La pista apache

1.

Sotto la ramada di paglia che correva lungo la facciata dell’agenzia indiana, Travisin se ne stava sprofondato su una sedia dallo schienale di tela, gli stivali piantati contro un palo di sostegno. Fissava le grigie casupole di creta, tutte a un piano e battute dal sole, che delimitavano lo spiazzo quadrangolare. Era una scena abbacinante e deprimente: il sole sferzava la pietra, senza uno straccio d’albero o una vista appena piacevole, tale da compensare quelle tozze brutture. Non c’era anima viva. Nelle prime ore del mattino, gli Apache White Mountain di cui era responsabile avevano ricevuto la loro razione quindicinale di manzo e farina, e adesso si accalcavano attorno ai fuochi accesi davanti alle tende. In due giorni si sarebbero sbafati le scorte di due settimane. Gran parte degli indiani si era accampata a tre miglia di distanza, su per il corso del Gila, dove il terreno piatto e arido iniziava a piegarsi in colline sassose. Là i pioppi americani, che nelle zone più basse del Gila erano esili e radi, crescevano più alti e densi, cosí come più fitti erano il mesquite e i fichi d’India. A questo bisognava aggiungere la piccola selvaggina che serviva a sfamare gli indiani una volta terminate le razioni governative.

All’agenzia, Travisin viveva da solo. Secondo i conteggi, c’erano anche quarantadue Apache Coyotero, Barney Fry – l’interprete – e sua moglie, una donna tonto, ma per come la vedevano gli ufficiali a Fort Thomas, Travisin viveva da solo. Senza dubbio, agli occhi di quasi tutti quei tizi dell’Est che prestavano servizio nelle zone di frontiera, un cosí strano modo di sfangarsi l’esistenza non significava altro che una morte lenta e prolungata, a colpi di massicce dosi di noia. Ma quei tizi non erano Travisin.

Da Whipple Barracks fino a Fort Huachuca, passando per San Carlos, era opinione diffusa che Eric Travisin fosse il massimo esperto di guerre apache di tutto il Territorio dell’Arizona. Un tempo, ovvio, questa idea non era stata di dominio comune; e di quando in quando, lungo la pista, si sentiva sollevare il dubbio, nei baraccamenti di Fort Thomas o in un bar di Globe. In tali occasioni era il nome di Barney Fry a saltar sempre fuori, anche se molti non lo consideravano in gara per via del suo quarto di sangue apache. Anni addietro, in effetti, anche Eric Travisin era stato un pivello; ovvero prima che il soffocante territorio apache, tutto rocce e sabbia, andasse a ferro e fuoco, scavandogli a forza i tratti e lasciandogli solchi ancor più profondi sul volto scarno e privo d’espressione. Tutto questo mentre Travisin stava imparando, a proprie spese, che per beccare un Apache ce ne voleva un altro. Cosí, per risolvere il problema, era diventato Apache anche lui. Barney Fry gli aveva insegnato tutto quel che sapeva sugli Apache; poi era stato lui a insegnare a Fry. Non si fidava di nessuno fino in fondo, neanche dello stesso Fry. Seguiva un criterio del tutto personale, che i suoi colleghi ufficiali consideravano puro istinto animalesco. E forse avevano ragione. Ma Travisin si rendeva conto di cosa fosse necessario fare per sopravvivere in una situazione ostile. Tutto questo non era contemplato nel Cavalry Tactics di Cook: toccava impararlo con le cattive, e il semplice fatto di essere vivo stava a significare che l’avevi imparato bene. Dicevano che Travisin fosse più Apache degli stessi Apache. Dicevano che agisse a sangue freddo, a volte con crudeltà. E si trovavano a disagio, in sua presenza; fin dal primo anno a Fort Thomas lui aveva gettato alle ortiche il suo atteggiamento mondano, sostituendolo con la gelida, pulsante furia di una danza di guerra apache.

Tutto questo era sufficiente a far capire ai curiosi che tipo fosse. Ma Eric Travisin aveva un lato nascosto.

Da tre anni svolgeva le mansioni di agente indiano alla subagenzia di Camp Gila, con la responsabilità della salute e del benessere di oltre duecento Apache White Mountain. E in tre anni aveva trasformato quegli ostili nomadi in pacifici agricoltori. Era un ufficiale di cavalleria appiedato, che a volte faceva rispettare la legge col piatto della sciabola, ma la sua onestà era assoluta. Capiva gli indiani e ne prendeva le difese, e loro lo rispettavano per questo. Era meglio che a San Carlos.

Per questo motivo le conversazioni al circolo ufficiali di Fort Thomas, trenta miglia a sud-ovest, indugiavano cosí spesso su di lui: era un buon samaritano con lo Spencer in pugno. Il fatto è che non riuscivano a capirlo. Non si rendevano conto che la sua era una politica di minima resistenza. Accettava la situazione cosí com’era, e faceva del suo meglio con ciò che aveva sottomano. Per Travisin la faccenda era semplice, e per fortuna gli piacevano sia il combattere sia il riportare la pace. E mai gli era passato per la testa che questo comportamento l’avesse reso un ufficiale migliore. Delle promozioni si era scordato: ormai faceva troppo parte della vita quotidiana del territorio apache. Guardava lo spazio circostante – aspro, disagevole – e ciò che vedeva gli dava soddisfazione.

Sfregò i piedi sul palo della veranda, in su e in giù, e si accomodò meglio nella seggiolina da campo. Di colpo, sentí una fitta di tensione al petto. Le orecchie parvero fremere e tendersi, davanti a quell’immobilità innaturale, e ogni suo muscolo s’irrigidí all’istante. Ma si rilassò con la stessa rapidità con cui si era bloccato. Mosse la testa non più di cinque centimetri, e con la coda dell’occhio vide l’Apache accucciato su mani e ginocchia all’angolo della ramada. L’indiano strisciò come un animale lungo la veranda, lentamente e con la schiena inarcata. Alla cintola portava una pistola e un coltello, ma le mani erano libere. Travisin fece passare la mano destra sopra lo stomaco e aprí la patta della fondina. Adesso era a braccia incrociate sul petto, con la destra che impugnava la pistola ancora nella fondina. Aspettò che l’indiano fosse a meno di due metri di distanza prima di scivolare dalla sedia e puntare il revolver a canna lunga dritto sul volto stupefatto dell’Apache.

Travisin gli sorrise, e rinfoderò la pistola. – Magari un giorno ci riesci.

L’indiano grugní di rabbia. Aveva la vittoria a portata di mano e aveva fallito di nuovo. Gatito, sergente degli scout apache di Travisin, era un uomo anziano, il miglior cercatore di piste dell’esercito, e il non essere mai riuscito a vincere la loro scommessa feriva profondamente il suo orgoglio. Quella insolita scommessa durava ormai da quasi due anni. Se in qualunque momento, fuori servizio, lo scout fosse stato in grado di avvicinarsi di soppiatto a Travisin e puntargli il coltello alla schiena, avrebbe vinto una bottiglia di whisky. Per un simile premio l’Apache era disposto a tutto. E ci provava in continuazione, usando tutti i trucchi a lui noti, ma l’ufficiale era sempre all’erta. Il risultato era sí un indiano brontolone e assetato, ma anche un ufficiale dai sensi affilati come un rasoio. Travisin riusciva persino a fare pratica di sopravvivenza.

Gatito fece rapporto sul servizio di pattuglia del mattino e aggiunse, quasi come un ripensamento: – Chiricahua viene. Due miglia lontano.

Travisin si spostò dalla soglia dell’ufficio. – Dove?

Gatito non dette segno d’aver sentito. – Chiricahua viene. Lui viene con truppa da Forte.

Travisin valutò in silenzio le parole dell’Apache, strizzando gli occhi nel bagliore del pomeriggio in direzione del ponte di legno che attraversava il Gila e in cui terminava la pista da Thomas. Sarebbero arrivati da quella parte. – Va’ subito a prendere Fry. E fa’ uscire i tuoi uomini.

2.

Al sottotenente William de Both, il più recente contributo di West Point al Dandy 5th, ovvero il Quinto Reggimento del Maryland, bastò attraversare il ponte di legno alla testa dello squadrone H, in direzione di Camp Gila, per avere la netta sensazione di essere entrato in territorio ostile. E, nell’avvicinarsi all’ufficio dell’agenzia, cominciò a notare dei tizi dall’aria non certo amichevole. Santo cielo, ma erano tutti indiani? Dopo aver sorvegliato i trenta prigionieri per le trenta miglia del viaggio da Fort Thomas, il sottotenente de Both di indiani ne aveva ormai abbastanza. Anche con gli uomini del suo squadrone che cavalcavano in quadrilatero, non riusciva a smettere di lanciare occhiate nervose a quei sedici ribelli, e si aspettava che scoppiassero dei guai da un momento all’altro. E, dopo trenta miglia del genere, non era certo preparato a trovarsi di fronte al segaligno, ossuto Travisin e alla sua sinistra banda di scout apache.

I suoi colleghi ufficiali a Fort Thomas l’avevano informato con dovizia di particolari sul carattere del rognoso capitano Travisin. Anzi, gliene avevano dipinto un’immagine vivida, a tinte accese, per poi godersi l’effetto sul giovane sottotenente, la cui espressione mostrava con chiarezza le sensazioni contrastanti che quei discorsi gli avevano suscitato. Ma anche con tutte le esagerazioni udite al circolo ufficiali, de Both aveva comunque capito che quell’insolito agente indiano era pur sempre il miglior ufficiale dell’esercito su tutta la frontiera. Uscito da West Point da appena tre mesi, de Both non vedeva l’ora di mettersi agli ordini di un uomo del genere.

Alla guida del suo squadrone, attraversò lo spiazzo passando in rassegna l’improbabile fila di uomini piazzata sulla ramada, di fronte all’ufficio. Erano tutti armati, e fissavano la colonna in avvicinamento come se fosse portatrice di colera, invece che di sedici indiani disarmati. De Both dette l’alt e smontò da cavallo proprio di fronte all’uomo alto e magro al centro della fila. Ne scrutò poi l’abbigliamento – camicia blu stinta e calzoni grigi – e, senza volere, si aggiustò la giacca dell’uniforme.

– Amico, sarebbe cosí gentile da informare il capitano che il sottotenente de Both è a rapporto? Devo mostrargli le mie consegne –. Nel frattempo, de Both si toglieva di dosso la polvere della pista.

Travisin, le mani sui fianchi, guardò il sottotenente. Scosse appena il capo, senza parlare, e prese a torcere l’estremità di uno dei suoi baffi da dragone. Poi, accennando al primo dei Chiricahua, si rivolse a Barney Fry.

– Barney, quello è Pillo, dico bene?

– Chi altri? – rispose lo scout. – E il tizio pelle e ossa sul pezzato è Asesino, suo genero.

Solo allora Travisin prese in considerazione lo stupefatto sottotenente. – Be’, mister, in circostanze normali la prenderei un po’ in giro, ma vista la situazione e la compagnia che si è portato dietro direi di venire subito al sodo, e senza troppi scherzi. Fry, bada tu ai nostri ospiti. Tenente, lei venga con me –. Si voltò di scatto ed entrò nell’ufficio.

