16

Vern non ricevette la fotografia sul telefonino fino a che non uscì dall’acqua dopo il tramonto. All’inizio il drago non capiva cosa cazzo stesse guardando, e pensava che il ragazzino gli stesse facendo uno scherzo, passatempo che pareva spopolare su Internet, poi però guardò meglio e si rese conto che qualcuno aveva fatto a fettine Waxman come fosse un’esca per gli alligatori e aveva sistemato i pezzi intorno a un Miccetta privo di sensi. Vern non era nuovo alla barbarie. Ne aveva vista abbastanza in vita sua, specialmente intorno al periodo della purga, quando gli umani avevano commesso contro i draghi qualsiasi atrocità fosse mai venuta loro in mente. Vern aveva visto l’espressione sui volti di quegli umani una volta che avevano finito, e gli era sembrato che fossero rimasti loro stessi sorpresi delle innovative forme di assassinio che erano riusciti a improvvisare con una mezza dozzina di spade, un paio di elefanti e una tinozza d’olio.

Vern aveva visto di tutto, gli si era spezzato il cuore e aveva perso la testa.

Ma i cuori e le teste guarivano, col tempo.

Adesso Vern si sentì risucchiare daccapo in quell’inferno. Waxman era morto. Era stato Hooke, quell’umano, ad ammazzarlo, e Vern sentì una tristezza profonda farsi strada dentro di lui, come una nube nera prima della tempesta. I suoi pensieri rallentarono e d’un tratto gli sembrava che sbattere le palpebre e respirare fossero fatiche improponibili.

Poi gli arrivò un messaggio. Miccetta gli aveva messo il suono di una spada laser come suoneria.

Il messaggio diceva:

Ehi, drago. Non ti è arrivata la mia foto? Ho qui il tuo amichetto.

Il messaggio era firmato con l’emoji di un uncino, per non lasciare dubbi circa il mittente.

Cinque secondi dopo la spada laser risuonò un’altra volta.

Non ha una bella cera. Meglio che ci raggiungi.

Questo messaggio era seguito da un segnaposto di Google Maps che indicava il Marcello Hotel di New Orleans.

Altro messaggio.

Ivory Conti dice di ammazzarlo subito, ma ti do un’ora prima che finisca come Waxman.

Quest’ultimo includeva un allegato: un’altra foto di Waxman. Stavolta era soltanto la testa del mogwai, infilzata su un palo.

“Hooke ha fatto un grosso errore” pensò Vern. “Avrebbe dovuto uccidere anche Miccetta. Adesso ho qualcosa per cui vivere.”

Per sessanta minuti.

Dieci minuti dopo Vern era in volo, oltre che in uno stato di incredulità circa gli eventi che lo avevano appena investito.

Per prima cosa: stava entrando nello spazio aereo di New Orleans per la prima volta da quando era successo il casino provocato dal video di quel custode un paio d’anni prima.

Secondo: stava rischiando il suo culo squamoso per un ragazzino che conosceva a malapena dall’altro ieri perché… ecco, perché? Miccetta gli consegnava a domicilio vodka e pornografia per draghi: non certo cose per cui valesse la pena uccidere o morire.

E terza cosa: stava consentendo a uno stronzo di sbirro di farlo incazzare al punto che stava volando dritto dritto verso un covo di gangster, anche e forse soprattutto per fare a gara con il suddetto sbirro a chi ce l’aveva più lungo.

“Qualsiasi cosa succeda stasera, Regence Hooke non se ne andrà con le sue gambe, e neanche senza.”

«Sei proprio uscito di testa, Signore di Highfire» si disse, severo. «Inverti immediatamente la rotta.»

Ma non la invertì, perché Miccetta era un bravo ragazzo. Bravo e leale.

“Sto ricompensando la lealtà di un umano. Se non sto attento tra poco giurerò fedeltà a una cazzo di pecora.”

Ma ancora Vern non invertì la rotta. Non poteva lasciare impunite le azioni di Hooke, per quanto si trattasse ovviamente di una trappola.

Vern volò basso sul Golfo, godendosi il caldo della corrente ascensionale nelle membrane.

“Ti stai godendo la corrente, eh?

“Be’, allora, o Viverna Onnipotente, se non hai intenzione di invertire la rotta perlomeno vedi di concentrarti.”

Che era un’osservazione ragionevole.

Sarà anche stato un potente drago, e gli altri saranno pur stati un misero mucchio di stupidissimi umani ammassati uno sull’altro per farsi macellare meglio, ma a volte capita che gli stupidi abbiano un colpo di fortuna e che i potenti finiscano per farsi ammazzare.

“Vern, concentrati, bellezza. Ti ricordi quella volta che Grendel ha fatto a pezzi quell’edificio pieno di Vichinghi? Stasera stessa cosa. A parte per i Vichinghi, che stavolta sono italiani. L’edificio è un hotel del centro. E le spade sono armi semiautomatiche.”

Vern cominciava a rendersi conto che le metafore non erano il suo forte.

New Orleans era illuminata come se l’intera città fosse stata un carnevale. Le lastre monolitiche dei grattacieli, sgargianti pietre tombali a stagliarsi contro la notte, non potevano sfiorare la bellezza dei loro riflessi dipinti. Specialmente il Superdome, una gigantesca tetta viola che a Vern faceva tornare in mente una draghessa che aveva conosciuto una volta in quel che oggi si chiama Brasile.

“Le draghesse sudamericane. Cazzo.”

Vern sfruttò la corrente e sorvolò le paludi di Delacroix, volando a meno di tre metri dall’acqua nel porto sul Mississippi. Tenne le ali il più vicino possibile al corpo e la bocca ben chiusa. Un accenno di fiamma e si sarebbe illuminato, a beneficio di qualunque videocamera fosse stata puntata nella sua direzione. E se c’era una cosa che Vern sapeva bene era che in questo secolo una volta che ti ritrovavi in mezzo alla civiltà c’era sempre qualche cazzone con una videocamera. E oggigiorno il cazzone poteva addirittura essere un robot. Fosse davvero arrivato l’Armageddon; allora magari le cose sarebbero state un po’ più facili per un drago che cercava solo di sopravvivere.

Vern mandò un segnale alle sue cellule pigmentali, che lo fecero mimetizzare piuttosto bene con le acque del Mississippi agli occhi di un osservatore distratto, e si diede una piccola spinta per evitare i barconi carichi di ubriachi in festa, ma continuò a seguire il corso del fiume verso nordovest fino a che non raggiunse il Quartiere Francese. Da lì l’olfatto gli andò in sovraccarico per l’incredibile varietà di sentori che si levavano dalle strade, una cornucopia di spezie e profumi che rendevano difficile pensare a qualcosa che non fosse una bella scodella di gumbo.

“Mi serve un po’ di copertura” si rese conto Vern. “Un po’ di spazio per spiare l’hotel, dopodiché prendo quel figlio di puttana di Hooke e gli stacco la zucca di netto e magari gli faccio fermentare i coglioni nella vodka.”

E poi, un attimo dopo, provando un pizzico di vergogna: “E salvo Miccetta, ovviamente. Quello prima di tutto”.

Vern agganciò con un artiglio la guglia centrale della Cattedrale di San Luigi e si sistemò lassù, nelle ombre, dove poteva godersi una visuale a volo di drago della moderna Gomorra che si stendeva ai suoi piedi.

