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Regence Hooke non era mai stato il tipo da perdere tempo. Per quanto fosse vero quel che diceva sempre suo padre circa il fatto che starsene con le mani in mano significava fare il lavoro del diavolo, Hooke pensava che quel lavoro si potesse comunque fare molto meglio usandole, quelle mani. Così, laddove altri uomini si sarebbero potuti nascondere sotto al piumone in attesa che i federali e il Dipartimento della Sicurezza Interna seguissero la traccia di sangue dal disastro del Marcello al Deluxe Inn di Slidell, l’Ausiliario Hooke mise mano al telefono e ripensò la propria strategia circa Vern il drago di Boar Island, che senza dubbio era tornato alla sua baracca a ubriacarsi per il resto dell’eternità.

Prima di tutto, Regence non credeva più che fosse possibile imbrigliare i poteri di Vern, un’idea con la quale si era trastullato. Ciò significava che doveva togliere di mezzo il drago, impresa che avrebbe potuto rivelarsi ardua, ma il fatto era che non c’era posto per entrambi a questo mondo. E poi adesso Vern era ferito, e, cosa ancora più importante, Hooke sapeva che avrebbe potuto infliggergli molti più danni. Senza dubbio il drago e il suo ragazzino domestico si stavano battendo il cinque per festeggiare la scomparsa di Regence Hooke, quindi avrebbe potuto contare sull’effetto sorpresa. Era vero che Vern si sarebbe ripreso un po’ a ogni ora che passava, riducendo progressivamente il vantaggio di Hooke, ma sarebbe stato comunque meglio tenere un basso profilo per un paio di giorni, lasciar posare la cenere, elaborare un piano e radunare le truppe.

“Ma vattene e basta, idiota!” gli disse la sua vocina interiore. “Hai un borsone gonfio di contanti e ricchi premi, passa il confine e vatti a cercare la tua rosa di Tijuana.”

Ma Hooke si rifiutava di dar retta al buon senso. “Mi chiamo Regence. Sono un re, e avrò il mio regno.”

Non gli sarebbe mai capitata un’altra chance come questa. In Iraq aveva già visto uomini come lui agguantare la propria fortuna. Un vero uomo doveva farsi trovare pronto a riconoscere e a riempire un vuoto di potere quando se ne veniva a creare uno. Di sicuro adesso c’era un vuoto di potere nel Quartiere Francese, e la natura aborriva il vuoto. “Regence Hooke è l’uomo giusto per tappare quella falla” pensò, “ma non è ancora il momento. Prima devo liberarmi di uno squamoso ostacolo alla mia ascesa.”

E non dubitò nemmeno per un istante della sua ferma intenzione di causare l’estinzione di una specie antichissima. A dire il vero aveva già una certa pratica in quell’ambito, avendo cacciato e ucciso l’ultima tigre del Caspio mai avvistata in Iraq solo perché gli era capitata a tiro durante un appostamento nel deserto.

Quel ricordo lo fece sorridere. La tigre aveva lo stesso identico atteggiamento compiaciuto che caratterizzava il vecchio Vern.

“Pensi di essere in cima alla catena alimentare, non è vero, caro Vern? Be’, potrai discuterne con quella tigre, quando la incontrerai.”

Hooke restò barricato per qualche giorno tenendo d’occhio Fox 8 mentre faceva surriscaldare il telefonino prepagato che aveva comprato da RadioShack su Gause Boulevard. Il cosiddetto “attentato” del Marcello rimase la storia di punta per due giorni filati, poi passò al secondo segmento, ma i vari video di Vern guadagnarono un numero pazzesco di visualizzazioni su YouTube e Instagram e sarebbero rimasti nelle home page per anni a venire. Le spiegazioni andavano da “cane gigantesco” a “trovata pubblicitaria”, passando per “bufala totale”, e soltanto i soliti complottisti utilizzarono il termine “drago”. La gente che ci credeva tendeva a credere a quel tipo di cose, e la gente che non ci credeva, non ci credeva. Per cui da molti punti di vista tutto andò avanti come al solito, anche se il cratere del Marcello sarebbe diventato una sorta di luogo di culto per i fan più incalliti del Signore degli Anelli.

Di tutto questo a Hooke non fregava assolutamente un cazzo. Lui non fece altro che rizzare le orecchie e aspettare, per vedere se e come fosse stato tirato in ballo il suo nome.

Ma non accadde nulla. Nessuno nominò l’Ausiliario Regence Hooke.

Si faceva un gran parlare di Ivory Conti e del suo ruolo nella malavita, ma nessuna menzione per l’insignificante ausiliario venuto da Petit Bateau. E perché mai avrebbero dovuto nominarlo? Per quanto ne sapeva il suo ufficio, Regence Hooke era in vacanza. E poi l’unica cosa per cui Hooke era grato a Vern era l’assenza di sopravvissuti. Sembrava che, al Marcello, il drago avesse carbonizzato chiunque avesse mai avuto a che fare con l’Ausiliario Hooke.

Hooke si rese conto di essere libero come l’aria, qualora avesse voluto restar tale, ma fu un pensiero fugace.