All’interno, de Both tirò fuori un pezzo di carta piegato e lo porse a Travisin. Il capitano si sedette, piazzò gli stivali sulla scrivania e lesse con attenzione le consegne. Al termine, scosse il capo e maledisse tra sé l’idiozia di chi cercava di tenere sotto controllo una situazione esplosiva a duemila miglia di distanza dall’imminente catastrofe. Rilesse le consegne, per essere sicuro che quel che c’era scritto fosse proprio cosí insensato come sembrava.

QUARTIER GENERALE, DIPARTIMENTO DELL’ARIZONA

SUL CAMPO, FORT THOMAS, ARIZONA

30 agosto 1880

E. M. Travisin, Cap. 5° Regg. Cav.

Subagenzia di Camp Gila

Camp Gila, Arizona

Con la presente lei è incaricato, su ordine del ministero dell’Interno, Bureau degli Affari Indiani, di dislocare Pillo e il resto della sua banda (in numero di quindici) nella riserva dei White Mountain, Camp Gila. Il Bureau desidera congratularsi con lei per l’ottimo lavoro che sta attualmente svolgendo, ed è certo che i sedici Chiricahua ribelli, affidati alle sue cure, sapranno approfittare dell’esempio dei loro confratelli White Mountain e diventare pacifici agricoltori.

Il latore della presente, sottotenente William de Both, è assegnato, a partire da questo preciso istante, come secondo in linea di comando a Camp Gila. Lo prenda sotto la sua protezione, Eric: è giovane, ma ritengo che possa diventare un buon ufficiale.

Emon Collier,

comandante generale di brigata

Travisin alzò gli occhi sul sottotenente: si guardava attorno nel locale spoglio, osservando con attenzione il tavolo, la scrivania con l’alzata in fondo alla stanza, la rastrelliera dei fucili e le tre sedie. De Both non sembrava avere più di ventuno, ventidue anni; ordinato, dalle guance rosee, in tutto e per tutto un damerino di West Point. Ma dopo soli tre mesi di frontiera stava già perdendo l’aria di chi pregusta le imminenti avventure e, come ogni giovane ufficiale, sogna di conquistarsi fama e promozioni sul campo. Gli erano bastate le trenta miglia da Fort Thomas per capire che starsene in campo aperto non era proprio quel che si era aspettato. Niente di nuovo, per Travisin. Già aveva avuto altri giovani ufficiali, sotto il suo comando, e ogni volta i discorsi erano gli stessi: «Lo prenda sotto la sua protezione… gli insegni come comportarsi con gli Apache». Sempre la vecchia storia del veterano che doveva far vedere al giovincello come stare al mondo.

Per Eric Travisin, ventotto anni e uscito da West Point da appena sette, era uno spasso. I baffoni da cavalleria lo facevano sembrare più vecchio, il che non era. Veterano lo era stato fin dal primo giorno. Anzi, era già un veterano prima ancora di arrivare nel West, una caratteristica che lo distingueva da tutti gli altri. Era lo strano istinto che gli faceva estrarre la pistola ogni volta che Gatito gli si avvicinava di soppiatto. Era una combinazione di svariati elementi che lui stesso non riusciva a capire, anche se l’avevano fatto diventare il più giovane capitano dell’Arizona.

E adesso ne arrivava un altro, che come tutti l’avrebbe guardato senza capire un bel niente. Si chiese quanto sarebbe durato, de Both.

– Tenente, – disse, – lei sa perché l’hanno mandata qui?

– No, signore –. De Both si mise sull’attenti. – Non discuto le mie consegne.

A Travisin scappò un lieve sorriso. – Ne sono certo, tenente. Mi chiedevo solo se avesse sentito in giro qualche voce… ah, riposo.

De Both rimase sull’attenti. – Non è mia abitudine riportare inutili dicerie prive di ogni fondamento.

Travisin fu colto da un moto di stizza che, per lunga esperienza, riuscí a reprimere. Non era quello il modo di fare. Girò attorno alla scrivania e piazzò una sedia alle spalle di de Both. – Ecco, si metta comodo –. Piantò una mano sulla spalla del sottotenente e lo spinse quasi a forza sulla sedia. – Mister, io e lei dovremo passare un mucchio di tempo assieme, in questa stanza o nel deserto, e il nostro unico pensiero andrà a quel che ci troveremo davanti. Alla lunga, di cose da dire ce ne saranno ben poche, e non escludo che lei sarà costretto a inventarsi qualcosa di sana pianta, solo per sentire la sua stessa voce. Lei è l’unico vero soldato, qui, oltre al sottoscritto, e questo le fa capire subito che la nostra situazione non è proprio da campo di parata. Ormai sono qui da tre anni, e non faccio che contare i White Mountain e andarmene in pattuglia. Capita, a volte, di avere dei problemi; altrimenti, non c’è altro da fare che starsene seduti a guardare il deserto. Forse non avrò l’aspetto del vero ufficiale, ma questo non ha importanza. Se vuole starsene tutto tirato a lucido, faccia pure, ma il mio consiglio è di prendersela comoda e giocare a questo gioco senza stare a ripassarsi le regole ogni cinque minuti. Allora, le spiace dirmi che cazzo di voci girano a Fort Thomas?

De Both rimase a bocca aperta, oltre che turbato. Si agitò sulla sedia, cercando di assumere un tono ufficiale. – Be’, signore, stante la situazione… Certo, come le ho detto, la veridicità di queste voci non è confermata, ma pare che Crook stia per tornare al ministero e assumere la guida di una spedizione nelle zone di frontiera. E si dice che possa chiedere espressamente di lei. Quindi la mia assegnazione in questo luogo servirebbe a garantire l’avvicendamento, al momento opportuno. Queste, naturalmente, sono solo le voci che circolano.

– E lei ci crede?

– Signore, neanche ci penso.

– Il che significa che non ci vuol pensare, – disse Travisin. – Tutto solo in un’agenzia indiana dimenticata da Dio, in compagnia di quasi duecentocinquanta White Mountain che vivono dall’altra parte della strada. Per non parlare degli scout –. Tacque e sorrise a de Both. – Chissà, tenente, magari potrebbe anche andarle a genio, dopo un po’.

– Io accetto le mie consegne, capitano. I miei desideri non hanno niente a che fare con gli ordini che ricevo.

Ma Travisin non lo ascoltava più. Raggiunse la porta ad ampie falcate e si sporse all’esterno, appoggiandosi con le mani agli stipiti.

– Fryyyyyyyyyyyyyyyy! Ehi, Fryyyy!

In attesa di salire a cavallo, i soldati dello squadrone H avevano gli occhi puntati sull’ufficio. Barney Fry piantò in asso il sergente e si avviò di buon passo verso la baracca dell’agenzia. – Entra, Barney.

Lo scalpitio dei cavalli al trotto risuonava nello spiazzo quadrangolare. Fry salí i gradini della veranda ed entrò nell’ufficio. Camminava a piccoli passi, i piedi un po’ in dentro, e teneva la testa piegata di lato, come imbarazzato dal proprio aspetto. Sembrava sulla ventina ma, come Travisin, il suo volto era ormai diventato una maschera bronzea e inespressiva, ben più vecchio dell’età anagrafica. Quando si tolse il cappello – grigio, a tesa larga – rivelò una capigliatura nera e folta, incollata al cranio e madida, quasi unta, di sudore.

– Che ne pensi, Barney?

Fry si appoggiò al bordo della scrivania. – Lo stesso che ne pensi tu, più o meno. Questi Apache non ci staranno molto, a Gila, neanche se gli rifiliamo tutti i vitelli dell’Arizona. Hai fatto caso che in quella banda non c’è nemmeno una donna?

– Sí, l’ho visto, – rispose Travisin. – Non impareranno mai, eh? – Guardò de Both. – Vede, tenente, il Bureau pensa che per farli diventare dei bravi piccoli indiani, quelli, per fargli gettare gli Spencer e impugnare la zappa, per fargli coltivare il granturco invece di ubriacarsi dalla mattina alla sera, sia sufficiente tenerli lontani per un po’ dalle loro famiglie. Lei che farebbe, se una razza cosí caritatevole le fregasse moglie e figli e la sbattesse su una pietraia a cento miglia di distanza? E sa perché? Per qualcosa che la sua gente ha sempre fatto, negli ultimi trecento anni. Per quel semplice ma misterioso non so cosa, che la rende un Apache e non un Navajo. Per quello scherzo del destino che l’ha fatta diventare una tigre, invece che un gatto persiano. Mister, per le mani ho oltre duecento White Mountain, qui, che fanno gli agricoltori e mangiano il bestiame del governo. E posso assicurarle che non lo fanno per un dono di natura. E adesso quelli mi mandano sedici Chiricahua! Sedici uomini che hanno ancora il naso pieno di polvere da sparo, e gli occhi avidi di sangue –. Travisin scosse il capo, schifato. – E me li mandano qui senza le loro donne.

Prima di rispondere, de Both si schiarí la gola. – A essere sincero, capitano, non riesco a vedere il problema. Chiaro che questi ribelli l’hanno combinata grossa, e che in qualche modo devono essere puniti. Perché perdere tempo a viziarli? Non sono dei bambini.

– No, non lo sono affatto. Sono Apache, – disse Travisin. – Un tempo, conoscevo un indiano dalle parti di Fort Apache, un certo Skimitozin. Un Arivaipa. Un giorno era nella capanna di un suo amico bianco, un minatore, e stavano cenando assieme. Di colpo, e senza alcun motivo, Skimitozin ha estratto la pistola e ha ficcato una pallottola in testa al suo amico. L’ultima cosa che ha detto, prima di essere impiccato, è che voleva mostrare alla sua gente che gli Arivaipa non dovevano mai essere troppo amici dei blancos. Il popolo Apache, dai bianchi, ha sempre avuto delle fregature. Quindi Skimitozin voleva essere sicuro che la sua gente non si aspettasse mai niente di che, dai bianchi. Mister, io sono qui per ammazzare gli indiani, ma anche per tenerli in vita. È un paradosso, nulla da dire, ma ho smesso da un bel pezzo di cercare una spiegazione logica. Gli Apache hanno sempre vissuto una vita di violenza, quasi tutti. Il mio primo incarico non è quello di trasformarli in qualcos’altro; ma allo stesso tempo devo essere corretto con loro, a patto che facciano altrettanto con me.

De Both sollevò un’obiezione. – Non ci vedo niente di sbagliato, nel nostro modo di comportarci con gli indiani. Anzi, credo che abbiamo fatto ben più del dovuto, per trattarli in maniera decorosa –. Recitò queste parole come se stesse leggendo un documento ufficiale.

Si intromise Fry. – Vada un paio di settimane a San Carlos, – disse. – Soprattutto quando arrivano i fornitori di bestiame del governo, con tanto di bilance truccate e manzi gonfiati da qualche bidone di acqua del Gila. E guardi come si scannano tra loro, le donne apache, per una di quelle pance gonfie –. Lo disse lentamente, senza alterarsi.

