendo nei rami che lo pungevano in faccia e lo facevano inciampare per la fretta. C’era ancora silenzio, ma adesso era più greve, e gli premeva addosso per farlo correre più veloce e inciampare più spesso nell’instabile appoggio offerto dalla sabbia. Di far rumore, non gliene fregava più niente. Udí il proprio respiro forzato, sonoro, e se lo immaginò riecheggiare sulla collina, ma tutto questo non contava più nulla. Sapevano che era lí. E lui sapeva di avere paura. Le cose che non poteva vedere gli facevano quest’effetto. Finalmente arrivò alla radura, e sfrecciò verso la baracca.
4.
Non appena udí il rumore all’esterno, Virgil Patman spinse via il bicchiere e passò le dita attorno al calcio d’osso della pistola. La luce che penetrava dalla porta aperta era debole, quasi l’ultimo bagliore del sole. Si aspettava di vedere stagliarsi nel vano della porta la tozza figura di Rondo, e quasi si spaventò quando al suo posto apparve una sagoma sottile. E, non appena De Sana entrò nella stanza, aggrappandosi ansimante allo stipite, Patman si drizzò sulla sedia.
Poi lo guardò incuriosito e riuscí a chiedergli: – Dov’è Rondo? Non eri andato a dargli il cambio? – senza palesare sorpresa.
– Quaine! – boccheggiò De Sana, voltandosi per andare a prendere il fucile nell’angolo della stanza. Fece due passi e rimase immobile. Patman lo vide irrigidire le spalle sottili, e alzò la pistola con la mano ancora posata sul tavolo, fino a puntarla sul fuorilegge.
– Cosí sei stato tu, a portarli fin qui –. De Sana parlava a voce bassa, quasi un borbottio, ma l’odio delle sue parole tagliava il silenzio della stanzetta. Guardò Patman dritto in faccia, come se non si fosse neanche accorto della pistola che lo teneva sotto mira. – Mi sa che sto diventando vecchio, – disse col medesimo tono.
– Molto più vecchio di cosí, non lo diventerai, – rispose Patman. – Ma una cosa te la devo dire. Non siamo stati noi, a portare Quaine e i suoi Apache. Puoi crederci o no, non me ne frega più di tanto. Proprio in questo istante mi sono reso conto che tu, da vivo, non servi a nessuno.
La bocca di De Sana si aprí in un leggero sorriso. – Perché non lasci che se la sbrighi da solo, il tuo ragazzo? – E dopo quelle parole parve calmarsi di nuovo, come se la trappola che gli si stava chiudendo addosso non lo riguardasse affatto. Patman se ne accorse, perché glielo aveva letto in volto, il panico, quand’era entrato. Ora, invece, era tornata la calma, e si chiese se per caso si trattasse della bravata finale. Lo innervosiva un po’, vedere un uomo cosí a proprio agio con una pistola puntata addosso, e la sollevò di una spanna dal piano del tavolo per essere sicuro che il fuorilegge l’avesse vista.
– Mica sono cieco.
– Tanto per starmene tranquillo, Lew.
De Sana parve rilassarsi ancora di più, e mosse la mano verso la tasca posteriore, lentamente, cosí che Patman non si facesse un’idea sbagliata. – Ti secca se fumo? – disse, mentre pescava tabacco e cartine.
Patman scosse il capo una sola volta, da parte a parte, e guardò il fuorilegge a occhi stretti, chiedendosi a che cazzo di gioco stesse giocando. Lo guardò attentamente mentre sistemava il tabacco nella cartina spiegazzata, senza farne cadere neanche un pizzico. Sarà anche scemo, ma ha un bel sangue freddo, pensò.
De Sana alzò gli occhi e finí di dar forma alla sigaretta. – Non hai risposto alla mia domanda, – disse.
– Sul ragazzo? Può cavarsela da solo, – rispose Patman.
– Allora perché non è qui? – disse De Sana sottovoce, ma con tono pungente.
– È andato a fare la corte alla tua ragazza, – disse Patman con un sorriso, guardando l’espressione stupita del pistolero bloccarsi come congelata. – Diciamo che io gli sto dando un aiuto paterno, – e sorrise ancora di più.
Il corpo magro di De Sana si era irrigidito. Il fuorilegge fece un lungo respiro e alzò le spalle. – Cosí stai giocando al padre, – disse. In piedi di fronte a Patman, un po’ spostato da una parte, si tolse di bocca la sigaretta non ancora accesa e la agitò verso di lui, seduto al tavolo. – Devo prendere un fiammifero, papà.
– Basta che lo fai con la sinistra, – rispose Patman, e aggiunse: – Figliolo.