Libero come l’aria a patto di tenere un basso profilo. Chi avrebbe mai voluto vivere in quel modo?

“Del resto, se c’è un inferno ci finisco comunque, quindi tanto vale guadagnarmi il biglietto.”

E se l’inferno non ci fosse stato, allora avrebbe semplicemente vinto al gioco della vita.

Il terzo giorno Hooke riemerse dalla stanza del motel.

“Il terzo giorno” pensò, “come Gesù quando è uscito dalla caverna, eh, Pa’?”

Il motel non era neanche malaccio, per essere un motel, ma Hooke aveva mire ben più ambiziose per il futuro. Non si sarebbe più fermato a dormire accanto all’autostrada.

“Voglio vivere da qualche parte che non sia a un tiro di schioppo da una cazzo di catena di fast food.”

Non aveva intenzione di darsi ai gioielli come Ivory e come qualsiasi altro aspirante gangster avesse mai incontrato. «Però non ho neanche intenzione di uscire dalla camera da letto e ritrovarmi nel parcheggio» disse, rivolto al parcheggio.

Legno scuro. Ci sarebbe stato tanto legno scuro, lucidato fino a brillare. E una di quelle chaise longue con il poggiapiedi. Una macchina del caffè incassata nel muro così che non si potesse muovere.

Hooke rise ad alta voce di se stesso e delle sue fantasie.

“In quel mondo sei un provinciale, figliolo. Quel che devi fare è ingraziarti una persona che abbia un po’ di classe.”

Una persona come Elodie Moreau, aveva sognato a occhi aperti fino a poco tempo fa, anche se ora che il ragazzino si era aggiunto alla lista dei rapiti ed era pure riuscito a sopravvivere, doveva ammettere che la cosa era un pochino improbabile.

“Comunque” pensò Hooke, “ci sono tanti modi per pelare una gatta.”

Dove per “gatta” intendeva una signora di etnia cajun.

E suo figlio.

E un drago.

Tre gatte in tutto, quindi.

Hooke arrivò al Seabrook Diner circa quaranta minuti prima dell’appuntamento fissato per mezzogiorno, e si ordinò una bella costata di manzo da mezzo chilo con tutti i contorni. Gli arrivò su un vassoio smaltato, accompagnata da patatine, purè, pane tostato e sugo di carne, e, per qualche strano motivo, scaglie di cavolo nero fritto. La innaffiò con due birre, seguite da una fetta di torta al limone sommersa di panna montata appena spruzzata dalla bomboletta. Era un piacere mangiare di nuovo alla luce del sole, per così dire, e si godette ogni boccone.

L’ausiliario prese addirittura in considerazione l’idea di pagare, ma nel giro di un attimo decise che avrebbe mandato il messaggio sbagliato, così si accontentò di lasciare la mancia per la cameriera e di consigliarle bonario che avrebbe potuto incrementare parecchio le mance se si fosse fatta raddrizzare i denti davanti.

Il ristorantino aveva quell’atmosfera un po’ vintage che lo faceva somigliare a un grande camper, e che accomunava tanti dei locali della zona. Magari i proprietari pensavano di poter confondere la gente e convincerla di essere in un episodio di Happy Days o cazzate del genere, fra le panche in vinile rosso e i menu inchiodati al tavolo sotto un pannello di acrilico.

Mentre la ragazza sparecchiava, tenendo le labbra ben chiuse, Hooke posò sul tavolo l’agendina di Ivory e la sua mappa. Era l’ora di mettersi al lavoro.

Sapeva che lo stavano sorvegliando dall’altro lato della finestra del ristorante: era ovvio. Non si sarebbe aspettato niente di meno. Senza dubbio aveva un’arma puntata addosso proprio in quel momento, magari anche due, ma non era un problema; di certo non avrebbero premuto il grilletto a meno che non fossero stati degli imbecilli colossali. O dei pivelli. E questi non erano né l’una né l’altra cosa.

Gli venne in mente una terza possibilità. “Potrebbero essere pazzi.”

Non aveva messo in conto la pazzia.

Ma il fatto era che la pazzia non potevi metterla in conto. Hooke una volta aveva fatto da guardia armata per una rapina di armamenti in una base dell’aeronautica vicino a Basra, dove il Colonnello Faraiji, che aveva sottoscritto l’operazione, fu costretto a tagliare la gola al suo autista durante la rapina, giacché l’autista aveva perso il sangue freddo e aveva minacciato di mettersi a sparare.

Il colonnello aveva poi detto a Hooke: «Amico mio, quando lavori con gente disturbata, è come costruire una casa sulla sabbia».

Come al solito Hooke aveva desiderato che il colonnello non sentisse il bisogno di parlare per enigmi, ma adesso apprezzava l’eleganza di quell’immagine.

“Ho forse costruito la mia casa sulla sabbia?” si chiese.

Se anche così fosse stato, ormai non avrebbe più potuto farci niente. Se fosse arrivato un proiettile a ucciderlo, non l’avrebbe neppure sentito.

