18
LA PROSSIMA CRISI
Myles si abbottonò la camicia a brandelli meglio che poté. A un osservatore casuale poteva sembrare che indossasse un abito passato in un trituratore industriale decisamente efficace. Rimanevano ancora quattro bottoni per due asole soltanto, per cui la superficie coperta era trascurabile, ma a Myles lo schizzinoso bastava per sentirsi un po’ meglio.
Un piccolo drone gli si accostò alla spalla emettendo un jingle di consegna, e Myles vide che nel vassoio di servizio c’erano i suoi occhiali. Li inforcò e si sentì immediatamente più rilassato e pronto per la prossima crisi, benché fosse certo che, dopo tutto quello che avevano passato, l’universo avrebbe concesso loro un po’ di respiro.
«TATA» disse. «Qual è la situazione?»
«Ci sono crisi imminenti» spiegò TATA. «Abbiamo un’imbarcazione della Guardia costiera in arrivo dalla vicina isola di St. Mary. A quanto pare, le abilità pirotecniche della specializzanda Platz non sono passate inosservate. Una nota positiva, però, è che questa luce che penetra la foschia è semplicemente splendida.»
Myles annuì. Immaginava che fosse effettivamente splendida, la luce, se si considerava l’effetto di rifrazione a contatto con un mezzo denso. Ma era comunque più interessato all’appropinquarsi della Guardia costiera.
«Non la definirei una crisi, TATA» disse. «Tieni sotto controllo le loro comunicazioni radio.»
«Ci sono anche due elicotteri Westland in avvicinamento. Entrambi pieni zeppi di paracadutisti, stretti come sardine in scatola. Hai mai sentito la ciaccona in re minore di Bach? Un bilanciamento perfetto di matematica e bellezza. È quel che intendo diventare, alla fine.»
Interessante, pensò Myles. Sembrerebbe che TATA sia alle prese con un impulso creativo.
Probabilmente però avrebbe fatto meglio a concentrarsi sugli elicotteri.
«ACRONYMO» borbottò Myles. L’organizzazione era riuscita a localizzarli, in qualche modo. Era ragionevole presumere che sorella Geronima fosse sopravvissuta e avesse puntato il dito contro Lord Teddy. Myles scoprì di essere sollevato all’idea che Geronima fosse viva; non aveva alcun desiderio di vederla morta e neppure seriamente ferita. Anche se sarebbe stato carino che quella suora assetata di sangue fosse rimasta fuori gioco per qualche settimana. Magari per via di una brutta infezione alle gengive che richiedesse riposo assoluto senza troppa possibilità di parlare.
«Questa è una crisi» ammise. «Orario stimato d’intercetto?»
«Niente di troppo immediato» rispose TATA.
«Bene» disse Myles. Forse sarebbero riusciti a svignarsela con la lancia prima dell’arrivo degli elicotteri.
«Abbiamo trenta, forse quaranta secondi prima che l’elicottero di testa oltrepassi il banco di nebbia.»
«Fantastico» commentò Myles. «Abbiamo un sacco di tempo.»
«Vero?» disse TATA, allegramente. «Immagina quanti calcoli potrei fare in quaranta secondi. A dire il vero, mentre parlavamo ho composto un concerto.»
«Raduna le tue truppe metalliche» disse Myles, riportando la conversazione in tema, mentre si sistemava il cravattino di pesce rosso, che con tutto quel calore si era un po’ arricciato ma era peraltro intatto. «Abbiamo qualche soldato da affrontare.»
Lazuli gli si accostò.
«Non preoccupartene» gli disse.
«Invece lo faccio» ribatté Myles. «Mi preoccupo. E grazie, specializzanda Platz, per avermi salvato la vita. Ho tutta l’intenzione di sottopormi a sedute di ipnoterapia regressiva per poter rivivere la mia morte a piacimento, e magari imparare qualcosina sull’aldilà.»
«Sembra un vero spasso, Myles» disse Lazuli. Annuì nel vedere la cicatrice rossa a forma di mano marchiata a fuoco sul petto di Myles. La cicatrice era talmente perfetta che si sarebbe potuta usare per il rilevamento delle impronte digitali. «Scusa, per quella» aggiunse. «È stata la mia prima guarigione.»
Myles scosse la testa. «Non devi scusarti. Non fa granché male, e non ho dubbi che questa cicatrice diverrà un simbolo. Qualcosa che mi ricordi come la vita di tanto in tanto ossa ostacolare i miei piani, e che dovrei essere sempre pronto a tutto.»