“Devo essere uno spettacolo” pensò. “Un cazzo di drago fighissimo, enorme, appeso a un campanile. Persino Christopher Nolan si cagherebbe addosso, se mi vedesse.”

Ma nessuno l’avrebbe visto. Per quello stava facendo tanta attenzione. Era proprio resistendo all’impulso di mettersi in mostra per le folle che era riuscito a sopravvivere tanto a lungo. Ma era parecchio difficile tenere a bada quella tentazione, per un esemplare che quando entrava in azione era così assolutamente magnifico. Vern pensò che avrebbe dato dieci anni di vita per lasciarsi andare ancora una volta.

“È passato talmente tanto tempo” si rese conto, “che non so nemmeno quanti danni potrei fare.”

Il Quartiere Francese ai suoi piedi era quel genere di centro storico nel quale una patina chic avvolgeva il malaffare, in modo tale che i turisti potessero ficcarsi un po’ boy nel gargarozzo e le studentesse potessero mostrare le tette senza sentirsi in pericolo. Poi c’erano quelli che si ritrovavano ubriachi marci e magari compravano un amuleto voodoo del tutto farlocco o si trombavano qualcuno.

“Una volta succedeva solo a carnevale. Ormai va avanti tutto l’anno” pensò Vern. “E si cominciano a vedere pure un po’ di cazzi. Mi stupisce che i maschietti ci abbiano messo così tanto per unirsi alle danze.”

Ma la riverniciata del Quartiere Francese era stata irregolare, e la malavita spuntava nei vicoli e agli angoli delle strade. Vern sentiva la dolcezza abrasiva dei liquori da due soldi, la puzza di plastica oleosa del crack bruciato, l’odore muschiato e stantio dei bevitori incalliti. Vedeva la turbolenta masnada dei forestieri che strillavano e sbraitavano come se fossero stati invincibili, come se non ci fossero stati una 9 mm o un coltello a serramanico ogni due metri, da qualsiasi parte uno si girasse. Come se non avesse potuto farli fuori tutti senza pensarci né sforzarsi troppo. Vedeva i lavoratori, industriosi come formiche, muoversi rapidi fra la folla. Vendevano erba, vuotavano tasche, irretivano avventori perché entrassero nei loro locali. Le stesse cose che succedevano da secoli, a parte una settimana di servizi limitati in seguito alla serie di minchiate dell’Ente federale per la gestione delle emergenze quando Katrina aveva inondato l’ottanta per cento della città.

Fosse stata una serata diversa, Vern avrebbe potuto godersi quell’esotico cambio di scenario, ma stasera era in missione per vendicare il barbaro assassinio di Waxman, trarre in salvo il suo ragazzo, e seppellire l’Ausiliario Hooke sotto tanta di quella terra che per trovarlo ci sarebbe voluto un archeologo.

Il cuore di Vern non riusciva a credere che davvero Wax non ci fosse più, ma il drago avvertiva nelle viscere il rimestare della vecchia e familiare sensazione di un amico/parente ammazzato da un umano che ricordava tanto bene. Sapeva, avendo fin troppa esperienza in materia, che la vendetta non avrebbe magicamente fatto passare quella sensazione, ma sapeva anche che di certo l’avrebbe attutita un po’.

Vern vide subito il Marcello Hotel. A questo Ivory di sicuro piacevano le colonne. Ce ne dovevano essere una mezza dozzina all’ingresso, un paio di isolati dietro Rampart Street, a ridosso di Treme, con le scanalature dipinte d’oro e i fregi di cemento a forma di foglie di vite e grappoli d’uva. E ovviamente era dorata anche l’insegna: THE MARCELLO TOWER. Eleganza classica.

Dove pensava di essere, ’sto tizio? Nella New York degli anni Venti?

A Vern venne in mente che in altri tempi avrebbe incenerito l’intero edificio soltanto perché lo irritava l’insegna.

Glory days” pensò. “Puoi dirlo forte, Bruce.”

Aveva voglia di osservare il bersaglio più da vicino, così rischiò una planata di cinque secondi fino all’edificio giusto di fronte al Marcello, una palazzina di appartamenti in mattoni rossi con delle belle teste di gargoyle che facevano capolino dal tetto.

“Sembra fatto apposta” pensò Vern.

C’era un tizio sul tetto, tutto pronto per una serata tranquilla, armato di lettino da spiaggia e spinello. Vern gli atterrò dietro come fosse stato appeso a un filo e svuotò i polmoni intorno alla testa del malcapitato sfattone, mettendolo al tappeto in un istante.

«Costa meno dell’erba» disse Vern, «anche se i postumi dello zolfo saranno una rottura di cazzo.»

Il drago si mise a quattro zampe e strisciò fin sul bordo del tetto, sulle cui pietre poggiavano le teste dei gargoyle. Da lì aveva una visuale decente del Marcello. E, cosa ancora più importante, non era esposto da nessun lato.

Si rese conto che non aveva davvero bisogno di fare quel che stava per fare, dato che per quanto grezzo fosse il suo mimetismo, a quella distanza le sue cellule pigmentali assolvevano il loro compito più che degnamente.

Però, che diavolo. Una botta di vita ogni tanto.

Infilò un dito artigliato all’attaccatura del cemento ormai secco che fissava uno dei gargoyle al muro, e in meno di un minuto separò il busto dal suo alloggiamento.

«Forza, piccoletto» disse Vern, facendolo ondeggiare lentamente all’indietro sul suo trespolo.

“È anche abbastanza somigliante” pensò, esaminando il gargoyle. “Manca giusto un po’ più di fronte.”

I draghi da vicino non somigliavano granché ai gargoyle, ma da sotto, di notte, avrebbe decisamente fregato il novantanove per cento degli umani, l’ottantatré per cento dei quali, peraltro, era composto da individui più imbecilli di un secchio di escrementi suini.

Dopodiché fece scivolare la testa nell’alloggiamento del gargoyle e si mise a osservare New Orleans impunemente.

Il Marcello era un edificio di quattro piani belli solidi, acciaio e pietra, con pesanti colonne di granito e un doppio portone con gli spigoli smussati. Era un brulicare di attività: c’erano un sacco di picciotti tutt’intorno a gestire l’ordine e la circolazione, e metà del pianterreno era occupata da un frequentatissimo ristorante italiano. La maggior parte delle finestre era protetta da griglie decorative imbullonate agli infissi, e c’erano fari degni di un set di Hollywood a illuminare la facciata. Quando aveva ristrutturato l’edificio, questo Ivory probabilmente aveva in mente una versione aggiornata dell’architettura classica italiana, ma piazzato lì, nel bel mezzo di una fila di coloratissime villette a schiera in stile creolo, il Marcello pareva l’ambasciata vulcaniana, vale a dire che era insipido e privo di senso dell’umorismo.

“’sto posto è noioso persino con tutti quei fari puntati addosso.”

Vern sbadigliò solo a guardarlo.

“Certo che è proprio comodo quassù” pensò. “Pisolino ristoratore?”

Dieci minuti avrebbero proprio fatto al caso suo, dopo il volo di andata.

Ma Miccetta?

Probabilmente meglio aerotrasportare il ragazzino fuori da quell’inferno il prima possibile, e appisolarsi una volta completata la missione.