Tirò indietro la manica sinistra a rivelare l’orologio, un Rolex falso che aveva recuperato in un qualche suk. Funzionava ancora bene, nonostante si fosse fatto un bagno nel bayou. Sollevò il polso e diede un colpetto all’orologio per il bene di chiunque lo stesse osservando dagli alberi che orlavano l’autostrada.

“Tic, toc, signore e signori. Abbiamo tutti tante cose da fare.”

Cinque minuti dopo entrarono tre individui tutt’altro che anonimi. Hooke li studiò mentre marciavano nel ristorante e capì da come si muovevano che aveva scelto bene.

Tutti e tre avevano subito controllato le uscite e le visuali. Professionisti, dal primo all’ultimo: una vera squadra di assassini.

“Vern, sei arrivato al capolinea, amico mio. Se io sono riuscito a farti un buco in quella pellaccia squamosa, questi tre ti faranno arrosto di sicuro.”

Dalla lunga lista di poliziotti corrotti alle dipendenze di Ivory contenuta nell’agendina dei Servi, Hooke aveva scelto tre nominativi. Due li aveva già sentiti. Jing Jiang, ex tiratrice scelta dei Marines, un metro e cinquanta scarsi e una mira precisa come il laser. Stando alle leggende da caserma una volta aveva infilato un proiettile da 9 mm nell’occhio del Fante di Fiori attraverso il finestrino di un veicolo in movimento.

Era quella la specialità del Sergente d’artiglieria Jing Jiang: i bersagli in movimento. Giravano voci assurde sul suo conto: che suo padre fosse un ninja, che la canna del suo fucile fosse stata forgiata con la spada samurai dei suoi antenati, tutte cazzate stereotipate del genere. Una cosa sulla quale però tutti i suoi colleghi del Supporto Aereo SWAT concordavano era che quando la infilavano nell’imbragatura di un elicottero, l’ufficiale Jing Jiang mancava raramente il bersaglio che le assegnavano.

Hooke fu quasi deluso nel leggere il suo nome sull’agendina: immagina passare da cecchino pluridecorato a lavorare per Ivory. Nessun antenato avrebbe potuto andar fiero di quel cambio di carriera.

“Sarò la sua redenzione” pensò Hooke, cosa che lo fece sorridere. Come un arto insanguinato fa sorridere uno squalo.

Il secondo della lista era il caporale dell’esercito Jewell Hardy, originaria dei turbolenti quartieri meridionali di Detroit. Hooke aveva sentito dire che era un fenomeno nel combattimento a mani nude; a quanto pare arrotondava lo stipendio pagatole dall’esercito partecipando a incontri di lotta illegali al di fuori della base in cui era di stanza. Avevano dovuto congedarla senza far rumore quando aveva sfondato una testa di troppo mentre si trovava a sud di Doha, dato che la maggior parte della gente neanche sapeva che gli Stati Uniti avessero una base in Qatar. La ragazza non aveva nemmeno venticinque anni ed era già più grossa di tre G.I. Joe normali legati insieme, aveva pugni come incudini e una fronte che pareva uno spazzaneve. Al momento era un’agente del Dipartimento di Polizia di New Orleans, e pattugliava il Quartiere Francese, dove arrotondava spaccando ossa per conto di Ivory. Esteticamente ricordava un grizzly con un taglio militare e abbigliamento sportivo in tessuto traspirante.

“Quella ragazza di sicuro apprezzerà l’opportunità di affrontare un drago corpo a corpo, se riesce ad avvicinarsi abbastanza” pensò Hooke. “E secondo me riuscirà ad avvicinarsi abbastanza.”

E infine il marinaio: un tenente della Guardia Costiera, capitaneria di New Orleans, ma nativo dell’Oregon, dove era cresciuto sfrecciando giù per le Celestial Falls anche dopo che ufficialmente erano state chiuse ai canoisti. Gli era toccato smettere quando un coglione di New York era rimasto ingarbugliato nel giubbotto di salvataggio ed era morto soffocato nel tentativo di trasmettere la sua avventura in diretta, così DuShane Adebayo scelse la Marina Militare, una strada che Hooke di certo poteva apprezzare, e fece buon uso delle sue conoscenze nautiche al comando di una piccola nave di pattuglia a sostegno della Quinta Flotta nel Golfo Persico. Correva voce che DuShane avesse fatto ben più che proteggere la flotta, e che fosse solito impiegare il tempo libero durante le ore notturne per scappare sulla terraferma onde occuparsi di carichi di oppio e di ragazze del luogo disposte a intrattenere i suoi fradici lupi di mare. Negli ultimi tempi DuShane chiudeva un occhio per Ivory in un altro Golfo. Perlomeno fino a qualche giorno fa. Adesso il tenente si ritrovava senza granché da fare, e sarebbe stato ridotto a tirare avanti con quel che pagava la Guardia Costiera degli Stati Uniti, impresa che riusciva davvero a pochissimi.

“Questo ragazzo avrà sete di nuove attività extracurricolari” pensò Hooke, “e io ho proprio il colloquio di lavoro che fa per lui.”

