10
Quel pomeriggio, Vern sgattaiolò nella sua baracca sapendo benissimo che non avrebbe mai dovuto trovarsi lì dentro nelle ore diurne, nel caso in cui uno degli abitanti della palude avesse scovato da qualche parte il coraggio di mettere piede sull’isola. Nel corso degli anni ne aveva fatti sparire diversi per mandare un messaggio agli altri, ma c’era sempre qualche sempliciotto invasato deciso a farsi un nome andando a scovare il mostro di Honey Island.
“Che poi questa non è manco Honey Island, testa di cazzo” aveva gridato Vern a uno di quei tizi prima di affondarlo nel bayou.
Ma ormai non lo faceva più.
Di questi tempi Vern solitamente sgusciava sott’acqua e si nascondeva fino a che l’ultimo degli aspiranti ammazzamostri non se ne andava per la sua strada masticando tabacco, nella speranza che non capitasse per caso davanti alla sua baracca con la televisione, il frigo per la birra e la parabola satellitare con il cavo che scendeva come un serpente dalle fronde dei cipressi.
“Oggi no, però” pensò Vern, aprendo la prima bottiglia di vodka della mattinata. “Oggi il primo stronzo che posa un piede sul mio sacro suolo lo incenerisco. Vaffanculo, sono stufo di nascondermi.”
Vern non era uno stupido. Capiva cosa stava succedendo.
“Sono caduto nelle fauci del cane nero, e sto andando in depressione.”
Quelle crisi erano imprevedibili, e spesso accompagnate da un’emicrania tanto severa che Vern aveva la sensazione che gli si stesse per scoperchiare la testa. Gli si impennava la temperatura interna, e diventava capace di sciogliere una vasca di ghiaccio in venti minuti, se mai avesse avuto una vasca, e del ghiaccio che gli avanzava.
Il problema era che una volta la malinconia lo avvolgeva piano piano: un declino graduale, poi una lenta risalita fin dall’altra parte. Adesso però la sua mente sapeva cosa aspettarsi e accelerava le cose all’istante, da zero a livelli critici nel giro di pochi minuti. Bastava il minimo impulso a farlo esplodere. Una spina di pesce fra i denti. Un piatto di zuppa scadente. O, in questo caso, la questione leggermente più seria del suo unico amico che si era fatto seppellire. La depressione lo aveva preso appena il vecchio Wax era andato giù, e da quel momento non aveva fatto che peggiorare.
Quando si ritrovava di quell’umore, Vern si sentiva intrappolato in un tunnel buio, e davanti a sé non vedeva nulla, se non altra oscurità. Una notte senza fine, dalla quale veniva distratto solo da momentanei lampi di luce.
“Luce?” pensò adesso. “Quale cazzo di luce? Non posso nemmeno più uscire di giorno.”
Ed era allora che gli venivano i pensieri, del tipo:
“Chi te lo fa fare? Chi cazzo te lo fa fare? Non hai forse vissuto abbastanza?”
La tentazione che ribolliva subito sotto la superficie era quella di un’uscita di scena col botto.
Abbuffarsi di grassi e puntare dritto verso Belle Chasse. Piombare su quella base militare e fare terra bruciata tutt’intorno. Vedere quanti disastri sarebbe riuscito a combinare prima che la marina decidesse di togliere i teloni dai cannoni più seri.
“Cazzo, probabilmente potrei far sparire quella base dalla faccia della terra.”
Lo divertiva immaginare la tempesta di merda a livello mondiale che un evento del genere avrebbe causato. Gli umani si sarebbero decisamente cagati addosso. Washington sarebbe stata terrorizzata dall’idea di un’imminente invasione dei draghi. Avrebbero cercato dappertutto, quello era sicuro.
Ed era lì che la fantasia stupidamente entusiasta di Vern perdeva vigore. Se Vern si fosse fatto strada a suon di fiammate fra qualche centinaio di soldati, c’era da scommetterci fino all’ultimo centesimo che i militari avrebbero setacciato gli angoli più remoti della terra in cerca di eventuali altre minacce. E qualora non fosse stato l’ultimo, se ancora ci fossero stati alcuni suoi fratelli e alcune sue sorelle nascosti da qualche parte, allora le azioni di Vern avrebbero condannato a morte anche loro. O, peggio, magari sarebbero stati catturati vivi e sottoposti a chissà che genere di terribili esperimenti.