– Non sta parlando di casi isolati, Fry, – disse Travisin al sottotenente. – Sono cose che si ripetono. Lei si è fatto tutta la strada da Fort Thomas, assieme a Pillo. Lo ha mai guardato negli occhi? Se l’ha fatto, ci ha già letto dentro tutta la storia.

3.

Il sole del primo pomeriggio batteva come un maglio sulle capanne di adobe e sullo spiazzo deserto. L’aria era immobile, oltre che opprimente, e sembrava ancora più densa per via degli implacabili, cocenti raggi del sole dell’Arizona. A est si scorgeva, nel riverbero, la macchia violacea dei monti Pinal.

Travisin si appoggiò a un palo sotto la tettoia di frasche. La camicia grigia, di cotone, era chiazzata di sudore nerastro, ma il caldo sembrava non fargli effetto. Il volto scurito dal sole era impassibile, come immerso nel sonno, però gli occhi erano socchiusi, riparati dalla tesa del cappello, e rivolti in pieno sole, nella direzione da cui sarebbe arrivato Fry.

Qualche ora prima, in mattinata, lo scout e sei Coyotero avevano risalito il fiume per ispezionare le zone scelte da Pillo e dalla sua banda. I ribelli avevano tirato su i loro wickiup senza un solo borbottio, e sembravano già tranquillamente caduti nella strana routine della vita nelle riserve; ma era il loro silenzio, l’aver accettato in maniera cosí impassibile la nuova condizione, a preoccupare Travisin. In due settimane di permanenza a Camp Gila, erano stati costantemente tenuti d’occhio dagli scout di Travisin, ventiquattr’ore al giorno. Ma non era successo niente. Al ritorno di Fry, ne avrebbe saputo di più.

Alle sue spalle, sulla soglia dell’ufficio, apparve de Both. – Tornato?

– No. Magari si è fermato a fare quattro chiacchiere con i White Mountain. Ha degli amici, laggiù, – disse Travisin. – Nelle vene di Barney scorre un po’ di sangue apache, sai.

De Both non nascose il suo stupore. – Ah sí? Non lo sapevo –. Pensò alle infinite volte in cui aveva apertamente espresso il suo disprezzo per gli Apache in presenza di Fry. Adesso si sentiva a disagio, un po’ imbarazzato, anche se Fry non l’aveva mai preso come un affronto personale. Un disagio che Travisin gli lesse in volto. Non c’era ragione di rendere le cose ancora più difficili.

– Sua madre era una mezzosangue, – spiegò. – Aveva sposato un minatore, seguendolo per tutto il Territorio, mentre lui scavava le sue buche. Barney è nato non so dove, nelle terre dei Tonto, su una delle concessioni del padre. Quando aveva otto o nove anni i Tonto gli hanno ammazzato i genitori e se lo sono portato via, facendolo crescere nella tribù. È lí che è diventato bravo a seguire le piste. Non ce l’aveva nel sangue, come crede certa gente; l’ha imparato, e l’ha imparato dai più bravi nel mestiere. Poi, verso i quindici anni, è rientrato nel mondo dei bianchi. All’epoca, Fort Apache fungeva da base per una campagna proprio contro i Tonto. Un giorno – Barney viveva in una rancheria – è arrivata una pattuglia dell’esercito e l’ha portato al forte. I guerrieri erano via, e c’erano solo donne e bambini. Per quel che si ricordava della vita dei bianchi, il suo primo desiderio è stato di tornare dagli indiani, ma sapeva troppo della vita degli Apache perché l’esercito se lo lasciasse scappare: cosí, da quel giorno, è diventato una guida. Quando sono arrivato a Fort Thomas, sette anni fa, lui era già lí, ed è rimasto con me dal primo momento in cui ho messo piede qui a Gila.

De Both era immerso nei suoi pensieri. – Ma può fidarsi di lui? – chiese. – Uno che ha vissuto cosí a lungo con gli Apache.

– Puoi fidarti degli altri scout? Puoi fidarti di quelle pietre e di quei cespugli di mesquite? – Travisin rivolse al sottotenente uno sguardo fermo e penetrante. – Mister, devi tenere d’occhio le pietre, gli alberi, la gente che ti sta attorno. Devi guardarli finché non ti fanno male gli occhi, e poi continuare a guardare. Perché avrai sempre la sensazione che ti basta distrarti anche per un solo istante, e quelli ti fregano. E se non hai questa sensazione, vuol dire che hai sbagliato mestiere.

Poco dopo le quattro arrivarono Fry e i suoi scout. Fry scese da cavallo e corse verso l’ufficio dell’agenzia. Travisin gli andò incontro sulla porta. – Hanno tagliato la corda, Barney?

Fry si fermò a riprendere fiato, e si terse il sudore dal volto con una mano lercia e abbronzata.

– Forse è anche peggio. Quando siamo arrivati laggiù, stamattina, della banda di Pillo erano rimasti in pochi. Li ho interrogati, ma quelli continuavano a cambiare discorso e cercavano di mandarci via. Mi hanno fatto una strana impressione, visto che parlavano più del solito, e poi ho avuto un’illuminazione. Gatito se n’era accorto subito. Avevano bevuto tizwin, e sai bene quanto ce ne vuole, per prendersi una sbronza. Mi sa che erano solo all’inizio, perché erano ancora troppo tranquilli. Ma gli altri dovevano essere andati a fare rifornimento, cosí siamo risaliti a cavallo per scovare le loro tracce. Abbiamo battuto tutti gli angoli possibili e immaginabili fin dopo mezzogiorno, ma senza cavare un ragno da un buco.

In silenzio, Travisin valutò la situazione per qualche momento. – Devono aver cominciato subito, appena arrivati, e hanno avuto tutto il tempo di trovare un nascondiglio difficile da rintracciare. Per forza erano cosí tranquilli –. Travisin aveva un bel po’ di cose cui pensare, perché un Apache ubriaco è capace di qualunque cosa. Soprattutto di spargere sangue. – Che ne pensa Gatito? – chiese allo scout.

Fry esitò. – Non mi è piaciuto come si leccava le labbra, quando eravamo a caccia, – disse.

Inutile aggiungere altro. Travisin lo conosceva a sufficienza per sapere che per Fry il comportamento di Gatito meritava una certa attenzione. Assistere a quella scena fu, per de Both, una nuova esperienza. Il capitano e lo scout mezzosangue che parlavano come fratelli. Che dicevano più con gli occhi e i gesti che con le parole. Continuò a guardarli con attenzione, prima l’uno poi l’altro, e solo allora si accorse del giovane Apache in piedi accanto a Travisin. Un istante prima non c’era. Ma non si era udito neanche un rumore, o un passo!

Il giovane guerriero parlò in fretta per quasi un minuto, in lingua apache, poi scomparve dietro l’angolo dell’ufficio. A de Both rimasero impressi la bandana rossa intorno alla capigliatura nera e folta e i lineamenti quasi femminili.

Fry e Travisin ripresero a discutere, ma de Both li interruppe.

– Chi diamine era, quello?

Travisin sorrise dello stupore del giovane ufficiale. – Pensavo lo conoscessi, Peaches. Ma in effetti non si faceva vedere da un pezzo.

– Peaches!

– Entriamo, – disse Travisin.

Si riunirono attorno al tavolo, accesero le sigarette, e Travisin proseguí. – Sarebbe meglio non pronunciare il suo nome a voce alta, da queste parti. Vedi, quel giovane Apache dall’aspetto gentile ha uno dei lavori più duri di tutta la riserva. È una spia dell’agenzia. Lo sappiamo soltanto io e Fry, e adesso anche tu. Neanche gli scout lo sanno. Gli indiani sospettano che ci sia qualcuno, tra di loro, che fa il doppio gioco e mi racconta quel che succede, ma non hanno idea di chi si tratti. Fa un lavoro pericoloso, che però è necessario. Se scoppia una rivolta, dobbiamo essere in grado di stroncarla sul nascere. E Peaches è l’unico che può dirci dove nascono i guai.

– Posso chiederle cosa le ha detto prima?

Prima di rispondere, Travisin tirò una robusta boccata dalla sua sigaretta. – Mi ha detto che sapeva un bel po’ di cose, ma che sarebbe tornato a dirmele domattina prima dell’alba. Solo su una cosa ha voluto insistere. Attenti a Gatito, ha detto.

Una stanza sul retro della baracca dell’agenzia serviva come dormitorio per entrambi gli ufficiali. Le loro brande erano su pareti opposte, i bauli ai piedi del letto, e due grossi armadi di pino, che contenevano uniformi e oggetti personali, lungo il muro trasversale.

La luna piena penetrava dalla finestra e cadeva sul letto di de Both, ricoprendo di una luce delicata il pavimento di legno, e giungeva a toccare, illuminandola, la parte superiore del corpo addormentato e immobile di Travisin. Un braccio del capitano era infilato sotto la coperta grigia tirata poco sopra la cintola, l’altro era piegato sul petto nudo.

Da qualche parte, nelle immediate vicinanze, un’asse del pavimento scricchiolò. Travisin aprí gli occhi all’istante e li richiuse altrettanto in fretta. La sua mano, sotto la coperta, brancolò vicino alla coscia per poi andare a posarsi, senza rumore, sul calcio della pistola. Travisin socchiuse gli occhi e si guardò attorno. De Both dormiva come un sasso. La serratura della porta di comunicazione con l’ufficio sferragliò lievemente e i cardini iniziarono a girare, cigolando. Travisin sfilò in silenzio il braccio da sotto la coperta e puntò la pistola sulla soglia. Il pollice si posò sul cane e lo tirò indietro, e lo scatto del meccanismo fu sonoro e metallico. Il movimento della porta si arrestò.

Nantan, non sparare –. Le parole erano poco più di un sussurro.

Travisin scostò la coperta dalle gambe, scese sul pavimento e si avviò alla porta senza il minimo rumore. Al suo avanzare, Peaches rinculò nell’ufficio.

– Chiricahua partire.

– Da quanto?

– Loro andati forse cinque miglia ora. Gatito con loro.

Travisin tornò sull’uscio e sbatté il calcio della pistola contro il legno della porta. – Ehi, mister, salta giù! – De Both si tirò a sedere di colpo. – Cinque minuti e pronto a saltare in sella, – disse Travisin, e corse fuori dall’ufficio verso l’adobe di Barney Fry, dalla parte opposta dello spiazzo.

In meno di venti minuti, tredici cavalieri si allontanarono in fretta dal quadrilatero, in direzione ovest. Alle loro spalle, una luce arancione stava appena iniziando a fare la sua comparsa sopra il contorno irregolare dei Pinal. L’aria del mattino era fresca ma immobile, un’immobilità che già prometteva il caldo asfissiante del giorno in arrivo.

Il sole era di poco più alto, quando Travisin e i suoi scout raggiunsero quattro wickiup lungo la riva del Gila. Travisin arrestò la pattuglia, ma non smontò. Rimase immobile in sella, pronto a cogliere qualsiasi movimento nella calma assoluta. Disse qualcosa in apache, e uno degli scout scese da cavallo per entrare con cautela nel primo wickiup. L’indiano riapparve in un istante, scuotendo con vigore il capo. Nella terza capanna lo scout si trattenne più a lungo. Quando ne uscí, trascinava per le gambe un indiano privo di sensi.

