Quarantanove
Luca Betti. Viterbo, ore 22:00. Tre giorni dopo.
Gli ultimi giorni sono stati un susseguirsi di frustrazione e perdite di tempo. Abbiamo dormito in un motel pidocchioso, mangiato da McDonald’s, compiuto perlustrazioni nell’area intorno al night club e chiesto in giro, con molta discrezione, se qualcuno avesse notizie di questa Magda Santiago.
Niente.
Marco ha proposto di rintracciare i gestori del locale ma, visto com’è andata a finire con Cozzi, ho preferito evitare di esporci più di tanto. Il Coco Loco ha aperto da una ventina di minuti e tra un po’ dovrebbe iniziare lo spettacolo della vecchia pornostar. Da fuori sembra un posto abbastanza squallido, il seminterrato di una palazzina intonacata a calce, isolata rispetto alle altre abitazioni. Probabilmente una ex autorimessa, con un’insegna fin troppo esplicita e una pacchiana passerella di moquette rossa davanti all’entrata. Se mi soffermo a pensarci, mi pare tutto assurdo, così surreale. Qualche ora fa ho chiamato Sara. Ascoltare la sua voce mi ha fatto stare bene e male allo stesso tempo. Ho provato un forte senso di solitudine, di nostalgia per quell’atmosfera famigliare che ho sempre cercato, ho sempre voluto proteggere ma che forse, tutto sommato, non c’è mai stata se non nelle mie illusioni. Mia figlia mi ha chiesto se avessi sentito del terribile delitto di tre giorni fa, vicino a via Vitruvio. Ho dovuto mentirle di nuovo, e la cosa non mi è piaciuta affatto.
Siamo seduti in macchina, a una ventina di metri dall’ingresso, in attesa che arrivi la tizia, quando il mio Blackberry si mette a squillare. È Sandonato.
“Qualche novità da quelle parti?” mi chiede.
“Niente, la donna dovrebbe essere qui a momenti. La intercettiamo all’uscita e cerchiamo di farci dare l’informazione che ci serve.”
“Ascolti, in questo momento Tanzi può sentirla?”
“No.”
“Ci sono sviluppi. Brutti, purtroppo. È stato rilasciato il secondo filmato di Giulia… Niente di buono. Per fortuna sembrava in stato di semi incoscienza, di sicuro era drogata. Però stavolta sono stati brutali. Non credo potrà resistere ancora per molto.”
“Ho capito. Le faccio sapere se ci sono novità, mi tenga informato anche lei.”
“A dopo.”
Riattacco sperando che Marco non si sia accorto di niente. Ho cercato di mantenere un tono di voce abbastanza neutro.
“Allora?” mi chiede. “Che ti ha detto?”
“Niente. Stanno continuando a cercare di tirar fuori qualcosa da quei telefonini.”
“Dimmi che cosa ti ha detto.”
“Cos’è, sei sordo? Niente di nuovo, voleva sapere come eravamo messi, se era già arrivata la Santiago.”
“Va bene. Lo chiamo io.” Prende il suo telefonino e cerca in rubrica il numero di Sandonato.
“Marco, aspetta. Lascia stare. Mi ha detto che hanno pubblicato il secondo video con Giulia.”
“Allora?”
“L’hanno torturata ancora, anche se era incosciente, probabilmente drogata. Dobbiamo cercare di fare in fretta, se vogliamo salvarla.”
Vedo qualcosa cambiare nella sua espressione. I lineamenti si induriscono, serra la mascella e stringe i pugni sulla maniglia della portiera, tanto da sbiancarsi le nocche. Il mio ex collega sta covando dentro un odio per il quale deve a tutti i costi trovare una valvola di sfogo, se non vuole implodere rischiando di nuovo l’autodistruzione. Questa volta irreversibile.
In quell’istante una Mercedes Sl nera si ferma davanti all’ingresso del Coco Loco. L’autista scende e apre lo sportello di dietro, mentre da quello accanto al guidatore esce un uomo tarchiato vestito con un completo bianco. La passeggera è una donna molto bassa, con capelli corti ed enormi occhiali da sole, nonostante sia buio da un pezzo. Indossa una specie di spolverino argentato e improbabili tacchi a spillo.
“È lei!” dico.
Marco nemmeno mi ascolta. Scende dall’auto e si avvicina a lunghi passi alla Mercedes. Esco anch’io e mi guardo intorno, presagendo guai grossi in arrivo.
“Magda Santiago!” urla il mio ex socio avvicinandosi alla donna. Lei si volta, sorpresa, mentre il suo autista bodyguard, si avvicina a Marco allungando una mano come per tenerlo a distanza. “Niente autografi,” dice il tizio. È un energumeno abbronzato con la testa rasata e un orecchino di diamanti.