La formazione era dunque la seguente:

Sergente Jing Jiang, tutta vestita di J.Crew, l’aspetto di una ventiduenne anche se Hooke sapeva che aveva quarant’anni.

Agente di pattuglia Jewell Hardy, la più giovane del gruppo, vestita sportiva, che pareva la sorellina di Ivan Drago.

E il tenente Adebayo con il gilè mimetico e il cappellino degli Oregon State Beavers, con una faccia tanto acida da far cagliare la panna.

“Nessun problema” pensò Hooke. “Tempo qualche minuto e avrò tirato su di morale tutta questa simpatica combriccola.”

Si aspettava che tutti stessero zitti, nel caso in cui si trattasse di una retata e Hooke indossasse un microfono, anche se Hardy, secondo lui, vista l’età avrebbe potuto avere un po’ più di parlantina, e invece fu Jing Jiang a perdere le staffe.

«Che cazzo sta succedendo, qui, Hooke?» disse la cecchina, infilandosi sulla panca di fronte a lui. «Ci mandi messaggi criptici. Ci convochi qui. Ci convochi? Pensi di essere un qualche samurai, un signore della guerra? Avrei dovuto impallinarti dal parcheggio. Cazzo, a quest’ora sarei già tornata a New Orleans a mangiarmi una bella muffuletta per pranzo.»

“Un cecchino con la testa calda?” pensò Hooke. “Strano.” «Non so mica» le rispose. «Il traffico sul ponte è bello pesante a quest’ora. Avresti rischiato di restare imbottigliata.»

La risatina di Jewell Hardy risuonò come l’eco di un tronco infilato in una cippatrice. «Hooke ha ragione, il traffico sul ponte a volte è una gran rottura di palle.»

“I giovani” pensò Hooke, trovandola subito simpatica.

DuShane Adebayo si sedette per ultimo, un uomo dall’aria intensa e dal volto ossuto, con riccioli grigi nel pizzetto, il sudore che gli imperlava la fronte alta. A quanto pareva respirava con la bocca, cosa che sarebbe potuta risultare problematica qualora avessero dovuto condividere un nascondiglio per un appostamento, ma che andava bene finché si trattava di lavorare insieme sul fiume.

«Cazzo è ’sta pagliacciata, ausiliario?» disse DuShane. «Un’estorsione, o che altro?»

Aveva buttato lì la parola “ausiliario” tanto per far capire a Hooke che sapevano chi era.

«No, tenente, nessuna estorsione» disse Hooke, imperturbabile. «Quel che abbiamo qui è un battesimo del fuoco, seguito dall’opportunità di un grosso affare.» Sentì qualcosa sfiorargli il pube sotto il tavolo, appiattendogli la peluria delle palle. Un silenziatore, secondo lui. Pareva che Jing Jiang non fosse dell’umore giusto per i preamboli.

Cercando di non pensare al proiettile che gli stava a venti centimetri dagli zebedei, Hooke andò dritto al punto. «Okay, gente, la situazione è questa: Ivory non c’è più. Entriamo in scena noi, e tanto per cominciare facciamo arrivare l’eroina dal Messico. Poi però tagliamo i ponti con il Sudamerica e ci dedichiamo solo alle armi. Abbandoniamo le autostrade e sfruttiamo il Pearl River. Semplice. Noi quattro prendiamo in consegna i Servi di Ivory – è così che ci chiamava – e gestiamo le operazioni con un po’ di precisione militare. Ho quasi cento nomi nell’agendina di Ivory. Fra questi ho scelto voi tre, perché avete tutti una certa esperienza sul campo. Dobbiamo semplicemente continuare a fare quel che facevamo prima, solo un pochino di più. Nessuno di noi pensa che Ivory avesse la stoffa dell’ufficiale, ho ragione o no? L’unica cosa che aveva dalla sua era un’eredità. Lo stronzetto riversava fiumi di soldi in quelle operazioni e a malapena ci andava in pari. Ma noi quattro potremmo essere tutti milionari nel giro di sei mesi. E tra dieci anni saremo miliardari.»

Hooke si aspettava una reazione al suo discorso, ma sembrava che i suoi discepoli prescelti stessero rimuginandoci sopra e si trovassero d’accordo pressoché su tutto.

“Miliardari”: era stata quella parola a centrare il bersaglio. Una parola come quella aveva sempre un certo peso. Hooke sentì il silenziatore ritrarsi un poco, e i peli delle palle risollevarsi.

Jewell Hardy parlò per prima. «Miliardari, eh? Scommetto che non hai manco fatto i calcoli, Hooke. Scommetto che è tutto un pippone da piazzista.»

«Può darsi» disse Hooke, «ma anche se fosse non ho sbagliato di tanto. E posso consegnare cento testoni in contanti, subito, per il lavoro di oggi.»

Posò tre buste sul tavolo, con gesti lenti e ben studiati.

«Centomila dollari. A testa» disse, dando un colpetto a ciascuna delle buste gonfie. «Per ventiquattr’ore. Dopodiché se volete potete andarvene per la vostra strada e io non vi darò più fastidio, ma secondo me non vi dispiace l’idea di diventare miliardari.»