Beckett li raggiunse con Spiffero appollaiato sulla spalla, intento ad annusare l’aria. «Spiffero dice che ci sono uccelli di metallo in avvicinamento. Credo intenda dire elicotteri.»
«Elicotteri pieni zeppi di agenti dell’ACRONYMO equipaggiati con le ginocchiere, senza dubbio» disse Myles. «Dovremmo ritirarci all’interno della casa e preparare i droni per un conflitto a fuoco. Non permetterò a quella gente di torcere un solo capello ai nostri amici del Popolo.» Myles picchiettò l’astina degli occhiali e anche soltanto quell’azione familiare lo confortò. «TATA, monitora le loro comunicazioni e verifica se possiamo interferire in qualche modo con quegli uccellacci.»
Lazuli allungò una mano e gli toccò una spalla. «Myles, non serve. Non sei l’unica cosa che è stata guarita dalla magia.»
Myles notò che Lazuli indossava il suo casco, e che il display sulla visiera era carico di dati.
«Oh» esclamò. «Circuiti biologici.»
«Esattamente» disse Lazuli.
Myles notò anche che, benché il loro gruppo avesse l’aria di essere stato trascinato per un sottobosco fangoso pieno di granchi, l’uniforme di Lazuli adesso era immacolata.
«Fibre autopulenti?» chiese.
«Precisamente.»
«In tal caso» disse Myles, «la scena è tutta tua, specializzanda Platz.»
«Non mi dispiacerebbe disporre di una trentina di secondi di interferenza» suggerì Lazuli.
«Penso che si possa fare» disse Myles. «TATA, riusciamo a tirar su un velo? Niente di letale, ma che dia fastidio.»
«Posso farlo» confermò TATA. «Sarete al sicuro, qui a terra.»
«Al sicuro» le fece eco Myles. «Finalmente.»
E il sollievo gli caricò il cervello di neurotrasmettitori.
Beckett non sperimentò niente del genere. «Cosa? Io ho un mucchio di energia da sfogare. Non posso colpire niente?»
«No, Beckett» disse Myles fermamente. «Adesso tocca a Lazuli.»
Spiffero fece una mini-scenata, pestando i piedi nel fango e artigliando l’aria, percependo dall’espressione di Beckett che non avrebbero potuto pestare nessuno.
«Ragazzi» disse Lazuli con tono serio, «andate a sedervi su quella panchina a state a guardare. Vi conviene godervi lo spettacolo, perché è più che probabile che le vostri menti siano cancellate tra pochi minuti.»
I tre andarono a sedersi sulla panchina, un affare di ferro battuto lavorato in maniera piuttosto ingegnosa per mostrare la lotta tra San Giorgio e il drago, benché la scontro fosse in realtà avvenuto in un altro continente.
Mentre guardavano Lazuli avanzare con una certa qual tracotanza verso gli elicotteri che oltrepassavano la copertura nebbiosa di St. George, con il muso aggressivamente puntato verso il basso, TATA fece vibrare alcune parole nello zigomo di Myles.
«Artemis ha lasciato un file sui cavilli normativi relativi all’alterazione mnemonica. Forse ti farebbe piacere ripassarli ora? Potrebbe esserci una scappatoia.»
«Li ripasso con molto piacere» disse Myles sottovoce, e nella sua lente destra comparve una finestrella con un videomessaggio da parte del suo fratellone, soltanto per i suoi occhi.
«Molto interessante» mormorò, dopo aver visto il breve video.
Il messaggio diede a Myles un’idea di cosa fare se ciò che pensava potesse succedere più avanti fosse accaduto davvero appena dopo ciò che stava per succedere a breve.
Sorella Geronima Gonzalez-Ramos de Zárate di Bilbao sapeva bene che l’immagine tradizionale di una suora era quella di una donna tranquilla, disarmata e pia, vestita con una semplice tunica, ma, in quel preciso istante, la sua immagine non corrispondeva a quel profilo ortodosso. Sorella Geronima indossava la sua tenuta da battaglia, che ricordava vagamente un abito monacale se la si guardava di sfuggita e da lontano ma, da vicino, l’armatura a piastre in kevlar era chiaramente visibile, così come le impugnature dei pugnali da lancio che spuntavano dalle varie tasche su misura della sua giacca, per non parlare del fucile da assalto che impugnava tra le mani guantate.