E poi era possibile che la nuova etica pacifista di Wax lo stesse contagiando, dato che ormai neppure Vern si divertiva più come una volta a uccidere gli umani. Quella nebbia rossa si stava diradando un po’. Era più di un secolo che non dava in escandescenze senza che lo provocassero, anche se, per come la vedeva Vern, ogni volta che dava in escandescenze era sempre perché qualcuno lo aveva provocato, per esempio se uno risaliva il fiume fino alla sorgente. Era parecchio tempo ormai che Vern uccideva soltanto per sopravvivere, e anche da quel punto di vista erano quasi otto anni che non torceva un capello a nessuno, sin da quando uno di quegli stronzissimi cacciatori di mostri aveva trovato quel che andava cercando.
“Devo procurarmi uno di quei cartelli che si girano” pensò Vern. “NIENTE OMICIDI DA: 2923 GIORNI.”
Di conseguenza, meglio evitare gli attacchi alle basi della marina militare.
In certi momenti, però, Vern provava comunque il desiderio di non essere. E probabilmente avrebbe dovuto patire molti momenti del genere prima che gli passasse quell’attacco di malinconia.
Aveva fatto anche diversi tentativi volti a non essere. Ai tempi si era reso conto di avere il collo troppo duro perché potesse spezzarselo impiccandosi a una corda per poi saltare giù da una sedia. L’atropa belladonna, teoricamente letale, gli provocò soltanto una cacarella che gli fece tremare le ginocchia. Un proiettile destinato al cervello non riuscì ad attraversargli il cranio, per quanto fosse riuscito a danneggiarsi le cavità nasali quando ci si era infilato dentro un fucile a pietra focaia. Una volta o due si era anche buttato a peso morto da grandi altezze, ma si era tirato indietro come un coniglio subito prima dell’impatto. Una volta si era tirato indietro una trentina di metri troppo tardi e si era ritrovato con una spalla malconcia per un paio di decenni. Di tanto in tanto qualche fitta la sentiva ancora.
Francamente, il gioco non valeva la candela.
O almeno così era stato. Fino adesso.
Perché Wax gli aveva affidato la propria borsa affinché la distruggesse, nel caso in cui qualche scemo la trovasse e scambiasse le fiale per afrodisiaci. Quella borsa da medico piena da scoppiare di gingilli assassini e pozioni mortali tramandate nei secoli. Di solito Waxman non aveva bisogno di rovistarci troppo dentro per trovare un’arma del delitto che facesse al caso suo, ma c’erano alcune tasche nascoste, quindi non si poteva mai dire. Certo, il mogwai era in grado di affettare e fare a dadini una persona meglio di quasi chiunque altro, ma poteva anche infilarti un parassita in un orecchio o spalmarti batteri tossici sul collo, tutti maneggi abbastanza sottili ma comunque letali. Quando si trattava di uccidere una persona in maniera creativa, gli umani parevano dei koala in confronto a quel mogwai. E a Vern sembrava che i mogwai in generale provassero un certo gusto nell’occuparsi degli aspetti più macabri del lavoro, nonostante Waxman ultimamente avesse perso il suo entusiasmo per gli omicidi. Si era comunque tenuto la borsa, perché non si sapeva mai, e adesso, dopo la nuotata verso casa, Vern aveva quella borsa infilata nella sua sacca impermeabile. E sapeva che lì dentro c’era qualcosa in grado di farlo fuori, giacché gliel’aveva detto Waxman, magari una cinquantina d’anni prima, quando aveva cominciato a collezionare gli articoli con cui riempirla.
Vern si ricordava il primo giorno in cui Waxman aveva poggiato quella pesante borsa da medico sulla cassa arancione che gli faceva da tavolo prima che si mettesse a collezionare mobili antichi.
“La vedi, questa, Highfire?” gli aveva chiesto, come se non gliel’avesse appena piazzata davanti. “È la mia cassetta degli ammazzi. Perché tanto lo sai che se abbiamo intenzione di evitare di morire, qualcheduno mi toccherà ammazzarlo.”
“Amen, fratello” gli aveva risposto Vern, giacché non gli pareva di aver mai sentito parole più vere.
A quel punto la borsa era solo agli inizi, ma Waxman era comunque riuscito a mettere in mostra una discreta collezione sulla cassa. Lame, bottigliette, pillole avvolte in vari fazzolettini.
“Cazzo, hai un sacco di roba, lì dentro” aveva commentato Vern. “Sembra la macchina di un pagliaccio, quella borsa lì.”
