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Miccetta si sentiva spesso preso di mira dalla cattiva sorte. Tutti quanti ogni tanto avevano un minimo di fortuna, un contentino da Madre Natura. L’unica sua benedizione era alquanto comune fra la gente di etnia cajun, ovverosia che le zanzarone della palude non l’avessero mai preso granché in considerazione. Magari era il sangue francese risalente alla notte dei tempi, ma era più probabile che la cosa avesse a che fare coi Caraibi. Miccetta non era mai riuscito a capacitarsi di come si potesse anche solo tollerare il bayou dopo il tramonto, se le zanzare si mettevano letteralmente a mangiarti vivo. Vedevi certi turisti, la mattina, che giravano pieni di piaghe manco si fossero fatti torturare. Roba che neanche a Guantanamo. Non c’era niente al mondo in grado di togliere qualsiasi pretesa a un tatuaggio fatto sul polpaccio ai tempi dell’università come una mezza dozzina di pustole gonfie di pus. Miccetta veniva punto una manciata di volte l’anno al massimo e, persino in quei casi, di solito si trattava di una zanzara di quelle piccole che una sera aveva deciso di scatenarsi.
Per cui la sua fortuna era quella.
Una pelle senza macchie.
Difficile rovesciare le proprie sorti solo con una bella pelle, a meno che qualche scopritore di talenti in cerca di fotomodelli non lo beccasse a bighellonare in centro. Cosa alquanto improbabile, dato che Miccetta bighellonava raramente. Era uno di quei tizi per cui le giornate non sono mai abbastanza lunghe. Sempre a lavorare, sempre in cerca di una maniera per tirar su qualche soldo.
La sua pelle di cajun quantomeno rendeva più agevole sistemare le trappole per i gamberoni. Miccetta accendeva il motore e risaliva il bayou fino a Honey Island, dopodiché immergeva una mezza dozzina di quelle gabbie vicino all’inequivocabile segno di vita rappresentato dalle ninfee, e poi passava qualche ora a sciabicare con un retino fino a che le trappole non erano stracolme. In tutti gli anni passati a pescare di notte, Miccetta era stato morsicato una volta soltanto, e non era stata una zanzara, bensì un mocassino acquatico rimasto impigliato in una delle gabbie. Il serpente tuttavia doveva essere a corto di veleno, giacché Miccetta se l’era cavata con un po’ di gonfiore intorno al segno lasciato dai denti.
“Stasera ho pesci ben più grossi di cui occuparmi” pensò Miccetta, optando per il melodrammatico. “Vita da criminale.”
Miccetta sapeva che stava per varcare un qualche genere di confine, e che non ci sarebbe stato modo di tornare indietro, ma Regence Hooke era un diavolo in berretto frigio, e aveva gli occhi fissi su Elodie Moreau, per cui stava a lui recuperare abbastanza quattrini da permettergli di tenerlo lontano.
“Magari abitassimo in uno di quei quartieri residenziali pieni di testimoni; Hooke si darebbe una calmata e farebbe un passo indietro.”
Il ragionamento contorto di Miccetta si basava sull’idea di uomo malvagio che può farsi un ragazzino. Non poteva sapere che esemplari come Regence Hooke non si calmavano; si innervosivano e basta.
L’unica volta che Hooke si era calmato c’erano voluti un intero blister di anfetamine, un litro di Old Forester’s, e una puttana sull’uscio.
I dettagli salienti circa il potenziale nuovo capo di Miccetta erano i seguenti: Willard Carnahan, fornitore di qualsiasi cosa, legale o illegale che fosse. Non c’era niente che Carnahan non fosse disposto a fare, per quanto ne sapeva Miccetta. Girava una storia secondo cui Willard di recente aveva mandato in coma a mani nude uno spacciatore del Quartiere Francese reo di avergli venduto una pallina di coca che si era rivelata essere borotalco e gli si era pietrificata nel naso. Di conseguenza Carnahan non avrebbe mai più attraversato il doppio ponte che portava in città, a causa della rappresaglia che di certo lo avrebbe atteso a New Orleans da parte dei superiori del suddetto spacciatore. Willard era un marinaio di palude: era in grado di navigare sul Pearl River senza mai nemmeno sfiorare una secca. Portava i turisti in gita in barca durante il giorno, e la notte gestiva i propri affari in giro per i minuscoli immissari del fiume – anche a occhi chiusi, se necessario. Carnahan aveva una sua distilleria, che era del tutto legale a patto che non la utilizzasse per produrre liquore di contrabbando. La versione ufficiale era che Carnahan distillasse l’acqua, ma in realtà era dedito all’antica pratica del contrabbando di liquore, che forniva ai cani sciolti e accecati dall’alcol sparsi per tutto il bayou. Lo sceriffo di Slidell era ben contento di chiudere un occhio a patto che gliene arrivasse regolarmente una pinta, e a nessun altro importava un cazzo. Solo che quelle pinte pesavano, e secondo Miccetta a quel Carnahan serviva un garzone che conoscesse la palude bene quanto lui, o quasi.
Si erano organizzati per vedersi la sera tardi sul vecchio molo di Honey Island. Miccetta era sicuro che Carnahan gli avrebbe permesso di ritirare la mercanzia direttamente dal suo molo una volta che avesse dimostrato il proprio valore, ma stasera sarebbe stato messo alla prova.
“Per controllare se sono un baby agente della narcotici” pensò Miccetta nella sua piroga fra le spighe di tifa, mentre dalla sponda ovest teneva d’occhio il molo in attesa di Carnahan, stendendo lo sguardo su Honey Island al di là dell’acqua che pareva ardesia.
La visibilità era buona, con la luce della luna a rimbalzare sulle foglie dei cipressi, e Miccetta avvistò Carnahan sulla riva, coi suoi jeans attillati e la maglietta smanicata. Ma Carnahan non era solo. C’erano due persone sul molo: Carnahan, con la sua chioma scapigliata degna dei Twisted Sister, e un tizio grosso come un frigorifero. Quello grosso era Regence Hooke, non v’era dubbio alcuno.
“Ma che cazzo?” pensò Miccetta. “Perché mai Hooke dovrebbe far comunella con un criminale come Carnahan?”