De Sana fece un lieve sorriso e si tolse un fiammifero dalla tasca laterale.
Patman osservò il braccio dell’uomo abbassarsi sulla coscia per poi risalire, e vide l’improvviso lampo nella penombra. E in quel millesimo di secondo si accorse di aver commesso uno sbaglio.
Vide un altro movimento, qualcosa che oscillava verso l’alto ma lontano dall’improvviso bagliore del fiammifero; e, nella frazione d’attimo che impiegò a rendersi conto di cosa fosse, capí che era ormai troppo tardi. Vi fu un’esplosione, una fiammata, il colpo contro il braccio. Nello stesso istante si alzò dal tavolo e sentí che l’arma, pesante com’era, gli scivolava dalle dita, proprio mentre un’altra esplosione si mescolava al fumo della prima e un maglio gli si abbatteva sul fianco. Andò a gambe all’aria assieme alla sedia, e sentí il pavimento di terra battuta sbattergli contro la schiena.
Le mani gli corsero d’istinto a toccare il fianco già zuppo, e Patman trasalí dal dolore, lasciando cadere il braccio destro sul pavimento. Chiuse gli occhi con forza, e quando li riaprí si trovò davanti alla canna di una pistola, sormontata dal volto tirato di De Sana.
– Non credo che saresti stato un gran che, come padre, – disse senza sorridere il fuorilegge. Poi si voltò rapido sui tacchi e fuggí.
Patman richiuse gli occhi e vide un turbine nero che gli risucchiava il cervello. Per un attimo fu colto dalla nausea, poi iniziò a sentirsi intorpidito. Un torpore pungente, rilassante come il vuoto assoluto che gli stava roteando nella testa. Adesso dormo, si disse. Ma, prima di cedere al sonno, gli venne in mente che, forse, aveva udito uno sparo venire da fuori, poi un altro.
Cima Quaine andò incontro al ragazzo, quando lo vide alzare gli occhi in fretta.
Dave Fallis, in ginocchio, spostò ansioso lo sguardo dalla sagoma immobile di Patman a quella del capo scout, che adesso gli stava accanto.
– Ha aperto e chiuso gli occhi due volte! – sussurrò eccitato.
Lo scout si accovacciò di fianco a lui e piegò la sua faccia di cuoio in un sorriso. Era un volto senza età, gelido nei tratti scuri e contorti e quasi crudele, ma quel sorriso era ben visibile negli occhi. Non portava cappello, e la chioma nera gli brillava piatta sul cranio alla luce della lampada che guizzava proprio alle sue spalle, sul tavolo.
– Per ammazzare Virgil, bisogna legargli un macigno ai piedi e gettarlo in un pozzo, – disse. – E anche allora, mica ne saresti sicuro –. Scrutò il ragazzo per vedere l’effetto delle sue parole, e poi di nuovo Patman, che aveva aperto gli occhi e sorrideva.
– Non esserne troppo sicuro, – gli disse debolmente Patman. Spostò lo sguardo su Fallis, che sembrava sul punto di dire qualcosa, ma non ne aveva il coraggio. Sorrise anche al ragazzo, che si stava mordendo il labbro inferiore, e ne vide il sollievo sul volto. – L’avete beccato?
Fallis scosse il capo, ma Quaine disse: – Vea Oiga stava strisciando per andare a prendere i cavalli, quando De Sana è entrato di corsa nel corral e se ne è portato via uno senza neanche sellarlo. Vea Oiga gli ha sparato, ma non l’ha preso –. Voltò il capo e alzò lo sguardo su uno degli Apache alle sue spalle. – Quando torniamo al forte, spenderai in cartucce due mesi di paga, tanto per fare un po’ di pratica.
Vea Oiga crollò il capo e parve di colpo pieno di vergogna, oltre che un po’ ridicolo, con i gradi rossi di sergente dipinti sulle braccia nude. Poi uscí dalla porta, strascicando i piedi, senza neanche guardare la ragazza che fece un passo veloce all’interno per lasciarlo passare.
La ragazza andò a piazzarsi accanto alla credenza, senza sapere dove mettere le mani, e guardò Dave Fallis. Uno dei sei scout coyotero nella stanza le si avvicinò senza parere, e lei si strinse contro il muro, toccandosi nervosa il colletto liso del vestito. Poi si guardò attorno per un attimo, a occhi sbarrati, aggirò l’Apache in tutta fretta e imboccò di nuovo la porta. Si diresse al capanno, ma si fermò quando al suo interno vide tre Apache che ridevano e tiravano le strisce di carne di cervo appese a seccare. Dopo un po’, Fallis si tirò su per sgranchirsi le gambe e si avvicinò alla porta. Rimase sulla soglia a guardare fuori, ma non vide altro che tenebre.
