Dartmouth, contea di Devon, aprile 1470.
Viaggiamo alla costante velocità dei muli che trascinano la portantina di Isabella. Gli esploratori che seguono il nostro esercito in ritirata riferiscono che Edoardo non ci sta inseguendo. Secondo mio padre il re è solo uno sciocco pigro che è tornato nel caldo letto della regina a Londra. Avanziamo a brevi tappe fino a Dartmouth, dove ci sta aspettando la nave di mio padre. Dal molo, Isabella e io osserviamo caricare i carri e i cavalli. Il mare è calmo come un lago, la giornata calda per essere aprile, con bianchi gabbiani che volteggiano nell’aria e strillano; nella zona del molo c’è un piacevole odore di sale, di alghe che seccano sulle reti, di catrame. Potrebbe quasi essere una giornata estiva e noi pronte a salpare per un viaggio di piacere.
Mezzanotte, il nero destriero da guerra di mio padre, è uno degli ultimi a venire condotto su per lo scalandrone. Gli hanno messo un sacco sulla testa per impedirgli di vedere la stretta passerella e l’acqua sottostante, ma lui sa che lo stanno portando a bordo di una nave. Ha attraversato i mari molte volte e due volte ha invaso l’Inghilterra. È un veterano di numerose battaglie, ma ora si comporta come un puledro nervoso, recalcitrando, sbuffando e facendo scappare gli uomini, finché riescono a imbracarlo e a tirarlo a bordo.
«Ho paura», sussurra Isabella. «Non voglio salpare.»
«Isa, il mare è calmo come uno stagno. Potremmo andare a casa a nuoto.»
«Mezzanotte sa che c’è qualcosa che non va.»
«No, non è vero. È sempre così. In ogni caso, ora sta mangiando fieno a bordo. Forza, Isa, non possiamo far ritardare la nave.»
Non vuole muoversi. Mi tira di lato, mentre nostra madre e le sue dame salgono. La porta della cabina reale è aperta. Giorgio ci passa accanto, indifferente ai timori di Isabella. Nostro padre sta dando gli ultimi ordini a qualcuno sul molo e i marinai cominciano a sciogliere le gomene dai grandi anelli di ferro sul molo.
«Sono troppo vicina al parto per partire.»
«Andrà tutto bene», la rincuoro. «Potrai stenderti nella cuccetta come faresti nel tuo letto a casa.»
Continua a esitare. «E se avesse sollevato un vento con un fischio?»
«Cosa?»
«La regina con sua madre, la strega. Le streghe possono suscitare il vento con un fischio, non è vero? E se l’avesse fatto e quel vento fosse lì ad aspettarci?»
«Non può fare una cosa simile. È solo una donna.»
«Lo farebbe, sai che potrebbe. Non ci perdonerà mai per la morte di suo padre e di suo fratello. L’ha detto sua madre.»
«Erano arrabbiate con noi, ma non può farlo, non è una strega.»
All’improvviso ecco nostro padre. «Salite a bordo», ordina.
«Isa è spaventata», lo informo.
La fissa, la figlia maggiore, la figlia eletta e, sebbene lei, pallida come un cencio, si regga con la mano il ventre gonfio, la guarda con duri occhi scuri, come se non fosse altro che un ostacolo tra lui e il suo nuovo progetto. Poi lancia un’occhiata all’entroterra, come se potesse scorgere i fluttuanti stendardi dell’esercito del re avvicinarsi all’area del molo. «Imbarcatevi», è tutto ciò che dice e ci conduce sullo scalandrone senza guardarsi indietro e ordina di mollare gli ormeggi, mentre ci affrettiamo dietro di lui.
Mollano le gomene e le lance tirano a bordo le cime per rimorchiarci in alto mare. Le vele sbattono e iniziano a prendere il vento e a gonfiarsi e la nave beccheggia nelle onde. Mio padre è amato nella contea di Devon e in tutti i porti d’Inghilterra, perché protegge il Mare Stretto e c’è molta gente che gli manda baci e grida benedizioni. Giorgio corre al suo fianco sul ponte di poppa, alza la mano in un saluto regale e mio padre chiama accanto a sé Isabella e le cinge le spalle con un braccio, facendola girare così che tutti possano vedere la sua grossa pancia di donna gravida. Mio padre non mi chiama al suo fianco, non ha bisogno di me. È Isabella, la futura regina d’Inghilterra, che se ne va in esilio, certa di tornare trionfante. È Isabella che è incinta del bambino che tutti sperano sarà il maschio che diverrà re d’Inghilterra.
