Ventuno
Marco Tanzi è nudo, disteso ventre a terra. Il suo corpo si solleva, con molta lentezza, per poi scendere e risalire ancora, ritmicamente. Unico punto d’appoggio: le punte dei piedi e i due pugni chiusi, a fare da sostegno sulle fredde piastrelle bianche. L’esercizio fisico è il suo estremo tentativo di non cedere agli attacchi dei mostri. Un tempo centoventi flessioni come queste erano parte del suo programma di fitness giornaliero. Ora non perde tempo a contare, ma sta già combattendo contro un dolore atroce. Tenta di ignorare quel male che pare lacerare ogni fibra dei suoi muscoli, spezzare i tendini delle sue articolazioni.
Il suo obiettivo è ritrovare lucidità nel dolore, riabituare il suo corpo alla fatica, destarsi da un torpore fisico e spirituale che l’ha fatto precipitare in un baratro che sembra senza fine.
Il “vecchio” entra nella stanza portando con sé una grossa ciotola fumante.
Tanzi cede e si accascia al pavimento. Poi, racimolando le forze, si rialza, fermandosi a osservare l’uomo che, con gesti misurati ed essenziali, sistema la ciotola per terra, davanti a una fessura orizzontale nella grata.
Con una mano la spinge all’interno.
“Devi berlo, anche se non ti piacerà. Fra un paio di giorni potrai iniziare a mangiare qualcosa, ma per adesso…”
“Da quanto sono qui?” chiede Tanzi.
“Oh, appena due giorni. Ieri sei svenuto, ti sei ferito alla testa.”
Tanzi si passa una mano sulla fronte, dove ha un grosso taglio contornato da sangue coagulato.
“Ti ho portato questa,” dice il vecchio voltandosi. Afferra uno sgabello con la seduta ricavata da un ceppo. Lo sistema a circa un metro e mezzo dalla grata, fuori dalla portata delle braccia di Tanzi, e ci appoggia sopra una fotografia. “Se per caso dovessi dimenticarti qual è lo scopo della tua sofferenza, ricordati che lo stai facendo per lei.”
Tanzi osserva il volto sorridente di sua figlia stringendo le sbarre della sua prigione volontaria. “Quanto… quanto ci vorrà? Ho bisogno… devo fare in fretta, lei… devo ritrovarla.”
“La fretta non aiuterà né te né lei. E comunque non puoi fare niente per tua figlia, in questo stato. Sei debole. Sei alcolizzato. Sei un uomo finito.”
“Non sono finito. Non ancora.”
“Bene,” risponde il vecchio. “Allora segui il programma. Bevi l’infuso. Ci vediamo domani, quando te ne porterò un altro.”
Marco Tanzi vorrebbe trattenerlo, fargli delle domande, ma capisce che sarebbe inutile. Resterebbero inascoltate come le sue grida del giorno prima, quelle che sente ancora rimbombare nella testa e graffiare nella gola.
Si inginocchia accanto alla ciotola. Contiene un liquido marrone e dei residui vegetali. La afferra con entrambe le mani e la porta alla bocca, bevendone un sorso. Il sapore è amarissimo. Sa di foglie morte, di radici, di muffa.
Tanzi trattiene un conato di vomito. Sbircia, solo per un attimo, la foto sullo sgabello. Poi continua a bere.