A quei tempi Vern non mancava mai di infilare nelle conversazioni qualche riferimento circense, tanto per far incazzare Waxman, visto come lo aveva salvato.
“Vaffanculo, Highfire” aveva detto Waxman. “Lo vedi, sono commenti come il tuo che rendono necessaria questa bellezza.”
La “bellezza” in questione era una polpettina di erbe e fango avvolta in una foglia d’ortica bollita. Coperta di carta cerata, la foglia sembrava una sorta di snack vegano per hipster incalliti. Non fosse stata tutt’altro.
“Castigadraghi” spiegò Waxman. “Perché certi draghi sono degli stronzi che si mettono in testa che magari possono prendersela coi loro mogwai ogni volta che gli viene lo sghiribizzo. E io sono qui per dirti, Highfire, che non sopporto quel genere di trattamento, e non ho intenzione di tollerarlo.”
Il che aveva in sostanza messo i due sullo stesso piano.
E adesso, settant’anni dopo, drago e mogwai erano diventati amicissimi e c’era una polpetta di Castigadraghi poggiata sul tavolo davanti a Vern.
“Facilissimo” pensò Vern. “Mando giù nel gargarozzo questa polpettina, mi corico nella palude, e lascio che la pillola di Wax faccia effetto.”
Avrebbe dovuto coricarsi nella palude in modo tale che non trovassero mai il corpo.
Una volta che si mise in testa quel pensiero, non ci fu verso di toglierselo. Se due settimane prima era stato un drago pronto a uccidere chiunque pur di sopravvivere, oggi era seduto sulla sua poltrona reclinabile, a bere vodka dalla bottiglia, una creatura incapace di pensare a una singola cazzo di ragione per vivere.
“Castigadraghi” aveva detto Vern ai bei tempi andati. “Fa male?”
Wax aveva ghignato, facendo luccicare le molteplici fila di denti aguzzi. “Nossignore, nessun dolore. Solo un po’ di giramento di testa, magari ti metti a farneticare, poi ti fai un pisolino, e non ti svegli più. Mica voglio ritrovarmi con un drago in preda ai crampi che approfitta dei suoi ultimi minuti di vita per friggermi il culo.”
“Nessun dolore” pensò adesso Vern. “Fai un pisolino e via.”
Un’idea allettante.
“Un pisolino.”
Cos’altro avrebbe potuto fare? Vivere in quella maledetta palude fino a che un turista non fosse finalmente riuscito a fotografarlo?
No. Meglio andarsene alle sue condizioni.
“Alle mie condizioni? Marcire nel fango della palude dopo essere stati signori dei cieli?”
Ma ormai non era più così.
E non lo era da molto tempo. Gli umani se ne erano assicurati. Era il momento di affrontare finalmente i fatti. L’era dei draghi era finita, e da un bel pezzo. Era come l’ultimo tizio al mondo che ascoltava la musica in formato Stereo8. Quella roba non sarebbe mai tornata in voga.
Il Castigadraghi adesso era posato sul bracciolo della poltrona. Sembrava che la carta cerata frusciasse da sola, sfidandolo a tirare fuori le palle e farla finita e basta.
“Era un po’ che non mi veniva una depressione simile” si rese conto Vern. “Mi sa che era l’ora.”
E così Vern prese una decisione.
“Passerò il resto della giornata a bere, e se una volta che ho finito ho ancora il morale a terra, allora mi mangio ’sto Castigadraghi qui e me ne vado a fare un’ultima nuotata, in un posto carino e profondo.”
E si mise subito all’opera. Soltanto che la parte finale, quella dell’ultima nuotata, non andò secondo i piani.
Miccetta Moreau, del tutto ignaro che l’Ausiliario Hooke lo stesse pedinando, si occupava delle sue faccende a dir poco uniche. Ogni giorno la stessa solfa: si alzava a metà mattina, si scrollava di dosso la sonnolenza, andava a fare colazione al Pearl, e poi scaricava bottiglie al bar. Aiutava Bodi a preparare per il pranzo, e flirtava un po’ con Shandra Boyce, che faceva la cameriera ai tavoli. A volte Shandra divideva con lui una bibita durante i momenti di quiete, ma di solito no, giacché Shandra cercava un ragazzo tutto d’un pezzo e Miccetta non aveva ancora passato abbastanza tempo in quella categoria per dimostrare di appartenervi. Era come un tossico che aveva smesso di bucarsi da un paio di settimane: avrebbe dovuto restare pulito almeno per qualche mese ancora.