Arrivati in alto mare, i marinai gettano le cime nelle lance e terzarolano le vele che una piccola brezza fa gonfiare, poi la nave inizia a fendere l’acqua blu che sibila lungo la prua. Isa dimentica i suoi timori e mi raggiunge e insieme osserviamo i delfini nell’acqua chiara. All’orizzonte c’è una fila di nuvole simile a un filo di perle color latte.
Alla sera ci mettiamo alla cappa fuori del porto di Southampton dove è ancorato il resto della flotta di mio padre in attesa del suo ordine di raggiungerci. Mio padre invia una piccola barca a remi per dire loro di muoversi, quindi aspettiamo, sballottando un poco nelle vorticose correnti dello stretto di Solent, in attesa di vedere entro poco una foresta di vele in movimento, nostra ricchezza e orgoglio e la fonte del potere di mio padre, il dominio dei mari. Appaiono solo due navi. Ci costeggiano e mio padre si sporge dalla fiancata e loro gli gridano che erano attesi, che il figlio del barone di Rivers, Anthony Woodville, con la maledetta preveggenza della sua famiglia ha cavalcato come un pazzo con la sua truppa per arrivare qui prima di noi e ha preso gli equipaggi, arrestando qualcuno, uccidendone altri; ora ha tutte le navi, inclusa la nave ammiraglia, la Trinity, nelle sue mani. Anthony Woodville ha il comando della flotta di mio padre. I Rivers ci hanno portato via le navi, come ci hanno portato via il re, come ci prenderanno tutto ciò che possediamo.
«Va’ sottocoperta», mi grida furiosamente mio padre. «Di’ a tua madre che arriveremo a Calais in mattinata e che io tornerò per riprendermi la Trinity e tutte le mie navi e che Anthony Woodville si pentirà di avermele sottratte.»
Navigheremo tutta la sera e tutta la notte diretti al porto di Calais. Mio padre conosce bene le acque del Mare Stretto e il suo equipaggio ha navigato e combattuto su ogni spanna di queste profondità. La nave è in servizio da poco, attrezzata come un vascello da combattimento, ma con quartieri degni di un re. Navigheremo verso est spinti dai venti dominanti sotto un cielo sereno. Isabella riposerà nella cabina reale sul ponte di coperta e io starò con lei. Mia madre e mio padre avranno la grande cabina sotto il ponte di poppa. Giorgio ha la cabina del primo ufficiale. Tra poco ci serviranno la cena, quindi giocheremo a carte alla luce della candela che guizza e si muove con il rollio della nave, poi andremo a letto e dormiremo, cullate dal saliscendi delle onde, ascoltando gli scricchiolii e fiutando l’odore salino del mare. Mi rendo conto di essere libera: il mio periodo al servizio della regina è finito, non rivedrò più Elisabetta Woodville. Lei non mi perdonerà mai, non sentirà più il mio nome, ma neppure io dovrò più sopportare il suo silenzioso disprezzo.
«Il vento si sta alzando», osserva Isabella, mentre passeggiamo sul ponte di coperta prima di cena.
Alzo la testa. Lo stendardo in cima alle vele sbatte violentemente e i gabbiani che seguivano la scia della nave sono tornati verso l’Inghilterra. Le piccole nuvole perlacee che erano in fila all’orizzonte si sono ammassate e ora sono grigie e fitte.
«Non è niente», la rincuoro. «Forza, Isa, torniamo in cabina. Non abbiamo mai avuto la cabina più bella.»
Raggiungiamo la porta che si apre sul ponte di coperta, ma appena Isabella pone la mano sul chiavistello, la nave s’inclina e lei cade contro la porta che si spalanca di colpo, facendola ruzzolare nella cabina. Crolla contro il letto e io entro dietro di lei e l’afferro. «Tutto bene?»
Un moto verso l’alto di un’onda ci manda dall’altra parte della cabina e Isa cade contro di me e mi sbatte contro la parete.
«Mettiti a letto», le ordino.
Il pavimento si solleva di nuovo, mentre tentiamo di raggiungere il letto e Isabella ne afferra il bordo. Io cerco di ridere all’improvvisa onda morta che ci fa barcollare come sciocche, ma Isa sta piangendo: «È una tempesta, la tempesta che avevo previsto!» I suoi occhi sono enormi nell’improvvisa oscurità della cabina.
