Uno

Vice commissario Luca Betti. Milano, ore 23:30. Oggi.

L’ultima volta è stato avvistato qui, sotto i portici di via Vittor Pisani, proprio di fronte alla Stazione Centrale. Pare che dormisse dentro un sacco a pelo lercio, infilato in una scatola di cartone. È stato Leonardi della Buoncostume a raccontarmelo, saranno passati sei o sette mesi. Ricordo il suo sguardo compiaciuto, forse pensava che mi avrebbe fatto piacere saperlo. Sapere che il mio ex migliore amico era finito all’inferno.

“Indovina chi ho beccato ieri notte che dormiva per strada come un barbone? Il tuo vecchio collega. L’ho riconosciuto per caso, ero stato a bere con due amici e tornavamo verso la macchina scherzando a voce alta. A un tratto ’sto barbùn si sveglia e ci guarda. Ho incrociato per un secondo i suoi occhi e l’ho riconosciuto subito. Azzurri, inconfondibili e pure con la stessa espressione da bastardo. Per il resto, tutta un’altra storia… Capelli lunghi e barba, vestito di stracci sporchi e puzzolenti. E pensare che eravate la migliore coppia di sbirri di Milano…”

E via di seguito con i particolari. L’ho ascoltato in silenzio e poi, quando ha finito, mi sono imposto, come faccio ormai da anni, di dimenticare tutto. È stata questa la mia strategia, la mia ancora di salvataggio. Quella che mi ha permesso di tenere insieme i cocci della mia vita. Dimenticare. Tutto.

Mi avvicino ai disperati distesi a terra, circondati da buste di plastica con i pochi effetti personali, custoditi come inestimabili tesori. Ne smuovo un paio col piede per costringerli a girarsi dalla mia parte. Mi guardano, grugniscono, uno impreca e mi fa un gestaccio. Ma nessuno di loro è l’uomo che cerco.

Avrei dovuto capirlo che non avrebbe più frequentato questa zona dopo essere stato riconosciuto da un ex collega. “La migliore coppia di sbirri di Milano…” ma è sempre stato lui quello più sveglio. Io ero la spalla, come Borgonovo con Baggio, come Robin con Batman.

Devo cambiare tattica, passare a un metodo di ricerca più convenzionale. Nato senza i piedi buoni, lavorare sui polmoni. Mi chiedo perché diavolo lo sto facendo. Non gli devo nulla, non vanta nessun credito nei miei confronti. Semmai è lui ad avere un debito inestinguibile col sottoscritto. Domani inizierò a girare per i ricoveri con la sua foto, magari la faccio ritoccare al computer dalla Castaldi della Scientifica, con quel programma che ti appiccica barba, baffi, e all’occorrenza ti invecchia di una decina d’anni. Sì, farò così. Domani.

Due giorni dopo sono ancora a caccia. Alla Caritas di via Novara, ieri, c’era una ragazza che serviva tè caldo ed era quasi sicura di averlo riconosciuto dalla foto ritoccata. Sosteneva che frequentasse il dormitorio con una certa regolarità tra gennaio e febbraio. È stato il periodo in cui le temperature notturne hanno raggiunto i dieci gradi sotto zero. Pare che poi, all’improvviso, da un giorno all’altro non si sia più visto. La ragazza si chiama Agnese, mi ha raccontato che di giorno fa la giornalista, che ama i gatti e che è originaria di Chieti. Si ricordava di lui per gli occhi azzurri e anche perché un giorno l’aveva difesa da un tizio che la importunava. Con tutto il rispetto per il volontariato, non riuscirei mai a sopportare che mia moglie o mia figlia frequentassero un posto simile. Piuttosto sarei disposto ad accompagnarcele io tutte le sere, ma mandarle da sole no, mai! Comunque, Agnese mi ha detto anche che, a fatica, è riuscita a scambiarci quattro parole. Pare che lui le abbia raccontato che, prima di andare al ricovero, la sua base notturna fosse all’aperto, al parco Solari, dal lato dei Navigli. Lo cercherò in quella zona. Non lo faccio per lui, non mi importa niente di come si è ridotto. Tutto quello che c’è stato, l’amicizia, il legame fraterno, la stima, ormai appartiene al passato. Svanito nel nulla, dimenticato. Lo faccio per Giulia. E per dimostrare a me stesso, ancora una volta, che sono un uomo migliore di lui.

Questa zona è un vero schifo. Sono decine le persone che dormono all’aperto, nascoste tra i cespugli, stese sulle panchine, ricoperte da montagne di cartoni per ripararsi dal freddo. Devo muovermi di notte, durante il giorno è quasi impossibile individuare questa gente. Si spostano di continuo, si nascondono, riescono a confondersi col degrado urbano, a passare inosservati. Di notte, invece, diventano più vulnerabili, più visibili. Hanno bisogno di punti di riferimento e il parco Solari è uno di questi. Ne interrogo sette mostrandogli la foto, ma nessuno di loro mi è di aiuto. Mi addentro in una zona non illuminata, attirato dal flebile bagliore di un fornellino a gas. Mi accorgo con un attimo di ritardo che c’è qualcosa che non va. Qualcuno si muove alle mie spalle, mi giro di scatto e me li ritrovo davanti. Sono in tre, e mi circondano a semicerchio. Ombre senza volto, oscurati dalla luce di un lampione parecchi metri alle loro spalle.

