La moglie del colonnello

Mata Lobo era impegnato nel suo gioco preferito. Tese le gambe all’indietro, tenendole rigide finché non sentí i mocassini toccare la roccia, e solo allora fece forza, dimenandosi sul terreno soffice e sabbioso, provando una forma quasi animalesca di piacere nel sentirsi il sole rovente sulla schiena nuda, nonché la terra calda e cedevole sotto il ventre. Allungò la mano a toccare il calcio dello Sharps, a qualche centimetro dal mento, e prese la mira per la centesima volta. Il bersaglio non era mutato.

A una sessantina di metri in fondo alla discesa si scorgeva la strada costruita dai genieri, che passava tra le basse colline in un tracciato secco e pericoloso pur di seguire a monte l’ansa del Banderas Creek e poi continuare, parallela alla base della collina, per salire lentamente su quel tratto della Sierra Apache. E il mirino di Mata Lobo era puntato dritto sull’improvvisa curva a gomito di quella strada.

Mata Lobo prese per l’ennesima volta la mira, piegando il dito sul grilletto e valutandone il gioco, poi lo lasciò andare. Non mancava molto. Tra qualche minuto avrebbe udito in lontananza il lieve rombo della diligenza partita dalla stazione di cambio di Rindo, diretta al Banderas Crossing, e che adesso si muoveva sulla pianura. Sei miglia di deserto, piatto, senza una curva. E poi, più forte, la stridente, tintinnante esplosione di cuoio, legno e cavalli, in mezzo a un gigantesco cigolio: la Hatch & Hodges Overland che iniziava la lenta salita dell’ultimo, boscoso tratto della Sierra Apache, per poi scendere in un’altra pianura rovente, dodici miglia fino a Inspiration, fine della corsa. Nella sua mente, Mata Lobo aveva accorciato il percorso di una decina di miglia.

Conosceva ogni centimetro di quella strada. Soprattutto la curva improvvisa all’inizio della salita. L’aveva sorvegliata per settimane intere, prendendo nota degli orari delle diligenze, tenendo d’occhio i conducenti dall’alto della collina. E, grazie alla sua pazienza di Apache, aveva appreso molte cose.

Alla curva, il conducente e il suo aiutante a cassetta, ovviamente armato, erano troppo impegnati coi cavalli per prestare attenzione al versante della collina. E i passeggeri, satolli e a loro agio dopo il pranzo da Rindo, sarebbero stati costretti ad aggrapparsi alle maniglie, perché la Concord avrebbe improvvisamente imboccato quella curva a gomito. Figurarsi se avevano il tempo di guardare dai finestrini.

Era il punto perfetto per un’imboscata, alla maniera degli Apache. Mata Lobo ne era certo, perché l’aveva già fatto altre volte.

Fu allora che ebbero inizio le danze. Si issò sui gomiti e tese le orecchie al rumore che giungeva dal deserto, poco più di un sussurro. Ancora due miglia. Poi, sempre più forte; infine quel suono lacerante che si trasformava in una bolgia infernale, e la diligenza che affrontava la salita.

L’Apache fece ruotare il fucile sulle rocce davanti a sé, accertandosi della mancanza di ostacoli, e allineò sul terreno, a portata di mano, le cinque cartucce di ottone.

Quando tornò a guardare la strada, notò che i cavalli di testa stavano entrando nel suo campo visivo. Attese quindi che l’intera diligenza gli scorresse davanti agli occhi, rallentando leggermente al centro della strada, poi aprí il fuoco sul più vicino dei due cavalli di testa.

L’impeto dell’animale continuò quanto bastava a Mata Lobo per inserire una nuova cartuccia nel fucile e sparare all’altro. I cavalli sbandarono, cozzando tra loro senza fermarsi; poi quattro paia di zampe cedettero tutte assieme e altre otto paia tirarono dritto, calpestando i due di testa solo per inciampare all’istante, in un delirio assoluto di zampe che mulinavano, cavalli che strillavano e freni che stridevano.

Accanto al conducente, il tipo con la doppietta continuava a schiacciare il pedale del freno, ma proprio in quell’attimo la diligenza si piegò in avanti e cadde di lato, aprendo un profondo solco nella strada sterrata. Subito, una fitta nuvola di polvere ricoprí l’intera scena.