Da quella distanza era difficile dire cosa stava succedendo: era possibile che Hooke stesse semplicemente interrogando un indagato, ma Miccetta ne dubitava. Regence Hooke non era tipo da ammazzarsi di lavoro, men che meno nel cuore della notte.
C’era troppo bayou fra Miccetta e quell’accoppiata sospetta sull’altra sponda per riuscire a sentire cosa stesse accadendo, un inconveniente a cui andava posto rimedio. E se uno dovesse indicare l’istante esatto in cui le cose andarono a puttane col culo per aria, allora quel momento era imminente.
“Bisogna che mi avvicini” pensò Miccetta. “Magari riesco a procurarmi un paio di informazioni compromettenti sul conto di Hooke, dovesse mai servirmi una carta per uscire gratis di prigione.”
Ed eccolo lì: il momento che avrebbe cambiato la vita del giovane Everett Moreau. Miccetta stava per commettere il peccato capitale di sorveglianti, spie e pedinatori, disobbedendo al primo e fondamentale comandamento: non ti immischiare. Resta alla larga da qualsiasi cosa tu stia spiando, e non intorbidire le acque con la tua presenza.
Nel caso specifico di Miccetta, le acque erano già più che torbide, ma il ragazzo procedette a ulteriore intorbidimento. Tirò l’albero dell’elica fuori dall’acqua e raggiunse la riva di Honey Island a remi, senza prestare attenzione ai minacciosi avvertimenti delle rane toro. Remando sfiorò la pellaccia nodosa di un alligatore, ma anche in quel caso Miccetta ignorò l’infausto auspicio, dato che aveva l’età in cui qualsiasi idea gli venisse pareva la miglior cazzo di idea dell’universo. Così il ragazzo andò avanti per la sua strada, tenendo il busto piegato in avanti e maledicendosi per non aver portato con sé un po’ di pittura mimetica da spalmarsi sulla faccia e sulle braccia. Non che ce l’avesse a casa, non esattamente, ma Mamma aveva creme di ogni genere, e di sicuro, Cristo, uno di quei vasetti avrebbe fatto al caso suo. Comunque, troppo tardi per arrovellarcisi adesso. Non è che avesse potuto prevedere il futuro e scommettere su quell’incontro.
Gli bastarono una mezza dozzina di colpi per far giungere la piroga sulla sponda opposta del bayou, fino all’argine pensile di Honey Island. Miccetta afferrò una manciata di spighe di tifa e tirò forte, facendo scivolare l’imbarcazione in una discreta copertura di giunchi e radici. L’intera manovra fu poco più che un sussurro, e Miccetta si congratulò con se stesso per quanto riuscisse a essere furtivo, pensando che in un’altra vita magari sarebbe potuto diventare uno delle Forze Speciali, o magari uno di quei ninja a cui tanto piacevano pantofole e bandane nere.
Hooke e Carnahan erano ancora lì a blaterare, e adesso Miccetta riusciva ad afferrare qualche brandello di conversazione. Sentì Hooke dire: «Non mi sono mai accorto di niente, a parte una piega nel mezzo…».
Cosa che avrebbe potuto riguardare più o meno di tutto, da Babbo Natale a uno spione che se l’era cantata.
Poi, qualche secondo dopo, Willard Carnahan commentò: «Ma quello è niente rispetto a ’sto tizio che ho incontrato a Slidell».
Che era ancora più vago, al di là del riferimento al principale centro abitato di quella parrocchia.
Quell’innocuo botta e risposta andò avanti per un’eternità, o almeno così parve a Miccetta, il quale cominciò a dubitare che il suo origliare avrebbe fruttato qualcosa di utile. Tra il frusciare dei giunchi e gli stramaledetti insetti palustri impegnati nella loro cagnara notturna, non riusciva mai a seguire per intero il filo di una conversazione, e quello che riusciva a sentire sembrava il solito mucchio di cazzate da bar.
Willard: «Sul serio, Hooke. ’sto stronzo m’ha guardato, prima che ci aprissi il…»
E Regence: «Te lo giuro, bello, Mamma Hooke faceva ’sta cosa con due lombrichi che…».
Era tutto uno sproloquio inutile, per cui alla fine il suo grande piano d’azione si stava rivelando, in sostanza, una solenne minchiata. E Miccetta cominciava a pensare che tanto valeva chiudere tutto e starsene accovacciato fino a che Regence non fosse ripartito in barca.
“Dai, mi avvicino un altro po’” decise poi. “Gli do cinque minuti, dopodiché vaffanculo, me ne vado.”
Miccetta gattonò dalla piroga fin sull’argine vero e proprio, e poi, pensando di non poter scendere granché più in basso nella vita, strisciò fra i giunchi come un serpente, facendosi strada il più lentamente possibile fin sull’altro lato di quella sospetta accoppiata di mezzanotte, sperando che un cazzo di serpente vero non gli mordesse letteralmente le chiappe.
Arrivò in prossimità di un ceppo giusto in tempo per vedere una pantegana grossa come un melone trotterellare via fra gli alberi. Il ratto gli diede un’occhiata del tipo: “Ti va di lusso che non ho fame”, prima che il suo deretano sparisse nella notte. Miccetta restò talmente turbato da quell’apparizione che gli ci volle un attimo prima di notare che il tono della conversazione fra Hooke e Carnahan era cambiato. Sembrava che la temperatura fra i due si fosse abbassata un pochino.
“Facciamo una bella foto, intanto” pensò Miccetta, prendendo lo smartphone dalla tasca impermeabile dei jeans mimetici da lavoro. E, come spesso accade, se il ragazzo l’avesse tenuto nei pantaloni, le cose sarebbero andate molto meglio.
Hooke si stava chiedendo se per caso non ci fosse un modo per evitare di doversi sbarazzare di Willard.
“Potrei fargliela passare. Dirgli di rasarsi i capelli e comprarsi un completo elegante. Cominciare a farsi chiamare Wilbert invece di Willard. Tanto Ivory che cazzo ne sa?”