Hardy ridacchiò. «C’è persino il tuo timbro di ausiliario sulla busta. Bel tocco.»

«Così che non dimentichiate da dove arrivano.»

«Può anche darsi che tu sia un cazzaro totale, Hooke» disse Adebayo, con un sorriso che lo fece sembrare un’altra persona. «Ma di sicuro mi piace il suono di cento testoni.» Il pilota si mise in tasca la sua quota. «Adesso dimmi un po’ di ’sto battesimo del fuoco.»

Miccetta era di nuovo nel magazzino del Pearl Bar and Grill. “Sempre la stessa storia” pensava.

A parte che stavolta aveva una chiave. Più di una chiave, a dire il vero. Era una chiave a infrarossi.

Le chiavi a infrarossi saranno anche state all’ordine del giorno nel mondo in cui la gente aveva cancelli elettrici e automobili ibride, ma Miccetta si stava divertendo un mondo a schiacciare i bottoni di quell’aggeggio, dato che era il primo che gli fosse mai capitato per le mani.

«Ho una chiave a infrarossi» disse, ghignando come un folle. «A infrarossi. Eh già, ho una chiave a infrarossi.»

Era stupido, lo sapeva, gingillarsi con i dispositivi elettronici mentre il capo era ancora convalescente nella baracca, ma una parte considerevole del quindicenne Miccetta aveva ancora nove anni, e premere i pulsanti su quella goccia di plastica gli dava una grande soddisfazione, specialmente con le lucine corrispondenti che si illuminavano a comando.

«Proprio così, Charles Jr» disse al suo amico superdotato, che non era neppure nelle vicinanze. «Tu continua a trastullarti col tuo attrezzo: io intanto ho una chiave multifunzione a infrarossi.»

Dopodiché Miccetta si concesse un attacco di ridarella di trenta secondi e si rimise al lavoro. Dopotutto aveva da caricare il cabinato di Bodi Irwin, scaricarlo alla baracca, e tornare prima dell’alba.

“C’è già troppa gente interessata a Vern” pensò. “Non voglio mica che qualcuno si metta a fare domande sul perché Bodi mi lascia portare provviste fin nel cuore della palude.”

Miccetta di sicuro sperava che Vern non riprendesse i sensi mentre lui era fuori a occuparsi di quelle commissioni. Il drago avrebbe potuto reagire male alla presenza di due umani sconosciuti a casa sua.

“Perlomeno non è nella posizione di friggere la mamma” pensò Miccetta. “Di quello sono sicuro.” Era sicuro delle condizioni di Vern come non lo era mai stato di nient’altro in vita sua, altrimenti non avrebbe mai lasciato le redini della baracca in mano a sua mamma. “Il capo è in quel posto a metà di cui mi aveva parlato, per cui meglio portargli un po’ di benzina prima che passi dall’altra parte.”

Vern era così a corto di grassi che il corpo l’aveva abbandonato in volo; non avrebbe soffiato fiamme per un bel po’, almeno non prima di essersi scolato un paio di barili.

Miccetta quindi era di nuovo nel magazzino, ma c’era anche un’altra differenza, e la seconda differenza era che stavolta indossava una pelle di drago con la testa agganciata sopra la sua come una squamosa maschera di carnevale, le braccia legate in vita, e il resto che pareva lo strascico di un abito da sposa.

“Scommetto che, chissà per quale motivo, un drago lo troverebbe offensivo” pensò. “Facciamo che a Vern non lo diciamo?”

Ciononostante, Miccetta si fece velocemente un selfie, giusto nel caso in cui gli fosse mai tornato utile per tappare la bocca a Charles Jr.

Il Pearl Bar and Grill aveva il suo molo sul retro per la gente del luogo, che aggirava le leggi sulla guida in stato di ebbrezza andando al pub in barca. Anche se certi si ritrovavano addirittura troppo ubriachi per tenere una barca fra le due rive di un fiume, e finivano a passare la notte nelle piroghe, attraccati al molo, cosa che spiegava il tasso di alcolismo osservabile nelle zanzare della zona. Bodi Irwin si spingeva addirittura oltre per tenersi stretta la clientela, e mandava in giro la cosiddetta “barca dei beoni” per i vari immissari del fiume così che potesse andare a raccattare i randagi.

«Le tre I» diceva sempre Bodi: «immissari, infermi, e inebriati: raccattali e portali da me. Magari è l’ora che ti faccia anche tu un turno sulla barca dei beoni.»

Sembrava che Miccetta avesse un altro lavoro pronto per lui – sempre che Vern gli avesse concesso un minuto di pausa –, ma prima le cose urgenti, e la cosa urgente era rimettere in sesto il suo capo numero uno affinché tornasse il solito bisbetico di sempre.