Quando la polvere iniziò a calare, Mata Lobo scorse una figura riversa accanto alla Concord rovesciata, il viso rivolto in direzione delle due ruote di destra che, in alto, ancora giravano lente. Più avanti ci fu un lieve spostamento, un’altra figura che strisciava sul terreno, si rialzava, barcollava, si costringeva ad attraversare la strada con movimenti disperati e incerti che riuscirono a trasformarsi in una corsa a ginocchia piegate. La figura era quasi riuscita a raggiungere l’argine del torrente, un riparo sicuro, quando l’urlo del fucile da bisonti risuonò di nuovo tra i fianchi della collina. L’impatto la scagliò oltre l’argine, spedendola a faccia in giù proprio sulla riva del torrente.

Mata Lobo puntò di nuovo lo Sharps sulla diligenza capovolta, appena in tempo per scorgere una testa che spuntava dalla portiera spalancata. Fu quasi per premere il dito sul grilletto, ma esitò alla vista di un paio di spalle e, infine, del resto del corpo.

L’uomo si fermò incerto e si guardò attorno, tendendo l’orecchio nel silenzio. Un ometto dall’aria strana, grasso e spaventato, ma senza sapere bene da cosa. Stringeva una valigetta nera che, forse, lo identificava come un commesso viaggiatore. E la stringeva con fare protettivo, come se fosse il suo unico mezzo di sussistenza.

Quando si decise a guardare il versante della collina, vide forse il riflesso della canna del fucile; ma, anche in tal caso, non era cosa che gli suggerisse alcunché. Non ebbe alcuna reazione. E comunque era troppo tardi. La pallottola calibro .50 lo fece saltare via come un fuscello, scagliandolo lontano dalla diligenza.

Di nuovo silenzio. E, questa volta, più lungo. Le ruote che sovrastavano la sagoma scomposta della guardia avevano smesso di girare.

Eppure, Mata Lobo aspettò ancora. I suoi occhi, sotto la bandana rossa legata sulla fronte, erano inchiodati sulla Concord rovesciata. Non si era mosso di un millimetro e aspettava, immobile come un sasso. Guardava, aspettava, faceva di conto.

Tre morti, al momento; il conducente, un passeggero e l’uomo di guardia, riverso in strada accanto alla carrozza. Morto anche lui, senza dubbio. Ma quella linea, di solito, era assai più frequentata: almeno altri due passeggeri, e su questo Mata Lobo si arrovellava.

Magari c’era ancora qualcuno, all’interno, morto, ferito oppure in attesa, e con una pistola carica. Comunque fosse, Mata Lobo doveva scoprirlo. Mica aveva messo su quell’imboscata per passare il tempo. Gli servivano munizioni, una camicia e qualsiasi carabattola luccicante che gli fosse saltata agli occhi. Ma furono le munizioni, più di ogni altra cosa, a spingerlo infine a uscire dal suo nascondiglio e scivolare silenzioso giù per la collina.

Il suo intuito apache lo spinse a prenderla larga, cosí che quando iniziò ad avvicinarsi alla Concord si era lasciato il Banderas Creek alle spalle. Avanzava mezzo accucciato, a passi lenti e misurati, prima il tallone e poi la punta, come un gatto, una molla pronta a scattare. Mata Lobo era un Apache Chiricahua, ben addestrato all’arte della guerra.

Passò davanti ai bagagli sparsi sul terreno senza degnarli di uno sguardo, e si gettò carponi appena ebbe raggiunto la parete verticale che era il tetto della diligenza. Toccò appena il portapacchi; poi schiacciò l’orecchio contro la superficie liscia del tetto e rimase in quella posizione per quasi cinque minuti. Minuti lunghi e silenziosi.

Stava per rialzarsi, ormai convinto che la carrozza fosse vuota, quando udí un rumore secco, una specie di raschio, provenire dall’interno. Come qualcuno che muovesse il piede su un’asse.

Si bloccò di nuovo, schiacciandosi ancora contro la carrozza, poi appoggiò con calma il fucile al suolo e sfilò un coltellaccio dalla fondina che portava alle reni.

Si spinse verso l’alto, un centimetro per volta, fin quando non fu in posizione eretta; poi mise un piede su una traversa del portapacchi e si issò con la testa sopra il livello della diligenza. Era convinto di sapersi muovere furtivo come un animale. C’era il rischio di trovarsi una pistola sotto il naso, ma ne dubitava. Solo uno sciocco si sarebbe mosso, sapendo che lui era là fuori. Uno sciocco, un bambino, una donna.