Ma Carnahan era uno di quei tizi che sono semplicemente troppo fessi per afferrare il concetto di conseguenze. Prima o dopo avrebbe dato aria alla bocca nel Quartiere Francese, vanagloriandosi di come fosse scampato alla furia di Ivory, e a quel punto Hooke si sarebbe trovato nella merda fino al collo insieme a Willard.
“Merda” pensò Regence. “Non ho mica scelta.”
Hooke aveva accettato l’incarico sperando di trovare un minimo di spazio di manovra, prima o dopo, ma adesso che era arrivato in fondo, per così dire, si rendeva conto che non c’era altro da fare che completare la missione e poi inventarsi qualcosa per riempire il buco a forma di Carnahan che quel lavoro avrebbe lasciato nei suoi progetti.
Perché Hooke aveva grandi progetti, che andavano un tantino al di là dell’attendere la morte in veste di ausiliario di polizia in quel buco di culo di parrocchia.
Aveva messo gli occhietti piccoli e brillanti sull’intera organizzazione di Ivory, che lui mirava a consolidare per poi espanderla verso nord fino in Canada, tagliando fuori del tutto il Sud America.
A quello scopo aveva mostrato poco a poco alcune delle sue carte, giacché aveva bisogno che il contrabbandiere verificasse le sue teorie, e proprio in quel momento Willard affrontò l’argomento.
«Ho parlato col mio contatto all’area di sosta dei camion» disse. «Non c’è limite al numero di camionisti che ci può portare. Gli uomini di Ivory si annoiano a morte, l’unica distrazione sono le puttane che bazzicano il distributore. Son disposti a trasportare di tutto, che sia metanfetamina o armi. Per loro cambia una sega, basta che li paghi.»
«Bene» disse Hooke, «molto bene, Willard. Te li sei segnati, quei nomi?»
«E certo, come mi avevi detto tu» Willard porse a Hooke uno scontrino accartocciato con dei nomi scarabocchiati dietro.
«Devo dire, Willard» disse Hooke, intascandosi la lista, «che ti stai dimostrando sempre all’altezza della situazione.»
Carnahan accettò quel complimento con gli occhi che gli sorridevano, come fosse stato un cucciolo. «Grazie, socio. Allora quand’è che andiamo a fare il culo a ’sto Ivory?»
«Presto, bello mio» disse Regence. «Prima però bisogna che mi procuri qualche rinforzo. Sto tenendo d’occhio El Cava, e mi son trovato un po’ di potenziali compagni. Già due opzioni sicure.»
«E sei sicuro di volerti occupare solo di armi? Droga niente? La droga pesa pochissimo, le armi invece son pesantissime.»
Erano mesi che Hooke si arrovellava su quella questione, per cui era ben lieto di avere l’opportunità di esporre tutto il ragionamento a qualcuno che non l’avrebbe potuto ripetere a tutto il bar.
«Ascoltami bene, Willard» disse. «Adesso ti illustro tutta la nostra filosofia. Le vendite di eroina sono in calo, giusto? La cocaina costa poco, e ormai la spaccia qualsiasi buco di culo con le gambe. Tutte le gang. Ben presto ai messicani non serviremo più; hanno già i loro uomini da questo lato del confine. Gli albanesi, i russi, i portoricani, gli irlandesi… persino in Canada ormai ci sono delle gang. Tipo i Bacon Brothers – ora, dico io, ti sembra possibile chiamarsi così, Willard? Comunque sia, ben presto l’infrastruttura di Ivory non servirà a nessuno. Qualsiasi delinquentello con uno zainetto diventerà un corriere. Ormai quel treno l’abbiamo perso, anche se Ivory ancora non lo sa.»
«Come sarebbe, che ’sta cazzo di infrastruttura è inutile? Ma allora cosa cazzo vogliamo conquistarla a fare?»
«L’infrastruttura di per sé non è inutile» lo corresse Hooke. «Un’infrastruttura è sempre utile. Anche il prodotto al momento è utile. Però dobbiamo diversificare.»
Willard fece la sua parte nella discussione chiedendo: «Sì, ma diversificare in che senso?».
«Diversificare nel senso del famoso Secondo Emendamento» rispose Hooke, facendo il saluto militare. «Il diritto di possedere armi.»
«Ma ce l’abbiamo già, quel diritto lì.»
«Eh, ma in alcuni Stati più che in altri» disse Hooke. «In California son mica tanto teneri. A New York è praticamente impossibile farsi rilasciare un porto d’armi. New Jersey, Connecticut, persino le Hawaii. Tutti quegli americani con il piombo nelle vene hanno un disperato bisogno di armi da fuoco. E se c’è una cosa che conosco, Willard…»
Carnahan completò quel pensiero: «Sono le armi da fuoco?».
«Esatto. Compri a poco in Louisiana, e vendi a caro prezzo in California. È così che va il mondo. Ascolta me, l’NRA non riuscirà a resistere per sempre, alla fine l’avranno vinta i progressisti. La cosa migliore è che rimane tutto di qua del confine. Nessun bisogno di teste di cazzo sudamericane.»
«Adesso capisco» disse Carnahan. «Siamo un’organizzazione nazionale.»
Hooke schioccò le dita. «Un’organizzazione nazionale. Forza America.»
«Hai pensato proprio a tutto, Regence» disse Willard. «Non c’è verso che ’sta cosa vada male.»
Poi Hooke infilò una mano nella tasca del giubbotto, e la temperatura crollò di colpo.
Miccetta adesso era pronto, tutto orgoglioso, steso nella melma con l’obiettivo puntato su Hooke e Carnahan. Pareva che il momento dell’amicizia per stasera fosse finito. Adesso nessuno rideva più, né si batteva le mani sulle ginocchia.
«Il problema è un altro, Willard» stava dicendo Hooke. «Quel tizio che hai pestato a New Orleans.»
Carnahan si mise a ridere, e Miccetta vide i denti che brillavano neri sullo schermo in modalità visione notturna. «Che si fotta quel ragazzino, Regence. Quella roba che m’ha rifilato mica era roba. Capito o no? Era borotalco, cazzo. M’ha distrutto il naso per una settimana. Cazzo, è ancora distrutto. Ogni mattina mi sveglio che riesco a malapena a respirare. Mica si fa così, cazzo.»