Cima Quaine si accostò al volto tirato di Patman. Gli occhi dell’ex soldato erano aperti, ma il suo volto contratto dal dolore. La ferita al fianco aveva ripreso a sanguinare. Patman sapeva che era solo questione di tempo, tuttavia cercò di non mostrare sofferenza quando lo scout a contratto si abbassò su di lui. Lo udí dire: – Il tuo compagno è un po’ nervoso, – e per un momento la voce gli parve molto lontana.
– È giovane, – rispose Patman, ma si rendeva conto che questo, per lo scout, non aveva alcun significato.
– È ansioso di riacchiappare quel tipo, – proseguí Quaine. – Come ti senti, ad avere un angelo vendicatore? – Poi aggiunse, in fretta: – Cazzo, tra un giorno o due potrai vendicarti da solo.
– Mica è per me, – sussurrò Patman, esitante. – È per se stesso, e per la ragazza.
Quine ne fu sorpreso, ma tenne la voce bassa. – La ragazza? Non l’ha neanche guardata, da quando siamo arrivati.
– E non lo farà, – disse Patman, – fin quando non avrà ripreso De Sana –. Vide la smorfia dello scout e aggiunse: – È una lunga storia, un’intera storia di orgoglio e piedi calpestati –. Poi sorrise tra sé, nel vedere un lieve segno di stupore sul volto dello scout. Nessuno chiede a un moribondo di dire cose sensate. Inoltre, ci vorrebbe troppo tempo.
– Lascialo andare, Cima, – sussurrò Patman dopo un certo silenzio.
– La sua sete di battaglia potrebbe tornarci molto utile, ma i miei ragazzi non valgono una cicca, quand’è buio. Possiamo trovare le sue tracce domani mattina e riacchiapparlo prima di sera.
– Tu fa’ quel che credi, domani. Però, lui, lascialo andare stanotte.
– Non gli servirà a niente, – bisbigliò impaziente lo scout. – Ormai la ragazza ce l’ha, e può starci assieme quanto gli pare.
– Deve anche stare assieme a se stesso –. La voce di Patman sembrava più debole. – E non vuole regali, lui. Ha uno strano senso dell’orgoglio. Se non va dietro a quell’uomo, la ragazza non la guarderà più in faccia.
– E se gli va dietro, – concluse Cima Quaine, – non è detto che ne esca vivo. No, Virgil. Faccio meglio a tenerlo qui. Se vuole, può venire con noi domani –. Girò il capo come a indicare la fine della discussione, e guardò oltre i suoi Coyotero per scorgere la ragazza sulla porta.
Lei entrò esitante, lo sguardo confuso, come se la tensione le stesse prosciugando la linfa vitale e la facesse apparire esausta. – Se n’è andato, – disse, in una voce che non era la sua.
– Non hai niente da dire, a quanto sembra, – fece Patman, e Cima Quaine si voltò di scatto a guardarlo.
Alle prime luci dell’alba, Dave Fallis lasciò cadere lo sguardo sul prato, dal limitare del bosco, e si sentí incerto. L’aria era umida e ispessiva l’alba grigiastra, ma rendeva l’infinito silenzio ancor più vuoto. Sono gli effetti della foschia, che da sola non conta niente. Si associa alla solitudine, e certe volte contiene una sensazione di morte.
Avviò il cavallo giù per il leggero pendio e attraversò la grigia ondata d’erba, piegando verso la sagoma poco nitida di un canalone che risaliva lentamente la cresta, solcando in profondità la roccia diseguale. Dopo qualche tempo si ritrovò su una cengia e si fermò per un attimo a far riposare il cavallo. Adesso era più in alto della foschia, ancora aderente al prato che andava a restringersi in una vallata. Proseguí lungo la cengia che, a un certo punto, ebbe termine, costringendolo ad arrampicarsi lungo dei tornanti che smorzavano la ripidezza della cresta. E dopo due ore passate a seguire la sommità del crinale, guardò verso il basso e valutò in otto miglia buone la sua distanza dalla pista principale, che correva nel prato. Discese dal pendio opposto, non cosí ripido, ma sempre seguendo i tornanti, fino a ritrovarsi di nuovo in piano e potersi dirigere verso le Escudillas, in lontananza.
Il sole lo fece andare più in fretta. Perché più le ore passavano più diminuivano le sue possibilità di acchiappare De Sana prima dei Coyotero. Stava ricorrendo alla fortuna, mentre i Coyotero avevano i loro metodi. Ma poi si chiese se davvero fosse solo questione di fortuna. Vea Oiga gli aveva spiegato cosa fare.