Geronima non era l’unica pronta a dar battaglia. C’erano altri dodici agenti, equipaggiati con le loro armi preferite, intenti a controllare le sicure e a concentrarsi in quei rituali scaramantici cui si erano abituati in centinaia di situazioni simili a quella. Simili nel senso che si preparavano al combattimento, ma lì finivano le somiglianze del caso. Geronima era sicura che nessuno avesse mai attraversato un banco di nebbia con due squadre di paracadutisti solo per affrontare un paio di niños e due creaturine del Popolo.
Ma non aveva intenzione di correre alcun rischio. Era determinata a catturare quelle due creature vive e a far fuori i bambini. E, per quanto riguardava Lord Teddy Sang-Uisuga, sarebbe morto lì oppure avrebbe passato il resto dei suoi giorni in una cella di massima sicurezza dell’ACRONYMO, e si dava il caso che quella cella si trovasse in Arizona, in un rifugio antinucleare convertito a base segreta sessanta metri sottoterra, con un pessimo sistema di aerazione, per cui vi ristagnava in permanenza un lezzo di coyote morto.
Un destino fin troppo generoso, pensò Geronima, per quel ratto del duca.
Gli aeromobili dell’ACRONYMO erano rimasti a Penzance per qualche ora, cercando senza successo di penetrare il campo di sicurezza di Lord Teddy con i loro sensori. Non avevano visuale attraverso il banco di nebbia, nessuna traccia termica dal satellite dell’ACRONYMO, e nient’altro che il garrito dei gabbiani veniva raccolto dai microfoni direzionali. Entrambi i piloti erano stati sul punto di rinviare la missione quando, finalmente, St. George si era aperta come un fiore sotto il sole e le informazioni avevano cominciato a intasare i radar.
«La zona morta ha preso vita» aveva detto Cuffie, il loro tecnico. «Ho tutto quello che ci serve.»
Geronima sapeva che avrebbe dovuto chiedersi almeno per un istante perché mai il duca avesse abbassato le difese, ma era troppo arrabbiata per dar spazio alla prudenza.
«Andiamo, subito» aveva gridato. «¡Vamos!»
Per cui vamos e, due minuti dopo, Geronima si era ritrovata a bordo di un elicottero bardata come un cecchino. Il protocollo corretto di ingaggio, per lei che era un ufficiale in comando, sarebbe stato rimanere sulla terraferma e lasciare che fossero i paracadutisti a eseguire l’estrazione, ma Geronima non si sarebbe fatta sfuggire quella missione per tutte le pantofole di velluto del Vaticano.
Erano entrati nel cerchio esterno di foschia, coi rotori che frullavano la nebbia in vortici grigi che appannavano i parabrezza, poi furono fuori e Geronima vide che non c’era niente di speciale da vedere. Era soltanto l’ennesimo scoglio inglese con un maniero fatiscente e un mosaico di campi brulli.
Ciò che si poteva definire insolito era la piccola creatura fatata azzurra, in piedi sull’orlo di una scogliera nordica, con le mani sui fianchi come a sfidare gli elicotteri ad avvicinarsi.
«Abbiamo un possibile elemento ostile sulla scogliera» annunciò il copilota nelle sue cuffie. «Vuole che usiamo la calibro cinquanta, sorella G?»
Geronima accontentò la propria immaginazione per un dolce istante, visualizzando con gli occhi della mente la fatina che veniva polverizzata da un cannone calibro cinquanta.
Ma lei mi serve assolutamente per riacchiappare questa missione per i capelli.
Quindi rispose: «Negativo. La voglio tutta intera. Gli umani potete farli fuori, ma usate soltanto piccoli calibri – non voglio nessun daño collaterale. Sedate i membri del Popolo. E se mi chiami di nuovo sorella G ti faccio scaraventare fuori dall’elicottero. ¿Comprendes, idiota?»
Prima che il cecchino nel secondo elicottero potesse sostituire i proiettili letali con i dardi soporiferi, uno stormo di uccelli si levò in una nube sincronizzata davanti agli elicotteri. I piloti, generalmente, hanno una paura matta degli uccelli, dato che l’impatto con uno di essi può abbattere la maggior parte dei velivoli con la stessa efficienza di un razzo, ma Geronima si avvide che quegli oggetti volanti non erano uccelli, bensì droni.
Droni Myishi, scommetto, pensò Geronima. E, quando i puntatori laser intercettarono entrambi gli elicotteri, i suoi sospetti furono confermati.