«No, no, sono solo alcune grandi onde.» Guardo verso l’oblò. Le nuvole, prima tanto leggere e pallide all’orizzonte, sono ora più scure e coprono a bande nere e gialle un sole sempre più rosso e cupo, sebbene sia ancora pomeriggio.
«Il cielo si sta soltanto rannuvolando», aggiungo, tentando di dare alla mia voce un tono allegro, sebbene non abbia mai visto un cielo simile in vita mia. «Perché non ti stendi sulla cuccetta a riposare?»
L’aiuto a salire sul letto, ma l’improvvisa discesa della nave nel ventre dell’onda e l’urto dell’impatto quando colpisce il fondo mi gettano a terra.
«Stenditi vicino a me», insiste Isa. «Fa freddo, ho freddo.»
Mi sfilo le scarpe, ma poi tentenno. Aspetto e provo la sensazione che tutto sia in attesa. Di colpo, ogni cosa s’immobilizza, come se il mondo si fosse improvvisamente fermato, come se il cielo stesse aspettando in silenzio. La nave si zittisce, la bonaccia cala su un mare simile a olio e il vento che ci stava spingendo verso casa sospira come se fosse stanco e si ferma. Sentiamo le vele sbatacchiare e poi pendere inerti. C’è un silenzio infausto.
Guardo fuori dall’oblò. Il mare è piatto, piatto come se fosse una palude nell’entroterra e la nave sguazzasse nel limo. Le nubi premono sull’albero maestro, spingendola verso il basso. Non si muove nulla e qualcuno, seduto sulla crocetta dell’albero maestro, grida: «Gesù, salvaci», e inizia a scendere lungo le sartie. La sua voce echeggia in modo strano, come se fossimo tutti intrappolati sotto una boccia di vetro. «Gesù, salvaci», ripeto.
«Ammainate le vele», tuona il capitano, spezzando il silenzio. «Terzarolate!»
«Sta prendendo fiato», commenta Isabella, l’espressione tormentata, gli occhi neri nel pallore del viso.
«Cosa?»
«Sta prendendo fiato.»
«Oh, no!» esclamo, tentando di suonare sicura di me, ma l’aria immobile e la premonizione di Isabella mi spaventano. «Non è nulla, solo un momento di calma.»
«Sta prendendo fiato, poi fischierà», insiste. Volta la testa e giace sulla schiena, la grossa pancia tonda e piena. Poi le sue mani escono da sotto le lenzuola e afferrano i bordi del letto in legno splendidamente intarsiato, mentre lei tende i piedi verso la base della cuccetta, come se si stesse preparando a un pericolo. «Ancora un attimo e fischierà.»
«No, no, Isa…» Vorrei dire una battuta, ma in quel momento un urlo di vento mi toglie il fiato. Ululando come un ossesso, il vento si riversa dal cielo plumbeo, la nave s’ingavona e il mare sotto di noi si gonfia e ci lancia verso le nuvole spezzate da lampi gialli.
«Chiudi la porta! Chiudila fuori!» sbraita Isabella, mentre la nave rolla e le due ante della porta della cabina si spalancano. La cabina dà sulla prua della nave, oltre la quale dovrebbero esserci le onde del mare, ma davanti a me non vedo altro che la prua che si alza sempre più, come se la nave fosse dritta sulla poppa e la prua torreggiasse nel cielo sopra di me. Poi ne vedo la causa. Dietro la prua c’è una enorme onda che torreggia alta come il muro di un castello e la nostra piccola nave sta tentando di arrampicarsi lungo la parete. Tra un attimo la cresta dell’onda, color bianco ghiaccio contro il cielo nero, si piegherà e si abbatterà su di noi, mentre una grandinata si rovescia su di noi con fragore, trasformando in un secondo il ponte in un campo coperto di neve, e mi punge la faccia e le braccia nude e scricchiola sotto i miei piedi nudi come vetro frantumato.
«Chiudi la porta!» strilla di nuovo Isabella e io mi lancio contro di essa, mentre l’onda si infrange e un muro d’acqua si abbatte sul ponte e la nave trema e ondeggia. Un’altra onda si erge sopra di noi e la porta si spalanca facendo entrare un muro d’acqua alto fino alla vita. Isabella grida, la nave ondeggia, dibattendosi sotto il peso ulteriore dell’acqua, i marinai faticano a mantenere il controllo delle vele, aggrappandosi alle aste, penzolando come pupazzi disarticolati, senza pensare ad altro che a salvare le loro fragili vite, mentre la nave s’impenna e il capitano ruggisce ordini per mantenere la prua nel mare torreggiante, e il vento crea montagne di onde che si precipitano su di noi come una sequenza di nere montagne vitree.