Vern concentrò la propria attenzione su ambedue le narici. “Dove sei, Miccetta caro? Dove ti nascondi?”

I draghi avevano un fiuto che batteva quello del segugio medio, una volta che avevano un odore da seguire, anche se con gli anni tendeva a deteriorarsi a causa dei depositi di zolfo nelle fosse nasali. Vern, durante la sua permanenza nelle Everglades, era rimasto completamente tappato per un paio di secoli fino a che questa signora thailandese molto carina che viveva in una baracca sul fiume non si era salvata in extremis da una grigliata offrendosi di ripulirgli le narici con delle candele. Era un pericoloso calvario lavorare con le fiamme giusto accanto a un drago, ma Lily tirò fuori dal naso di Vern dei grumi di schifo mai visti, e che Dio potesse fulminarlo se una volta finito non riusciva a fiutare il futuro. Cominciò anche a dormire meglio, avendo le vie respiratorie libere.

Così Vern lasciò andare Lily senza farle del male, e lei in cambio gli aizzò contro la folla inferocita. E quindi addio, Florida. Era stato allora che aveva deciso di stabilirsi a Honey Island.

“Però ne è valsa la pena. L’importante è la salute.”

Vern pensò che, una volta riagguantato il suo problematico umano domestico, avrebbe ordinato a Miccetta di fare una bella ricerchina su quelle candele per vedere se per caso il ragazzino non potesse fargli anche lui una bella seduta alle narici, per quanto l’accumulo non fosse neanche lontanamente paragonabile a quel che era stato, dato che di questi tempi gli capitava raramente l’opportunità di andare a tutta fiamma.

“Ma la situazione potrebbe cambiare molto presto.”

Vern aveva portato con sé una vecchia maglietta che Miccetta aveva dimenticato in baracca. La trasse da uno dei tasconi dei bermuda, se la portò al naso e inspirò.

“Forza, vecchio mio. Cerca e trova.”

Con tutti i luoghi in cui Miccetta sarebbe potuto finire, New Orleans in generale era il peggiore di tutti, e il Quartiere Francese in particolare era il peggio del peggio. In giro aleggiavano tutti i soliti odori: monossido di carbonio, fluidi umani, muschio di palude, cucine di ristoranti, fumatori, street food, con l’aggiunta del retroaroma di ricostruzione post-Katrina che non si era ancora dissipato. Per cui fra tutto quello, l’eccesso di spezie, la nauseabonda nebbiolina al sentore di candeggina al limone che evaporava dopo il lavaggio delle strade e l’occasionale zaffata delle perdite dei barili di Cancer Alley, lungo il corso del Mississippi, veniva fuori un gran bel bouquet.

Roba per nasi forti.

“La maggior parte degli umani tanto non sentono un odore neanche a pagarli, cazzo” pensò Vern, mentre il suo, di quarto senso, funzionava benissimo, tanto che colse quasi subito il sentore di Miccetta al terzo piano del Marcello. Il ragazzino non era difficile da trovare, dato quanto si strofinava con quel sapone da due soldi che comprava in pacchettini grandi come caramelle. Più detergente industriale che altro. Povero Miccetta, lui era ignorante e non lo sapeva, ma si stava lentamente candeggiando la pelle.

Quel sentore, unito alla particolare miscela di sudore, adolescenza e strafottenza che caratterizzava Miccetta, era talmente ovvio al naso di Vern che riusciva a leggerlo con la stessa chiarezza dei viticci di fumo al neon che si levavano sull’altro lato della strada.

“Terzo piano, sul retro” pensò. “Entro ed esco. Chiunque si metta in mezzo… be’, non è un problema mio. Proverò a tenere al minimo il numero delle vittime per rispettare i sentimenti di Miccetta circa l’omicidio e onorare la teoria delle anime di Waxman, ma, a mia discolpa e prima dei fatti, questi qui sono tutti cattivi.”

Vern arretrò lentamente, ritraendo la testa dalla nicchia del gargoyle. Era abbastanza sicuro che nessuno l’avesse notato. Le cellule mimetiche, il buio della notte, più gli umani quasi tutti ubriachi marci significavano invisibilità di fatto, o perlomeno se lo augurava sinceramente.

Vern fece qualche flessione, poi una mezza dozzina di burpee giusto per stimolare la circolazione. Prese in considerazione una serie di affondi frontali, ma detestava profondamente quell’esercizio.

“Quei cazzo di affondi per me sono più difficili” argomentò. “Ho il baricentro basso.”

Solo flessioni e burpee, quindi, e ovviamente un rapido controllo per assicurarsi che le sue draghesche parti basse fossero il più nascoste possibile.

Si intromise la sua vocina: “Sei nervoso, Viverna? Oh cazzo, hai paura?”.

Vern rispose, sottovoce: «Non ho paura, stronzo. Sono solo prudente. È passato un bel po’ di tempo, e sono l’ultimo dei draghi, per quanto ne so. Il mondo non può permettersi di perdermi».

Ma Vern era nervoso, e forse un velo di paura l’aveva, anche se non l’avrebbe mai ammesso alla sua vocina interiore.

“Persino Adele ha paura, prima di salire sul palco” si disse. “Fai come Adele, e usa quell’energia.”

E prima di poter cambiare idea, Vern prese la rincorsa, saltò giù dal tetto e puntò la testa corazzata verso la griglia che proteggeva una finestra a ghigliottina al terzo piano.

Mancandola di un metro buono.

Vern entrò passando dal muro, uno sfondamento mica da ridere, persino per un drago. Per fortuna, nonostante l’edificio sembrasse fatto di pietra, si trattava di mattoni di cemento e un po’ di cartongesso all’interno. I muri potevano a malapena considerarsi tali, rispetto agli standard di alcuni dei castelli medievali nei quali aveva fatto irruzione. Quasi un metro di pietra massiccia, erano, quelle cazzo di mura, con tanto di Normanni che ti facevano colare la pece sulla schiena, cosa che ti intasava di brutto le squame. Per cui riuscì a far breccia nel muro, ma si strappò un pochino le ali, e sollevò polvere ovunque.

«Cazzo» imprecò Vern. «Che schifo di polvere e merda.»

Che era la sua maniera di scaricare sull’ambiente circostante la frustrazione per aver sbagliato mira.

Si scrollò via le stelle dagli occhi e sollevò le cosce dal pavimento prima che il grasso gli scendesse tutto nel culo e i mafiosi lo trovassero lì spaparanzato come un manzo pronto al macello. Vern si ritrovò incastrato in un corridoio, dettaglio tutt’altro che positivo: in quel genere di ambiente non sarebbe riuscito a muoversi come avrebbe voluto. Un drago in genere preferiva avere un po’ di spazio di manovra, usare gli artigli a mo’ di falce, fare qualche danno con la coda. In un mondo ideale un drago non sarebbe neppure mai sceso a terra durante una battaglia, ma nessuno aveva mai insinuato che il Quartiere Francese fosse perfetto, a meno che non lo si intendesse con un tono in stile: Perfetto! Proprio perfetto, cazzo.

Da dietro l’angolo del corridoio spuntarono due tizi, uno dei quali valutò malissimo l’entità della minaccia.

«Ehi, bello» disse a Vern, un po’ ridendo e un po’ no, «cosa sei, uno di quei cazzoni del cosplay?»