«Abbatteteli tutti!» ordinò.
Seguì uno scontro a fuoco breve ma letale.
I droni al comando di TATA spararono ogni loro dotazione contro i due elicotteri. Il che includeva raggi laser, pallottole di piccolo calibro, lame rotanti, cesoie per le siepi, diserbante e perfino un po’ d’insetticida. La maggior parte dei proiettili finì corta, e anche i laser fecero ben poco danno alle scocche robuste degli elicotteri. Questi, d’altro canto, fecero piovere devastazione e morte sui droni. Li distrussero con mitragliatrici Vulcan, colpi di mortaio e lanciafiamme. In pochi minuti, nel punto in cui si erano trovati i droni non restavano altro che cenere e scintille, eppure la fatina blu manteneva la sua posa di sfida alla Peter Pan, come se fosse lei ad avere il coltello dalla parte del manico.
«Bisogna riconoscerglielo» disse il copilota. «Quella piccola creatura ha del fegato, a restarsene lì in piena vista, a fare da bersaglio. E guardate gli altri tizi che se ne stanno spaparanzati sulla panchina, come se stessero assistendo a una partita di baseball…»
È vero, pensò Geronima. È come se sapessero qualcosa che io non so.
«Non fa niente» disse però. «Colpite la creatura fatata non appena l’avrete nel mirino. Voglio essere fuori di qui prima dell’arrivo della Guardia costiera.»
«Ho acquisito il bersaglio» comunicò il cecchino nel secondo elicottero.
«Be’, in tal caso sedatela» ordinò Geronima. Tolse la sicura al suo fucile, pensando: E intanto ai gemelli Fowl ci penso io.
Si appuntò il calcio dell’arma nell’incavo della spalla, fece un respiro, posò un dito sul grilletto, chiuse gli occhi per un lungo istante per non sentire il bisogno di sbattere le palpebre, poi…
… Aprì gli occhi e scoprì che si trovava in un luogo che non riconosceva, intenta a fare qualcosa che non le era familiare.
O che forse non le era ancora familiare.
Che le stava diventando familiare.
Gira e rigira. Ancora e ancora. Con un rozzo bastone di legno stretto tra le mani.
Girava.
Girava una manovella.
E al suo fianco c’era una bambina. Di nove anni, o giù di lì. Una bambina, il cui nome era… Mercy.
La bambina si chiama Mercy.
Questa bambina mi piace, si rese conto Geronima. Mi piacciono lei e tutti quelli che sono qui.
Fece una pausa dal lavoro cui era intenta e si guardò intorno. Era in un villaggio di capanne di fango con le pareti dipinte a colori vivaci, ognuna delle quali aveva una tenda per coprire l’ingresso. C’era gente dappertutto.
I Baka, pensò. I Baka del Camerun orientale.
I Baka le sciamavano intorno, toccandole la spalla e cantando una melodia locale in cui, come qualcuno le aveva spiegato settimane prima, si parlava di trasportare l’acqua lungo la pista.
Non più, pensò Geronima. D’ora in poi, al villaggio arriverà l’acqua proprio qui, in questo pozzo.
Si asciugò il collo con un fazzoletto e poi tornò a chinarsi sul lavoro con rinnovato vigore, unendosi a quella canzone semplice e ripetitiva.
«Portiamo l’acqua, portiamo l’acqua.»
Nella sua mente, aggiungeva non più.
Coi suoi nove anni, Mercy non avrebbe dovuto trasportare l’acqua a braccia.
Un pensiero le balenò nella mente: è così che dovrebbe vivere una suora. Non dando la caccia ad altre forme di vita, armata di fucile.
Altre forme di vita, armata di fucile…? Che stupidaggine. Perché mai una suora avrebbe dovuto aver bisogno di un fucile? O di un elicottero, se è per questo.
Sorella Geronima si scosse via dalla testa quei pensieri sciocchi. Stava sognando a occhi aperti, quando c’era del lavoro da fare. Girò la manovella una volta ancora, e il motore a cui era collegata si avviò. Il motore era collegato anche a una pompa, che creò il vuoto in un tubo che scendeva in profondità nella terra.
Intorno a lei si levò un coro festante, decorato da belle risate e canti, e Geronima pensò che avrebbe potuto sopportare il caldo e le zanzare per il resto della sua vita, per poter sentire quel suono anche soltanto una volta all’anno.