– È uno di quelli, Barney? – disse Travisin.

Fry saltò giù dal suo pony e si chinò sull’indiano a terra, rivolgendo qualche parola in apache allo scout che lo teneva ancora per le gambe. – È un Chiricahua, capitano. Ubriaco fradicio. Deve aver bevuto almeno per due giorni –. Fece un cenno del capo allo scout apache. – Ningun dice che dentro c’è una borraccia con ancora un po’ di tizwin.

Travisin indicò due degli scout, per poi muovere il braccio in direzione del quarto wickiup. Gli scout schizzarono via sui loro pony, raggiungendo di corsa la capanna e passandola velocemente in rassegna. Tempo un minuto ed erano già di ritorno.

Tutti gli scout si misero a fissare Travisin che valutava la situazione. Conoscevano il significato delle tracce. Se ne stavano in sella, inquieti, già pregustando la caccia imminente, palpando le carabine, controllando le cartucciere, trattenendo quei cavalli piccoli e smunti che a loro volta sembravano carichi di tensione: perché c’è grande animosità tra i Coyotero e i Chiricahua, e nessuno cerca di nasconderla. Anche Eric Travisin lo conosceva bene, il significato di quelle tracce: sedici Apache ubriachi che vagavano gridando per le campagne, col sangue agli occhi e un cattivo sapore in bocca. E a tutto questo doveva essere posto termine prima che gli indiani tornassero in sé. Adesso erano Apache locos, assetati di sangue ma un po’ sprovveduti. Entro ventiquattr’ore, se non venivano fermati, sarebbero tornati a essere guerriglieri freddi e pazienti, guidati da un maestro di strategia come Pillo.

Dalla parte dell’agenzia videro arrivare uno scout che spronava il suo pony alla massima velocità. Di colpo l’indiano tirò le redini e gridò qualcosa a Fry, in mezzo a una nuvola di polvere.

– Abbiamo dormito, capitano. Dice che Gatito se l’è filata con una decina di carabine e duecento pallottole calibro .44. Deve averle fregate stanotte.

L’eccitazione di Travisin per ciò che lo aspettava non aveva fatto altro che crescere, e adesso stava cominciando a venire alla superficie. – Ora siamo svegli, Barney. I casi sono due. O cercheranno di arrivare alla Sierra Madre passando da sud, oppure vorranno mettersi in contatto con la loro gente nella zona di Fort Apache, deviando per il Basin e puntando poi a est verso la riserva. L’unica cosa che so è che se mi dovessi nascondere per qualche tempo, mi porterei dietro mia moglie. Cerchiamo di scoprire cosa hanno scelto.

4.

A metà mattina gli scout di Travisin avevano ritrovato le tracce dei ribelli, che portavano a un filare di pini incastrato fra una serie di collinette spoglie e ondulate. Si fermarono a un centinaio di metri dagli alberi, in campo aperto. Il terreno, punteggiato da bassi cespugli di mesquite e acacia, saliva gradualmente fino al boschetto di pini, e davanti ai loro occhi il riverbero del sole formava una sorta di nebbiolina tremolante e biancastra, in contrasto con la chiazza scura degli alberi. Alle loro spalle un arroyo, un ruscello di scarsa profondità, tagliava in due il crinale su cui erano appostati gli uomini di Travisin, per terminare una dozzina di miglia più in basso, sulle rive del Gila. Su entrambi i lati sconnessi dell’arroyo, le tracce che gli scout avevano seguito fino a quel momento proseguivano in linea retta.

Ningun, lo scout apache, risalí l’arroyo per un centinaio di metri, poi voltò il pony e tornò indietro. Borbottò solo qualche parola a Fry, che prima di parlare lanciò una nuova occhiata al boschetto.

– Dice che le tracce salgono lassù. Non possono essere andati altrove.

– Secondo lui sono ancora là dentro? – chiese Travisin senza staccare gli occhi dal crinale.

– Questo non l’ha detto, ma secondo me è convinto di no –. Barney Fry tirò fuori una tavoletta di tabacco compresso e ne staccò coi denti una bella porzione. – E nemmeno io, – borbottò, spostando col pollice un lembo del gilet e ficcandosi la tavoletta nel taschino della camicia. – La vedo cosí, capitano, – disse. – Sanno chi gli sta addosso, e sanno che non andremo a vedere un piatto cosí banale senza avere delle buone carte in mano. Quindi non sprecheranno del tempo prezioso per tenderci una trappola in cui non cadremo mai.

– Grandioso, Barney, solo che c’è una cosa che mi frulla in testa, – disse Travisin. – Hai visto come sono nitide, quelle tracce? Nemmeno una volta che abbiano cercato di mandarci fuori strada, e sí che di occasioni ne avrebbero avute, per renderci la vita difficile. Nessun Apache, anche ubriaco fradicio, lascerebbe mai delle tracce cosí nitide… se non di proposito –. Guardò lo scout, come per sollecitargli una risposta, e aggiunse: – Quindi, dimmi perché mai il vecchio Pillo vuole a tutti i costi farsi inseguire.

Fry scostò il cappello dalla fronte e si terse la bocca col dorso della mano. Le parole del capitano, ovvio, lo spingevano a riflettere, ma la lunga esperienza con Travisin gli impediva ormai di sorprendersi dell’incredibile familiarità dell’ufficiale con il modo di pensare e agire degli Apache. Lui stesso non riusciva mai a essere sicuro al cento per cento, eppure per qualche inspiegabile ragione le valutazioni di Travisin erano quasi sempre esatte. E quando avevano a che fare con personaggi misteriosi come gli Apache, tali valutazioni sembravano raggiungere una precisione sovrumana.

Fry tacque, cercando di mettersi nei panni di Pillo, ma de Both s’inserí nella conversazione.

– Vorrebbe dire, capitano, che gli indiani non sono davvero ubriachi? E allora quello privo di sensi che abbiamo trovato alla riserva? – Pose la domanda come se volesse di proposito cercare delle falle nella teoria di Travisin.

– No, tenente. Sto solo facendo un’ipotesi, – disse il capitano con un lieve sorriso. – Può essere andata in entrambi i modi. Voglio solo mettervi bene in testa che non stiamo rincorrendo degli universitari di Harvard per il parco di Boston Common. Se troverai mai un generale più in gamba di Pillo, puoi star certo che sarà un altro Apache.

E, pur fidandosi del giudizio di Fry e Ningun, Travisin spedí gli scout in avanscoperta, a sorvegliare i margini del boschetto, prima di condurre i suoi uomini all’interno.

Dopo un’ora avevano già valicato il crinale ed erano di nuovo in campo aperto, scendendo rumorosamente sul pietrisco che ricopriva il lento dislivello fino alla vallata sottostante. Una volta tornati in piano, seguirono le tracce in direzione nord, lungo quella valle scabra e ondulata che da lontano sembrava piatta e regolare; via via che avanzavano, però, trovarono difficile muoversi su quel terreno sconnesso e sabbioso, sempre pronto a nascondere, ogni centinaio di metri, fossi e fenditure poco profonde. La desolata monotonia del paesaggio era rotta solo dai grotteschi contorni di giganteschi saguaro e di bassi, fitti cespugli di mesquite.

Anche su un’area tutto sommato sgombra, de Both notò che Travisin e i suoi scout cavalcavano in un costante stato di allerta, continuando a perlustrare con lo sguardo il terreno davanti e di lato a loro, scrutando ogni roccia o cespuglio dietro cui potesse nascondersi un uomo. Era una soglia di attenzione che lui stesso stava iniziando a raggiungere, seppure con lentezza, mediante la semplice osservazione dei suoi compagni. Comunque era contento che fossero gli scout a occuparsi della faccenda. Quel caldo maledetto e quel bagliore accecante erano già fin troppo duri da sopportare, per un bianco. Non faceva altro che tergersi il volto col fazzoletto, e ogni tanto si copriva naso e bocca con la bandana bianca che aveva al collo, anche se non serviva ad altro che a rendere ancor più soffocante il caldo. Di sicuro gli scout apache si stavano divertendo un sacco alle sue spalle. Chissà come facevano ad avere quell’aria cosí fresca, in quel bollore. Ogni passo dei cavalli sollevava nugoli di polvere che gli si incollava ai polmoni, e lui era costretto a espellerla a colpi di tosse, coprendosi il naso col fazzoletto. Più avanti, leggermente a est, scorse e scrutò il contorno bluastro e frastagliato di una catena montuosa. La Sierra Apache. Quel blu che virava in violetto e il morbido azzurro del cielo sgombro da nubi erano le uniche note piacevoli del panorama, in contrasto con l’aspetto scabro e selvaggio della vallata.

De Both spronò il cavallo e si portò a fianco di Travisin. Il clima e l’ambiente inospitale gli stavano logorando i nervi, e aveva una gran voglia di mettersi a gridare, non importava con chi.

– Spero, con tutta onestà, che sappia dove sta andando, capitano.

Travisin ignorò il sarcasmo. – Ti sentirai meglio, stasera, quando ci saremo accampati. Il primo giorno è sempre il peggiore –. Poi tacque per qualche minuto, la testa che disegnava un arco per studiare tracce che per de Both neanche esistevano. – Quella catena montuosa laggiù, – aggiunse poi, – è la Sierra Apache. Molto più lontana di quel che sembra. Prima di superarla faremo campo nelle terre di un ranchero. Si chiama Solomon, un vecchio signore, un tipo per bene. Penso che ti piacerà, Bill –. Era la prima volta che Travisin chiamava de Both per nome. Il sottotenente gli lanciò un’occhiata strana.

Erano quasi le sei, quando raggiunsero la strada che portava al ranch di Solomon. La strada tracciava un arco nel fitto dei cespugli e attraversava un pioppeto. Dal punto in cui erano riuscivano a vedere il tetto dell’edificio principale, perché la strada tagliava in due il fitto degli alberi. La casa padronale distava qualche centinaio di metri dal lato opposto dei pioppi, e sulla destra era sfiorata da un folto di pini che scendeva dalle collinette fino ai piedi della Sierra Apache, la quale torreggiava a est. Fry indicò la distesa di cespugli ben calpestati, a un centinaio di metri sulla sinistra della strada che stavano seguendo.

– Non voglio neanche sforzarmi di immaginare come stanno le cose. Perché non hanno preso la strada?

Travisin stava osservando Ningun, che aveva fatto il giro dei pioppi e tornava indietro. – La stanno facendo un po’ troppo semplice, adesso, – replicò tanto per dire.

Ningun riferí a Fry e indicò un punto al di sopra dei pioppi, in direzione dei pini. Un filo di fumo nero, appena percettibile contro il bagliore, si levava contorto.

– Sapete cosa significa? – chiese Travisin. Non guardava nessuno in particolare.

– Un’idea ce l’ho, – rispose Fry.

Smontarono da cavallo nel pioppeto e si accostarono a piedi alla radura. La casa padronale, la stalla e il corral alle sue spalle sembravano deserti.