Il secondo era leggermente più vicino alla verità. «Cazzo, Alfonse, ma questo qui è un originale. È un cazzo di gargoyle.»

Un colpo molto basso, secondo Vern.

A ogni modo, entrambi saltarono la fase negoziale e misero subito mano alle pistole.

“Non ho scelta” pensò Vern. “Tocca entrare in azione.”

” disse la vocina. “Come se non fosse sempre stata quella, l’idea.

Poi il primo proiettile di un’arma semiautomatica lo colpì dritto sulla placca toracica. Per fortuna Vern si era trovato talmente spesso in stato di crisi che le valvole della placca gli si erano ingrippate e ormai erano permanentemente rigide, cosa che certi giorni era una rottura di coglioni quando cercava di dormire, ma che tornava utile quando c’era un mafioso che ti sparava a distanza ravvicinata. Ciononostante, l’impatto bruciò un pochino, così Vern, l’affabile drago palustre, si tolse un attimo di mezzo, e al suo posto emerse il Signore di Highfire, drago da battaglia.

E i draghi da battaglia non ascoltano le proprie vocine interiori.

Vanno direttamente in guerra.

Che è esattamente quel che fece Vern.

La sua reazione di “attacco o fuga” gli pompò del sangue extra nelle placche della corazza per indurirne ancor più la scorza. Le cellule pigmentali si accordarono con il blue marine della tappezzeria nel corridoio e le ghiandole che aveva in fondo alla gola schizzarono olio di zolfo sui molari.

“Forza” pensò il Vern da Battaglia, digrignando i denti per accendere una scintilla che fece incendiare l’olio, fornendogli una fiammella pilota.

“Alimenta il fuoco” pensò Vern, per poi convertire quasi cinque chili di grasso corporeo in plasma, che alitò sulla fiammella pilota. Il plasma si accese, trasformandosi in quel particolare flusso di fuoco del quale si era favoleggiato per secoli, e al quale le vittime sopravvivevano di rado.

La fiamma aveva già carbonizzato i due cattivi armati fino alle ossa prima che Vern tornasse in sé e chiudesse le labbra a fischio, restringendo il flusso a un tubo perfetto, che utilizzò per aprirsi un varco nel muro in fondo al corridoio. Dopodiché ingoiò la fiamma e si fece largo fra i tizzoni che orlavano il buco, aspettandosi di trovare Miccetta dall’altra parte.

Ma Miccetta non c’era. Be’, perlomeno non tutto, ma solo una delle sue dita dei piedi su un tovagliolino di carta. Scarabocchiato sopra c’era:

Vaffanculo, lucertola.

Vern sospirò. “Maledizione, Hooke. Non ha proprio idea. Quel povero fesso si crede di potermi intrappolare come un animale selvatico.”

Poi si rese conto: “Hooke ha mutilato il ragazzino”.

Vern sentì il particolare scalpitio vociante di una folla inferocita lanciata lungo il corridoio.

“Caspita, quanti ricordi.”

Si voltò e vide circa una dozzina di delinquenti che gli andavano incontro spintonandosi, tutti esaltati all’idea di sparare qualche colpo.

“Sento l’odore della cocaina fin da qui” pensò Vern. “Un po’ di coraggio colombiano.”

Certo che quei tizi erano ben stupidi. Non l’avevano mai visto 300? Mai sovraccaricare di corpi un passaggio angusto. Non importa quanti siete: basta occuparsi di due uomini alla volta.

Vern però pensò: “Non ho né il tempo, né la pazienza, né l’inclinazione per occuparmi di due uomini alla volta”.

Così accese di nuovo la scintilla e spalancò le fauci, liberando una raffica di fiamma viscosa che nel giro di cinque secondi ridusse i suoi aspiranti assalitori in tanti mucchietti d’ossa e fece partire i colpi alle loro armi in ogni direzione, portando via brandelli di muro a destra e a manca. Quei malcapitati picciotti non ebbero neppure il tempo di dare un’occhiata a quel che stavano caricando.

“Che poi si userà ancora quel termine?” si chiese. “‘Picciotti’? Sembra un po’ datato.”

Vern sollevò le narici, cercando una traccia fresca, e ne trovò due, più tenui del dito del piede che aveva davanti, ma con un inequivocabile sentore di Miccetta Moreau.

“Altre dita” azzardò il drago. “Quel sadico bastardo. Questa è tortura.”

Come no” disse la vocina interiore, “ha parlato quello che ha appena dato fuoco a un intero battaglione.

“Almeno è una morte rapida” obiettò Vern. “Il mio fuoco mica brucia lento. Nessuno ha mai avuto una leggera scottatura causata dalla fiamma di un drago.”

No, chi si trovava davanti quella fiamma finiva “incenerito”, o perlomeno così si diceva una volta.

Due sentori separati: il che significava che Hooke voleva farlo girare come la merda nei tubi, con l’intenzione di scaricarlo nell’oceano. Progetto alquanto improbabile da portare a termine, ma chi poteva dire con certezza che accanto a una delle dita non ci fosse questo megalomane di Ivory ad aspettarlo con un lanciarazzi?

Vern si concesse un momento per riflettere. Un lanciarazzi gli avrebbe decisamente lasciato il segno.

“Se avessi un ristorante e un hotel a mia disposizione, dove nasconderei un ragazzino per mascherarne l’odore?”

La risposta arrivò in fretta.

Persino i draghi faticavano a fiutare attraverso l’alluminio.

Ma nella sua lunga esperienza aveva imparato che la cella frigo era sempre in fondo alla cucina, e se c’era una cosa che Vern riusciva a fiutare, erano le cucine.

Tornò fuori passando da dove era entrato, poi puntò gli artigli nella pietra e si calò di muso lungo il muro.

Lungo il muro e dritto in cucina, quella era l’idea, ma essendo fuori allenamento a livello di facciate, e ormai prossimo a varcare il confine dell’imprudenza a causa della recente scarica di adrenalina, Vern strinse un po’ troppo forte con uno degli artigli, polverizzando un mattone.

“Oh cazzo di merda” pensò, perdendo la presa e cadendo a piombo verso il marciapiede.

Non c’era tempo di aprire le ali – e anche qualora ci fosse riuscito, la cosa non l’avrebbe rallentato poi molto –, per cui Vern d’istinto si strinse nelle spalle, preparando il cranio corazzato all’impatto.

Per fortuna la sua caduta di due piani fu interrotta da un paio di buttafuori capitati nel posto sbagliato al momento sbagliato, la cui esistenza fu interrotta proprio dalla sua caduta di due piani. Vern non se ne curò, dato che quelli erano armati e lui era preso dalla foga del momento.

Tuttavia schiantarsi su un marciapiede del Quartiere Francese fuori da un ristorante significava attirare un tantino troppo l’attenzione, per i suoi gusti. Ci saranno state un paio di centinaia di turisti a vagare in quel tratto di strada, più altre dozzine a guardare da dietro le vetrine dei ristoranti. Gli umani si ritrassero all’impatto come le increspature intorno a un sasso lanciato nell’acqua, e Vern si ritrovò immerso nella luce dei lampioni, in bella vista davanti agli occhi della gente che per tanto tempo aveva evitato.

“Gran bel lavoro, Signore di Highfire” si disse. “Siamo ancora sicuri che quest’operazione di soccorso sia un’idea coi controcazzi?”