Dopo pranzo Miccetta usciva in barca per occuparsi delle reti e delle trappole. Qualsiasi cosa riuscisse a pescare finiva alla cucina del Pearl e veniva aggiunta al suo totale settimanale. Di solito c’era da passare a prendere un paio di articoli per Vern all’emporio. I generi di prima necessità erano la vodka, l’olio di palma e la carne fresca, e poi c’era sempre qualcos’altro sulla lista. Andava tutto infilato con cura in un frigo portatile, dopodiché Miccetta andava a farsi un giretto lungo il fiume, stando ben attento a evitare qualsiasi genere di interazione con gli umani, così che nessuno lo seguisse e lui non si ritrovasse costretto a saltare la sua preziosa squama.
Dopo la consegna, Miccetta ritirava la lista della spesa per il giorno seguente e succhiava la squama di drago che Vern lasciava sulla lista a mo’ di fermacarte. Poi usciva sul retro, prendeva il secchio con la merda e andava fino a casa del vecchio Waxman per concimare. A volte parlava con Waxman, gli diceva quanto Vern gli rompesse le palle, di come negli ultimi dieci giorni lo avesse visto a malapena. E di come di sicuro gli avrebbe fatto comodo se lo avesse remunerato almeno un pochino per tutte quelle ore di lavoro. Anche solo i soldi della benzina sarebbero stati un inizio.
Miccetta aveva la sensazione di stare sulle spine da una vita, anche se erano passate solo un paio di settimane. Gli sembrava di non riuscire a ricordarsi cosa si provasse a sentirsi rilassati, ma di certo si ricordava momenti in cui aveva dovuto esserlo: per esempio quando aveva fumato uno spinello sull’argine con Charles Jr, o quando si era seduto con sua mamma a guardare Highlander, che era il suo film preferito. Erano tempi facili, quelli, e di certo si era sentito meno peso sulle spalle, almeno per un paio d’ore. Ma adesso non riusciva a rievocare quella sensazione. Gli pareva che quelle cose fossero successe a qualcun altro, in un’altra vita, giacché Miccetta Moreau, in questa specifica versione, era schiavo di un drago.
La notte stava calando sul bayou, ed era il fine settimana, per cui Petit Bateau si stava scaldando. Il Pearl era riuscito in qualche modo ad assicurarsi i servigi di Aaron Neville, che a quanto pareva conosceva Bodi Irwin. Era un concerto segreto, ma non appena si sparse la voce che il re di New Orleans stava dando spettacolo sul piccolo palco del Pearl, mezza Slidell si riversò nel ristorante, e l’altra mezza riempì il molo e i tavoli del patio.
In altre circostanze Miccetta non avrebbe sopportato di perdersi una serata esaltante come quella, ma al momento aveva i minuti contati e Waxman gli aveva detto molto chiaramente di non arrivare mai in ritardo. Il suo impegno di quella sera era duplice: cambiare i secchi della merda e consegnare la spesa a Vern, ovverosia un tris di cereali formato da Cocoa Puffs, Lucky Charms e Cheerios, più quattro litri di latte di soia. A quanto pare il drago era uno a cui piaceva cenare con la colazione.
“Per quel che ne so io. Può anche darsi che dia i Cheerios ai pesci gatto. Non è che lo veda poi granché, anzi, non lo vedo proprio mai.”
Per cui Miccetta quella sera restò davvero sbalordito nel trovare il drago in casa mentre spingeva il frigo portatile nella baracca. Vern era spaparanzato sulla poltrona, con le squame e la corazza che brillavano della luce riflessa del televisore, una bottiglia di vodka a penzolare fra due dita artigliate in una mano, e quel che pareva mezzo biscotto iperproteico nell’altra.
Il ragazzo fu ancora più sorpreso quando Vern disse: «Mi sa che alla fine non sei tu quello che tirerà le cuoia, giovane. Mi sa che sono io».
Il drago era ebbro da far spavento, a giudicare da come stava stravaccato sulla poltrona, ma Miccetta, lavorando al bar di Bodi, aveva sentito un sacco di ubriachi fare grandi dichiarazioni in preda ai fumi dell’alcol, e aveva la sensazione che questa fosse un minimo sincera.
«Ancora un morso di ’sto biscotto di merda, qui, e me ne vado a dormire. Addio, mondo crudele. Dopodiché potrai spifferare tutto a chi ti pare, tanto nessuno ti crederà.»