– Va’ a dare un’occhiata, Barney, – disse Travisin. Fry fece segno a quattro scout apache, che lo seguirono nella radura. Avanzarono lentamente, affiancati, nello spazio aperto che portava alla casa, senza tentare di nascondere la loro presenza accucciandosi o abbassando le spalle: un istinto naturale, ma del tutto inutile senza copertura. Si muovevano in posizione eretta, le carabine all’altezza del petto. Di colpo si fermarono: uno degli scout si gettò carponi e appoggiò l’orecchio al suolo. Poi si alzò lentamente, e chi era rimasto tra i pioppi vide il gruppetto tener d’occhio i pini con maggiore attenzione, sempre continuando ad avanzare verso la casa. Fry si accostò alla parete di tronchi accanto alla porta principale e vi appoggiò l’orecchio. Fece poi un gesto con la mano destra, e tre scout scomparvero dietro l’angolo della casa. Senza esitare, Fry scivolò davanti alla porta, la aprí con un calcio e si lanciò nell’oscurità, seguito dal quarto scout apache. Dopo qualche istante, Fry riapparve sulla soglia e agitò una mano verso la pattuglia tra i pioppi.

Quando Travisin arrivò alla testa dei suoi uomini, Fry era ancora sulla soglia. – Dentro c’è solo la donna, – si limitò a dire.

Travisin, seguito da de Both, gli passò davanti ed entrò nella casa semibuia. La stanza era in pieno caos: mobili e suppellettili ridotti in mille pezzi. Ma ciò che attrasse il loro sguardo fu la vista della signora Solomon, che giaceva sul pavimento al centro della stanza. Gli abiti le erano stati strappati quasi completamente di dosso, e il corpo era ricoperto di profonde ferite da coltello. Era stata scalpata.

De Both fissava impietrito il cadavere. Poi fu sopraffatto dal disgusto, e fece un mezzo giro su se stesso per scappare fuori, in cerca d’aria. Tuttavia si controllò al pensiero di Travisin, e rientrò nella stanza. Impassibili, il capitano e lo scout studiavano la scena, ma dietro il loro sguardo si agitava ogni possibile emozione. Il sottotenente cercò di mostrare la stessa calma. Un ufficiale di cavalleria deve essere abituato alla vista della morte. Ma una morte di quel genere de Both non se la aspettava di certo. Questa volta ruotò su se stesso e uscí davvero dalla stanza.

Venne il turno dei pini. Travisin fece portare i cavalli nel corral. In caso di scontro, avrebbero combattuto meglio a piedi, anche se era sicuro che Pillo fosse ormai a qualche ora di distanza. Si infilarono tra gli alberi, che all’inizio erano bassi e radi ma che, quasi a ogni loro passo su per il leggero declivio, si facevano più alti e fitti. Ben presto i pini cominciarono a essere avviluppati da ginepri e da una densa sterpaglia, tanto che la visibilità si ridusse a non più di quattro, cinque metri. Si erano cosí addentrati nel macchione da non riuscire più a scorgere il filo di fumo, ma proprio in quel momento iniziò a diffondersi uno strano odore. Lo scout coyotero annusò l’aria e guardò Travisin.

– Mando qualcuno in avanscoperta, – disse Fry, e senza attendere risposta ordinò qualcosa a Ningun in lingua apache. – Vediamo se si guadagnano la paga, – aggiunse mentre gli scout si staccavano dal gruppo, e appoggiò la carabina a un albero. Poi, la schiena contro il tronco, guardò Travisin.

– Strana faccenda, – disse, indicando col pollice la casa alle sue spalle. – È solo la seconda volta, in tutta la mia vita, che vedo un Apache scalpare qualcuno.

– Pensavo giusto la stessa cosa, – rispose Travisin. – Poi mi è venuto in mente che una volta qualcuno ha detto che sei anni fa, a Adobe Walls, con Quana Parker c’era anche qualche Apache, e soprattutto Pillo. Non so come abbiano fatto, gli Apache, a intrupparsi coi Comanche, ma forse è stato qualcuno di quei guerrieri indiani, un dog soldier, a insegnargli il trucchetto.

– Be’, – rimuginò Fry, raccogliendo la carabina, – forse questa è l’unica cosa che si può insegnare a un Apache.

Ningun spuntò per un attimo dagli alberi e agitò una mano. Lo raggiunsero. Fry e Travisin ascoltarono quanto aveva da dire e rivolsero lo sguardo alle sue spalle, nel punto da lui indicato. L’odore nauseabondo si era fatto insopportabile. De Both cercò di trattenere il respiro e seguí gli altri in una piccola radura. Di fronte a lui, Travisin e lo scout si separarono ed entrarono in campo aperto. De Both si trovò davanti una scena che avrebbe ricordato fino all’ultimo istante di vita. Rimase a occhi sbarrati, deglutendo senza interruzione, ma a un certo punto non riuscí più a controllare la saliva che continuava ad ammassarglisi in gola, e uscí dal sentiero per vomitare.

Fry sfregò la suola di uno stivale sul terreno friabile, e scalciò della sabbia sul fuoco che ancora covava sotto la cenere. Il fumo salí violento e denso per qualche secondo, nascondendo la grottesca figura che pendeva immobile sopra il piccolo falò; poi si estinse del tutto, e lasciò scorgere il corpo quasi del tutto riarso di Solomon, sospeso a testa in giù dalla convergenza di tre sottili pali di ginepro, conficcati nel terreno a poca distanza l’uno dall’altro e legati assieme alla sommità. La testa del vecchio era a un metro dalle braci quasi spente e, cosí come la parte superiore del corpo, era completamente bruciata. Le ustioni, ormai nerastre, gli salivano fino alle mani, legate strettamente alle cosce: qui le vesciche erano ancora rosse e livide. Anche gli abiti erano bruciati, ma ai piedi aveva ancora gli stivali, ben stretti alle caviglie là dove erano state assicurate le corregge che lo facevano penzolare dai pali di ginepro. Era morto, ma a morire ci aveva messo un sacco di tempo.

– Povero vecchio –. Parole semplici, ma nel ripeterle la voce di Travisin si spezzò appena. – Povero, povero vecchio.

Fry si guardò lentamente in giro, riflettendo. – Scommetto che avrà implorato una pallottola. Che avrà gridato fino a farsi scoppiare la gola, mentre quelli continuavano a danzargli attorno, a prenderlo a coltellate, senza smettere di ridere –. Fry tacque e guardò il capitano.

Travisin fissava il vecchio Solomon senza battere una sola volta le palpebre, serrando e allentando i muscoli della mascella, continuando a digrignare i denti. Capitava di rado, a Fry, di vederlo mostrare la sua giovane età, soverchiato dalle emozioni. Era una situazione strana: l’uomo che lottava contro il ragazzo. Ma in Travisin, come sempre, l’uomo avrebbe prevalso, per poi continuare la sua caccia implacabile con una fermezza, una cattiveria acuita da quella tempesta emotiva. Travisin non aveva vie di mezzo. Il dispiacere per il vecchio l’aveva ferito nel profondo, e giurò a se stesso di vendicarlo: in silenzio, anche se la rabbia gli martellava la testa.

5.

Si accamparono presso la casa di Solomon, quella notte, dopo aver dato sepoltura all’uomo e alla donna, e prima dell’alba erano già in piedi, di nuovo in sella sulle tracce di Pillo. Adesso cavalcavano con più ansia. Erano ancora cauti – per Travisin e gli scout era un semplice istinto – ma ciascuno dei membri della piccola compagnia si sentiva montare addosso una nuova impazienza, l’impellente necessità di seguire la pista di Pillo fino all’ultimo metro e vendicarsi con tutti i crismi.

Era la stessa sensazione che provava de Both, e che vedeva con chiarezza nel modo in cui gli scout apache impugnavano le carabine e tenevano nervosi il dito sul grilletto. Si sentí invadere dalla tensione, e pensò che per togliersela di dosso avrebbe dovuto come rimpicciolirsi. Poi si rese conto che si trattava solo del crescente incalzare degli eventi, della carica che vibra nel petto di un uomo quando è questione di vita o di morte. Guardò Travisin per avere qualche indicazione sul da farsi, per capire come reagire; ma, proprio come prima, vide solo una maschera impassibile e cotta dal sole, l’espressione quasi indolente di due occhi socchiusi che frugavano i dintorni in cerca di qualcosa di insolito.

Nel primo pomeriggio, il brivido della caccia stava già svanendo dal corpo del sottotenente William de Both. Gli dolevano le gambe per le lunghe ore passate in sella, e si mise a guardare davanti a sé, godendo di quella vallata verdeggiante, folta e fresca, che si stendeva a perdita d’occhio e s’incuneava tra colline sassose. All’altopiano successivo guadarono il Salt River, stagnante e poco profondo, appena a ovest del lago Cherry Creek, proseguendo poi verso la contorta pietraia e la vegetazione che si scorgevano in lontananza. De Both udí Fry dire che si trattava del confine meridionale del Tonto Basin, ma quel nome aveva per lui poco significato.

Al calar del sole si erano già addentrati nelle zone selvatiche del bacino. Il miraggio di trovare un po’ di sollievo all’ombra della boscaglia per de Both si trasformò in un tragitto ancora più tortuoso. Si aprirono la strada tra fitti, acuminati macchioni di chaparral e su cumuli ripidi e scoscesi di roccia. Gli alberi c’erano, ma non offrivano conforto, anzi: costringevano semmai ad avanzare con maggiore attenzione. Il sole stava tramontando in fretta, quando Travisin fermò il drappello sul costone di un crinale erboso. In basso, il terreno scendeva pian piano verso ovest, verde e liscio, per circa un miglio, poi veniva interrotto da un intrico di alberi e cespugli che s’inerpicava su per l’ennesima collinetta. Oltre l’altura, tre o quattro miglia più avanti, il sole tracciava l’ultimo, vivido solco giallastro sulla sommità frastagliata di una montagna.

Ningun saltò giù dal suo pony, mentre gli altri smontavano con calma, e restò a fissare la distesa d’erba per un minuto buono, forse più. Poi parlò in inglese, indicando la montagna chiazzata dal sole. – Laggiù voi trovare Pillo.

Fry si mise a discorrere con lui in apache, ponendo saltuarie domande all’uno o all’altro scout, e poi si rivolse a Travisin. – Sono tutti d’accordo, Pillo si trova quasi sicuramente laggiù. Aveva una rancheria da quelle parti, dice uno di loro. Dev’essere uno dei suoi posti preferiti –. Lo scout si sedette sull’erba e afferrò la sua tavoletta di tabacco.

Travisin gli si accucciò a fianco, alla maniera indiana, e iniziò a battere distrattamente sul terreno con un tozzo bastone. – Non è cambiato niente, Barney, – disse. – Deve aver saputo che tra i nostri c’era qualcuno che si ricordava di questo posto, che ne aveva sentito parlare. E ha scelto di proposito un luogo in cui saremmo venuti di sicuro, e ce l’ha reso ancor più semplice da trovare.

– Be’, dovrai ammettere che sarà un bel problema scovarlo in cima a quella collina. Forse voleva solo assicurarsi un buon vantaggio.