“Caccia i soldi,” dice quello al centro, “i soldi, stronzo, dacceli tutti. E pure l’impermeabile e l’orologio. E le scarpe.” Il tizio alza il braccio, mi mostra una bottiglia rotta e la scuote all’altezza della mia faccia. Adesso lo inquadro meglio. Avrà sessant’anni, indossa una giacca mimetica lurida, pantaloni militari e anfibi. Ha il volto pieno di macchie scure e la barba incolta di parecchi giorni. Gli altri due gli somigliano, solo che sembrano più giovani. Sulla quarantina, al massimo. Uno tiene in mano un coltello, l’altro un bastone.

Resto immobile a fissarlo ma, con la coda dell’occhio, tengo sotto controllo anche gli altri due.

Lui fa un passo verso di me, agitandomi la bottiglia sotto il naso. Alzo le mani mostrandomi spaventato, e non devo neanche sforzarmi troppo di fingere. “Ehi, calma, calma, non voglio problemi… vi do tutto quello che volete. Il portafoglio? Ecco, lo prendo, ce l’ho qui in tasca…” Infilo la mano destra dietro alla schiena, tenendo la sinistra sempre tesa avanti a me, come per tenerli a distanza. Estraggo la Beretta, e la punto in faccia a quello con la mimetica che sembra il capo. Il tizio si blocca, è indeciso, indietreggia di mezzo passo. Sposto la mira su quello col coltello: “Buttalo a terra, svelto!”. Lui obbedisce. Sto per fare lo stesso con il loro compare, ma quello mi batte sul tempo. Sento un dolore fulminante alla mano, colpita da una bastonata, e la pistola mi cade a terra.

Mi abbasso subito a raccoglierla, ma loro mi sono addosso in un istante. Il vecchio puzza come una capra e gli altri due non sono da meno. Mi martellano di pugni e calci mentre una mano mi perquisisce a caccia del portafoglio. Passo al contrattacco.

Testata sul naso del vecchio che si porta entrambe le mani in faccia e urla come una iena ferita. Fletto la gamba, la punto sullo sterno di quello che aveva il coltello e la distendo con tutta la forza che ho in corpo, mandandolo a rotolarsi nel fango a un paio di metri di distanza. Ma il terzo bastardo, sempre lui, mi schiaccia a terra con tutto il suo peso, sarà almeno un quintale, e mi immobilizza puntandomi un ginocchio sul petto. Gli altri due fanno in tempo a recuperare e mi sono di nuovo addosso. Non solo, il vecchio ha anche in mano la mia pistola e me la punta contro. “Ora ti ammazziamo come un cane, sbirro di merda! Ma prima ti facciamo il servizietto…”

All’improvviso, in lontananza la luce del lampione si oscura.

Una figura enorme incombe su di noi, una specie di gigante senza volto. Distinguo solo una massa di capelli arruffati e una barba lunga. L’uomo afferra per le spalle quello che mi sta schiacciando lo sterno e lo scaraventa via come se fosse senza peso. Poi sferra un calcio allo stomaco dell’altro tizio, che si porta le mani al ventre ed espelle un fiotto di vomito che, per fortuna, mi manca di un soffio. Rotolo su me stesso e mi rialzo, solo per vedere il vecchio che punta la mia pistola d’ordinanza al volto del gigante. “Hai finito di fare il gradasso!” gli urla contro. “T’ammazzo come un cane! Hai capito?” Quello, il gigante, per tutta risposta si muove verso di lui. Il vecchio, a questo punto, spara. Inutilmente, perché non avevo inserito il colpo in canna. Il gigante, con un gesto rapido, gli strappa la pistola dalle mani, poi gli assesta un colpo sulla fronte con il calcio della Beretta. Il vecchio si porta le mani alla testa e crolla a terra, piagnucolando e rannicchiandosi in posizione fetale. Gli altri due scappano in direzioni opposte, segno che ne hanno avuto abbastanza.

“La pistola,” dico tendendo la mano al mio salvatore, “dammi la mia pistola. Sono un poliziotto…”

Lui avanza verso di me, spostandosi in una zona poco più illuminata. Solo allora riesco a guardarlo bene in faccia. E a riconoscere quegli inconfondibili occhi azzurri.

“Marco, sei tu?”

Mi passa la mia arma.

La afferro meccanicamente, continuando a fissarlo.

“È un brutto posto questo, di notte. Vattene.”

“Io… sono qui… Ti cercavo. È successa una cosa. Una cosa che devi sapere.”

“Non devo sapere niente. Non mi importa di niente. Lasciami in pace e non tornare più.”

Si volta e si incammina lasciandomi come un idiota, con la pistola in mano, gli abiti strappati, il sangue che mi cola dal naso. “Giulia!” gli urlo dietro. “Si tratta di Giulia. Tua figlia. È scomparsa da una settimana, nessuno sa dove sia.”

Si ferma, come pietrificato, senza voltarsi. Restiamo così, immobili, senza curarci del vecchio con la mimetica che striscia per qualche metro, poi si alza e se la dà a gambe, più veloce di una lepre con un pointer che le alita sul culo. Marco abbassa la testa. Poi la rialza e parla di nuovo. “Non mi importa di niente. Lasciami in pace e non tornare mai più.” E se ne va, tornando nelle tenebre dalle quali è sbucato per salvarmi ancora una volta la pelle. Non so se lo odio più per questo o per il fatto che possa rimanere indifferente a una notizia come quella che gli ho appena dato. Anzi, per dirla tutta, non so nemmeno se lo odio davvero.