Miccetta era confuso da quella situazione, dato che non sapeva come reagire. Avrebbe forse dovuto lasciare che il drago andasse per la sua strada, sempre che potesse impedirglielo? O avrebbe dovuto fare qualcosa per salvarlo?
«Ma le ho portato i cereali» esclamò il ragazzo, pur conscio del fatto che, vista la situazione, fosse deboluccia, come motivazione. «E pure l’acqua minerale. Francese.»
Il drago inclinò il capo come se la cosa potesse fargli cambiare idea.
«Nah» disse poi, mandando giù nel gargarozzo il resto del biscotto. «Non è abbastanza.»
Vern annaffiò il suo spuntino con un sorso di vodka, i denti a tintinnare sul collo della bottiglia. «A casa, adesso, giovane. Non so esattamente quali siano gli effetti collaterali di ’sto Castigadraghi. Può essere che scoppi un casino tipo L’Esorcista.»
Miccetta aveva visto quel film, fondamentalmente perché sua mamma gli aveva categoricamente impedito di guardarlo: di certo non voleva trovarsi nei paraggi di un drago intento a scatenare un flusso di vomito stile manichetta dei pompieri.
Anche se.
“Una bella vomitata potrebbe salvarlo.”
La vocina di Miccetta era tutt’altro che entusiasta all’idea.
“Salvarlo? Perché diavolo dovresti salvarlo? Lascia che il lucertolone si tolga di mezzo, e ti liberi del cinquanta per cento dei tuoi problemi.
“Sì, ma. Un drago, sai com’è?
“Chissene. Se ne vada a fare in culo. E frega una sega dell’estinzione. Rimetti il culo sulla barca, e già che ci sei tieniti pure la spesa.”
Neppure Waxman avrebbe potuto dargli la colpa se Vern fosse uscito di scena in quella maniera.
Gli occhi del drago erano annebbiati. «Io ne ho viste di cose, giovane» disse piano. «Ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle Porte di Tannhäuser.»
Al che Miccetta sbottò appena. «Tutto lì, capo? Non ha altro da dirmi che due frasi da Blade Runner? Mi racconti almeno qualcosa di vero prima di andarsene.»
Vern strinse gli occhi e agitò un dito in direzione di Miccetta. «Mi hai beccato, sai? Blade Runner. Pensavo non l’avessi visto, giovane come sei.»
«L’ho visto, l’ho visto» disse Miccetta. «Li ho visti tutti con la Mamma, i film vecchi. Lei adora Highlander.»
«Cazzo!» disse Vern. «Ne resterà soltanto uno, giusto?»
«Ne resterà soltanto uno» concordò Miccetta. «E quello lì è lei. L’unico drago. Vuole veramente andarsene così?»
Vern sbatté le palpebre molto lentamente, come se gli costasse fatica. «Non voglio andarmene, e non voglio restare. Capisci cosa intendo?»
Miccetta in realtà capiva abbastanza. Aveva un po’ di esperienza con la gente a cui non importava nulla di vivere.
«Capisco cosa intende, signor Vern. Sono tempi duri. Però abbiamo tutti qualcosa di cui occuparci, cazzo.»
Vern ruttò. «Io no. Non ho niente. Di quello vi siete occupati voi. Nessuno della tua razza ha mai fatto un cavolo né per me né per qualcuno dei miei simili.» Il drago si sporse in avanti, i gomiti sulla ginocchia, sbavando appena. «Che senso ha?» chiese. «Sarà anche vero che domani spunterà di nuovo il sole, e tutto quanto, ma sono stanco di guardare l’alba da solo.»
Miccetta si ricordò di una cosa che gli aveva detto una volta sua mamma quando era tornata stanchissima e l’aveva trovato a letto con la pertosse mentre il suo nuovo ragazzo si fumava uno spinello sulla veranda sbattendosi ampiamente i coglioni di Everett a letto malato. E mentre gli asciugava la fronte, la Mamma gli aveva parlato un po’ del suo papà originale, cosa che capitava assai di rado.
«Se solo fossi riuscita a farlo arrivare all’alba» aveva detto, una lacrima a colarle dal naso. «Ma non gli bastavamo, io e te.»
Così quando Vern fece quella battuta sull’alba, Miccetta sentì la rabbia montargli dentro. «Vaffanculo, Vern» disse. «Non mi puoi morire così.»