Hooke sembrò farsi un po’ più grosso, come se stesse lasciando uscire il vero Regence. «Il fatto è, bello, che a quel ragazzo che hai massacrato di botte gli hai spappolato tanto il cervello che gli han staccato la spina. Ha dovuto firmare la madre ché gliela staccassero. Ti immagini?»
Carnahan usò entrambe le mani per tirarsi indietro i capelli. «È un peccato, Regence. Un vero peccato. Ma quel ragazzo era tutto “il prodotto qui, il prodotto lì”, mi diceva che era “roba di prima”, e tutte quelle cazzate lì. Mica puoi fottere i clienti e aspettarti che nessuno te la faccia pagare.»
Hooke posò un braccio sulle spalle di Carnahan: un orso che abbracciava un cervo. Di solito il cervo ha l’accortezza di capire quel che lo attende, ma evidentemente Willard Carnahan si riteneva indispensabile.
«Manco dovrei pagarla, fra l’altro, la bamba» disse Willard, completamente ignaro, «con tutta la roba che porto su e giù lungo il fiume per te. Solo che avevo voglia di festeggiare, sai com’è, così ho tirato fuori il portafoglio, cazzo, tanto per godermi un po’ la visita in città. E cosa fa, ’sto stronzo? Mi vende della roba finta. A me, cazzo! Il pilota della coca.»
«Hai ragione anche tu» disse Hooke, muovendo la bocca su e giù come se stesse davvero prendendo in considerazione il ragionamento di Carnahan. «Però, vedi, il ragazzo era il nipote di Ivory. Stava cercando di farsi notare. Non ci sarebbe nemmeno dovuto stare, lì all’angolo della strada. Il giovane Vincent in teoria avrebbe dovuto essere a casa a studiare.»
Erano un sacco di informazioni, e pure ben dettagliate, come se Hooke le avesse avute dal diretto interessato.
«I… Ivory? Co-come, nipote di Ivory?» disse Carnahan, incespicando nelle parole. «Io che cazzo ne sapevo, Hooke? Come facevo a saperlo? Ivory? Per quel che ne sapevo io era solo un delinquentello italiano che spacciava borotalco su un marciapiede. Ce l’avrò un minimo di credito con Ivory, o no?»
Hooke affondò le dita nella spalla di Carnahan. «Cazzo, bello. L’hai usato tutto, il tuo credito, e pure metà del mio.»
Miccetta era poco più che un bambino, ma capiva benissimo cosa stava per succedere. Voleva qualcosa per scrollarsi di dosso Hooke, ma questo era decisamente molto più di quel che aveva pensato. Questo era il genere di informazione che ti spingeva a richiedere volontariamente una lobotomia giusto per essere sicuro di non poterla spifferare a nessuno.
«Regence, ma io sono il pilota» disse Willard. «C’è mica nessun altro in giro in grado di navigare per la palude come me. Mai perso un pacco da quando abbiamo cominciato le consegne. Manco un grammo, Dio santo.»
«Quello è vero, bello» riconobbe Hooke, con un accenno di dolore autentico sui lineamenti. «Quindi mi lasci pure in braghe di tela, dato che adesso mi toccherà trovare un rimpiazzo e insegnargli tutto quanto da zero.»
A Willard non restò che giocarsi la sua ultima carta. «Ma abbiamo dei progetti, Regence. Siamo soci.»
Regence sospirò. «Eravamo soci, sì» disse. «Finché non hai massacrato il nipote di Ivory. Il fatto è che non sono ancora pronto per la prossima fase. Devo ancora collaudarli sotto pressione, quei progetti, capisci?»
La nebbiolina fine della realtà calò sulla scena, e Carnahan sentì ogni speranza scivolare via. Si afflosciò nella presa di Hooke come un omino gonfiabile bucato, e sembrò che dovesse crollare sul posto, ma l’altro lo sostenne.
«Dai, fatti coraggio» disse Regence. «Tocca a tutti pagare lo scotto.» Al che Hooke fischiettò un passaggio della sveglia militare. «Capisci, bello? Nel tuo caso, lo scotto sono io.»
Sdraiato sul ventre nella melma palustre, con i crostacei e Dio solo sapeva cos’altro a mordicchiargli i lacci delle scarpe, Miccetta ebbe un momento stile strada di Damasco. Niente di divino – Miccetta non aveva tempo per Dio o per i suoi discepoli. No, l’epifania di Miccetta fu corporea, riguardava la sua stessa mortalità. Il ragazzino non era certo uno scemo. In teoria sapeva che sarebbe morto, in un lontano futuro. Ma per Miccetta, come per la maggior parte dei ragazzi, la cosa finiva lì, era appunto una questione teorica, astratta. Miccetta poi era mezzo convinto che prima che giungesse la sua ora gli scienziati avrebbero risolto tutta quella faccenda della morte.
Ma laggiù, sull’argine melmoso del bayou, con la luna che pareva un dollaro d’argento e illuminava col suo pallore un morto vivente e l’uomo che stava per ucciderlo, Miccetta sentì il vuoto della sua mortalità spalancare le fauci su di lui, e d’improvviso sapeva, con certezza assoluta, che qualora si fosse fatto beccare, Regence Hooke l’avrebbe finito senza un attimo di esitazione.
«Eddai, Hooke» disse Carnahan, «siamo soci, o no? Ci sarà una maniera di sistemare la faccenda.»
«No, proprio non c’è» disse Regence Hooke, sollevando il cappello come un ragazzo per bene. «Adesso, ascolta. C’ho sta madre single a Petit Bateau che non aspetta altro che vada ad aprirla in due, quindi ti devo proprio salutare. Mi capisci, no?»
Carnahan sospirò, pur non essendo esattamente sulla stessa lunghezza d’onda in quanto al proprio destino. «Eh, cosa vuoi che ti dica? Tira più il pelo che un carro di buoi, eh, agente?»
«Esatto, bello» disse Hooke, tirando la mano fuori dalla tasca del giubbotto, due nocche strette sul manico di un coltello da caccia uncinato. Fece scattare la lama con il pollice e segò il ventre di Carnahan giusto sotto la gabbia toracica. La lama, fatta per scuoiare gli animali, gli aprì la carne disegnando una W.