E non sbagliava. La donna era rannicchiata contro il tetto della carrozza, la schiena a ridosso della superficie liscia, e con entrambe le mani reggeva una pistola a canna lunga puntata sul finestrino posteriore. Non aveva il minimo sentore dell’Apache che la fissava da qualche decina di centimetri, a pancia in giù sulla fiancata della carrozza. E quando lo vide, era ormai troppo tardi.

Il revolver si alzò, il coltello scese; ma quest’ultimo fu più rapido, e la grossa protuberanza del manico sbatté sulle nocche della donna, facendole saltare di mano la pistola. Braccia scure e dalle vene in rilievo si allungarono all’interno per trascinarla fuori dal finestrino. La donna lottò, si dimenò, ma per pochi attimi, perché lui la fece volare via dalla carrozza per poi zompare a sua volta sulla strada.

Lei era finita a sedere nella polvere e lo guardava con aria di sfida, le labbra che si muovevano appena, gli occhi fissi sul suo volto. Si tirò su con un grido – era il primo – che non mostrava comunque paura.

Si era quasi rialzata quando la mano dell’Apache le serrò i capelli per farle perdere l’equilibrio e gettarla di nuovo a terra. Le fu sopra, fissandole il volto polveroso. Poi si voltò verso la diligenza.

Lei lo osservò rovistare tra i rottami, seduta e immobile, perfettamente conscia che un suo tentativo di fuga avrebbe probabilmente significato la morte. Senza fretta, si portò le mani tra i capelli e rassettò le ciocche bionde che l’Apache le aveva fatto uscire dallo stretto chignon sulla nuca. Mani che si muovevano lentamente, in maniera pressoché inconsapevole, e che poi si abbassarono, ancora quasi inerti, a togliere la polvere dall’abito da viaggio di jersey verde, come se quei movimenti ubbidissero all’istinto e non alla premeditazione.

Ma i suoi occhi, no, non erano inerti. Seguivano ogni mossa dell’Apache, stringendosi appena in due fessure che creavano un forte contrasto con la morbidezza del suo volto, come fiamme sull’acqua. Muoveva il corpo con la forza dell’abitudine, mentre era dagli occhi che risaltava la mente.

Aveva paura, ma quel che traspariva era solo disgusto. Paura era il peso che le opprimeva il petto, quasi una pugnalata, un’emozione che aveva ormai imparato a controllare. Sembrava sulla trentina, ma il mento e le piccole rughe accanto agli occhi parlavano di almeno sei anni in più.

Ogni tanto, l’Apache voltava il capo per guardarla, ma la scopriva sempre nell’identica posizione. Lei lo osservò piegarsi sulla sagoma immobile della guardia riversa sulla schiena, e batté con forza le palpebre quando l’indiano abbassò il calcio del fucile sulla fronte dell’uomo; però non distolse lo sguardo.

Ormai non c’era più dubbio: erano tutti morti. Mata Lobo era un tipo preciso, visto che la sua gente continuava a massacrare i blancos fin dalla prima volta in cui il bastone di guerra si era abbattuto sulle macchinose armature dei conquistadores. Le sue gesta erano ben note in tutta l’Apacheria, là dove veniva spesso sussurrato il nome di quel Chiricahua ribelle e perennemente assetato di sangue. Nessuno era mai sopravvissuto per raccontare del solitario killer apache.

A quel punto, Mata Lobo si sentiva soddisfatto, ma qualcosa ancora lo mandava in bestia. Nessuno di quegli uomini usava uno Sharps, quindi niente munizioni da recuperare. Raccolse il Winchester della guardia, passandosi la cartucciera sopra la spalla, ma si accorse di trovarsi meglio col pesante fucile da bisonti. Nello Sharps riponeva una fiducia nata da una serie di difficili prove. Ma gli erano rimaste solo due cartucce.

Rivolse la sua attenzione al commesso viaggiatore, che giaceva scomposto nei pressi della carrozza. Col piede, fece rotolare il corpo sulla schiena. Sullo sparato della camicia si allargava una chiazza scarlatta. L’Apache aprí la valigetta nera accanto al cadavere, ne rovesciò il contenuto sul terreno – aghi, forbici, coltellini da frutta e verdura, filo da cucito – e si diresse ai cavalli.