Marco si muove come un fulmine. Gli afferra la mano, gliela piega in modo da costringerlo a inginocchiarsi a terra per accompagnare il movimento ed evitare di spezzarsi una decina di ossa delle dita e del braccio. Quindi gli sferra una ginocchiata in faccia e lo manda al tappeto, senza troppi complimenti. Magda Santiago, che ha assistito alla scena paralizzata dalla paura, si mette a urlare come un’ossessa. Si becca un pugno in faccia da parte del mio socio e sviene all’istante. Marco se la carica sulle spalle come se fosse un sacco di patate, nemmeno troppo pesante. L’altro tizio, intanto, invece d’intervenire è scappato, urlando anche lui, e ha trovato riparo all’interno del locale.
“Ma che cazzo!” dico a Marco, che si avvia verso la Renault con la donna sulle spalle. “Sei impazzito per caso?”
Nemmeno mi risponde. Apre lo sportello di dietro e la scarica sul sedile, poi prende posto davanti, mentre io sono già al volante, sperando che dal Coco Loco non esca nessuno con un fucile a canne mozze per spararci addosso. “Ma porca troia!” dico partendo a razzo. “Ti ha dato di volta il cervello? C’era bisogno di rapirla per farle un paio di domande?”
“Gira qui a destra,” mi dice indicandomi la strada. Lo faccio, mentre nello specchietto retrovisore vedo almeno quattro persone uscire dal locale e rincorrere la nostra auto. Spero vivamente che non siano riusciti a prenderci la targa, o stavolta siamo fottuti senza possibilità di rimedio.
Un’ora dopo siamo ad almeno venti chilometri di distanza, in mezzo alla campagna, riparati dietro a una montagna di balle di fieno. Spero non salti fuori all’improvviso qualche contadino incazzato. Lo spero per lui, perché Marco sarebbe capace di sparargli in fronte.
La donna è seduta sull’erba, con la schiena appoggiata al fieno, e sta cominciando a svegliarsi. Ha un occhio nero e gonfio, è quello dove si è beccata il pugno del mio ex collega che ora, non contento, le rifila pure qualche schiaffetto per farla tornare in sé.
Lei finalmente apre gli occhi e, dopo aver realizzato dove e con chi si trova, inizia a urlare come una disperata. L’urlo, però, le muore in gola quando si ritrova infilata in bocca la canna silenziata della Sig Sauer P210 che apparteneva al biondo, quello precipitato dalla finestra a casa del giornalista. Marco le serra anche una mano intorno alla gola per costringerla a stare ferma.
Magda Santiago tace di botto, spalancando l’unico occhio utile rimastole, peraltro abbagliato dai fari dell’auto, che illuminano la scena rendendole impossibile distinguere i nostri volti. Trovo la strategia del mio collega esagerata, e pure ingiusta per questa povera vecchia. Eppure lo lascio condurre il gioco. Probabilmente, se fossi io il padre di Giulia, farei lo stesso.
“Signora, non voglio farle altro male,” dice Marco, “ho un paio di domande e deve rispondermi in fretta e senza mentire. Se lo farà, la riaccompagneremo in città e la lasceremo libera. Se non lo farà, la ammazzo qui, in questo posto sperduto, e prima che la ritrovino per darle una degna sepoltura, lei sarà già putrefatta e mezza divorata dai vermi.”
La donna emette una specie di guaito.
“Molti anni fa lei interpretò un film. Si chiamava Le Porno Schiave. Fu ritirato dalle scene e le costò una condanna per oltraggio al pudore. Noi vogliamo sapere, e lo vogliamo sapere con precisione, ora, in questo momento, dove fu girato quel film.”
Sull’occhio della poveraccia vedo disegnarsi un’espressione più simile allo sconcerto che alla sorpresa.
“P… P… Pornosch… il film…”
Prova a mettere insieme una frase di senso compiuto, ma il terrore la fa balbettare in un modo osceno.
“Si calmi,” le dico. “Tutto quello che vogliamo sapere è dov’è quel posto. Se ci dice la verità, lei è libera.”
“Laca… Laca…”
“Toglile la pistola dalla bocca, cristo!” dico a Marco afferrandogli il braccio.
Lui obbedisce, ma la tira indietro solo di un po’.
“La casa,” riesce finalmente a dire la donna.
“La casa?” domando abbassandomi per farmi capire meglio. “Quale casa? Dov’è questa casa nella quale avete girato? Ci serve un indirizzo e subito!”
“Casa mia!” urla finalmente lei, come liberandosi da un peso. “Lo girammo a casa mia e di mio marito! A Tarquinia!” Poi sviene per la paura, o forse per il dolore. Magari per entrambi.