– Ne ha accumulati a bizzeffe, lungo la strada. Ecco il punto, Barney. Ha mai provato a far perdere le proprie tracce? – Travisin si sedette e guardò il profilo della montagna, nella luce ormai quasi scomparsa. – Allora, perché diamine ha voluto portarci fin quaggiù? – Più che agli altri, parlava a se stesso.

Fry addentò un pezzo di tabacco e, con la lingua, lo spinse nella guancia. – Dimmelo tu, che sei molto più bravo di chiunque altro a capire cosa passa nella testa degli Apache.

– Non saprei dirti un bel niente, Barney, ma una cosa è certa: al gioco di Pillo, dobbiamo starci un altro po’ –. Guardò sopra la spalla di Fry, verso il gruppo degli scout seduti in semicerchio. Indossavano tutti delle brache a mo’ di perizoma, lunghi mocassini arrotolati appena sotto il ginocchio, e bandane rosse attorno a capigliature corvine. Solo il colore delle camicie li distingueva l’uno dall’altro. Ningun ne indossava una blu, un residuato dell’esercito. Una cintura di cuoio piena di cartucce gli si incrociava sul torace. Travisin richiamò la sua attenzione. – Ehi, Ningun. Aquí!

L’Apache si accucciò vicino a loro in silenzio, e Travisin prese a tracciare una mappa col bastone su un tratto di terreno privo di erba. – Qui siamo noi, e questa è la montagna, – indicò, tracciando un cerchio. – Adesso ditemi voi cosa c’è lassù e cosa c’è tra noi e loro –. Porse il bastone a Fry. – Ma fate alla svelta, che sta calando il buio.

Non più di un’ora dopo il sole era già sceso dietro il margine occidentale del Basin. Il piano era pronto. Travisin e Ningun controllarono per l’ultima volta i loro revolver e si avviarono con aria noncurante nell’oscurità della vallata. Quasi come se andassero a farsi una passeggiata digestiva, pensò de Both.

Si tennero il più possibile al riparo di alberi e rocce, Travisin a breve distanza dall’Apache, che non faceva mai più di venti passi senza fermarsi per interi minuti. Poi i due riprendevano la marcia, quando il silenzio era calato di nuovo e aveva ripreso a invadere le loro orecchie. Travisin borbottò sottovoce all’indirizzo della luna piena che gettava la sua morbida luce sul terreno scoperto che dovevano valicare. Ningun si portava lentamente nelle più sottili zone d’ombra, per poi attraversare di corsa i tratti esposti alla luna. Per qualche secondo figurava come una semplice chiazza scura alla luce lunare, poi scompariva nell’ombra più vicina. Travisin non gli restava mai a più di dieci passi di distanza. Ben presto, usciti dalla vallata, iniziarono a risalire la collina dei pini. Il terreno era soffice e sabbioso, sotto i piedi, e attutiva i passi, ma i due continuarono a salire con estrema lentezza, solo dopo aver verificato anche il minimo passo. In quel silenzio, far rotolare una sola pietra avrebbe avuto lo stesso effetto di uno squillo di tromba.

In cima alla collinetta, Travisin guardò in basso, verso la vallata. La massa indistinta del crinale che avevano da poco lasciato era esposta alla luna, ma sul suo margine non c’era più segno di vita. Non si era aspettato di vederne, in effetti, ma c’era pur sempre quel giovane ufficiale. Ci voleva ben altro che un solo servizio di pattuglia, per imparare a sfangarsela in territorio apache.

Scendendo lungo il fianco della collina, arrivarono in una zona di contorte formazioni rocciose e ampie macchie di vegetazione desertica. La montagna, adesso, incombeva assai più vicina, una gigantesca chiazza di grigio che sembrava rotolare giù dalla vetta, schiacciata dalla luce della luna. All’inizio la loro avanzata fu assai più lenta di prima, perché il terreno irregolare saliva e scendeva senza preavviso; grotteschi alberi del deserto e macigni solitari limitavano la visuale a non più di una cinquantina di metri. Ciononostante Ningun continuò ad andare avanti, anche se a un ritmo più moderato, con una sicurezza di passo che indicava la conoscenza del percorso.

Ben presto raggiunsero una spianata, un tratto di terra nuda che sembrava allungarsi senza fine nel buio. Ningun mutò direzione, piegando sulla destra per cinquecento metri buoni, e poi si girò verso la montagna e verso la brulla distesa desertica che vi conduceva. Fece un cenno a Travisin e scivolò giù per la friabile sponda di un arroyo che terminava nel deserto. Tempo cinque mesi e si sarebbe trasformato in una vorticosa corrente, gonfia della pioggia scesa dalla montagna. Adesso era un sentiero buio che offriva una scarsa protezione, ma che portava sulla soglia della roccaforte di Pillo.

Seguirono l’irregolare, sinuoso corso dell’arroyo fino a una curva stretta in corrispondenza di un innalzamento del terreno, e girarono invisibili attorno alla base meridionale della montagna. La vetta era ancora a quasi un miglio di distanza: dapprima un abbordabile declivio, punteggiato di alberelli, poi un terreno più aspro. Le ultime centinaia di metri s’arrampicavano tortuose su una ripida e frastagliata pietraia fino a raggiungere la mesa.

Ningun schizzò via dall’arroyo e scomparve in una fitta sterpaglia una decina di metri più avanti. Un attimo dopo fece spuntare la testa, e Travisin gli andò dietro. Adesso si muovevano con maggiore cautela, saltando di riparo in riparo. Un suono basso e lamentoso ruppe il silenzio. Entrambi si fermarono all’istante. Travisin attese la decisione di Ningun, che rimase però immobile per quasi cinque minuti. Non si udí altro rumore. Ningun scosse il capo. – Uccello di notte, – sussurrò.

Poi continuò ad avanzare, non in linea retta ma quasi in parallelo alla base della montagna, muovendosi sempre verso l’alto. Avevano quasi raggiunto il tratto più ripido quando l’Apache indicò una fenditura nerastra tra le rocce. Nell’avvicinarsi, Travisin vide che si trattava di uno stretto canyon in salita. Era come una sorta di taglio netto nel costone, e si estendeva contorto lungo il leggero pendio, fino al deserto giù in basso. Più avanti faceva una curva in piena oscurità e scompariva alla vista. Si arrampicarono lungo il suo bordo per qualche minuto, mentre Travisin ne studiava il corso e la profondità. Cento metri dopo, l’Apache fece un segnale a Travisin e scomparve nel buio. Lui aspettò per quasi venti minuti, chiedendosi da ultimo che fine avesse fatto l’indiano, poi guardò da una parte e lo vide avvicinarsi, già a pochi metri di distanza.

L’Apache si portò un dito alle labbra, poi sussurrò qualcosa al capitano. Travisin annuí e gli andò dietro, muovendosi lentamente e di soppiatto su per la pietraia. Raggiunsero un’ampia sporgenza, e Ningun la percorse tenendosi sulla sinistra, prima di arrampicarsi di nuovo su una cresta quasi ad altezza d’uomo che si estendeva in uno spiazzo lungo e uniforme. Duecento metri sulla destra, la montagna saliva ancora per terminare in un picco scosceso, appuntito e frastagliato. Lassù non poteva esserci niente. Travisin e Ningun erano arrivati sulla mesa. Udirono, a non molta distanza, lo starnuto di un pony.

In quel punto l’erba era alta. Avanzarono strisciando, un piede alla volta, verso il rumore del pony. L’erba, al loro passaggio, faceva un lieve rumore, ma poteva essere scambiato per il vento, alta com’era. Ogni tre, quattro passi si gettavano carponi e restavano faccia a terra per qualche minuto e poi proseguivano, allungando lentamente una mano su un tratto che sembrava loro stabile e tirandosi infine dietro le gambe. In questo modo riuscirono a percorrere un tratto di mesa che si stendeva fino a una linea irregolare di massi. Il saltuario sbuffo di un pony pareva giungere da poco meno di un tiro di schioppo.

Travisin sollevò la testa qualche centimetro alla volta, fin quando non riuscí a guardare tra due di quei massi. Da quel punto il terreno s’imbarcava – non di molto – in una sorta di tasca poco profonda, digradando da ogni lato a formare una trincea naturale. Mentre sbirciava sopra le rocce, la luna passò dietro una nuvola, cosí da lasciargli vedere solo le ceneri quasi spente di un fuoco da campo al centro dello spiazzo. Allo spostarsi della nuvola, la luna iniziò a riapparire gradualmente, strisciando morbida dalla destra a illuminare dapprima il gregge dei pony e poi il centro della tasca. In pochi secondi l’intero accampamento fu immerso nella luce. Quando ebbe finito di contare sessantatre Chiricahua, Travisin si sentí un macigno nel petto.

Lo stupore fu tale da farlo rimanere con lo sguardo fisso tra le rocce per molto più tempo del previsto. Gettò la testa all’indietro in tutta fretta verso Ningun, che aveva osservato la situazione da un nascondiglio simile al suo. E, nel guardarlo, si rese conto che anche l’Apache aveva capito solo in quel momento, proprio come lui, perché Pillo avesse lasciato tracce cosí evidenti. Ma non era quello il momento di discuterne.

Tornare all’estremità della mesa parve richiedere molto più tempo, anche se i due si mossero furtivi tra l’erba alta a velocità superiore. Avevano abbastanza esperienza da mantenersi calmi e guardinghi ma, se bisognava affrontare Pillo, il fattore tempo era diventato ancor più importante. In meno di due ore sarebbe sorto il sole, portando con sé nuovi problemi. Dal bordo della mesa Travisin, ancora accucciato, sbirciò con cautela la sporgenza sottostante e ciò che stava ancora più in basso, valutando quale fosse la strada più veloce per tornare all’appuntamento già fissato con Fry e tutti gli altri.

Senza parlare, dette di gomito a Ningun e indicò un percorso che scendeva in diagonale dalla montagna. Lo scout si alzò in silenzio e si apprestò a saltare sulla sporgenza. Travisin girò la testa per dare un’ultima occhiata all’accampamento nemico ma, proprio in quell’istante, udí un tonfo sordo, poi un lamento angoscioso che usciva dalla bocca dello scout. Ruotò su se stesso, estraendo d’istinto la pistola, e vide Ningun precipitare dal bordo della mesa, l’asta di una freccia che gli spuntava dal petto.

In un solo movimento Travisin scattò in piedi e si gettò sulla sporgenza sottostante. L’Apache con l’arco puntato sul costone di roccia dov’era saltato lui era poco più di una chiazza indistinta, ma Travisin udí la freccia passargli sibilando sopra la testa proprio mentre atterrava sulla sagoma senza più forma di Ningun, e perse l’equilibrio cadendo in direzione del Chiricahua che gli stava a pochi metri. L’Apache gettò via l’arco con uno strillo lacerante, e cercò di impugnare il coltello che teneva alla vita, mentre Travisin alzava la pistola. A distanza cosí ravvicinata, il mirino dell’arma, levata verso l’alto, s’impigliò nella cintola dell’indiano; quando Travisin premette il grilletto, la canna dell’arma premeva contro lo stomaco dell’Apache. L’indiano gridò di nuovo, barcollò e cadde dal costone di roccia. Travisin esitò un istante, scrutando il fianco della montagna in cerca di una via di fuga, ma era troppo tardi. Mentre si levava un urlo, un forte colpo lo raggiunse alla nuca. Udí il vento che gli sfrecciava nelle orecchie, e vide balenare un lampo arancione, poi più nulla.