Miccetta aprì il cancello sul retro con la chiave a infrarossi e seguì il pontile di legno fino all’unica imbarcazione che vi era attraccata, il cabinato di alluminio a fondo piatto di Bodi, su ambo i lati del quale campeggiava il logo del Pearl Bar and Grill, racchiuso in fumetti che uscivano dalla rappresentazione artistica di un mostro di Honey Island in stile manga. Miccetta era sicuro che se Vern l’avesse visto si sarebbe incazzato da matti.

“Via libera, allora” pensò Miccetta. “Pronto e carico”; o, in questo caso, “carico e pronto”.

Si mise di nuovo a ridere, pensando di far più ridere di quanto non gli riconoscesse Vern. A volte le battute gli venivano così veloci che Jimmy Kimmel si sarebbe cagato addosso, ma Vern non faceva altro che alzare al cielo quei suoi occhi da rettile e lo liquidava con frasi del tipo: “Cazzo, giovane, mica ti pago per farneticare manco ti avessero dato una botta in testa. Non hai da lavorare?”.

Le luci si spensero, e Miccetta agitò un pochino le braccia per far riattivare i fari alogeni.

“Pensa meno, e vedi di muoverti” si disse.

Impiegò forse mezz’oretta a occuparsi di quella mezza dozzina di barili, facendoli rotolare uno per volta su un carrello per poi spingerli fino al molo e caricarli sulla barca. Non aiutava che gli mancassero quattro dita in totale, e che tre dei mozziconi gli dessero fastidio nonostante sua mamma gli avesse imbottito la punta delle Converse con dei batuffoli di cotone. Non aiutava neanche che il carrello non avesse visto una goccia d’olio da prima che nascesse Miccetta, né che al pontile, risalente probabilmente ai tempi della Guerra Civile, mancassero diverse assi. Ciononostante, Miccetta perseverò, giacché era l’unico assistente esecutivo di un drago in tutto il mondo, e si trattava di un ruolo che aveva intenzione di tenersi stretto. Trascinò a fatica i sei barili fin sul ponte della Pearl, e la barca dei beoni si abbassò un pochino sull’acqua del fiume.

“Resta ancora un sacco di spazio” pensò Miccetta. “Reggerebbe ancora un paio di barili, facile, e riuscirei comunque ad attraccare a Boar Island senza problemi.”

Ma il tempo era tiranno, e avrebbe sempre potuto fare un’altra consegna l’indomani. Meglio partire. Chiuse il recinto elettrificato con la chiave a infrarossi e salpò dal molo del Pearl, imboccando il fiume verso nord con il motore al minimo per far agitare il meno possibile l’acqua, di modo che anche se qualcuno avesse sentito un motore a quell’orario boia, non sarebbe stato in grado di dire che da molo arrivasse.

“A meno che non mi stiano guardando con qualche marchingegno a visione notturna” pensò Miccetta, azzardando un altro dieci per cento di accelerata.

Hooke e i suoi novelli narcotrafficanti, meno Jing Jiang, stavano caricando il proprio equipaggiamento sul battello gonfiabile a chiglia rigida appartenuto a Willard Carnahan al molo di Petit Bateau, a circa trecento metri dal Pearl Bar and Grill dove Miccetta stava facendo fare gli straordinari al pollice sulla sua chiave a infrarossi.

«Gran bel mezzo, fratello» commentò DuShane Adebayo, saggiando con il palmo la consistenza del tubo gonfiabile che cingeva il vascello. «Stabile da matti, cazzo. Ponte bello grande. Neanche queste marmotte qui riuscirebbero a farla ribaltare. Dove te la sei procurata una barca del genere, Hooke?»

Hooke pensò a Carnahan che crollava nella palude, e a quella cazzo di tartaruga mutante che emergeva dalla melma. «Un regalo» rispose.

«Sì, come no» disse DuShane, issando il suo equipaggiamento sul ponte. «Scommetto che ti fanno un sacco di regali, vero Regence?»

In realtà Hooke avrebbe preferito il suo, di cabinato, che gli era sempre sembrato molto più solido di quel battello che alla fine restava pur sempre un gommone, ma il tenente era tutto un sorriso compiaciuto, e di barche ne capiva parecchio. E poi il cabinato di Hooke era inabissato nella melma della palude a sette metri dalla costa di Honey Island, per cui non è che avesse poi tanta scelta.

«Fai quel che devi fare, tenente» disse. «Partiamo appena Jiang si degna di arrivare.»

Aveva sinceramente sperato che Jing Jiang fosse in grado di procurarsi un elicottero, ma la tiratrice scelta si era messa a ridere sia di fronte a quella richiesta che di fronte alla sua offerta di un Barrett calibro .50, decidendo invece di andare a recuperare il proprio fucile di precisione dal suo nascondiglio di armi non d’ordinanza.

«Devo passare in un posto a prendere una cosa, dopodiché sarò perfettamente in grado di fare un buco in pancia al mostro di New Orleans a distanza di un chilometro» aveva detto.

Hooke era conscio del fatto che la squadra non dava seriamente credito alla storia del drago, perlomeno non nel profondo. Avevano tutti visto le riprese e avevano sentito le voci che giravano per il Quartiere Francese, ma una cosa come Vern bisognava vederla per crederci. Se fosse stato nei loro panni e qualcuno avesse cercato di convincerlo che c’era in giro un drago, anche lui avrebbe intascato la mazzetta di contante per poi vedere cosa sarebbe successo, nella speranza magari che le circostanze lo conducessero al resto del tesoro di Ivory.