Willard sussultò appena. «Che bastardata, ausiliario. Cosa fai, mi ammazzi?»
Hooke pulì la lama sulla camicia di Carnahan. «Eh già, bello. Proprio così. Le mie più sentite scuse.»
Dopodiché gettò Carnahan nel Pearl River come se lo stesse cacciando fuori da una discoteca.
Willard Carnahan cadde nel bayou, la cui superficie spessa e spugnosa accolse i suoi settanta chili scarsi senza quasi uno schizzo. La ferita era così devastante che le interiora di Carnahan fuoriuscirono dal ventre, e quasi all’istante gli spazzini che si annidavano appena sotto il pelo dell’acqua si scagliarono su quell’inattesa abbondanza di tendini e sangue, trascinando il malcapitato verso il fondo. Willard praticamente non aveva forze, e tutto quel che riuscì a fare fu lanciare uno sguardo di sbieco tra le canne, lasciando entrare melma e aria in egual misura nella bocca spalancata. Per Carnahan la vita era rallentata a un terzo della velocità normale, e niente di quel che voleva fare sembrava possibile. L’unica cosa che pareva realistica era guardare il mondo allontanarsi come attraverso un telescopio.
«Ehi, bello» gli gridò dietro Regence Hooke, «la palude ti sta portando nel suo grembo. Mi sembra una fine consona, che dici?»
Se solo Regence si fosse voltato dall’altra parte, prima di lanciare quell’ultima frecciata, magari non avrebbe notato il movimento fra i giunchi. Anche lì, niente di grave. Ci sono un sacco di cose che si muovono fra i giunchi nel cuore del bayou. Tuttavia nessuna di queste esclamava cose del tipo Cristo Dio Madonna, che Hooke era abbastanza sicuro di aver sentito provenire dalla vegetazione. E anche qualora non avesse appena ammazzato una persona, un uomo curioso come l’Ausiliario Regence Hooke non poteva fare a meno di accertarsi di chi, esattamente, osasse mostrare così poco riguardo per il Secondo Comandamento.
Quel che era successo era che la corrente aveva trasportato Carnahan dal molo mezzo rotto fin nei pressi del giovane Miccetta, che ormai da un po’ aveva abbandonato qualsiasi pretesa di ricatto e non desiderava altro che un paio di scarpette rosse per sbatterne i tacchi. Il povero Willard aveva sul volto quell’espressione a metà fra il fottuto e lo stecchito, e un colorito pallido e cereo che non lasciava dubbi circa il fatto che stesse per completare il breve viaggio dalla prima alla seconda condizione.
Miccetta si ritrovò con lo sguardo incollato sull’uomo in punto di morte, e si chiedeva quale incarnazione della morte stessa si sarebbe aggiudicata la corsa a Willard Carnahan. Dissanguamento o annegamento? O magari un alligatore? Venne fuori che c’era in lizza un altro contendente. Una mostruosa tartaruga azzannatrice ruppe il pelo dell’acqua come un sottomarino bombato e chiazzato, emergendo di una buona trentina di centimetri col suo beccare isterico di predatrice, puntando la faccia ancora viva di Carnahan e strappandogliela via dal teschio, al che Miccetta esclamò: «Cristo Dio Madonna!».
Non aveva mai visto una tartaruga di quella taglia, con il guscio grande come un’utilitaria e quel collo lungo, rigato ed eretto come il cazzo che il suo caro amico Charles Jr. tanto amava sbandierare, da quanto ne andava fiero.
La gente della palude parlava della natura sanguinaria di queste creature generalmente docili, ma ben pochi ne erano stati testimoni in prima persona.
Era più che probabile che si trattasse dell’ultimo atto per Willard Carnahan e per le sue bravate da pirata del Ventunesimo secolo, ma il giovane Everett non fece in tempo a vederlo affondare con il suo teschio scorticato, giacché la sua bocca blasfema l’aveva reso un testimone e di conseguenza un bersaglio, e quindi si era alzato da terra ed era schizzato via come una lepre fra la vegetazione dell’isola.
Hooke vide una sagoma squagliarsela, con il bagliore verdastro di un telefonino in mano, e si accigliò di stizza e frustrazione. «Santa Maria, Madre di Dio, che giornata incredibile.»
Nella sua mente, Regence Hooke ne aveva passate di tutti i colori nelle ultime dodici ore.
Prima di tutto la faccenda di Elodie Moreau che gli guastava l’umore, poi Ivory che l’aveva costretto a spanciare il suo pilota di fiducia, e adesso una sagoma nell’ombra che filmava le operazioni?
“Un ricatto” pensò Hooke. Quello stronzo di Ivory aveva pensato bene di accorciargli il guinzaglio. Sembrava stesse male interpretando il loro rapporto, come si stesse dimenticando di chi aveva il distintivo sul petto. Chi altro poteva esserci dietro? Ivory aveva insistito affinché facesse fuori Willard, poi aveva mandato qualche ragazzino da New Orleans perché gli facesse una Candid Camera. Il narcotrafficante avrebbe ottenuto molte più informazioni del previsto, se avesse guardato quel video.
«Stasera no, Ivory» disse Regence Hooke, dando una pacca gentile alla Glock d’ordinanza nella fondina. Il rumore degli spari si spandeva cristallino sull’acqua stagnante, ma quello non ci sarebbe stato modo di evitarlo. Gli spari in una palude si potevano sempre spiegare. Quel video no.
Regence decise di non sprecare munizioni in mezzo al muschio che pendeva dagli alberi, e invece scelse con attenzione i propri passi sul molo mezzo marcio, saltò sul cabinato e salpò all’istante. Aveva due ragioni per prendere la barca: uno, quella spia imbecille si era auto-naufragata su un’isola, e due, Hooke teneva un paio di giocattolini nella cassaforte.
“Ti dissanguo col mio bel fucile a pompa, amico” pensò Regence, “dopodiché ti mando al creatore a bruciapelo con la Glock.”
L’Ausiliario Hooke si rese conto, allontanando dal molo l’imbarcazione dal fondo piatto, che gli era capitato solo un’altra volta in vita sua di uccidere due uomini nella stessa notte.