6.

Pillo attese che Travisin aprisse gli occhi e cercasse di sollevarsi sui gomiti. Poi gli sferrò un calcio alla tempia con un lato del mocassino. Alla vista di Travisin che, scomposto e bocconi, scuoteva il capo e tentava di alzarsi di nuovo, gli indiani attaccarono a ridere e ululare. La seconda volta Pillo lo prese alla spalla, ma sempre quanto bastava per farlo ripiombare a terra. Gli altri Apache si fecero sotto, e alcuni colpirono il capitano con violente pedate alla testa e alle spalle, poi Pillo si accostò a Travisin e levò le mani al cielo. Fece un discorsetto in lingua apache, alzando e abbassando la voce, e alla fine tutti si ritrassero; Pillo era ancora il capo, sebbene portasse i segni dell’età avanzata. Travisin comprendeva la loro lingua a sufficienza per sapere che lo stavano risparmiando per qualcos’altro. Pensò al vecchio Solomon.

Due guerrieri lo tirarono in piedi e lo trascinarono al centro della rancheria. Quasi tutti gli Apache erano a torso nudo, e i segni che si erano dipinti sul petto contrastavano con lo sporco di cui erano ricoperti. Gli rimasero accanto, in silenzio, gli occhi scuri che ardevano di soddisfazione, pregustando come sarebbe andata a finire. Asesino, il genero di Pillo, si portò a mezzo metro dal capitano, lo guardò per un istante e gli sputò in pieno viso. Le sue labbra si stavano già aprendo in una risata, quando Travisin gli sferrò un cazzotto sulle gengive e lo spedí a gambe all’aria ai piedi degli altri ribelli.

Asesino si alzò con lentezza, la mano già sul coltello, ma Pillo intervenne di nuovo e gli parlò con tono sprezzante. Pillo era lo statista, il generale, non un rozzo capo della guerriglia. Per il sangue c’era tempo; al momento, doveva far sapere a quel soldato bianco, spuntato dal nulla, come stavano le cose. Toccava agli Apache.

Iniziò con le consuete formalità, spiegando quale fosse la posizione del popolo apache, ma risalí ben più indietro di Cochise e Mangas Coloradas, entrambi suoi coetanei, per illustrare le malefatte dell’uomo bianco. Gli Apache non hanno una storia tradizionale cui rifarsi, ma Pillo parlò a lungo degli avvenimenti degli ultimi dieci anni: sembrava un indiano delle Pianure, i cui canti di guerra coprono intere generazioni. Durante il suo discorso, gli altri Apache continuarono a mugugnare e ululare, ma anche a tenere d’occhio Travisin. Il capitano li fissava con aria insolente, uno alla volta e senza mai abbassare lo sguardo. Ma scorgeva ben altro che facce minacciose. Si era reso conto che, a parte le sentinelle appostate sul versante orientale della mesa, ovvero la direzione da cui era giunto con Ningun qualche ora prima, sul versante occidentale non c’era neanche un Apache.

Pillo stava arrivando al termine delle sue premesse, pronto a entrare nel personale. Parlava in un misto di spagnolo e inglese, tornando alla lingua apache ogni volta che voleva enfatizzare un concetto specifico. Parlò delle promesse che l’uomo bianco aveva prima fatto e poi infranto. Parlò di Crook, del quale gli Apache si fidavano, ma che era ormai scomparso.

– Guardati attorno, soldato bianco, adesso vedi molti Tinneh qui, ma non vivrai tanto da vedere i molti altri che arriveranno. Presto ci saranno i Jicarilla, i Tonto e molti Mescalero, e gli uomini bianchi saranno cacciati al Nord –. Nella foga del discorso si infilò una mano nel camiciotto aperto e si grattò lo stomaco.

Travisin vide le due zanne che gli pendevano dal collo, appese a una cordicella di cuoio. Fu allora che iniziò a elaborare un’idea. Era assurda, qualcosa che in altre circostanze, più tranquille, avrebbe scartato con una risata; ma gli bastò dare un’occhiata al fuoco e alla tortura imminente. Guardò oltre le fiamme e vide Gatito. Ecco la risposta! Quelle zanne, e Gatito.

– Pillo parla con bocca larga, ma soltanto vento ne esce, – disse di colpo Travisin, rinfrancato dall’audacia delle sue stesse parole. – Tu parli di molte cose che devono accadere, ma sono menzogne, perché prima dell’arrivo anche di un solo Tinneh io riporterò te e i tuoi uomini alla riserva, dove sarete tutti puniti.

Pillo attaccò a sghignazzare, ma Travisin lo interruppe. – Trattieni la lingua, vecchio! Io non parlo col vento. È stato U-Sen in persona, a mandarmi. Lui sa qual è il tuo amuleto –. Travisin tacque, per maggior enfasi. – E sono io, quell’amuleto!

Le labbra di Pillo si mossero in una risata, ma non ne uscí niente. Il soldato bianco parlava del suo amuleto.

– Tutta la tua gente sa che il tuo amuleto è il lupo grigio che ti protegge, perché U-Sen si è sempre manifestato attraverso il lupo grigio per proteggerti dal male. Io ti dico, vecchio, che se tu o i tuoi guerrieri oserete alzare la mano su di me mentre me ne vado, sarete fulminati dalla freccia di U-Sen, il fulmine. Se non mi credi, prova a toccarmi!

Pillo era in preda all’agitazione. L’amuleto di un Apache è la cosa più importante della sua vita. Non c’è da scherzarci sopra. Travisin gli rivolse nuovamente la parola, girandosi verso Gatito.

– Se Pillo non ci crede, chieda pure a Gatito se non è vero che il mio potere giunge direttamente da U-Sen. Chieda a Gatito, che era il miglior cacciatore di uomini dell’esercito, se è mai stato capace soltanto di toccarmi, tutte le volte che ci ha provato. Chieda a lui se sono o non sono il lupo.

Lo scout rinnegato guardò Travisin a occhi sbarrati. Non ci aveva mai pensato prima, però doveva essere per forza cosí! Si ricordò delle decine di volte in cui aveva cercato di vincere la scommessa col capitano. Gli era sempre arrivato a pochi passi, ma all’ultimo momento lui si metteva a ridere e gli piantava la pistola sotto il naso. Quel pensiero gli corse veloce per la mente, rinforzato dal suo istinto e dalle sue primitive superstizioni. A Pillo e agli altri bastò guardarlo per rendersi conto che sí, ci credeva. Anche Travisin se ne accorse, e dalle mascelle serrate si lasciò scappare uno sbuffo di sollievo.

Poi dette le spalle a Pillo e si avviò verso l’estremità occidentale della mesa, senza aggiungere verbo. Doveva mostrare una bella faccia tosta, per cavarsela. Gli Apache si spostarono in fretta al suo passaggio, e lui attraversò il cerchio dei guerrieri uscendo dalla rancheria. Superò l’erba alta a passi lunghi e misurati, guardando dritto avanti a sé e mai indietro.

Si sentiva pizzicare la nuca, e ingobbí appena le spalle, come se da un momento all’altro si aspettasse di essere colpito da una pallottola o una freccia. Percorse quei cento metri in preda all’incertezza ma contratto come una molla, pronto a scagliarsi in avanti a tutta velocità. Tuttavia riuscí a restare calmo, a respingere l’impulso di mettersi a correre. Nei pressi dell’orlo della mesa rilassò i muscoli del collo e inspirò una profonda boccata d’aria fresca.

Sul versante occidentale l’orlo della mesa si trasformava gradualmente nella parete irregolare della montagna. Da lí partiva un sentiero diagonale che andava a perdersi tra rocce e alture minuscole, piegando spesso e in maniera brusca a destra e a sinistra.

Travisin l’aveva quasi raggiunto, quando si trovò davanti un Apache che aveva risalito la pista. Anche con la mente affollata da mille pensieri, esitò solo per un attimo prima di lanciarsi addosso all’indiano. Si ritrovarono corpo a corpo, e Travisin fu come sopraffatto dal fetore dell’Apache. Caddero dall’orlo della mesa rotolando giù per il sentiero, e andarono a sbattere con forza contro il ceppo di un albero. Travisin perse la presa sull’indiano, ma atterrò proprio sopra di lui e cercò di afferrarlo alla gola. Un dolore lacerante, come il fendente di una sciabola, lo colpí alla schiena, e si sentí invadere le narici da polvere e puzzo di sudore. Il volto dell’Apache, sotto di lui, era una macchia indistinta, i muscoli del collo tesi come corde d’acciaio. Travisin tolse una mano dalla gola dell’indiano, afferrò una pietra grande come un pugno e, in un solo movimento, lo colpí al volto, sminuzzando ossa e carne e ricacciandogli il grido giù per la gola.

Mentre si rialzava per gettarsi lungo il sentiero, un colpo di carabina gli rimbalzò sopra la testa, dritto dall’orlo della mesa. Il suo amuleto era ormai infranto.

7.

Un’ora prima dell’alba Fry aveva già piazzato tutti i suoi scout su un lato dello stretto canyon che s’incuneava all’interno della roccaforte di Pillo. Uno dei suoi uomini era rimasto con le cavalcature, circa un miglio più indietro; gli altri, nascosti tra le rocce e i cespugli che s’inerpicavano su per il canyon, erano ormai immersi nel loro gioco preferito. Un Apache è capace di restare immobile per un giorno intero, dietro un cespuglio, per colpire il suo nemico. E qui c’era la promessa di un magnifico raccolto. Ogni uomo era un esercito a sé stante e sapeva alla perfezione come combattere gli Apache, perché anche lui ne faceva parte.

L’appuntamento con Travisin e Ningun era fissato all’alba, e poi non c’era che da aspettare. Aspettare a occhi aperti, in base all’ipotesi che prima o poi Pillo avrebbe guidato la sua banda giù dalla montagna. Il percorso più logico era attraverso il canyon. E il punto più logico per un agguato era là dove il canyon si riduceva a una stretta gola, prima di sfociare ai piedi della montagna.

Accucciato accanto a Fry, de Both lo guardava attentamente e valutava la sua assoluta calma, nella speranza che quell’indifferenza finisse per contagiare anche lui, per strozzargli la paura dirompente che aveva in corpo. Ma de Both era una persona onesta, e tale era anche la sua paura. Era solamente giovane. Le ginocchia gli tremavano non tanto al pensiero della battaglia imminente – la prima, per lui – ma perché non sapeva se sarebbe riuscito a fare la cosa giusta, e ignorava come avrebbe reagito. E non c’erano alternative: farcela, oppure soccombere.