“Stasera tastiamo il terreno in ogni senso” pensò Hooke. “E la cosa migliore è che uccidere un drago non è neanche illegale.”

Il suo sguardo fu attirato dal lampeggiare dei grossi fari alogeni di Bodi Irwin sull’altro lato della strada, nel cortile. A Hooke non fregava poi granché che qualcuno ficcasse il naso nel retro del Pearl; sembrava una questione di ordinaria amministrazione. Ma di certo non aveva bisogno di bastoni fra le ruote, al momento. Tecnicamente non stava succedendo nulla di illegale, ma se questo traffico sulla banchina fosse stato messo davvero alla prova, allora era probabile che si sarebbero ritrovati tutti disoccupati, come minimo.

“Probabilmente qualche ladruncolo idiota venuto a farsi friggere dal reticolato supertecnologico di Bodi” pensò, decidendo però che sarebbe stato prudente dare un’occhiata. Dopotutto chi poteva più dire cosa diavolo potesse succedere in questa mezza cittadina sonnolenta e provinciale dove i draghi si vestivano da uomini e giravano col cellulare?

“Magari mi ritrovo davanti un unicorno con le bretelle” pensò. “O un vampiro incatenato nel parcheggio del ristorante.”

Così, dopo aver tastato il giubbotto per controllare di avere con sé il cannocchiale, andò a passo svelto fino in fondo al molo per vedere cosa fossero quelle luminarie, e un paio di minuti dopo fu ben lieto di averlo fatto, giacché pareva che la Fortuna gli sorridesse più luminosa ancora della luna della Louisiana col suo ghigno sghembo.

“Eccolo lì, il ragazzino, con indosso una specie di tutina da neonato.” «Be’ questa le batte tutte» disse Hooke, deliziato. «È proprio vero che le cose belle accadono a chi sa aspettare.»

«Aspettare cosa?» disse Jewell Hardy, sbucando al suo fianco. «Siamo qui da un’oretta scarsa.»

«È un modo di dire, Hardy» rispose lui, infilando il cannocchiale nella custodia. Non serviva poi a molto in una notte come quella. A volte, quando le stelle brillavano più del solito, c’era uno strano chiarore nella palude, una sorta di luminescenza capace di illuminare tutto il fiume. Faceva risaltare i dettagli – persino le ombre erano più nette. «Non c’è bisogno di analizzare tutto quello che dico.»

«Stavo solo facendo conversazione, capo.»

«Non ci sono capi» disse Hooke. «Siamo tutti soci, qui.»

Hardy gli diede un buffetto sulla spalla. «Come dici tu, capo.»

L’ausiliario si rese conto che Jewell Hardy gli stava diventando simpatica, cosa che non era da lui. «Mi piaci, Jewell» le disse. «Spero davvero che tu riesca a passare indenne la nottata.»

Hardy rifletté su quel commento. «Eri serio quando parlavi di questa storia di Vern il drago, vero, Hooke?»

«Certo che ero serio» disse, tenendo gli occhi fissi su Miccetta. “Il ragazzino zoppica un pochino.” «Serio come trecentomila bigliettoni. Cosa credi, che sia tutta una complicata messinscena?»

«Nah, non vedo il motivo di una cosa tanto contorta» disse Hardy. «Però magari sei pazzo. Senza offesa.»

«Devo dire che un po’ mi hai offeso. Ma sei giovane, quindi per stavolta passi.»

Hardy fece il gesto di asciugarsi la fronte per il sollievo. «Apprezzo molto, capo.»

«E tanto per tranquillizzarti, non sono pazzo, anche se per te sarebbe meglio se lo fossi.»

«Perché se non sei pazzo allora mi tocca fare a botte con un drago, giusto?»

«Giustissimo, Jewell.»

Hardy stiracchiò entrambe le braccia, stringendo i pugni fino a che non scricchiolarono. «Se riuscite ad attirare il fuoco nemico su di voi, allora secondo me e io Vern ci divertiremo parecchio.»

Hooke non ne dubitava. Sapeva riconoscere un assassino a sangue freddo.

“Fra simili ci s’intende.”

Ciononostante, Vern era in giro da secoli. «Da quel che ho capito, Vern predilige la mano destra. E poi ti può stringere le ali intorno. Se ci finisci dentro, non ne esci più.»

Hardy annuì, memorizzando le informazioni.

«Dentro e fuori, rapida» disse Hooke. «Non smettere un attimo di ballare. Sai ballare, sì? A volte chi è grosso non balla.»

«Tranquillo, so ballare, e anche bene» disse Hardy. «Una volta in Iraq ho combattuto con una tigre. L’hai mai sentita quella?»

Hooke aveva ancora gli occhi fissi sul cortile del Pearl. «Sì, l’ho sentita. Ho sentito anche che al felino avevano strappato denti e artigli.»