Quel che fece in seguito costrinse la donna a voltare la testa, perché col coltellaccio staccò un grosso brandello di carne dal posteriore di uno dei cavalli caduti e lo ficcò nella valigetta del rappresentante. Poi si avvicinò alla testa del cavallo e gli recise la giugulare. Poco dopo, un Apache Chiricahua al cui fianco camminava una donna bianca stava guadando il Banderas Creek nel tratto meno profondo. La donna trascinava le gambe nell’acqua, con passo rigido e lento, come se la sua riluttanza a muoverle fosse un chiaro gesto di sfida nei confronti dell’indiano.

Il Chiricahua aveva con sé due fucili e una valigetta macchiata di sangue, e indossava una camicia pulita le cui falde gli ciondolavano sui fianchi stretti. A intervalli regolari si voltava a guardare il volto gelido della donna. Scomparvero trecento metri più a monte, là dove il torrente curvava tra la scura macchia dei pini.

Furono le staffette del reparto C di Phil Langmade, quasi due ore più tardi, a trovare la diligenza capovolta e i tre cadaveri. Venti giorni passati sul campo e una scaramuccia con Nachee: per questo avevano perduto la coincidenza da Rindo.

Stavano tornando a Inspiration, alla guarnigione, le cosce indolenzite dalle lunghe ore passate in sella. Sporchi, bianchi di traspirazione, incrostati di polvere – sia sulle uniformi sia nella mente – dopo giorni e giorni di cavalcata attraverso il tremendo e accecante deserto dell’Arizona centrale. E, tra i loro quaranta cavalli, tre avevano dei poncho gettati sulla sella, rigonfi e privi di forma. Non tutti i servizi di pattuglia erano vittima della routine.

Langmade ordinò ai soldati che cavalcavano alle ali del reparto di risalire le creste su entrambi i versanti, e poi avanzò. I soldati si allargarono in semicerchio, guardando con occhi vacui, privi di vita, più i loro commilitoni sulle creste che la macabra scena nel mezzo della strada. A vedere la morte ci si abitua, ad aspettarsela mai.

Langmade scese di sella, mentre Simon Street, lo scout in borghese, spinse il suo cavallo fino al cadavere del conducente. Poi smontò anche lui. Risalí il corso del torrente di un centinaio di metri e tornò indietro, accostandosi all’ufficiale girando attorno alla carrozza. I soldati erano ancora in sella, immobili, semiaddormentati, pronti (o forse no) ad alzare le carabine. Abitudine.

– Non è che ho tutta questa voglia di guardare là dentro, – disse Langmade. – Se c’è, è morta.

Lo sguardo di Street percorse lentamente la scena. – Non c’è più, – disse. – Sull’argine ho trovato il segno di un tacco. Poco visibile, ma è una traccia. Hanno risalito il torrente. Questo è certo. Fossero andati nella direzione opposta, sarebbero finiti in campo aperto dalle parti di Rindo.

Langmade si issò sulla fiancata della diligenza e ne scese all’istante, quasi con lo stesso movimento. Fece un cenno in direzione dello scout e continuò a muovere la testa, tracciando come un arco lungo la sommità della cresta più vicina.

– Scommetto che se ne stavano lassù, ad aspettare, – disse Langmade. – Un mese di paga che erano Apache.

Street seguí il suo sguardo in cima alla cresta. Poi dette un’occhiata all’ufficiale, il volto rugoso color bronzo e vecchio più dei suoi anni, zampe di gallina alla confluenza tra occhi e tempie, cappello calato sulla fronte, occhi in penombra. – Sta gettando via i suoi quattrini, soldato, – disse. – Apache, sí, ma soltanto uno.

– Uno? – Langmade lo guardò di scatto.

– Questo dicono le tracce –. Street indicò il cavallo massacrato. – Una spedizione di guerra mica si porta via una sola bistecca.

Poi rivolse la sua attenzione alla cresta. Guardava il punto esatto dal quale l’Apache aveva sparato. Infine abbassò lentamente gli occhi sulla strada per Banderas Creek. E li socchiuse per difendersi dal sole, seguendo comunque il corso del torrente, dall’ansa fino al boschetto di pini.