Vern sbavò un altro po’. «Ma infatti, ragazzino. Tu non c’entri niente. Muoio io per i fatti miei.»
«Col cavolo» disse Miccetta, entrando in azione. O, più precisamente, mettendosi a correre in cerchio mentre cercava di decidere che azione intraprendere. Gli venne in mente quella volta che il suo amico Charles Jr aveva bevuto per sbaglio un sorso da un flacone di candeggina, per il semplice motivo che il contenitore era di dimensioni simili a quelle della bottiglia di whisky di suo padre. La signorina Ingram aveva preso Charles per il collo neanche fosse stato un tacchino e gli aveva infilato tre dita in gola fino a che lui le aveva ricoperto l’avambraccio di vomito. Le aveva scolorito tutta la camicetta.
Aveva poi ammesso che la sua tecnica improvvisata non era ben vista in ambito medico, però cavolo, perlomeno Charles era ancora vivo, no?
Certo, anche se avesse tentato con il metodo Ingram, poteva darsi che i draghi non vomitassero nella stessa maniera degli umani – ma restava il fatto che Vern aveva fatto riferimento a L’Esorcista, per cui Miccetta decise che tanto valeva provarci.
“Certo che però quei denti son proprio belli aguzzi” pensò.
Miccetta ampliò il raggio della sua corsa e afferrò una maglietta fra la dozzina di magliette che stavano appese a un attaccapanni. Se la avvolse intorno all’avambraccio, dopodiché disse una rapida preghiera: «Dio Gesù, aiutami tu».
«L’ho conosciuto, Gesù» biascicò Vern, sollevando il capo. «Non era manco un bravo falegname.»
Ma le rivelazioni sarebbero finite lì, giacché Miccetta ficcò il pugno il più a fondo possibile nella gola del drago. Spinse con tutta la forza che aveva, ringhiando per la fatica, e gli tornò in mente una volta, anni prima, quando lui e Charles Jr si erano messi a tirare pugni in un secchio di cemento che si stava asciugando per vedere fin dove riuscissero ad arrivare, a parte che il pertugio stavolta era più stretto, rigato di muscoli, e orlato di denti. Lo sguardo di Miccetta incontrò quello del drago, e sembrava che il drago fosse furioso, giacché d’improvviso scattò in piedi, trascinando fisicamente con sé Miccetta. Ancora però non dava l’impressione di essere sul punto di vomitare, così Miccetta si mise a ravanare per bene, come se stesse mimando una corsa con le dita, dopodiché piantò un piede sul petto ampio di Vern e tirò forte per liberarsi.
Gli andò dietro sì e no una pinta di una sostanza gelatinosa, dopodiché Vern scatarrò e disse: «Ma che cazzo di faccia tosta!».
Fu allora che con un unico conato vomitò qualsiasi cosa avesse buttato giù, in un’ondata multicolore dalle mille consistenze che si infranse sulle assi del pavimento come acqua di sentina.
«Ah» disse Vern. «Ho capito cos’hai fatto.»
Miccetta adesso non era già più preoccupato di dover salvare la vita al drago, dato che era passato alla fase successiva della sua serata, contraddistinta dal panico che lo prese nel vedere che la sostanza gelatinosa che aveva preceduto il vomito si era già divorata la maglietta, della quale restavano soltanto filamenti di cotone croccante.
«Oh, Dionnipotente» disse Miccetta mentre il gel continuava la sua marcia attaccandogli i peli delle braccia e bruciandoli come tanti minuscoli fusibili, per poi affondargli nei pori dai quali presero a levarsi minuscoli pennacchi di fumo. Strillò per il dolore e si schiaffeggiò il braccio, neanche potesse tenere a bada il fuoco di un drago.
«Uh» disse Vern, e poi, «Cavoli.»
Il drago scatarrò e sputò un grumo di gelatina che fece un buco nel pavimento.
«Ok» disse poi. «Non ti farà piacere, giovane, ma è sempre meglio che perdere un braccio.»
Al che Vern si calò i bermuda coi tasconi, tirò fuori da chissà dove i gioielli di famiglia e pisciò sul braccio di Miccetta.
Quasi solo sul braccio.
Mezz’ora dopo, il drago e il ragazzo erano seduti sulla veranda a guardare gli occhi degli alligatori far capolino a fior d’acqua per poi inabissarsi un attimo dopo.