In tempi non tanto lontani, la prima reazione della folla all’improvvisa caduta di un drago nelle vicinanze sarebbe stata quella di calpestarsi a vicenda nel tentativo di fuggire a gambe levate. Di solito ci si poteva aspettare che un paio dei giovani più fifoni si cagassero addosso o svenissero. Tutte cose che accaddero anche in quella circostanza, nella quale tuttavia una buona parte dei testimoni mise mano al cellulare. Era tutta questione di documentare il momento, nell’America moderna. Anche solo dieci anni prima, chiunque volesse documentare qualcosa avrebbe dovuto cercare un dispositivo nella borsa, o nelle tasche, e anche a patto di riuscire a tirar fuori i telefonini in tempo, un video girato con quella luce sarebbe stato praticamente inutile. Adesso, invece, qualsiasi individuo su quel continente che avesse raggiunto l’età di due anni era in possesso di uno studio cinematografico in HD che stringeva quasi costantemente tra le mani sudate. Dopotutto, non ci si poteva certo aspettare che la gente potesse mangiare, dormire, fare esercizio o masturbarsi senza uno smartphone.

Per cui quando Vern cadde dal cielo gli umani fecero due rumori. Il primo fu il sospiro collettivo di chi resta senza fiato, e il secondo una variazione sul tema di: “Registra!”.

E poi due ragazze, verosimilmente ubriache, gli fecero vedere le tette.

“Ma Cristo santo” pensò Vern. “Adesso mi tocca lasciare la Louisiana o farmi ammazzare. Gli umani non capiscono quanti salti mortali debba fare un drago per procurarsi una connessione wi-fi.”

Fu tentato di mostrare i muscoli, aprire le ali, dare alla gente quel che voleva vedere, ma non era certo sopravvissuto tanto a lungo con l’idea di mandare tutto a puttane per un attimo di vanità.

Così il drago si librò sulla polpa dei buttafuori lanciandosi dritto contro la vetrata del ristorante, facendo piovere vetro sulla festa di un bar mitzvah e ritrovandosi un drappo di velluto rosso aggrovigliato intorno alle spalle come un drago supereroe.

«Mazel tov» disse Vern allo sbigottito ragazzino con il cappello, per poi accelerare lungo il tavolo e imboccare le porte a vento.

Si mosse in fretta, più in fretta di quanto non facesse da decenni, e sentì il battito del cuore impennarsi.

“Devo fare più cardio” si disse. “È ridicolo. Una volta potevo volare da un capo all’altro del continente senza neanche sudare. Adesso non riesco nemmeno ad attraversare un ristorante senza che mi venga il fiatone.”

Ciononostante, Vern restava la creatura più veloce che quegli umani avessero mai visto – ed è per quello che in realtà non lo videro, perlomeno non chiaramente. Era una nube sfocata grande quanto un orso, che lasciò di sé una vaga impressione più che un’immagine precisa.

Tony Cohen, il ragazzino del bar mitzvah, disse poi al cronista di Fox 8: «Ho pensato fossero due alligatori che scopavano».

Il video divenne virale e si guadagnò più visualizzazioni di tutti i video nei quali invece si intravedeva Vern. Chiaramente il giovane Tony aveva messo le mani di nascosto su qualche cicchetto di vodka, cosa che i suoi genitori francamente meritavano per aver avuto l’idea di festeggiare un bar mitzvah nel Quartiere Francese.

Vern colpì la doppia porta con la capoccia, scardinandola di netto. Nel corridoio c’era uno dei soldati di Ivory, che stava tentando di far colpo su una cameriera palesemente a disagio mostrandole la pistola, così Vern passando lo incastonò nel cartongesso con una manata. Uno chef con tanto di cappello bianco teneva un’omelette norvegese su un vassoio d’argento, e Vern vi diede fuoco con un accenno di fiamma, tanto per divertirsi.

“E dai, come facevo a resistere?” pensò, mentre lo sbuffo di fiamma blu faceva scattare il sistema antincendio.

Come aveva dedotto, la cella frigo, un locale in alluminio, rinforzava la parete in fondo alla cucina. Sulla porta c’erano due sgherri di Ivory.

“A far la guardia al manzo? Non credo proprio.”

Ai picciotti va riconosciuto che riuscirono a estrarre le pistole prima che Vern fosse loro addosso, pur essendo possibile che tale prontezza fosse dovuta al precedente minuto di caos, che aveva annunciato l’arrivo di una qualche forma di minaccia.

Quello, e il fatto che lo sbirro Hooke aveva detto: «Fate la guardia a ’sta porta dovesse costarvi le palle».

Uno dei due aveva trovato da obiettare. «Ehi, sbirro, non dovrebbe essere “dovesse costarvi la vita”?»

E Hooke aveva risposto: «No, figliolo. Le palle. Perché sono quelle che vi strapperò se lasciate entrare qualcuno o qualcosa lì dentro».

L’Ausiliario Hooke aveva sottolineato quella minaccia con una classica occhiataccia che, unita all’effetto evocativo del verbo “strappare” riferito ai testicoli, convinse i guardiani della cella frigo a mantenere il sangue ben freddo.

Ciò detto, avevano comunque immaginato che qualsiasi minaccia si fossero trovati a fronteggiare avrebbe avuto un volto umano.

La minaccia che avanzava a passi lunghi verso di loro, invece, non era umana di sicuro.

Vern certe volte era divertito e altre volte irritato dalla reazione degli umani quando se lo trovavano davanti. In questa occasione provò entrambe le emozioni nel giro di un secondo.

Il primo tizio blaterò: «Ave, Satana».

Il che, presumibilmente, era un tentativo in extremis di cambiare casacca al fine di compiacere il diavolo che lo stava puntando.

La cosa fece sorridere Vern, fino a che il secondo tizio non disse: «Bastardo di un super-cinghiale ciccione».

Epiteto che cancellò immediatamente il sorriso dal volto di Vern. “‘Super-cinghiale’? Ma che cazzo?”

Se Vern avesse rallentato un pochino, la brigata di cucina avrebbe potuto perdere il senno trovandoselo davanti, ma per come stava andando le reazioni tendevano ad avvenire un paio di secondi dopo il suo passaggio, e lui si sarebbe dileguato ben prima che l’isteria raggiungesse la cucina.

Colpì forte i guardiani della cella frigo, accartocciandogli la cassa toracica e polverizzandogli il cuore di conseguenza. Uno dei due riuscì a far partire un colpo, che rimbalzò con un suono metallico sulla coscia di Vern e che gli avrebbe di sicuro accorciato il cazzo se lui non avesse avuto l’accortezza di ritrarlo in precedenza. Le parti basse dei draghi non hanno corazza protettiva, e una pallottola lì avrebbe anche potuto farlo morire dissanguato sulle piastrelle della cucina.

Una fine tutt’altro che nobile.

Il sangue di Vern adesso pompava a mille, tanto che lui strappò la porta della cella frigo dai cardini quando avrebbe tranquillamente potuto usare la maniglia, sentendo una fitta alla schiena. Difficile da credere, ma quando si era fatto male alla schiena tutti quegli anni prima, non stava facendo niente di più pesante che mangiarsi un cavallo.