Langmade spinse via dalla fronte il berretto d’ordinanza, liberandosi dalla feroce stretta della banda interna, e osservò incuriosito lo scout. Era giovane, Langmade, sui venticinque, ma come sottotenente era in gamba. Non parlava molto, era un buon osservatore e imparava. E sapeva che il suo insegnante era uno dei migliori. Nello stomaco però gli stava montando la tensione, e non erano solo le conseguenze di venti giorni di pattuglia.

C’erano tre morti, in mezzo alla strada, e una donna scomparsa, e tutto questo era successo perché non era riuscito a far arrivare in tempo la pattuglia da Rindo. Il suo rapporto avrebbe incluso il resoconto della scaramuccia con Nachee, e questo sarebbe bastato ad assolverlo da ogni colpa. Ma non era comunque sufficiente per dargli il coraggio di affrontare il colonnello Darck.

Mica puoi far finta di niente e dire solo «mi spiace» a un uomo la cui moglie è stata appena rapita da un Apache assetato di sangue... anche se la colpa non è tua.

Questo era il punto. Langmade rimase immobile e continuò a guardare lo scout. La responsabilità del comando toccava a lui, in quel momento, visto che era pur sempre un ufficiale dell’esercito degli Stati Uniti, ma si sentiva stanco. Gli dolevano tutte le ossa, e non riusciva più a concentrarsi, ormai stufo di vedersela dalla mattina alla sera con quel territorio selvaggio, di combattere gli inafferrabili Apache che ci vivevano; e, soprattutto, il tempo non bastava mai.

Imparare a combattere non è cosí facile, per la maggior parte degli uomini. E imparare a combattere gli Apache non è facile per nessuno. Prima bisogna osservare bene i veterani, fino ad assumere la loro stessa espressione d’impassibilità assoluta, e solo allora prendere delle decisioni.

Attese con pazienza che Street dicesse qualcosa, che gli fornisse uno spunto. Gli tornarono in mente i quaranta soldati che gli fissavano le sottili sbarrette dorate sulle spalle, e tentò di gettare alle ortiche la propria sensazione d’impotenza.

Poi disse: – Il colonnello era in partenza da Fort Thomas per andare a incontrare sua moglie a Inspiration –. Lo scout lo sapeva benissimo, certo, ma lui doveva pur farsi sentire. Doveva riempire il vuoto, fin quando non succedeva qualcosa.

Simon Street guardò l’ufficiale, e un mezzo sorriso increspò la linea sottile delle sue labbra. – La troveremo, soldato. Non è stata colpa sua. Ogni giorno c’è qualcuno che viene fatto secco dagli Apache.

Appena dette queste parole, lo scout si rese conto della gaffe e aggiunse, in fretta: – Vuol sapere chi mi fa venire in mente, questo lavoretto? – e poi proseguí, quando vide che Langmade lo fissava senza dire niente.

– Quel ribelle apache che stiamo rincorrendo da cinque anni. Nochalbestinay, anche se i messicani lo chiamano Mata Lobo. Era un Chiricahua Turkey Creek, che non si sarebbe mai abituato alla vita della riserva, neanche fosse campato settecento anni. Mandarlo a San Carlos è stato come gettare un pezzo di carne cruda a un puma e poi cercare di cavargli tutti i denti.

Street tirò fuori dalla tasca un cigarillo e passò la lingua sullo strato esterno di tabacco, già mezzo sbriciolato. – Sa una cosa, da queste parti un tempo giravano almeno un migliaio di soldati, più cento scout apache, tutti impegnati a cercare lui, e ci fosse uno che sia mai riuscito non dico a prenderlo ma solo a vederlo. Impossibile chiederlo ai morti, se l’hanno visto oppure no. Un Apache è carogna già di suo, ma questo è un mezzo demonio.

Fece qualche passo verso il cavallo macellato. – E ha pure un certo buon gusto, in fatto di bistecche.

Langmade avvertiva ormai la tensione a livelli insostenibili. Il solo starsene lí in piedi, le mani come zavorra lungo i fianchi, il peso che gli faceva scendere lo stomaco negli stivali... Fu costretto a prendere tempo, fin quando non gli parve di poter parlare con tono il più possibile naturale.

– Lei ha le tracce, e io gli uomini, – disse. – Mi indichi la strada, Simon. Mi basta questo.