«Ogni cazzo di sera, sembra di giocare a Colpisci la Talpa» disse Vern. «Come se dopo cent’anni potessi fare qualcosa di insolito.»
«Ha pisciato su un ragazzino» disse Miccetta. «Quello secondo me era insolito.»
Aveva il braccio liscio e la pelle leggermente irritata, ma non peggio di quella volta che per ammazzare la noia aveva provato una delle strisce per la ceretta di sua mamma. A volte quando tua mamma lavora di notte ti viene da far certe cose.
Vern fece spallucce. «Tecnicamente ti ho marcato. E considerati fortunato che l’abbia fatto, giovane. Il piscio di drago ha proprietà di tutti i tipi, inclusa una certa sostanza medicamentosa. Dicono che i mogwai siano fatti in gran parte di quella sostanza, il che spiega le loro capacità di guarigione.»
Miccetta non era dell’umore giusto per una lezione di scienze. Dal suo punto di vista di adolescente, farsi pisciare addosso era peggio che venir bruciato. Ciò detto, aggiunse mentalmente il piscio di drago alla lista di cose che avrebbero potuto conferirgli dei superpoteri.
“Dragon-Boy. Mica male.”
«Vedila un po’ come una specie di aloe vera all’ennesima potenza» proseguì Vern.
L’aloe vera non sembrava affatto roba da X-Men, così Miccetta tornò al proprio fastidio.
«Aloe vera? Facciamo così, ci scriva un bel libro e me lo leggo quando sono vecchio e non posso più fare niente di divertente.»
Uscita che, dal punto di vista di Vern, rappresentava un notevole cambio di atteggiamento per il giovane cajun.
«Ehi» disse il drago, «bada a come parli, giovane. Sono pur sempre un super-predatore, hai capito?»
Miccetta si massaggiò il braccio. «No che non ci bado, a come parlo. Tanto alla fine mi ammazza lo stesso.»
«E tu come lo sai?» chiese Vern, che in realtà stava seriamente pensando di fare tutto il contrario, sempre che non ammazzare fosse il contrario di ammazzare.
«Devo masticarmi le squame fresche, no? Lei invece voleva cacciarsi nella palude. Quindi mi sembra che alla mia vita non ci aveva nemmeno pensato.»
«Quello è vero» ammise Vern, «ma non sono più così convinto di volerti ammazzare, non dopo che mi hai preso a cazzotti la gola dall’interno. Anche se l’hai fatto solo per le squame.»
«Ci ho pensato solo adesso, alle squame» borbottò Miccetta, strappandosi una dozzina di peli bruciacchiati dall’avambraccio.
Sembrava talmente sincero che Vern restò visibilmente spiazzato. Un drago visibilmente spiazzato si riconosceva da un certo sfarfallio delle sue palpebre gemelle e dall’arricciarsi del naso fino a che le protuberanze non si toccavano.
«Cazzate» disse. «Non è così che si comportano gli umani.»
Miccetta prese il coraggio a due mani, gelò Vern con lo sguardo e disse, con tono alquanto accusatorio: «Ha mai pensato che magari aveva ragione Waxman? Che magari siamo davvero tutti anime?».
«Wax non conosce l’umanità come la conosco io» obiettò Vern. «Quel ragazzo ha solo poche centinaia di anni. Comunque sia, tutta quella faccenda delle squame era una scemenza. Il soffio del drago potrà rimbecillirti un po’, ma non ti ammazzerà.»
Anziché provare sollievo, Miccetta non fece altro che inalberarsi ancora di più. «Ma vada a quel paese, signor Vern! Mi prende in giro dalla sera alla mattina! Da quando l’ho incontrata vivo coi nervi sempre a fior di pelle. Ma i film non li ha visti? Incontrare un drago dovrebbe essere una figata.»
Miccetta a quel punto perse slancio, e si rese conto che alzare la voce con un drago e mandarlo a quel paese era la nuova entrata, dritta al numero uno, della sua personale hit parade delle mosse stupide.
Dal canto suo, Vern si concesse un attimo per riflettere sugli sviluppi degli ultimi minuti. Dopotutto si trattava di minuti che non aveva pensato di poter vivere.
«Una figata, eh?»
Miccetta si guardava l’avambraccio come se prima fosse stato invisibile e adesso invece riuscisse a vederlo. «Lo sa qual è il vostro problema?» chiese.
Vern era sorpreso. «“Vostro”? Di chi diavolo stai parlando?»