La cella frigorifera era un grosso locale con quarti di bue ricoperti di brina appesi uno in fila all’altro come abiti in tintoria. Miccetta era rannicchiato in fondo, fra torri di secchi di gelato, con la maglietta tirata sulle ginocchia e una pozza di sangue rosso come le caramelle congelato intorno al piede nudo.

«Ehi, Vern» disse il ragazzino. «Ma sto sognando?»

«No, giovane» disse Vern, «non stai sognando. Quant’è vero iddio, c’è qui un drago venuto a salvarti.»

Miccetta abbozzò un sorriso. «Mica tutto intero. Hooke m’ha rifilato il piede col coltello.»

Vern si accosciò e alitò un po’ di zolfo sul capo di Miccetta.

«Che fa, Vern? Mi addormenta? E perché?»

Vern tirò fuori un artiglio e ci soffiò sopra la propria fiamma fino a renderlo incandescente.

«Perché non ti conviene certo essere cosciente quando ti cauterizzo le ferite, giovane.»

«Mi sa che ha ragione» disse Miccetta, con un occhio che già si chiudeva. «A Hooke però gli facciamo il culo, eh capo?»

«Quello lì ha il culo già rotto» disse Vern, «con tutto il casino che ha portato fin sul pianerottolo di Ivory. Hooke finisce col culo sfondato, senza dubbio.»

«Col culo sfondato» disse Miccetta. «Mi piace come idea.»

Un attimo dopo era già addormentato, e Vern sollevò la gamba del ragazzino e si mise al lavoro.

Sarà anche stato strano, per un drago, ma l’odore della carne amica bruciata faceva sempre venire a Vern un conato di vomito. Degli ostili non gli fregava un cazzo, ma c’era qualcosa, nel cauterizzare un umano domestico, che gli faceva rivoltare lo stomaco.

Miccetta aveva perso tre dita, cosa che adesso gli faceva somigliare il piede a una cresta da moicano, pensiero che fece ridacchiare Vern distraendolo dalla nausea. Completò in fretta l’operazione da campo, poi prese una manata di brina dal muro della cella frigorifera e la spalmò sulla carne fusa, facendo levare un sibilo impetuoso e una nube di vapore. Miccetta non gemette nemmeno, durante l’operazione, ma ne avrebbe sentito i postumi l’indomani.

’sto poveretto saltellerà come un pirata per qualche settimana” pensò. “Ma perlomeno sopravviverà, sempre che riesca a mantenere i miei propositi di salvatore e a portare via le chiappe.”

Il mondo degli umani cominciava a rendersi conto che stava accadendo qualcosa di fuori dall’ordinario, e Vern non ebbe bisogno di spingere i propri sensi fino all’estremo per averne conferma. Il chiacchiericcio in cucina era forse tre ottave più alte e cinquanta decibel più forte del dovuto. Un paio di teste fecero capolino dalla porta accartocciata, per poi ritrarsi in tutta fretta un attimo dopo.

Dalla strada, Vern sentiva delle sirene, a indicare che stava arrivando la polizia, attirata da un trambusto ben oltre il normale persino per il Quartiere Francese.

“Come vorrei potermi fermare per godermi Hooke che prova a spiegare cosa cazzo ci faccia qui” pensò Vern, ma il suo desiderio di spedire l’ausiliario al Creatore avrebbe dovuto passare in secondo piano. Al momento non c’era tempo per sfogarsi fino in fondo, specie ora che i poliziotti di pattuglia avevano i fucili e giravano gli SWAT coi carri armati.

“La cosa migliore è una rapida uscita di scena, e poi dritti a casa nel bayou. Detto questo” aggiunse fra sé e sé, “direi che c’è sempre il tempo di fare a pezzi un covo di mafiosi.”

Vern raccolse Miccetta con un po’ più di tenerezza di quanta non ne impiegasse di solito quando metteva le mani addosso a un umano, avvolgendogli attorno le ali come se fosse stato un cucciolo di drago. Uscì dalla cella frigorifera e poi adoperò una tecnica che, una volta, era nota come “chiamare la cavalleria”. Soffiò una densa colonna di fiamme turbolente che bruciò senza pietà qualsiasi cosa toccasse, e che aprì una serie di buchi nel soffitto che sfociavano dritti sul cielo notturno. Era quella la bellezza del fuoco dei draghi: somigliava più al fuoco dei Greci del IV secolo avanti Cristo che non a un fuoco qualunque: era una fiamma liquida e incendiaria in grado di divorare qualsiasi cosa avesse la sventura di trovarsi sul suo cammino, e se ne sbatteva il cazzo se qualcuno ci buttava sopra dell’acqua.

Neanche Vern comprendeva appieno la propria fisiologia, giacché quel livello di comprensione aveva un prezzo, e quel prezzo includeva anestetici, strumenti di contenzione, barelle, e un’équipe di medici con il camice. Che, a livello di prezzo, faceva un po’ troppo Wolverine, secondo Vern. Nel XV secolo aveva conosciuto questo poliedrico genio italiano al quale aveva lasciato dare un’occhiata, ma tutto quel che Vern aveva imparato da quell’esperienza era che la sua fiamma consisteva, per dirla col gergo moderno, in un “distillato non adesivo del petrolio”, e poi il tizio aveva disegnato uno schizzo di Vern che si batteva con un leone, con le palle fuori – per quanto Vern gli avesse fatto notare espressamente che aveva combattuto con le palle dentro.

“Dannati geni poliedrici.”

Così Vern emise una scarica di distillato di petrolio che scavò un vano di due metri di raggio nel cuore dell’hotel, in cima al quale faceva ora capolino la luna della Louisiana, che pareva un dollaro d’argento.

“Et voilà” pensò Vern. “Uscita a destra palco. Grazie a tutti e buonanotte.”

E poi: “Per favore, Dio, niente elicotteri”.

Hooke doveva ammettere che era sorpreso dalla portata della devastazione che si stava abbattendo sul Marcello per mano di Vern. Si aspettava magari una distruzione al livello di una squadra di Navy SEAL, ma questo drago era più come una calamità naturale: una specie di ibrido fra una tromba d’aria e un incendio boschivo. E non era che due metri e dieci al massimo.

Niente male davvero.

“Vuoi vedere che magari il vecchio Vern mi fa la cortesia di occuparsi di quel rompicoglioni del boss? Così non c’è bisogno del piano B.”

Hooke non doveva far altro che entrare nel caveau.

Una volta scoppiato il merdone in piena regola, le crepe cominciarono ad aprirsi come fulmini neri sui muri della penthouse, e la San Pellegrino cominciò a schizzare ovunque.

«Che cazzo è stato?» disse Ivory, cadendo all’indietro contro la scrivania.

«Be’, le cose stanno così, boss» disse Hooke, con naturalezza. «Mi sa che alla fine il drago è davvero venuto a farci visita.» Pensava che sarebbe stato più facile convincerlo della verità adesso che l’intero edificio dondolava come una pila di scatoloni sul cassone di un pick-up troppo veloce.

«Ma vai a fare in culo, Hooke» disse Ivory, sebbene una parte di lui ci credesse fermamente. Gli umani dopotutto hanno una memoria collettiva, e di conseguenza sono capaci di mettersi a credere ai draghi in un batter d’occhi.