«Quello è vero, ma non ce n’era mica bisogno. L’avrei battuta comunque.»

«Lo spero bene, ragazza mia, perché Vern i denti e gli artigli ce li ha tutti. Comunque sia, può anche darsi che non si debba arrivare a quello.»

«Può anche darsi di sì, però» disse Hardy. «E sinceramente ci spero.»

“I ragazzi…” pensò Hooke. “Tutti invincibili, dal primo all’ultimo, Jewell Hardy non vede l’ora di trovarsi corpo a corpo con la creatura che molto probabilmente la ammazzerà.”

Si rese conto che non aveva neppure sentito Hardy avvicinarsi. “Grossa e silenziosa. Come quei troiani nel cavallo di legno.”

«Di’ un po’, Hardy» disse Hooke. «lo vedi quel ragazzino laggiù? Gli ci vorranno un paio di minuti per andare a prendere un altro barile.»

Hardy ghignò. «Ho già capito, Hooke.» E partì lungo il molo.

DuShane Adebayo fischiò dalla barca, Hooke si voltò e vide Jing Jiang che saliva sul battello portando in braccio la custodia di un fucile come fosse stata il suo primogenito.

«Andiamo?» chiese DuShane.

Hooke diede un’ultima occhiata a Miccetta. Il ragazzino aveva appena finito di caricare quel che sembrava una montagna di barili d’olio, e non c’era traccia di Hardy. Hooke ci meditò su. “Barili d’olio. Barili su barili. A quanto pare il drago ha bisogno di far benzina.”

Il che significava…

“Vern è a secco” si rese conto. “Non ci sarà mai più un’occasione come questa.”

«Salpiamo, capitano» disse, avvicinandosi lungo il molo. «Lieve cambiamento di programma. Spero che tu sia silenzioso come dicono, perché bisogna che segui quel ragazzino lungo il fiume senza che se ne accorga. Ce la facciamo?»

DuShane si accigliò esasperato, come a dire: “Ma perché mi tocca sorbirmi questi idioti di terra ogni cazzo di volta?”.

«Dimmelo e basta, DuShane» disse Hooke, pensando che nel prossimo futuro sarebbe stato opportuno mettere in riga Adebayo per il suo atteggiamento strafottente.

DuShane diede una pacca a uno dei due motori gemelli del gommone. «Queste bellezze sono silenziate, ausiliario, non dobbiamo far altro che starcene a distanza di sicurezza e il ragazzino non sentirà un cacchio, specie se ha il motore acceso. L’unica maniera in cui potrebbe accorgersi di noi sarebbe se decidesse di andare a remi, ma con quel battello non credo proprio.»

«Benissimo, allora» disse Hooke, decidendo di mantenersi cordiale, per il momento. «Tu sei a posto, Jiang?»

Jing Jiang era tutta bardata di equipaggiamento mimetico, compreso un passamontagna in tessuto leggero. «Prontissima. Mi sistemo sulla prua, e gli faccio saltare un occhio, a questo cosiddetto drago. Se poi viene fuori che era davvero un tizio in costume, allora grazie per i centomila dollari più facili che abbia mai guadagnato.»

«Stammi a sentire, Jiang» disse Hooke, lentamente. «Prima rendiamo inoffensiva la bestia, poi valutiamo. E non sparare per uccidere fino a che non ti do il segnale. Questo bastardo ha dell’oro dei ribelli nascosto da qualche parte, e voglio che se ne separi prima di morire.»

Jiang strinse gli occhi da dietro il passamontagna. «Ci provo, Hooke. A volte però quella decisione la deve prendere il dito sul grilletto.»

Hooke si strinse l’attaccatura del naso, come a dire “Mi sto trattenendo dal fare una scenata”. «Jing, ragazza mia, non è un’operazione ufficiale. Questa catena di comando qui ha un anello solo. Voglio che tu faccia quello che ti dico, alla lettera. Tu mettimelo fuori combattimento, e lasciami lavorare. Va bene?»

A quanto pareva Jing Jiang non era diventata la cecchina più quotata del mondo lasciandosi intimidire facilmente. «Ti sento, forte e chiaro, Hooke. E capisco che le tue palle vogliose siano zeppe di testosterone. Ma se questo Vern è un drago vero, in carne e ossa, può essere che sia lui a non lasciarti lavorare. Può essere che debba prendere una decisione in una frazione di secondo. Va bene, o no, ausiliario?»

Hooke annuì. Sapeva che uccidere Vern a distanza sarebbe stato il risultato migliore da tutti i punti di vista, ma una parte di lui non voleva che andasse così, anche qualora non ci fosse stato in ballo il tesoro.

“Abbiamo davanti qualcosa di biblico” pensò. “Sarebbe un peccato finirlo a distanza.”

Le notti epiche erano rare nella vita di un uomo. Magari lui e Hardy avrebbero potuto ammazzare di botte Vern a mani nude.

“Ammazzare un drago a mani nude. Quella sì che sarebbe un’impresa.

“E poi, ‘palle vogliose’?

“Mica male.”