La nave vacilla e la porta si riapre con fragore e nostro padre entra con una cascata di acqua, il mantello da marinaio colante acqua, le spalle imbiancate dalla grandine. Si chiude la porta alle spalle e riprende l’equilibrio, appoggiandosi all’infisso. «Tutto bene?» chiede, gli occhi puntati su Isabella.
Isabella si sta tenendo il ventre. «Mi fa male, mi fa male!» grida. «Padre! Portateci nel porto!»
Lui mi guarda. «Ha sempre male», rispondo. «La nave?»
«Siamo diretti verso la riva francese dove saremo protetti dalla costa. Aiutala. Tienila al caldo. I fuochi si sono spenti, ma quando verranno riaccesi, vi manderò della birra calda aromatizzata.»
La nave si solleva di colpo e noi due veniamo sbattuti a terra. «Padre!» grida Isabella dalla cuccetta.
Ci rimettiamo in piedi, aggrappandoci al bordo della cuccetta. Mentre mi rialzo, batto le palpebre, pensando che i lampi mi abbiano accecata, perché è come se le lenzuola di Isabella fossero nere. Poi capisco che le lenzuola non sono nere, che i lampi non mi hanno abbagliata. Le lenzuola sono rosse. Si sono rotte le acque.
«Il bambino!» singhiozza mia sorella.
«Faccio venire subito vostra madre», esclama mio padre in tono urgente. In un attimo scompare nella grandine.
Afferro le mani di Isabella.
«Ho male», ripete. «Anna, mi fa male.» All’improvviso il suo volto si contorce e mi si aggrappa, gemendo. «Non sto facendo storie, Anna, non sto tentando di essere importante. Ho male, un male terribile. Anna, soffro troppo.»
«Penso che il bambino stia arrivando.»
«Non ora! È troppo presto! Non può nascere qui! Non su una nave!»
Lancio un’occhiata alla porta. Mia madre arriverà? Verranno tutte le dame di compagnia? È impossibile che Isabella e io si resti sole, una aggrappata all’altra, mentre infuria la tempesta e lei partorisce senza nessuno che ci aiuti.
«Ho una cintura pelvica», dice in tono disperato. «Una cintura benedetta per facilitare il parto.»
Le nostre casse sono state caricate nella stiva, nella cabina non c’è nulla per Isabella, solo un piccolo baule con il cambio di biancheria.
«Un’icona e alcune spille di pellegrinaggio», continua. «Nella mia cassetta intarsiata. Ne ho bisogno, Anna. Devi farmele avere, mi proteggeranno…»
Viene attanagliata da un altro spasmo e grida e mi afferra le mani. La porta si spalanca di colpo e con mia madre entra anche uno scroscio d’acqua e una raffica di grandine.
«Signora madre! Signora madre!»
«Vedo», dice lei fredda. Si gira verso di me. «Va’ nella cambusa e di’ loro che devono accendere un fuoco, che abbiamo bisogno di acqua calda e di birra calda e aromatizzata. Di’ che sono stata io a ordinarlo. E chiedi qualcosa che possa mordere, un cucchiaio di legno, se non c’è altro. E chiedi alle donne di portare tutta la biancheria a disposizione.»
Una grande onda lancia la nave verso l’alto e barcolliamo da un lato all’altro della cabina. Mia madre agguanta il bordo del letto. «Va’», mi intima. «Fatti aiutare da un uomo a tenerti aggrappata all’imbarcazione. Non farti trascinare in mare.»
Quell’avvertimento mi impedisce di aprire la porta alla tempesta e al mare ondeggiante.
«Va’», ripete mia madre.
Impotente, annuisco ed esco. Sul ponte l’acqua mi arriva alle ginocchia e, appena scivola via, un’altra onda si schianta su di noi, la prua si alza e poi crolla rumorosamente nell’onda. Sono sicura che la nave non potrà sopportare questo scuotimento ancora a lungo, si spezzerà. Una sagoma, avvolta d’acqua, mi supera barcollante e io le afferro il braccio. «Portatemi nella cabina delle dame e poi nella cambusa», grido contro l’urlo del vento.
«Che Dio ci salvi, che Dio ci salvi, siamo perduti!» urla, staccandosi da me.
«Portatemi nella cabina delle dame e poi nella cambusa», ripeto. «Ve lo ordino. Ve lo ordina mia madre.»