Hooke pensò che magari Ivory Conti avesse anche il diritto di autocommiserarsi un po’, primo per via di come il suo aspetto corrispondesse perfettamente al suo nome – vale a dire, il Conte Bianco –, cosa che senza dubbio contribuiva alla sua variazione sul tema della sindrome di Napoleone. Secondo, per il fatto che dieci minuti prima era il re di questo piccolo castello, con un modello imprenditoriale solido, e adesso i suoi uomini migliori erano morti, la sua autorità era a rischio e c’era una gigantesca nonché mortale lucertola sputafuoco, alla quale non era neppure certo di credere, venuta a grigliarlo proprio lì nella sua fortezza.

“Povero stronzetto” pensò Hooke.

Perlomeno Ivory stava finalmente prendendo sul serio la situazione, anche se c’erano voluti una guardia del corpo morta e un edificio traballante per trovare la motivazione giusta. Aprì il caveau in fondo all’ufficio e, molto opportunamente, entrò.

«Ollallà» disse Hooke, fregandosi letteralmente le mani. «E così Ivory Conti ha tenuto nascosti i suoi giocattoli. Che cos’hai lì dentro, figliolo?»

Seguì Ivory nel caveau, che era davvero una caverna delle meraviglie degna di Aladino. Regence Hooke era colpito, ed era uno che in Iraq aveva fatto sparire dei gran bei tesori.

«Che cos’è questo posto, boss?» disse, come se non l’avesse saputo perfettamente. «Di sicuro non è il solito caveau.»

«È una panic room» disse Ivory. «Dai una bella occhiata, perché non la rivedrai mai più, capito, picciotto?»

“‘Picciotto’?” pensò Hooke. “Sul serio?”

Ivory prese un fucile d’assalto modulare nuovo di zecca dallo scaffale. «Il tuo drago non è l’unico che ha una certa potenza di fuoco» disse. «Vediamo se gli piace una panciata di questo.»

«Ammiro il tuo atteggiamento, boss» disse Hooke. «Hai fegato. Se ne usciamo vivi, questa città è nostra.»

La panic room era davvero notevole, con le armi tutte in fila in bella mostra, ognuna nel suo spazio. La gente sottovalutava la cura e l’attenzione per i dettagli che bisognava avere per allestire un’esposizione del genere. Era davvero una mostra in piena regola. Hooke aveva sentito dire che Ivory aveva assoldato l’installatore d’arte di una galleria del Warehouse District perché venisse qui a sistemare gli armamenti. Il tizio ci aveva messo una settimana, ed era costato otto bei testoni, così gli avevano detto, ma secondo Hooke ne era valsa la pena, perché avrebbe scommesso che ogni volta che Ivory entrava lì dentro gli veniva voglia di farsi una sega; e poi di tanto in tanto lasciava che i suoi concorrenti dessero una rapida occhiata all’interno in modo da farsi un’idea del tipo d’uomo che magari avevano intenzione di fottere. Perché quelli che lavoravano nel campo di Ivory pensavano a fottersi l’uno con l’altro ventiquattro ore al giorno, trecentosessantacinque giorni all’anno.

Hooke fece la conta con le varie armi appese al muro, passando oltre i modelli più ordinari fino a che non gli si illuminarono gli occhi alla vista di un Barrett Light Fifty.

«Ed ecco il nostro vincitore» disse, tendendo le braccia verso il calibro .50 e sollevandone il peso come fosse stato un bilanciere.

“Sarà interessante” pensò “vedere se questo cannone portatile riesce a fare un buco in un drago in carne e ossa.” Sarebbe stato anche interessante vedere come avrebbe reagito Vern quando Ivory l’avesse irritato con la sua cerbottana.

“Il drago si incazzerà, e sarà allora che sparerò il mio colpo.”

Ivory si sistemò come un cecchino, gomiti sulla scrivania, e puntò il fucile verso la porta.

“Magari si aspetta che Vern bussi.”

Nel frattempo Hooke rimase indietro, tenendo un piede all’interno della panic room, che si chiamava così per validi motivi.

Non dovettero mantenere le posizioni a lungo, dato che non si trattava certo della caccia a Bin Laden. Nel giro di pochi secondi si levò un ruggito tale da far pensare al tuono di un fulmine generatosi chissà come all’interno dell’edificio, e un istante dopo un quarto buono del pavimento fu consumato da una colonna di fiamme spesse che trapassò la penthouse da parte a parte e continuò a salire verso il cielo.

«Cazzo!» disse Ivory, con le sopracciglia bruciacchiate. «Oh mamma cazzo merda!»

Che esprimeva quasi alla perfezione il sentimento di tutti i presenti.

Per quanto di certo la colonna di fuoco fosse terribile, dal punto di vista di Hooke c’erano un paio di lati positivi. Uno, il fatto che avesse completamente distrutto qualsiasi prova del suo recente omicidio, e due, il fatto che non fosse durata molto. Nulla aveva preso fuoco, non esattamente, almeno: soltanto i bordi della voragine ardevano appena.

Il fuoco svanì come se non ci fosse mai stato, e Hooke capì immediatamente cosa fosse successo.

“Il vecchio Vern si sta scavando una via di fuga” pensò. “Che lo porta direttamente a questa povera penthouse.”

Diede un colpetto sul culo di Ivory con la punta dello stivale. «Colpo in canna, boss» disse. «Ci siamo. Entra in scena il drago.»

Hooke ridacchiò. “Entra in scena il drago.”

L’ascesa di Vern attraverso l’hotel fu abbastanza tranquilla, come un viaggio attraverso i cerchi dell’inferno. Arrampicarsi non era difficile, per i draghi, che da sempre amavano le alte quote. Certo, di solito volavano giù dai loro nidi in cima alle montagne, anziché arrampicarsi, ma le lucertole di fuoco avevano in dotazione artigli simili a ramponi ed erano in grado di scalare pareti del tutto verticali qualora si rendesse necessario, per cui un hotel di quattro piani nel centro di New Orleans non avrebbe dovuto costituire un problema a patto che nessuno fosse scemo abbastanza da mettersi in mezzo.

Al secondo piano c’era un caos assoluto, polvere ovunque, e tizzoni ardenti a svolazzare dopo il passaggio delle fiamme. Gli spruzzatori schizzavano acqua dai soffitti senza troppa convinzione, e un paio dei soldati di Ivory barcollavano, disorientati dal vapore. Erano piuttosto scossi, e non avevano fatto in tempo a rendersi conto dell’apparizione di Vern. Be’, perlomeno fin quando non aveva bruciato fino alle ossa quasi tutti i loro colleghi.

«Ma era un gargoyle in carne e ossa?» borbottò fra sé e sé l’unico sopravvissuto.

“Gargoyle?”

E con quello, facevano due.

Vern continuò la risalita, maledicendo Miccetta sebbene il ragazzino con tre mozziconi di dita ancora caldi fosse nel profondo della fase REM.

«Maledetti umani domestici» si lagnò il drago. «Gli apri il cuore per cinque minuti, Cristo Dio, e un attimo dopo ti tocca scappare dagli hotel della mafia a suon di fiammate.»

“Sì, come se non ti stessi divertendo da matti” gli disse la vocina.

Saliva in fretta, affondando gli artigli, piuttosto soddisfatto di quella scalata, considerando che ormai erano diversi decenni che non si arrampicava granché.

“Lo sentirò domani.” Lo sapeva per esperienza: se ignori i glutei, finiranno per farti il culo.