“Ah, no, aspetta Regence. Ti stai sottovalutando. Hai seccato quel tipo nel programma protezione testimoni e il suo agente di scorta l’anno scorso in Florida.”
Il tipo del programma protezione testimoni, mica un bersaglio facile.
Quindi tre volte in tutto.
Decisamente tre.
In tempo di pace.
Miccetta provò per la prima volta la sensazione di bruciore dei pallini di piombo quando i suddetti gli piovvero addosso in mezzo alle mangrovie sulla sponda occidentale di Honey Island. L’idea non era quella di farseli piovere addosso, soltanto che quelli arrivarono da un momento all’altro, come quando nei cartoni di Wile E. Coyote spunta all’improvviso un burrone: un attimo prima Miccetta caracollava fra quel che, stringendo gli occhi al buio, gli sembrava un sentiero, e un attimo dopo era in campo aperto e Hooke era lì tutto gasato e pronto a far fuoco. Miccetta distinse la mascella di Regence Hooke nel bagliore rossastro della brace del sigaro, dopodiché la canna del fucile dello sbirro si sollevò di scatto e Miccetta si ritrovò con una ferita da arma da fuoco all’avambraccio. Niente di neanche lontanamente letale, non certo a sessanta metri di distanza, tanto che a malapena gli si aprì la pelle, eppure l’avrebbe sentito per settimane a venire.
“Con un colpo così mica voleva uccidermi” pensò Miccetta. “’sto bastardo sta cercando di farmi andare dove vuole lui.”
Il rinculo del colpo fece arretrare la barca sull’acqua del bayou, costringendo Regence Hooke a mettersi al timone, il che diede a Miccetta un secondo per sgattaiolare fuori dalla sua visuale, trascinarsi lontano dalla riva, e riprendere fiato.
Si sdraiò sulla schiena, sentendo l’ustione dei pallini sul braccio e il fango freddo della palude che gli faceva ritirare le palle.
“E adesso come cazzo faccio ad andarmene?” pensò. “Se non mi becca Hooke, ci penseranno di sicuro gli alligatori.”
L’odore del petrolio che chiazzava la superficie dell’acqua gli diede la risposta che cercava.
L’unica opzione che aveva, a pensarci bene, era aspettare. Alle prime luci dell’alba sarebbero cominciate ad arrivare le visite guidate sulle barche a motore che partivano da Crawford Landing, con dozzine di turisti speranzosi di avvistare il leggendario Bigfoot della palude. Non c’era verso che Regence Hooke potesse sparargli allora, non con una moltitudine di telefonini puntati addosso, dato che i social media andavano a nozze con qualsiasi testimonianza video di uno sbirro che svuotava il caricatore.
“Devo tenere la testa bassa e la bocca chiusa” si rese conto Miccetta. “Tutto lì.”
Ma in fondo sapeva bene che quella valutazione era puro ottimismo. Regence Hooke non era certo un pivello della caccia all’uomo, e di sicuro non si sarebbe sciolto in una pozza di moccio solo perché Miccetta aveva trovato rifugio su un’isola.
Cosa che venne confermata pochi secondi più tardi, quando si scatenò l’inferno.
Il primo pensiero di Miccetta fu “Vulcano”, che potrà sembrare un pensiero idiota, ma bisogna dare atto al ragazzino che, per quanto potesse credersi duro come l’acciaio, non si era mai trovato a meno di mille miglia da una zona di guerra e non aveva alcun termine di paragone per l’esplosiva eruzione di caos che improvvisamente lo circondava. Migliaia di ore attaccato alla PlayStation non potevano neanche lontanamente rendere giustizia a quell’esperienza.
Il rumore fu spaventoso, un boato tonante che si levò dalla terra investendolo con ondate di terrore sonoro. Fango, molluschi, radici di mangrovia e ardesia vennero liquefatti e trascinati fino in cielo sotto forma di drappi melmosi che ricaddero sul ragazzino in un violento diluvio, entrandogli con prepotenza fin nei pori. A Miccetta sembrò che lo stessero sotterrando sommariamente, sepolto dal peso delle macerie che dal cielo ricadevano sulla sua sagoma esile.
“Mamma non saprà mai cosa mi è successo” si rese conto, e quel pensiero lo terrorizzò. Cercò di chiedere aiuto, ma si rivelò una pessima idea, dato che la bocca gli si riempì della melma che gli stava cadendo addosso. Le orbite gli si colmarono di fango, e persino la maglietta fu ridotta a brandelli dalla violenza dell’esplosione.
“Son morto” pensò Miccetta. “Non capisco più niente.”
Gradualmente, però, le rivoluzioni della terra rallentarono, e nel sibilo che aveva nelle orecchie cominciò a farsi strada una risata proveniente dal fiume. Sembrava che Regence Hooke si stesse divertendo come un matto.
«Mica male quella granata, eh?» strillò. «T’è piaciuta, carissimo? Scommetto che hai aperto la bocca, vero, coglione? Ti sei fatto una bella boccata di merda e molluschi di palude.»
Hooke rise ancora, e sarà stato lo shock dell’esplosione, ma Miccetta avrebbe giurato che ci fosse un che di animalesco nella sua ilarità.
«Tutte le sere, dopo uno scontro a fuoco c’era sempre qualche pivello imbecille che se n’era andato in giro con la bocca aperta e s’era fatto una scorpacciata di shrapnel. Perdevamo più denti che gambe.»
Miccetta sbirciò fra i giunchi. A quel punto gli pareva che mimetizzarsi perlomeno non fosse più un problema. Regence Hooke era seduto sulla cabina della barca, con un’arma tozza in grembo e gli stivali contro il parabrezza. Teneva in braccio il lanciagranate come fosse stato il suo cucciolo prediletto. Miccetta riconobbe addirittura il modello che aveva visto in Call of Duty: un MM-I. Un cazzo di cannoncino massiccio. L’organo a rullo della morte.
«Serata incantevole, non è vero, bello? Scommetto che vorresti tanto essertene rimasto a New Orleans, eh? Scommetto che vorresti che Ivory avesse mandato qualcun altro a fare lo spione.»
“Ivory” pensò Miccetta. “Hooke non sa che sono io.”