Street si era già voltato sui tacchi, diretto al suo cavallo. Si fermò per guardare l’ufficiale. – Riporti le sue truppe a Inspiration e si procuri una pattuglia fresca, soldato.

Aveva parlato a bassa voce, direttamente all’ufficiale, ma Langmade rispose quasi con un grido.

– Gli uomini sono già qui! Mi indichi la strada!

– Non ho intenzione di fare da guida a dei cadaveri, – rispose lo scout con disinvoltura. – Se non ce la fanno mille uomini, a beccarlo, non può far conto su quaranta. Magari la risposta giusta è usarne uno solo. Non voglio certo insegnarle a fare il suo lavoro, figliolo, ma se fossi in lei tornerei alla svelta a Inspiration e mi farei assegnare una nuova pattuglia.

Street salí a cavallo e solo allora, dall’alto in basso, guardò nuovamente Langmade, che gli era andato dietro. – La pista è ancora fresca, se proprio vuole, – disse, indicando con la testa il cavallo massacrato. – Quella bestia è morta meno di tre ore fa. E l’Apache ha con sé una donna che gli rallenta la marcia.

– Mica sono nato ieri, Simon, – disse Langmade. – Gliela rallenta, certo, ma non per molto.

La bocca dello scout si aprí in un leggero sorriso, e i talloni pungolarono i fianchi del cavallo. – Proprio per questo mi devo sbrigare, soldato.

Si avviò al passo verso il Banderas Creek e, nel risalirne il corso, lanciò la sua cavalcatura al galoppo.

Un’ora prima del tramonto Simon Street stava guidando al passo il suo cavallo lungo la pista sinuosa che scendeva in diagonale attraverso la collina fittamente alberata che, sul versante occidentale, si univa alle cime rocciose della Sierra Apache. Quel graduale livellamento della sierra era un autentico intrico di ginepri, ceppi contorti e rocce, e saliva e scendeva bruscamente da una montagnola all’altra.

La pista si spingeva a fatica in una vaga direzione sud-ovest, lottando con le frane, i pini e i fichi d’india, per emergere finalmente, qualche miglio più a sud, a Devil’s Flats. Dalla cresta, e in qualche tratto del cammino, si riusciva a scorgere in lontananza il biancore spoglio e dilavato dell’altopiano.

Street era a ormai una decina di miglia dal luogo dell’imboscata, e si apriva lentamente la strada lungo il torrente, cercando qualche indizio rivelatore. Sapeva che anche l’Apache era passato di lí, senza lasciare tracce, ma prima o poi avrebbe commesso un passo falso.

Tracce che l’indiano aveva continuato a nascondere, avanzando lungo il corso d’acqua, ma da lí si sarebbe comunque allontanato, per qualsivoglia motivo. Come per prendere il suo cavallo. E non c’è modo di tenere un cavallo legato per qualche tempo in un posto ben preciso, senza lasciare neanche una traccia. Capire quale fosse quel posto era tutta un’altra faccenda.

Street vide il basso ramo che era rimasto incastrato nella cavezza, e il suo sguardo cadde sulla piccola quantità di escrementi equini che erano sfuggiti al repulisti dell’Apache. Il resto, doveva averlo gettato tra gli sterpi più fitti. Eccola, la pista giusta. Da lí in avanti, era solo questione di mettersi a pensare come un Apache.

Quella sera, lo scout consumò quel che gli restava della carne secca, e un quarto di borraccia di caffè freddo. Niente fuoco. Cibo non riscaldato, insapore, con la schiena addossata a una roccia piatta che aveva assorbito il calore del sole, la sua pazienza armata contro la nera voragine della notte.

Aveva il Winchester sulle ginocchia, e la leggera pressione dell’arma sulla coscia gli forniva una sensazione di sicurezza, contro la solitudine notturna. Silenzio assoluto, poi qualche occasionale rumore. Avrebbe potuto essere l’unico uomo sulla faccia della terra. Eppure, a qualche miglio di distanza, magari anche meno, c’era un Apache ribelle capace di uccidere alla minima provocazione. E aveva con sé una donna bianca.

Pensieroso, Street accarezzò il calcio del Winchester.

Nella penombra del crepuscolo, Amelia Darck osservava l’Apache. Chino sul rosso brandello di carne equina, seduto sui talloni, vi affondò il coltellaccio, per staccarne un pezzo e ficcarselo in bocca, ma il freddo sapore di sangue della carne cruda gli serrò i muscoli della gola e lo costrinse a deglutire con forza per buttarla giù. Poteva aspettare.