«Questo è un malefico vento da strega», dice inorridito. «Si è alzato appena si sono imbarcate le donne. Le donne a bordo, e una di loro morente, portano un vento da strega.» Si allontana, e un improvviso sollevamento della nave mi sbatte contro la battagliola. Mi aggrappo nel momento in cui un possente muro d’acqua si alza e precipita su di noi. Mi agguanta, sollevandomi, e mi salvo solo riuscendo ad afferrare le cime e grazie all’abito che si è impigliato in una galloccia. L’uomo invece viene portato via e vedo il suo bianco viso nell’acqua verde, le braccia e le gambe che si agitano, la bianca bocca che si apre e si chiude come un pesce che sta imprecando. Scompare in un secondo e la nave trema sotto il forte colpo di mare.
«Uomo a mare!» grido, la mia voce un debole zufolo contro i martellanti tamburi della tempesta. Mi guardo in giro. I marinai sono legati ai loro posti, nessuno lo aiuterà. Aggrappata alla battagliola, guardo fuoribordo, ma lui è scomparso nell’oscurità dell’acqua nera. Il mare lo ha inghiottito senza lasciare traccia. Un lampo improvviso mi mostra la porta della cambusa e io strappo la gonna dalla galloccia che mi ha salvato e mi precipito verso la porta.
L’acqua ha spento i fuochi, la stanza è piena di fumo e vapore, il cuoco è incastrato dietro il tavolo. «Dovete accendere il fuco», ansimo. «E prepararci della birra e dell’acqua calde.»
Lui mi ride in faccia. «Stiamo affondando!» grida con macabro sarcasmo. «Stiamo affondando e voi venite a chiedere della birra aromatizzata?»
«Mia sorella è in travaglio! Abbiamo bisogno di acqua calda!»
«Per fare cosa?» mi chiede, come se stessimo giocando a botta e risposta. «Per salvarla, così che possa partorire carne per i pesci? Perché il suo neonato morirà e lei con lui e tutti noi con loro.»
«Vi ordino di aiutarmi!» sibilo a denti stretti. «Ve lo ordino io, Anna Neville, la figlia del creatore di re.»
«Ah, dovrà farne a meno», replica, come se avesse perso interesse.
«Datemi dei panni», insisto. «Stracci. Qualsiasi cosa. E un cucchiaio di legno da mordere.»
Tenendosi forte, allunga la mano sotto il tavolo e solleva una cesta di teli candeggiati. «Aspettate», dice. Da un’altra cesta tira fuori un cucchiaio di legno e da un cassetto una bottiglia di vetro scuro. «Brandy. Potete darle questo. Prendetene un po’ anche voi, bellezza, tanto vale annegare allegri.»
Prendo la cesta e inizio a risalire le scale. Un sollevamento della nave mi spinge verso l’alto e mi ritrovo nella tempesta, le braccia cariche, e mi precipito verso la porta della cabina prima che un’altra onda s’infranga sul ponte.
Nella cabina mia madre è china su Isabella, che sta gemendo. Cado dentro e chiudo la porta alle mie spalle, mentre mia madre si raddrizza. «Il fuoco nella cambusa è spento?» mi domanda.
Annuisco.
«Siediti», mi ordina. «Ci metterà molto. Sarà una lunga notte.»
Per tutta la notte riesco solo a pensare che, se riuscissimo a fendere questo mare, a sopravvivere a tutto questo, alla fine del viaggio ci sarà il braccio teso del muro del porto di Calais e oltre questo il riparo. Ci sarà il molo dove la gente ci starà aspettando con bevande calde e abiti asciutti e, quando sbarcheremo, si radunerà attorno a noi e ci accompagnerà fino al castello e Isabella verrà portata nella sua camera da letto e arriveranno le levatrici e lei potrà legarsi la sacra cintura attorno al ventre e appuntare la spilla da pellegrino sull’abito.
Poi partorirà con una schiera di levatrici e medici a sua completa disposizione e tutto sarà pronto per il neonato: la fasciatura tessalica, la culla, la balia, un prete per benedire il neonato e bruciare incenso nella camera.
Dormo su una sedia, mentre Isabella sonnecchia e mia madre giace accanto a lei. Di tanto in tanto mia sorella lancia un grido e mia madre si alza e le tocca il ventre che sporge squadrato come una scatola, e Isabella grida che non riesce a sopportare il dolore e mia madre le stringe i pugni e le dice che passerà. Poi passa e lei si stende di nuovo, piagnucolando. La tempesta si calma, ma continua a rombare attorno a noi, con lampi all’orizzonte, tuoni sul mare, le nuvole tanto basse che non riusciamo a vedere la terra, sebbene si sentano le onde infrangersi sulle rocce francesi.