Il che significava che se fosse riuscito a seminare l’Ausiliario Hooke, non avrebbe dovuto far altro che tornare alla sua piroga.
Hooke si caricò il lanciagranate sulla spalla. «Bello, scommetto che adesso starai pensando che non devi far altro che strisciare come un serpente fino alla tua barca e poi scappar via remando. Be’, ho delle brutte notizie in proposito. La tua barca mi è appena sfilata accanto, diretta verso la baia. Mi sa che non l’hai mica legata tanto bene.»
Miccetta strinse gli occhi fin quasi a chiuderli, temendo che il bianco della cornea potesse tradirlo. Possibile che Hooke lo stesse pigliando per il culo? L’aveva legata, la piroga, o no?
Probabilmente no.
Non è che avesse esattamente pianificato nei dettagli l’ultima fase di questa missione. Così adesso era bloccato su quest’isola maledetta da Dio con i cinghiali e i puma e magari un po’ di formiche di fuoco a risalirgli il pisello in un’ordinata fila indiana. E se avesse provato a scappar via di corsa, Hooke gli avrebbe sparato una granata su per il culo facendolo decollare come un razzo.
Che seratina meravigliosa.
Everett Moreau, il grande stratega del cazzo.
Come quel piccoletto francese che si faceva sempre le tipe alte per dimostrare chissà poi cosa. Napoleone.
Non fosse stato che non era per niente come lui, a parte il fatto che entrambi erano finiti fottuti sopra un’isola, se non si ricordava male la poca storia che aveva studiato. Oppure era Huckleberry Finn che finiva fottuto su un’isola.
Comunque fosse, stasera era lui l’imbecille che stava per essere fottuto su una terra emersa circondata dalle acque.
“Scusi, signorina Ingram” pensò, rivolto alla sua insegnante di materie umanistiche, l’unica che gli fosse mai piaciuta nella sua decennale carriera scolastica.
«Ehi, giovane» lo chiamò Regence Hooke, la voce tonante sull’acqua del canale. «Senti un po’. Perché non butti via quel cellulare che hai lì? Tanto ormai sarà mezzo rotto, come minimo pieno d’acqua. Cristo, ti firmo persino la denuncia così te ne danno uno nuovo. Tanto lo sappiamo tutti e due che in questo angolo di Pearl River non hai manco una tacca.»
“Mezzo rotto un cazzo” pensò Miccetta. “Ce l’ho qui al sicuro nella tasca dei pantaloni.”
«Tu mi fai questo favore» proseguì Hooke, «e io me ne torno a casa, con la mia bella cassa di munizioni, e ce ne andiamo a nanna. Che ne dici? Mi sembra un bell’affare, altro che tre per due.»
Sembrava che Hooke fosse in vena di chiacchiere. Per quella che era l’esperienza di Miccetta, pareva fosse il suo stato naturale. Waxman una volta gli aveva detto che secondo lui le chiacchiere di Hooke erano come una di quelle torte che si fanno in prigione: «Fuori è tutta carina, con la sua bella glassa, ma lo sai che dentro, da qualche parte, c’è nascosta una lama.»
Lo stesso valeva per come Hooke si riferiva sempre a Miccetta chiamandolo “Monsieur Moreau” in presenza di Elodie, gli arruffava i capelli, diceva che era davvero un bel “jeune homme”, ma appena Mamma gli dava le spalle, il poliziotto gli si avvicinava e gli ringhiava qualcosa di sconcio, del tipo, Gran bella fregna, quella, Miccetta. Prima o dopo, giovane… Per adesso la lascio fare, tua mamma, ma poi una volta che l’ho stremata vedrai come l’acchiappo. La saliva gli orlava la bocca mentre la guardava lascivo: Regence Hooke, un principe tra gli uomini.
«Altrimenti» continuò il principe, «l’idea è di bombardare tutta l’isola con un’altra mezza dozzina di queste bellezze, grazie al mio splendido lanciagranate. E giusto per assicurarti che sono serio, ecco qui un altro bel mortaretto per aiutarti a riflettere.»
“Merda” pensò Miccetta. “Cristo santo.”
Non c’era tempo di pensare a cosa fosse meglio fare. E anche qualora avesse avuto il tempo, non aveva l’esperienza tattica. Avrebbe dovuto rannicchiarsi o scappare via? Cos’era meglio? Ambedue le opzioni sembravano pericolose e potenzialmente mortali.
Mentre Miccetta tentennava, Regence Hooke si appoggiò al tetto del cabinato, premette il grilletto, e lanciò un cilindro di metallo a palombella nel cielo notturno. Quello salì fin nella foschia che avvolgeva la palude, lasciandosi dietro un pennacchio di fumo grigio, e Miccetta, per quel che riuscì a intuire della sua traiettoria, stimò di avere all’incirca dieci secondi di vita.
“Tutto ’sto piano è stato una follia.”
«Ciao, Mamma» sussurrò, e il rimpianto che si sarebbe portato dietro nella sua tomba fangosa era che adesso non c’era nient’altro che una zanzariera a proteggere sua madre da Hooke.
«Perdonami, Gesù» disse Miccetta, tanto per andare sul sicuro, e poi aggiunse: «Mi dispiace per tutte le cazzate che ho fatto».
Dopodiché chiuse gli occhi e aspettò la fine.
Vern era piazzato sulla sua poltrona reclinabile a guardarsi Swamp Rangers su Netflix. Dio, se gli piaceva quella serie. Quei ragazzotti della Florida che facevano i coglioni sulle golf cart e si azzuffavano con alligatori minuscoli e roba del genere, neanche fossero stati chissà cosa.
“Li distruggerei, quei cazzoni” pensava Vern, senza cattiveria. In realtà però probabilmente non l’avrebbe fatto. Erano tizi divertenti, tutti sicuri di sé, e cazzate così. Però di certo sarebbe stato uno spasso vedere quegli sbruffoni cagarsi negli stivali qualora se lo fossero trovato davanti.
Vern mandò giù un sorso di vodka allungata con l’acqua frizzante, e si mise a ridere. “Immagina le facce. Quei pizzetti da imbecilli gli cadrebbero all’istante per lo shock.”