«Draghi. Umani. Non importa. Sto parlando di chiunque decida di togliersi la vita.»
«No, non lo so» disse Vern con un’ombra di irritazione, «perché non me lo dici tu, ragazzino? Dopotutto, hai dieci lunghi secondi di vita alle spalle.»
«Il problema è che non ve ne frega un cazzo di quelli che vi lasciate indietro.»
«Io non ho proprio nessuno da lasciare indietro» gli fece notare Vern. «Wax è andato giù. E in qualsiasi caso, magari ne ho avuto abbastanza. La maggior parte della gente non crede che io esista, e quelli che invece ci credono mi vogliono trasformare in un bel paio di stivali. Non hai idea di cosa si provi quando la gente non crede nemmeno che esisti.»
«Quello magari no, signor Vern» disse Miccetta, «però so cosa si prova a essere lasciati indietro. So cosa si prova ad avere quella sensazione come un grumo di cartilagine nello stomaco che non passerà mai. Ho visto cos’è successo alla mamma. Mia mamma non fa altro che curare la gente, ma non è riuscita a curare mio papà perché quello che aveva lui era invisibile. Non c’era nessun altro motivo che la chimica.»
«Tuo papà, eh?» disse Vern, vedendo finalmente la luce a proposito del motivo per cui Miccetta aveva scelto di salvargli la vita. Non ci voleva un genio.
«Sì» disse Miccetta. «Si è comprato la sua versione di quel biscotto di merda.»
Vern ancora non se la sentiva di compatire un umano, così si fece gli affari suoi e ascoltò il crepitare dei vermi che sbucavano dal fango della palude.
Dopo un po’, però, il drago sorrise. «Insomma, secondo te non sono abbastanza figo, ragazzo?»
«Non lo so» disse Miccetta. «Come faccio a dirlo? Sono troppo occupato a cagarmi addosso, a seppellire il mio amico sotto una montagna di merda, e a trasportare vodka lungo il fiume.»
Vern si sorprese nel rendersi conto che il cane nero se ne stava andando via. La malinconia del ragazzo lo stava tirando fuori dalla sua, e gli avesse preso un colpo se non gli era venuta voglia di tirare un po’ su di morale quello scugnizzo di palude. «Hai portato la vodka?»
Miccetta lo guardò in malo modo. «Certo, ne ho portata una bottiglia in più, non si sa mai. Ho fatto bene, eh? Così magari adesso può ubriacarsi di nuovo e mangiarsi un altro biscotto di merda.»
«Hai portato anche la minerale?»
«Gliel’ho già detto, capo, ma lei blaterava delle Porte di Tannhäuser e compagnia bella.»
Vern pucciò i piedi squamosi nell’acqua e stese le dita palmate, pensoso. «Ok, Miccetta Moreau. Nuovo accordo, se ci stai.»
«Di sicuro ci sto a dare un calcio in culo a quello vecchio, se è di quello che stiamo parlando» disse Miccetta, mantenendo l’atteggiamento bellicoso, dato che pareva funzionare.
Vern però grugnì, come a segnalare che avrebbe potuto perdere la pazienza nei confronti di quell’atteggiamento. «Visto che mi hai salvato, ti adeguo il contratto. Offerta unica, bada bene, e non trattabile. Tu continui a farmi da fattorino mentre Wax è giù, e io ti pago centocinquanta a settimana più eventuali premi di produzione se non ti devo rimproverare per ritardi o cose del genere. Del contante si occupa Wax, visto che io ho soltanto l’oro, per cui ci mettiamo a posto quando spunta dalla fossa. Tieni tu il conto.»
«E giura che non mi uccide?» chiese Miccetta.
«No, a meno che non sia del tutto necessario. Oltre non posso spingermi.»
Miccetta ci rifletté. «Però se per caso è del tutto necessario, allora solo me» disse il ragazzo. «La Mamma la lascia stare.»
Vern pensò che fosse ragionevole, e così si strinsero la mano: il drago e il ragazzino.
“Be’, cazzarola” pensò Miccetta, sentendo le dita dure e squamose del drago stringersi intorno alle sue, al punto che non riusciva più a vedersi la mano. “Questa sì che è una sorpresa che non mi aspettavo da quest’estate.”
Che era più o meno la stessa cosa che stava pensando Vern.
Dopo un lungo momento di contemplazione, il drago chiese: «Di’ un po’, ragazzo, già che lavori al bar, sarai ben capace di fare un Martini Dry, o no?».