Giunge l’alba, ma il cielo non schiarisce e la nave continua a essere sballottata dalle onde. L’equipaggio raggiunge la prua e taglia una vela stracciata e la getta fuoribordo, ormai inutilizzabile. Il cuoco riesce ad accendere il fuoco in cambusa e tutti ricevono un dito di grog caldo e lui manda della birra calda e speziata per Isabella e tutte noi. Le tre dame di compagnia di mia madre e Margaret arrivano nella cabina con una fresca sottoveste per Isabella e portano via le lenzuola insanguinate. Isabella dorme fin quando il dolore non la risveglia; è tanto esausta che ora solo le contrazioni più atroci riescono a destarla. Le pongo una mano sulla fronte e sento che scotta e su ogni guancia noto una macchia rossa.
«Cosa le sta succedendo?» chiedo alla mia sorellastra.
Margaret non risponde, scuote solo il capo.
«È malata?» domando sottovoce a mia madre.
«Il piccolo è incastrato», mi risponde. «Appena approderemo, una levatrice dovrà rigirarlo.»
La guardo a bocca spalancata. Non capisco neppure di che cosa stia parlando. «È una brutta cosa? Rigirare un bambino? Mi pare grave.»
«Sì», ammette schietta. «È brutta. L’ho visto fare ed è un dolore insopportabile. Va’ a chiedere a tuo padre tra quanto approderemo a Calais.»
Esco dalla cabina. Ora sta piovendo, una pioggia incessante che si riversa da un cielo scuro e il mare scorre con forza sotto la nave e ci spinge verso la nostra destinazione, anche se il vento sta soffiando contro di noi. Mio padre è sul ponte accanto al timoniere e al capitano.
«La mia signora madre chiede quando arriveremo a Calais.»
Lui abbassa lo sguardo su di me e capisco che il mio aspetto lo sconvolge. Non porto copricapo e ho i capelli in disordine, l’abito è strappato e macchiato di sangue e sono fradicia e a piedi nudi. Devo avere anche un’aria disperata per non essere riuscita a fare nulla per mia sorella, tranne portarle un cucchiaio di legno da mordere quando più soffriva.
«In una o due ore», risponde. «Non più molto. Come sta Isabella?»
«Ha bisogno di una levatrice.»
«Nel giro di una o due ore ne avrà una», dichiara con un sorriso caldo. «Diteglielo, da parte mia. Glielo prometto. Cenerà a casa nel nostro castello. Partorirà con i migliori medici di Francia.»
Quelle parole mi rallegrano e rispondo al suo sorriso.
«Mettiti in ordine», aggiunge. «Sei la sorella della regina d’Inghilterra. Infilati le scarpe e cambiati d’abito.»
Gli faccio un inchino e torno nella cabina.
Aspettiamo. Sono un paio d’ore molto lunghe. Scuoto il mio abito, non ho un cambio, ma raccolgo i capelli in trecce e mi metto il copricapo. Isabella geme, dorme, e si sveglia dolorante. Poi sento il marinaio di vedetta gridare: «Terra! A dritta di prua! Calais!»
Balzo dalla sedia e guardo dall’oblò. Vedo il ben noto profilo delle alte mura della città, il tetto a volta della dogana della lana, la Staple Hall, la torre della cattedrale, poi il castello in cima alla collina, i bastioni, e le nostre finestre illuminate. Mi riparo gli occhi contro la pioggia battente, ma scorgo la finestra della mia camera da letto e le candele accese per me, le imposte lasciate aperte come benvenuto. Il sollievo è straordinario. Sento le spalle alleggerirsi come se il peso della paura le avesse piegate in avanti. Siamo a casa e Isabella è salva.
Poi odo uno stridore e un terribile sferragliamento. Lancio un’occhiata alle mura del castello dove degli uomini sono alle prese con un grande argano. Davanti a noi, all’imboccatura del porto, la catena si solleva dalle profondità del mare, trascinando con sé erbe acquatiche, per sbarrarci la strada.
«Svelti!» grido, come se potessimo spiegare le vele e superare la catena prima che sia troppo alta. Ma non sarà necessario gareggiare con la barriera, appena ci riconosceranno, la caleranno, appena vedranno la bandiera con la verga logora di Warwick ci faranno entrare. Mio padre è il capitano più amato che Calais abbia mai avuto. È la sua città, non una città di York o di Lancaster, Calais è fedele solo a lui. Osservo il castello e appena sotto la finestra della mia camera da letto noto che stanno sistemando le piattaforme e tirando fuori i cannoni, come se il castello si stesse preparando a un attacco.