Fece la sua migliore imitazione di Jack Nicholson per l’unico scoiattolo dell’isola che avesse le palle di sedersi sul suo davanzale. «Allora che scriveranno di me?»
Poi sentì l’esplosione.
«Oh, cazzo» disse, con rassegnazione, raddrizzando lo schienale della poltrona. Se c’era una cosa che aveva imparato nascondendosi per secoli in alcuni dei luoghi più remoti del globo, era che certi segnali lasciavano presagire che l’avevano scoperto.
Gli elefanti, tanto per dirne una.
Gli elefanti erano degli stronzi e nessuno avrebbe mai convinto Vern del contrario. Quei bastardissimi ciccioni grigi avevano naso per i draghi, e quel naso si chiamava proboscide. C’era questo maschio dominante che lavorava per uno dei sultani mamelucchi, ai tempi dei tempi. Un gran figlio di puttana con un occhio torbido che per qualche motivo ce l’aveva con le lucertole di fuoco. L’aveva inseguito dieci anni buoni per tutta la provincia di Delhi, fino a che Vern non gli aveva fatto visita nella sua stalla in una serata fresca e gli aveva infilato la proboscide là dove proverbialmente non batte il sole. Da lì in poi il vecchio Occhio Bigio si era tenuto per sé il suo talento di cacciatore di draghi.
Un’altra cosa che generalmente annunciava grane erano le file di torce accese che salivano lungo una collina. Vern aveva perso il conto delle volte in cui si era messo a sonnecchiare su un qualche picco sperduto, per essere risvegliato di colpo dal frastuono di una folla inferocita con le torce in pugno. Gli umani all’epoca erano veramente dei coglioni, a pensare di poter attaccare un drago con delle torce, ma erano anche insistenti, e di solito conveniva cambiare aria a meno di non voler passare il resto dei propri giorni a scacciare interi sciami di frecce infuocate.
Ma il brutto segno numero uno, che più di ogni altro sanciva che i suoi giorni nella tana di turno erano contati, era il rumore di un’esplosione.
’sti cazzo di cervelloni cinesi e la loro polvere da sparo. Quella roba ti si infilava fra le scaglie e prudeva da matti. E anche qualora gli umani non stessero cercando lui nello specifico, una grossa esplosione tendeva a gettar luce su tutto quel che c’era sotto.
«Uno di questi giorni» disse Vern allo scoiattolo, intendendo dire che uno di questi giorni gli umani l’avrebbero fregato con qualche sorta di proiettile in grado di trapassare le scaglie della sua corazza come se fossero state burro.
«Il che significherà la fine di qualsiasi creatura nel raggio di un miglio.»
Ovviamente si trattava di una stima. Qualora gli avessero perforato il nucleo, il raggio dell’esplosione sarebbe stato ben più di un miglio. Quando avevano colpito in maniera del tutto accidentale il vecchio Blue Ben con uno dei primi siluri, un paio di secoli addietro, si era portato con sé in fondo all’oceano un bel pezzo di Cornovaglia.
«Meglio che vada a dare un’occhiata» disse Vern allo scoiattolo. «Sperando si possa dare un taglio a qualsiasi cazzo di cosa stia succedendo prima ancora che cominci.»
Vern si alzò dalla poltrona e si tolse con attenzione la maglietta di Flashdance, ripiegandola con cura con il metodo delle tre pieghe precise che aveva imparato da quella signora di Netflix sempre sorridente. Era una delle sue magliette preferite, e non voleva farla a brandelli durante il volo nella palude.
Miccetta chiuse gli occhi, pianse una lacrima amara e aspettò la fine.
Solo che quella non arrivò.
Per qualche mistero della fisica la granata di Hooke riapparve dalla foschia, filandosene dritta dov’era venuta, ovverosia ripercorrendo la sua traiettoria di volo per atterrare dritta fra i piedi di Hooke e rotolarsene giù nella falchetta del cabinato.
La maggior parte degli uomini avrebbe potuto imprecare incredula, e molti si sarebbero messi a singhiozzare o sarebbero potuti addirittura svenire, ma Regence Hooke era di fibra ben più tosta. Grugnì un burbero «Cazzo!» e poi balzò agile dalla prua della nave nell’acqua del fiume. L’Ausiliario Hooke quasi non ebbe il tempo di ripararsi sott’acqua che la sua granata si accese e sputò fuori un disco frastagliato che squarciò la sinistra del cabinato per poi schizzare come un frisbee fra le mangrovie, andando a conficcarsi nel tronco di un albero con uno wang simile a quello delle enormi seghe dei bifolchi locali.
«Che culo» disse Miccetta.
E non si riferiva solo al suo. Dio solo sapeva che genere di esplosivi avesse Hooke nella sua scatola dei trucchi, di certo roba vietata. Sarebbe potuta saltare in aria mezza isola, in una sorta di spezzatino palustre. L’odore di cinghiale grigliato si sarebbe sentito fino a Slidell.
Miccetta osò alzarsi a gattoni, pregando Gesù, Dio, Buddha, Aslan e chiunque altro fosse all’ascolto che Hooke fosse spiaccicato fra la chiglia della sua nave mezza affondata e il fondo della palude, e che morisse lentamente guardando le bolle d’aria che gli uscivano dal naso. Ma non ebbe il tempo di scoprire se quella preghiera sarebbe stata esaudita o meno, perché qualcosa di molto forte lo afferrò per la cintola e lo sollevò fino in cielo nella notte della Louisiana.
Ci vollero appena un paio di secondi per passare dal fango al cielo.
“Ma che cribbio…?”
Miccetta però non riuscì a concludere il pensiero poiché:
A: era troppo impietrito per pensare in maniera razionale.
E B: aveva le palle all’altezza dello stomaco per colpa dell’improvvisa accelerazione dovuta a quel che si sarebbe potuto descrivere senza tema di smentita come uno sparticulo supersonico.
E così mentre Miccetta Moreau veniva trascinato nel cielo sopra il bayou, l’unico pensiero coerente che riuscì a mettere insieme prima che l’accelerazione gli facesse perdere i sensi fu: “Ehi, ma da qua si vede casa nostra”.