E la battaglia iniziò senza neanche dargli il tempo di prepararsi. Due, tre, quattro colpi di carabina spazzarono urlanti il canyon: in alto, in un punto nascosto alla vista. Contemporaneamente qualcosa si mosse sul lato opposto del canyon, a meno di cento metri di distanza, e apparve un Apache, che cominciò a saltare da un macigno all’altro giù per la ripida parete fino a raggiungere la spianata. L’indiano sbirciò per qualche secondo verso la direzione da cui erano arrivati i colpi, poi attraversò la spianata al piccolo trotto, iniziando subito la scalata della parete opposta, che gli avrebbe consentito di avere un migliore dominio della gola. Si fermò, accucciandosi dietro una roccia cinque metri sotto la postazione di de Both. Poi si voltò e riprese la scalata.

Certe volte, quando non c’è tempo di pensare, è meglio lasciarsi guidare dall’istinto. De Both si schiacciò contro il macigno che gli stava davanti e ne sentí la freschezza sulla guancia; poi piantò le ginocchia nel terreno, con forza. Udí il suolo friabile sbriciolarsi sotto i mocassini dell’indiano che si stava avvicinando. Udí la mano dell’Apache tastare la superficie levigata del pietrone, in cerca di un sostegno. Il cuore gli batteva forte in petto, il desiderio di scappare gli faceva tremare le ginocchia; il suo stivale si mosse spasmodico e involontario sul terreno. Il rumore infranse il silenzio come un coltello che passa su una mola, e de Both si ritrovò proiettato in piedi, gli occhi dritti sul volto dell’Apache.

Asesino tentò di alzare la carabina, ma era troppo tardi. Le braccia di de Both scattarono sopra la stretta roccia che separava i due uomini, e le sue dita artigliarono il collo dell’Apache. Asesino cadde all’indietro, spingendo la carabina nel senso della lunghezza contro la giacca azzurra, con tale forza da trascinare l’ufficiale oltre la roccia e farlo cadere sopra di sé. I due, avvinghiati, iniziarono a dimenarsi sul pendio, le teste rivolte verso il fondo del canyon. L’indiano tentò di urlare, ma le dita di de Both, bianche per la pressione, scavavano nelle sue corde vocali, e solo un gorgogliante guaito superò le labbra contorte. L’Apache mulinò disperato le braccia, cercando di strappare la parte posteriore della giacca azzurra, e riuscí a far scivolare una mano verso il basso, trovando quasi senza aspettarselo l’impugnatura d’osso del coltello. La lama scintillò alla luce, inarcandosi per poi conficcarsi nella stoffa tesa allo spasimo.

Vi fu un rantolo, poi una lamentosa ricerca d’aria. De Both rotolò via dall’Apache a occhi sbarrati e vide lo stivale di Fry schiantarsi sullo zigomo dell’indiano. Solo allora li richiuse, e sentí il bruciore tra le scapole, poi le mani di Fry che lo afferravano sotto le ascelle e lo tiravano su per il pendio, dietro la roccia. Le stesse mani gli strapparono camicia e giubba fino al colletto, per poi sciogliere il lurido fazzoletto da collo e premerlo sulla ferita.

– Non ha una brutta ferita, mister. Non gli ha lasciato abbastanza forze per fare un buon lavoro –. E il suo alito, reso pesante dal tabacco, soffiò contro la guancia di de Both e lo costrinse a voltare la testa.

– Mi sento bene. Ma… il sangue?

– La sistemerò più tardi, mister. Adesso non c’è tempo. Il capitano si è appena fatto vedere –. E indicò col pollice un punto alle sue spalle.

In fondo al canyon correva una figura solitaria, le braccia che si alzavano e abbassavano, la testa all’indietro, la bocca che risucchiava aria. Avanzava ad ampie, comode falcate, in grado di durare per miglia senza rallentare. Era il ritmo di una persona che stava sí correndo, ma con la piena consapevolezza delle proprie azioni. Aveva la morte alle calcagna, ma la pista era lunga. Mentre Travisin si avvicinava sempre più agli scout, Fry si sollevò leggermente ed emise un fischio basso ma stridulo, che interruppe subito. Travisin guardò su per il dislivello del canyon senza rallentare il passo, e s’infilò nelle ombre della gola nel momento in cui gli Apache spuntavano da dietro le rocce trecento metri più su. Lo videro penetrare nella strettoia proprio mentre raggiungevano la spianata del canyon, cinquanta guerrieri che strillavano a pieni polmoni come una nuvola di vampiri che esce da una caverna in un turbinio d’ali. Le loro grida rimbalzarono stridule sulle pareti del canyon come frustate in uno spazio ristretto.

Fry puntò il suo Remington-Hepburn, prendendo la mira in attesa dei ribelli. Voltò appena la testa e sputò una scia di tabacco nella sabbia. – Il capitano aveva ragione, sulle loro tracce. Ci avevano aperto la via dell’inferno. Un giorno o l’altro devo scoprire da dove sono saltati fuori –. Strizzò l’occhio per guardare meglio l’allineamento del mirino, col dito che valutava il gioco del grilletto. – Tempo un secondo, e potrà fare tutto il rumore che vuole –. All’esplosione, la tozza canna si sollevò leggermente, e un Apache in piena corsa fu scagliato all’indietro. Meno di un istante dopo, altre nove carabine aprirono il fuoco verso l’estremità del canyon.

Dopo il primo sparo, Fry si era tirato in piedi e pompava proiettili in quella calca di sagome olivastre alla massima velocità consentita dal grilletto. Al primo colpo i ribelli avevano vacillato, inciampando e buttandosi a terra l’un l’altro nel tentativo di mettersi al riparo, ma non sapevano dove andare. Erano stati presi nella loro stessa trappola. Urlavano, si dibattevano frenetici come in una danza. Alcuni tentarono di risalire il pendio dritti in bocca all’implacabile fuoco degli scout, e furono abbattuti all’istante. Altri cercarono di scalare la parete opposta, ma la pendenza era elevata e difficile da risalire, e divennero facili vittime. I superstiti si disposero in cerchio, e muovendosi senza sosta iniziarono a sparare all’impazzata contro le pareti del canyon, sprecando munizioni in piccole volute di fumo che salivano sopra le rocce e la sterpaglia. E continuavano a cadere, uno alla volta. Cinque spari consecutivi, poi due, poi uno. L’eco dell’ultimo sparo si esaurí in fondo al canyon. Il silenzio cominciò a scendere, ma fu interrotto quasi all’istante da un nuovo rumore. Ancora strilli, ma pieni di vigore, bramosi di sangue. Non era l’urlo di dolore dei terrorizzati Chiricahua, ma il grido di battaglia degli scout coyotero che si lanciavano giù per la discesa, addosso al nemico. La paga dell’esercito, ormai, se l’erano guadagnata; adesso era il momento della vendetta.

Metà dei ribelli gettò le braccia al cielo alla vista degli scout che sciamavano sulla spianata, ma i Coyotero avevano già sguainato i coltelli e sollevato il calcio dei fucili. Vi fu una terribile, selvaggia mescolanza di braccia e gambe, nella polvere che ricopriva ogni cosa: la belva messa all’angolo, resa ancor più feroce dalla paura, affrontava il cacciatore che ne aveva ormai assaggiato il sangue. E ne uscirono con i coltelli grondanti, i fucili sfracellati.

Per rientrare alla piccola agenzia sulle rive del Gila ci vollero due giorni più del previsto, perché il viaggio era rallentato dai feriti e da sedici Chiricahua ribelli con le gambe legate, di giorno, sotto le pance dei cavalli e, di notte, tenuti alla catena ai tronchi degli alberi. Travisin guidava il corteo, in silenzio.

De Both riuscí a mantenersi all’erta, malgrado il dolore lancinante che sentiva tra le scapole. Per quanto fosse strano, però, il viaggio di ritorno non gli dava un particolare fastidio. Nel guardare la fila dei sedici ribelli non provava niente. Né odio, né pietà. Col passare del tempo si rese conto che era semplice indifferenza, e dette al suo cappello un’inclinazione più baldanzosa. Boston poteva pure distare milioni di miglia, e lui ritrovarsi in culo al mondo, ma non gliene fregava più di tanto. Sapeva di essere diventato un uomo.

Fry continuava a masticare tabacco, mentre il suo sguardo svogliato batteva il terreno in cerca di tracce. Per questo lo pagavano. E continuava a pensare alla ridicola assurdità di essere andati alla caccia di sedici ribelli, averne trovati sessanta e tornarsene di nuovo con sedici. Doveva raccontarla al saloon di Lon Scorey giù a Globe, questa.

Pillo cavalcava col mento sul petto ossuto. Era ulteriormente invecchiato, e il foro che gli pulsava nella coscia non migliorava certo la situazione. Aveva già iniziato a sentire l’odore verdastro della putrefazione.

Nel pomeriggio del quarto giorno entrarono lentamente nello spiazzo quadrangolare a Gila. Travisin si guardò attorno. Nulla era cambiato. Per un attimo si era aspettato di trovare qualche novità, e si sentí struggere per qualcosa che non c’era. Ma gettò alle ortiche le sue malinconie e rientrò subito nel ruolo; quel ruolo che lo obbligava a essere il miglior cacciatore di Apache nel Territorio dell’Arizona.

Davanti all’ufficio dell’agenzia c’era un cavallo dell’esercito, e un soldato di cavalleria apparve sulla veranda proprio nell’istante in cui Travisin, Fry e de Both scendevano di sella per ripararsi sotto la gradita ombra della ramada.

– Con gli omaggi dell’ufficiale comandante, signore. Sono giunto da Fort Thomas con questo messaggio.

Travisin lesse il biglietto e si voltò, sorridendo, verso gli altri due. – Bill, voglio dirti una cosa, se già non la sai. Mai cercare di capire i ragionamenti di una donna, o dell’esercito. È di Collier. Dice che il Bureau ha deciso di riportare Pillo e la sua banda dalla loro gente, a Fort Apache. Tutti e sedici. Ci è andata bene che ne abbiamo sedici da rimandargli indietro.

– Già, – disse Fry, – altrimenti rischiavi di finire davanti alla corte marziale. Per come vanno le cose, se Pillo ci rimette la gamba, ti degraderanno a sottotenente.

All’ascolto di quelle parole lo sguardo interrogativo di de Both si trasformò in aperta rabbia. Il sottotenente aprí la bocca per fare un commento, ma cambiò idea e aspettò di essersi calmato, per poi borbottare un semplice: – Idioti!

Se Travisin fosse stato un tipo scherzoso, avrebbe guardato Fry strizzandogli l’occhio. Invece lo scrutò con un lieve sorriso, ma con lo sguardo che diceva: «Barney, mi sa che ci siamo guadagnati un sottotenente». Poi entrò nell’ufficio. Oltre alle decisioni idiote del Bureau, esistono anche degli stivali che sono rimasti ai piedi troppo a lungo.

E sulle rive del Gila i tamburi di guerra tacciono di nuovo. Ma nei posti di frontiera è impossibile rilassarsi. Saranno anche calati di numero, ma restano pur sempre Apache.

Trail of the Apache, apparso per la prima volta con il titolo Apache Agent su «Argosy», dicembre 1951.