Tagliò il pezzo di carne in strisce sottili e le dispose, l’una accanto all’altra, su una roccia piatta. Le avrebbe affumicate con comodo, a tempo debito, cosí da avere una scorta sufficiente.

Guardò la donna bianca e vide che anche lei lo fissava. Non faceva altro, quella, e sempre con la medesima espressione in volto: impietrita, davvero strana. I loro occhi si incrociarono, e Mata Lobo tornò a rivolgere la sua attenzione alla carne, mentre la donna continuò a guardarlo fisso.

Sedeva sul terreno, appoggiandosi alle braccia tese dietro la schiena, il corpo rigido e immobile. Le sue gambe erano allungate in avanti, le caviglie legate da una correggia di cuoio. E continuava a fissare l’Apache.

Aveva sei anni, Amelia Darck, quando ne aveva visto uno per la prima volta. E quel volto era ancora vivido nella sua mente, «come cotenna di maiale», le aveva fatto notare qualcuno. E sempre con una bandana sporca sulla fronte.

Yuma, Whipple Barracks, Fort Apache e Fort Thomas. Alloggi per ufficiali lungo uno spiazzo cotto dal sole. Chiricahua, White Mountain, Mescalero e Tonto. Mocassini alla coscia e uno Spencer arrugginito. Prima il tizwin, poi i tamburi di guerra. E solo la rossa ferita del sole, dopo che la pattuglia era scomparsa nel riverbero, tre miglia a ovest di Fort Thomas. Poncho informi che un tempo erano stati uomini. Solita, vecchia storia. E continuava a fissare l’Apache.

Mata Lobo le lanciò un’occhiata, poi si alzò di scatto e le andò incontro. Si chinò ai suoi piedi, esitò, infine le infilò la lama del coltello tra le caviglie e la tirò verso l’alto, tagliando la correggia di cuoio.

Il volto dell’indiano era privo d’espressione, liscio e impassibile. L’Apache si accucciò. Un volto che, nella semioscurità, era come un’ombra sulla roccia. Le premette le spalle con le mani, fino a farle piegare appena le braccia e spingerle la schiena sull’erba bassa e rada.

Le tolse le mani dalle spalle e le toccò lieve il volto, le dita a sfiorarle le guance come un cieco che vuol riconoscere un oggetto, e adagiò il suo corpo su quello di lei.

L’espressione della donna non era mutata. Gli occhi aperti, le palpebre che battevano di rado. Avvertí il rancido odore di terriccio dell’Apache. Poi allargò le braccia e lo tirò a sé.

Simon Street si alzò prima dell’alba. Offrí le ultime gocce di caffè gelido e rancido al suo stomaco sempre più raggrinzito, nell’attesa che il sole facesse volare via un altro strato dell’oscurità mattutina. Per quella stagione, era ancora freddo e umido e, quando lo scout riprese a discendere la pista, una foschia grigiastra pendeva ancora dai rami più bassi degli alberi, mollemente adagiata sulle grottesche formazioni di roccia.

Più spesso di prima, il terreno piegava verso sinistra, mentre la pista restava incollata al versante della collina pur di scendere ancora in diagonale; e, in lontananza, si notava come una lastra di fumo lattiginoso là dove la foschia si teneva aggrappata all’altopiano. La pista era stretta e piena di sassi, costeggiata da fitti cespugli di sterpi per gran parte del suo tracciato.

Meno di un miglio più avanti, il dislivello si fece nuovamente più ripido, alla sinistra della pista, senza più alberi o rocce, aprendosi tra le piante in una sorta di passaggio liscio e uniforme, largo una ventina di metri. A quel punto la foschia era in gran parte svanita, e Street riusciva a vedere quasi fino in fondo alla discesa.

Dapprima vi fu una lievissima chiazza in movimento. Poi il rumore. Un rumore che poteva anche essere umano.

Negli ultimi dieci anni Simon Street non aveva fatto altro che stare all’erta. Quindi si guardò bene dal fermarsi di colpo. Tirò lievemente le redini, bisbigliando parole dolci all’orecchio della sua cavalla, e scivolò giù dalla sella, sussurrandole ancora qualcosa e legando le briglie a un ramo di pino, trenta centimetri da terra.