È un errore, dico a me stessa. Devono averci presi per la nave di re Edoardo. Ma poi guardo più in alto: sopra i bastioni non c’è la bandiera di mio padre, la verga logora, ma la bianca rosa di York e lo stendardo reale. Calais è rimasta fedele a Edoardo e al casato di York, anche se noi abbiamo cambiato fazione. Mio padre aveva dichiarato che Calais era a favore di York e così è rimasta leale a quel casato. Calais non cambia con le maree, è leale come lo eravamo noi una volta. Ma ora siamo il nemico.
Il timoniere vede la catena che si sta sollevando appena in tempo e grida un avvertimento. Il capitano urla ai marinai. Mio padre si mette al timone tirandolo con forza assieme al timoniere per allontanare la nave dalla trappola letale della catena tesa. Le vele sbattono pericolosamente, nel momento in cui viriamo di traverso al vento e il mare spinge la nave lateralmente e pare probabile si rovesci.
«Virate! Di più, ammainate le vele!» grida mio padre e, scricchiolando, la nave cambia direzione. Dal castello giunge una paurosa esplosione e una palla di cannone cade in mare vicino alla poppa. Siamo entro la gittata dei loro cannoni. Ci hanno ben in vista. Ci affonderanno, se non riusciamo ad allontanarci.
Mio padre riesce a far virare la nave e a portarla fuori portata, poi ammaina le vele e getta l’ancora. Non l’ho mai visto tanto infuriato. Manda alla guarnigione un ufficiale per chiedere che gli uomini ai suoi comandi siano autorizzati a entrare. Poi dobbiamo attendere. Il mare si agita e si solleva, il vento soffia e fa tendere la catena dell’ancora, la nave s’inclina e rolla rabbiosa. Io esco dalla cabina e vado a guardare casa mia. Non riesco a credere che ci abbiano bloccati, che non salirò le scale in pietra per raggiungere la mia camera e chiedere che mi preparino un bagno caldo e abiti puliti. Vedo una piccola barca uscire dal porto, poi la sento sbattere contro la fiancata e odo le grida dei marinai che calano le cime. Dalla piccola imbarcazione salgono barili di vino, dolci e del formaggio per Isabella. Tutto qui. Nessun messaggio, non c’è nulla da dire. Si scostano e tornano a Calais. Ci impediscono di tornare a casa nostra e il vino per Isabella l’hanno mandato per pietà.
«Anna!» grida mia madre nel vento. «Vieni qui.»
Mentre torno nella cabina, sento la catena dell’ancora cigolare in segno di protesta, poi sferragliare, mentre la issano a bordo. Riconsegnata alla misericordia del mare, sbattuta dalle onde e spinta dal vento la nave scricchiola. Non so dove la dirigerà mio padre. Non possiamo tornare in Inghilterra, dove siamo considerati traditori del re. Calais non ci permette di entrare. Dove possiamo andare?
Nella cabina, Isabella, carponi sul letto, muggisce come un animale morente. Mi guarda attraverso un groviglio di capelli, il viso pallido e gli occhi cerchiati di rosso. Non riesco quasi a riconoscerla; è brutta come una bestia torturata. Mia madre le solleva il vestito sulla schiena, e noto che la biancheria intima è insanguinata.
«Devi infilarvi la mano e girare il bambino», mi dice. «Le mie sono troppo grandi.»
La guardo atterrita. «Cosa?»
«Non c’è una levatrice, dobbiamo girare noi il bambino», dichiara con impazienza. «È tanto piccola e le mie mani sono troppo grandi. Dovrai farlo tu.»
«Non so cosa fare», replico, fissandomi le mani sottili dalle lunghe dita.
«Te lo spiegherò io.»
«Non posso.»
«Devi.»
«Madre, sono una fanciulla, una ragazza, non dovrei neppure essere qui…»
M’interrompe un urlo di Isabella che lascia cadere la testa sul letto. «Anna, per l’amor di Dio, aiutami. Tiralo fuori! Tiramelo fuori!»
Mia madre mi afferra il braccio e mi trascina ai piedi del letto. Margaret solleva le culotte di Isabella, mostrando un sedere orribilmente coperto di sangue. «Infila la mano», mi ordina mia madre. «Cosa senti?»