L’arrampicata smise di essere tranquilla a un punto molto preciso, ovverosia il punto in cui Vern scorse Regence Hooke all’ultimo piano.

«Punti bonus» disse Vern, pensando che si sarebbe davvero goduto quel che aveva intenzione di fare.

“Mi tagli le dita al ragazzino, eh? Mi smembri il mio unico compagno di bevute? Adesso ti faccio vedere cosa succede quando vai a rompere i coglioni ai draghi, Regence.”

L’arrivo di Vern nella penthouse era stato accolto una frazione di secondo prima da una grandinata di proiettili sparati da un qualche fucile automatico. Le pallottole gli rimbalzarono sulla fronte, ma diamine se erano fastidiose, come se qualcuno gli stesse sputando in faccia delle sfere di piombo.

Vern si accigliò, e non soltanto perché era infastidito, ma perché accigliarsi gli consentiva di celare gli occhi dietro la spessa corazza della fronte, proteggendoli dall’attacco.

“Non c’è proprio limite ai miei talenti” pensò, sbirciando da dietro l’arcata sopraccigliare per vedere chi altri, oltre Hooke, stesse sprecando munizioni. Uno stronzetto conciato tipo Tony Montana stava sbraitando chissà cosa riguardo alla mamma di Vern e il cazzo, cosa poco opportuna a prescindere dalla specie di appartenenza. Il tizio era uno spasso da vedere, fra la camicia nera con il colletto stile Bee Gees e il panciotto bianco.

Vern prese in considerazione l’idea di dirglielo, quello che Pacino diceva nel film, e stava per farlo quando vide Hooke, che indugiava un po’ più indietro.

«Eccoti lì, brutto figlio di puttana» ringhiò, ma invece di ringhiare Vern avrebbe dovuto accendere il lanciafiamme, giacché Hooke aveva sollevato una specie di mini-cannone e aveva fatto partire un colpo. Due cose dissuasero Vern dal provare a schivare il proiettile: numero uno, non era granché preoccupato, e numero due, per quanto fosse veloce, Vern non riusciva a superare il muro del suono senza prendere una rincorsa, quindi il calibro .50 sarebbe comunque stato più veloce di lui.

Il grosso proiettile lo colpì di striscio alla fronte, sollevando un lembo di carne e scheggiandogli l’osso, infliggendogli un livello di dolore che Vern non aveva sentito da molti, molti anni.

Una volta che cominciò a uscirgli il sangue, Vern, preso dalla rabbia del momento, perse completamente le staffe. Tirò fuori un ruggito che pareva preistorico, e lanciò una fiammata ampia nella direzione di Hooke, con l’intenzione di incenerirlo, riuscendo anche a inserire in quell’attacco le parole «’an ’ulo ’ooke», che, con la bocca spalancata, era la miglior dizione possibile.

Quando la nebbia si diradò, Vern si prese una vista della devastazione che aveva causato, e vide che era buona.

“Non c’è verso che Hooke ne esca vivo” pensò. “Lo stronzo sarà ridotto a un diamante, con tutto il calore che gli ho riversato addosso.”

Era un pensiero piacevole, che fece rallentare un pochino il battito di Vern. «Tutta questa seccatura per un ragazzino» disse poi, rivolto alla luna.

“Jubelus si piscerebbe addosso dalle risate.”

L’idea che un drago si prendesse un missile in faccia per un umano avrebbe davvero fatto ridere suo fratello a crepasquame. Anche Vern avrebbe riso: dopotutto, quanto doveva essere disperato per arrivare al punto in cui gli fregasse qualcosa del destino di un essere umano?

“Disperato quanto sono io” pensò Vern, dando un’ultima occhiata alla penthouse carbonizzata, nel caso in cui Hooke, infido com’era, fosse riuscito in qualche modo a sfuggire alla morte. Poi sentì l’intero edificio afflosciarsi come se avesse espirato dell’aria. Si arrampicò fin sul tetto. Percepì la frescura della notte sulla schiena, e tirò indietro le spalle per un secondo prima di scorgere un elicottero nel cielo nero. Il faro appeso al telaio fendeva l’oscurità e stava venendo dritto verso di lui.

“Mai bruciato un elicottero” pensò Vern. “Potrebbe anche essere divertente.”

Poi Miccetta si agitò nel suo bozzolo di fortuna, e il drago pensò che forse sarebbe stato meglio tornare al bayou il più in fretta possibile.

Vern si diede qualche pacca sullo stomaco. Tutte quelle fiammate gli stavano costando le sue preziose riserve di grasso.

“Mi fermerò al Pearl Bar and Grill” decise, “così mi asciugo qualche gallone di olio da cucina dal magazzino, giusto nel caso in cui ci sia qualche cazzo di strascico e abbia bisogno di dar fuoco a una folla inferocita.”

Ormai non si sentiva più parlare molto delle folle inferocite, ma c’erano ancora, aspettavano solo una croce in fiamme intorno alla quale radunarsi, e fra una causa e l’altra passavano il tempo a sbraitare contro le adolescenti incinte alla televisione. Quegli sfigati di solito se la prendevano con i loro simili, e Vern trovava esilarante questa cosa degli umani che davano la caccia ad altri umani a causa del colore della pelle, o del porto in cui cercavano riparo durante una tempesta, per così dire. Era quello il problema degli umani: non ci si poteva ragionare. Vern aveva avuto un amico, ai tempi dell’Inghilterra medievale. Un tipo simpatico. Viveva in un posto chiamato Fatfield. Fumava un sacco di hashish.

In qualsiasi caso, quell’amico era convinto che con la folla si potesse ragionare: Gli dai una dimostrazione della tua forza, e vedrai che quelli ci ripensano e se ne tornano alle loro fattorie.

Il drago di Fatfield era rimasto un fautore di quell’idea fino al giorno in cui un grappolo di crociati normanni non aveva usato delle balestre per inchiodarlo in una palude e lasciare che fossero le intemperie a finirlo.

“Ragionarci?”

Se c’era una cosa che Vern aveva imparato, era che con gli umani non c’era modo di ragionare.

Allora cosa ci fai qui, testa di cazzo?” gli chiese la sua vocina.

Vern non aveva una buona risposta a quella domanda. “Sono qui perché mi sembra la cosa giusta da fare” non era una spiegazione in grado di resistere a un’argomentazione logica, ma era quanto di più vicino alla verità riuscisse a formulare.

Miccetta era un bravo ragazzo che stava facendo del suo meglio in una situazione di merda, quindi se Vern doveva scegliere da che parte stare, sarebbe stato dalla parte opposta rispetto a quella di Regence Hooke.

“E ho appena incenerito l’intera squadraccia del vecchio Regence.”

«Una bella serata di lavoro» disse Vern, poi appoggiò Miccetta per terra e si sgranchì le ali, pensando per l’ennesima volta che avrebbe dovuto cercare su Google qualche informazione su come gli funzionassero davvero e imparare qualcosa di nuovo a proposito di se stesso.

«Ha qualcosa a che vedere con spinta e resistenza» disse a un Miccetta privo di sensi, prima di afferrarlo per la cintola e librarsi in volo nella notte di New Orleans.

«Addio, Ausiliario» disse, tirando mentalmente una croce sulla sua lista di cose da fare alla voce Ammazzare Hooke. «Che tu possa bruciare all’inferno.»