Proseguí lungo la pista, fin quando il pendio non fu nuovamente invaso da cespugli e alberi, e solo allora abbandonò il tracciato. Un metro per volta, accertandosi a ogni passo che il terreno fosse solido, piegando lentamente i rami per non segnalare la sua presenza. E, a intervalli brevi e regolari, si gettava al suolo in attesa, scrutando in ogni direzione, anche alle sue spalle.

Aveva percorso un centinaio di metri, quando vide la donna.

Si acquattò sul terreno sabbioso e strisciò sotto i rami bassi di un pino, osservandola da circa trenta metri di distanza. Era seduta su qualcosa appena sollevato da terra, la schiena contro il tronco liscio di una betulla.

Le stava arrivando da dietro, e riusciva a vedere solo una parte della testa e delle spalle appoggiate all’albero. Il cespuglio che le era accanto nascondeva la parte inferiore del suo corpo, ma nella sua posizione c’era qualcosa di strano: un’immobilità assoluta, il modo in cui la spalla premeva cosí forte contro la forma circolare del tronco. La sensazione era che fosse morta. L’avrebbe saputo presto.

Simon Street giacque immobile sotto lo spesso fogliame e aspettò, il Winchester davanti a sé. Aveva di che pensare. Non ci si abitua mai alla vista di una donna bianca, dopo che è passata per le mani di un Apache. A distanza di un’ora, di una settimana, di dieci anni, quell’immagine vi tornerà sempre alla memoria, cosí vivida da non poter essere facilmente dimenticata.

E avrete in mente la sagoma dell’Apache, vicina come il tanfo soffocante di un animale in calore, e non ci sarà neanche bisogno di averla vista. Allora vi verrà da vomitare, se siete quel tipo di persona. Street non lo era, ma non moriva certo dalla voglia di avvicinarsi alla donna.

Dopo quasi mezz’ora riprese ad avanzare verso di lei. In quel lasso di tempo non aveva fatto un solo movimento. E neanche lei. Se era morta, quasi di sicuro l’Apache era già lontano. Ma si trattava di semplici congetture, e quando si tratta di congetture bisogna assumersi il rischio.

Continuò a strisciare, lentamente, mezzo metro per volta, fino a trovarsi giusto dietro la betulla. Poi alzò un braccio, facendo scivolare la mano sulla corteccia biancastra, e toccò lieve la spalla della donna.

Amelia Darck schizzò in piedi, ruotando su se stessa. Il suo volto era bianco come un cencio, gli occhi sbarrati e pieni di spavento; ma alla vista dello scout il colore parve affiorarle di nuovo alle guance, e la bocca formò un sorriso incerto.

– Lei è in ritardo, mister Street. Sa quant’è che aspetto?

Per un istante, lo scout rimase a bocca aperta. Si rendeva conto di avere un’espressione da stupido, ma non poteva farci niente.

La donna riacquistò la sua compostezza e tornò a essere la moglie del colonnello; il volto tirato e le ombre scure attorno agli occhi, però, erano impossibili da cancellare con un semplice e beneducato sorriso.

Poi Street vide l’Apache. Giaceva a pancia in giù tra l’erba bassa, appena alle spalle della signora Darck. Street si spostò di lato e vide il manico di un coltellaccio spuntare dritto dalla schiena dell’indiano. Sulla camicia di cotone, attorno al manico, si allargava una macchia scarlatta.

Lui la guardò di nuovo, con l’identica espressione da stupido.

– Mister Street, ho passato tutta la notte seduta in compagnia di un indiano defunto, e ho quasi esaurito la pazienza. Le dispiace riportarmi da mio marito?

Lo scout tornò a guardare l’Apache e poi, ancora, la donna. Incredulo, fece per dire qualcosa, ma Amelia Darck non gli lasciò il tempo.

– Ho passato quasi tutta la vita da queste parti, mister Street, come lei sa benissimo. Ho udito i tamburi di guerra degli Apache prima ancora di andare alla mia prima festa da ballo, ma non sono arrivata al punto di dovermi fare un amante Apache.

Davanti agli occhi di Simon Street passò l’immagine di mille soldati e cento scout. Ma la donna si era già avviata di buon passo su per il pendio.

The Colonel’s Lady, apparso per la prima volta con il titolo Road to Inspiration in «Zane Grey’s Western», novembre 1952.