Isabella grida per il dolore, appena le infilo dentro la mano. Disgusto, disgusto è tutto ciò che provo e orrore. Poi sento qualcosa di ripugnante, qualcosa come una gamba.
Il corpo di Isabella si contrae sulla mia mano come una morsa, schiacciandomi le dita. Ora tocca a me strillare: «Non farlo! Mi fai male!»
Lei ansima come una bestia in punto di morte. «Non posso evitarlo. Anna, tiralo fuori.»
La gamba scivolosa scalcia appena la tocco. «Ce l’ho. Credo sia una gamba o un braccio.»
«Riesci a trovare l’altra?»
Scuoto la testa.
«Tira comunque», mi incita mia madre.
La fisso inorridita.
«Dobbiamo tirarlo fuori. Tira con delicatezza.»
Inizio a tirare. Isabella urla. Mi mordo il labbro, ciò che faccio è orripilante e il fatto che Isabella, in travaglio come una meretrice, mi costringa a fare questo, mi disgusta e mi spaventa.
«Riesci a infilare anche l’altra mano?»
Guardo mia madre come se fosse impazzita. Non è possibile.
«Prova a infilare anche l’altra e ad afferrare il bambino.»
Avevo dimenticato che c’era un bambino, tanto sono sconvolta dalla puzza e dalla sensazione del piccolo arto scivoloso nella mia mano. Tento di infilare delicatamente l’altra mano. Con la punta delle dita sento qualcosa che potrebbe essere un braccio o una spalla.
«Un braccio?» chiedo, stringendo i denti per non vomitare.
«Spingilo di lato, tasta in basso, trova l’altra gamba.» Mia madre si sta torcendo le mani, ansiosa di vedere la fine del mio operato, accarezzando la schiena di Isabella come se fosse un cane malato.
«Ho afferrato l’altra gamba.»
«Quando te lo dico, tirale entrambe», ordina. Si mette di lato, prende la testa di Isabella tra le mani e le parla: «Quando senti che sta tornando la contrazione, devi spingere. Spingere con forza».
«Non ce la faccio, madre, non ci riesco.»
«Devi. Avvertimi quando sta per arrivare la contrazione.»
Dopo un attimo di silenzio i lamenti di Isabella si fanno più forti e lei urla: «Adesso, ora!»
«Spingi!» grida mia madre. Le dame le afferrano i pugni chiusi e le tirano le braccia come per spezzarla, mentre Margaret le infila in bocca il cucchiaio di legno e Isabelle urla e lo morde. «Tu devi tirare il bambino», mi incita mia madre. «Adesso. Piano. Tira.»
Tiro come mi viene ordinato e sento qualcosa schioccare e cedere sotto le mie mani. «No! Si è rotto, rotto!»
«Tira. Tiralo ugualmente!»
Tiro, e improvvisamente sgorga uno schizzo di sangue e due piccole gambe penzolano da Isabella che urla e ansima.
«Ancora una volta.» Mia madre pare trionfante, io invece sono terrorizzata. «Ci siamo quasi, Isabella. Ancora una spinta, al prossimo spasmo.»
Mia sorella geme e si solleva.
«Tira, Anna!» mi ingiunge mia madre e io stringo le minuscole e scivolose gambe e tiro e per un attimo nulla si muove, poi esce una spalla, poi l’altra e Isabella strilla appena arriva la testa e io vedo chiaramente la sua carne strapparsi, mentre la testa esce e poi il cordone ombelicale, e io lascio cadere il neonato sulle lenzuola, mi giro e vomito sul pavimento.
La nave si solleva, facendoci vacillare, quindi mia madre si avvicina al letto a gattoni e prende gentilmente il bambino e lo avvolge nelle pezze. Tremando, mi strofino le mani insanguinate su alcuni stracci e mi tolgo il vomito dalla bocca, in attesa del primo miracoloso pianto.
Silenzio.
Isabella geme sottovoce. Sta sanguinando, ma nessuno tampona le sue ferite. Mia madre ha avvolto il piccolo nel caldo, una delle donne alza gli occhi sorridendo, il volto striato di lacrime. Aspettiamo tutti un piccolo grido, il sorriso di mia madre.
Il suo volto è grigio. «È un maschio», dice bruscamente: proprio ciò che volevamo sentire, ma stranamente la sua voce è priva di gioia, la sua espressione è cupa.
«Un maschietto?» ripeto speranzosa.
«Sì, un maschio. Ma un maschio morto. È morto.»