Aveva appena portato il cavallo fuori del corral e stava attraversando il bosco, quando Vea Oiga era spuntato dalle ombre circostanti, anche lui con le redini in mano. L’indiano gli aveva porto le sue e detto di fare a cambio. – Meglio che prendi puledro, – aveva sussurrato. – L’uomo ha preso stallone. Lascia la tua cavalla qui, cosí non c’è possibilità che lei chiama suo amante.
Poi l’Apache gli si era accostato con aria confidenziale. – Una possibilità ce l’hai, amico. Vai ai Bebida Wells, subito, senza seguire la pista. L’uomo andrà veloce per un certo tempo, fino a che non capisce che non è seguito. Ma all’alba andrà in fretta di nuovo sulla pista principale, per la strada che lui pensa farà risparmiare tempo. Poi andrà ai Bebida Wells, perché quella è l’unica acqua entro un giorno da qui. Quando raggiunge il pozzo, troverà suo cavallo sfinito e gambe stanche dal penzolare senza staffe. E poi riposerà finché può andare avanti.
Fallis era rimasto ad ascoltare, affascinato, l’indiano che leggeva nel futuro; poi aveva appreso che strada dovesse seguire, passando per le scorciatoie di canaloni e dilavamenti. Per un istante si era chiesto come avesse fatto, quell’indiano, a conoscerlo cosí bene in poco più di un’ora, ad anticipare le sue intenzioni, e perché lo volesse aiutare. La cosa non aveva senso, ma era stata una vera e propria lezione, come mai ne aveva avute in precedenza. – Spara dritto, amico, – gli aveva detto l’Apache. – Spara, prima che ti veda.
E, mentre Fallis si infilava nelle tenebre, Vea Oiga aveva riportato la cavalla nel corral, pensando al ragazzo e all’uomo morente nella baracca. La vendetta era una cosa che conosceva bene, ma non gli era mai passato per la mente che potesse essere per una donna. E se il ragazzo avesse fallito, avrebbe avuto un’altra possibilità di sparare dritto. C’era sempre un sacco di tempo.
Il sole era quasi a picco e riempiva il cielo della sua luce accecante, giallastra, quando Fallis riprese la salita. Le Escudillas non sembravano più vicine di prima, ma adesso il paesaggio si era inselvatichito, e da una sporgenza riuscí a vedere la vegetazione che s’intrecciava e cresceva tra gigantesche formazioni rocciose, per poi allungarsi verso l’alto, verso le vette seghettate delle Escudillas.
Il suo percorso in diagonale l’aveva fatto sbucare sopra i pozzi; e adesso, di nuovo in alto, poteva scrutare i canaloni e le forre sotto di lui e valutare che era finito più lontano di un solo miglio. Le volte che da Fort Thomas partivano per lunghi servizi di pattuglia, si erano spesso diretti ai Bebida prima di tornare verso sud. Era tutta aperta campagna, nell’avvicinarsi ai pozzi, cosí aveva fatto un giro largo per giungere al riparo della vegetazione e arrivarci un po’ da dietro.
Dopo un quarto di miglio trovò uno stretto canalone fitto di pini che correvano lungo le pareti, in un intrico di rami e chiome, e che si piegavano l’uno di faccia all’altro fino a formare una sorta di arcata. S’infilò dentro quell’ombra e, a metà strada, legò il cavallo. Poi prese il Winchester, uscí dalla parte opposta e iniziò a farsi strada fra le rocce.
Una gola larga circa un metro si apriva su una sporgenza che costeggiava una liscia serie di macigni, costringendolo a muoversi lateralmente tra le ombre delle rocce torreggianti, e che infine si allargò per terminare in una forra pullulante di vegetazione, costellata di pallidi fusti di yucca a contrasto col verde scuro delle piante. Corse accucciato tra i bassi cespugli e si fermò a riposarsi in fondo al canalone, dove una volta di più il terreno cambiava fisionomia, assediato com’era da grottesche formazioni di roccia. A neanche cento metri sulla sinistra, in basso e attraverso un’apertura tra le rocce, riuscí a scorgere l’acqua immobile e color sabbia di un pozzo.
Poi, con maggior cautela, avanzò tra le rocce, muovendo attentamente gli stivali sul terreno scistoso. Dopo una decina di metri s’insinuò tra due stretti macigni assai ravvicinati, puntando la canna del Winchester nella fenditura, in direzione della pozza di acqua fangosa sotto di lui.
Osservò le immediate adiacenze della pozza con una durezza che si aggiungeva alla determinazione; osservò senza pensare al motivo della propria presenza. Ci aveva pensato per l’intera mattinata: la vista di Virg che stava morendo sul pavimento di terriccio... Ma le parole del fuorilegge erano sempre tornate a imbrattare quella scena. «Penso che faresti meglio a raccontargli le cose della vita». Pestandogli i piedi, e lui doveva pure sorridere. Era imbarazzante, perché avrebbe voluto essere lí a causa di Virg. Prima Virg, e poi la ragazza. Si disse che stava facendo tutto questo perché Virg era suo amico, e perché la ragazza aveva bisogno d’aiuto e meritava una possibilità. Fu questo che si disse.
Ma erano cose che appartenevano al passato, immagini sfocate che aveva in testa e soverchiate da questioni più urgenti. Lo sapeva, cosa ci faceva in quel posto, anche se non era sicuro del perché. Cosí, quando la sottile sagoma del fuorilegge gli apparve alla vista, giù in basso, non provò una particolare eccitazione.
Non vide da dove era arrivato De Sana, ma capí in quel momento che doveva essersi nascosto da qualche parte, sulla sinistra. Accucciato dietro un gruppetto di rocce, De Sana puntò la carabina verso l’acqua, tentando probabilmente di stabilire se quella fosse la posizione migliore per tenere d’occhio il pozzo. Voltò la testa, guardando dritto nella fenditura alle sue spalle, dove si riunivano i due macigni, e scrutandola per un lungo istante prima di girarsi di nuovo e dare un’occhiata in basso, verso il pozzo su cui puntava la carabina. Dave Fallis abbassò di un nonnulla la canna del suo Winchester e il mirino si ritrovò proprio al centro della schiena di De Sana.
Si chiese perché il bandito avesse portato via una carabina, dal capanno del corral, e non una sella. Poi pensò a Vea Oiga che gli aveva sparato mentre scappava. E questo gli fece tornare alla mente le parole dell’indiano. «Spara, prima che ti veda».
In fondo alla canna ben lubrificata del fucile, vide la Y formata dalle bretelle e dalla sommità della camiciola stinta, resa scura dal sudore. Quel cranio dai capelli corti, piccolo e senza cappello. E, all’estremità opposta, gambe lunghe ficcate in un paio di stivali, e piedi che scalciavano pigri la ghiaia.
Per un istante provò compassione per De Sana. Non perché gli puntava la canna dritto sulla schiena. Osservò l’uomo volgere lo sguardo su una vastità che non sarebbe mai scemata. Sforzare gli occhi alla ricerca di un qualcosa di inarrestabile che, prima o poi, l’avrebbe braccato fin sottoterra. Ed era tutto solo. Lo osservò muovere i piedi tanto per fare qualcosa e tergersi il sudore dalla fronte col dorso della mano. De Sana sudava come chiunque, per questo ne provava compassione. Vide un uomo, simile a mille altri che gli era capitato di vedere, e si chiese come si facesse a ucciderlo.
L’indiano gli aveva detto: «Spara, prima che ti veda». Be’, proprio tipico degli indiani.
Uscí da dietro le rocce e rimase allo scoperto, col fucile ancora puntato verso il basso. All’improvviso si sentí come nudo, ma sollevò il Winchester di un’inezia e gridò: – Getta la pistola e voltati!
E, un istante dopo, aveva già aperto il fuoco. Tirò la leva dell’otturatore e sparò di nuovo, poi una terza volta. Si sedette e si passò la mano sulla fronte bagnata, guardando l’uomo che giaceva riverso sulla schiena, la carabina al petto.
Seppellí De Sana a una certa distanza dal pozzo e cosparse di sassi il terreno circostante, cosí che al termine dell’operazione nessuno si sarebbe accorto che là sotto c’era una tomba. Prese il cavallo e le armi del pistolero. Come prova, era abbastanza. Sulla via del ritorno non fece altro che pensare a Virg e alla ragazza. Sperava di trovarlo ancora vivo, ma si rendeva conto che era chiedere troppo. Lui e Virg se l’erano spassata, assieme, e questo era quanto. Cosí bisogna vedere le cose.
Pensò alla ragazza e si chiese come l’avrebbe presa se le avesse chiesto di andare con lui nel Panhandle, dopo una cerimonia perfettamente legale.
E, per tutta la via del ritorno, neanche una sola volta pensò a Lew De Sana.
Law of the Hunted Ones, apparso per la prima volta con il titolo Outlaw Pass in «Western Story Magazine», dicembre 1952.