Per qualche istante, il tubo tossicchiò a secco, come la gola di un vecchio, poi però sputò fuori un grumo di fanghiglia marrone e, finalmente, un getto scintillante di acqua chiara. Geronima s’inginocchiò e si appoggiò sui talloni, accettando gli abbracci e i baci dei suoi nuovi amici, e ringraziò il Signore per il benefattore che aveva finanziato quel pozzo; mentre ascoltava le risate deliziate e le canzoni dei bambini danzarle sopra la testa come farfalle sonore, pensò che giorni come quello l’avrebbero aiutata a cancellare le ombre nel suo passato che non riusciva a ricordare bene.
Geronima non notò uno dei Baka che se ne stava un po’ in disparte, in fondo alla folla, ed era più basso degli altri membri della tribù, con un cappello calcato sulla testa malgrado il caldo. Non lo vide mentre tirava fuori dalla tasca una scatola di fiammiferi e ci parlava dentro come se fosse stato un telefonino. E non lo sentì dire: «Trasferimento riuscito. Vinciamo tutti. Richiedo estrazione.»
E, quand’anche Geronima avesse udito quelle frasi concise, non avrebbe capito lo stesso, dal momento che la suora non parlava gnomico.
I rotori degli elicotteri Westland si bloccarono, immobili. Con le pale ferme in quel modo, non c’era verso che quegli aeromobili rimanessero sospesi in aria, eppure c’era qualcosa che li teneva su. Myles vedeva chiaramente le vampe uscire da due armi che stavano finendo di abbattere gli ultimi droni. Le vampe sarebbero dovute sbiadire ma non lo fecero, e quella mezza dozzina di paracadutisti che avevano cominciato a calarsi in corda doppia verso il terreno erano sospesi a mezz’aria, con il busto all’indietro e le gambe allargate in posizione di discesa, ma completamente immobili.
«Fermatempo» disse Myles, non senza un bel po’ di ammirazione nella voce. «Devo assolutamente procurarmene qualcuno.»
Se inclinava la testa all’angolazione giusta e stringeva gli occhi, riusciva a intravedere delle sfere poliedriche scintillanti che imprigionavano entrambi gli elicotteri, e i relativi ganci che si perdevano più su, tra le nuvole.
Myles ricompose quel che rimaneva del suo cravattino e controllò che i resti dei pantaloni gli coprissero perlomeno le terga, giacché aveva la certezza che avrebbero ben presto incontrato qualcuno.
La navicella della LEP emerse dalle nubi, visibile soltanto per via dell’assenza di vapori al suo passaggio. Era una navicella orrenda, a giudicare dalla sagoma, piena di sporgenze e torrette di fuoco spigolose, e quell’impressione di bruttezza non fece che peggiorare quando lo schermo mimetico fu disattivato e, sezione dopo sezione, l’aeronave della LEP divenne completamente visibile.
«Non è bellissima?» disse Lazuli, guidando la nave a gesti per farla atterrare sul prato di Childerblaine House.
«Nemmeno un po’» rispose Myles, sincero. «Quell’aeronave è uno sputo in faccia allo spirito di Newton. Pensavo che il Popolo fosse avanzato.»
«Siamo avanzati» replicò Lazuli. «Tutto ciò che pensate sull’aerodinamica è sbagliato. Ma non preoccuparti, ci arriverete anche voi.»
«Non a bordo di uno di quegli affari, spero» commentò Myles.
Si potrebbe pensare che il suo rigetto della tecnologia fatata fosse dovuto al fatto che si sentisse intimidito, ma si sarebbe in errore. Myles era sinceramente deluso.
La navicella toccò terra sul prato senza schiacciare nemmeno una margherita e, pochi secondi dopo, mentre i propulsori calavano i giri, nella fiancata dell’aeronave si aprì un portellone da cui scese un’elfa in tenuta di volo e con i capelli ramati tagliati a spazzola, aureolata dalle luci interne della navicella. Fu un momento molto teatrale.
«Specializzanda Platz» disse la figura. «L’abbiamo cercata a lungo.»
Lazuli rivolse il saluto militare all’elfa, che era la sua tutrice. «Sì, commodora. Mi sono imbattuta in alcune circostanze eccezionali. Ho trasmesso un segnale non appena la mia tuta si è rigenerata.»
L’elfa si tolse gli occhiali da sole e diede un’occhiata in giro. «Eccezionali, davvero. Ma la cosa mi sorprende poco, dal momento che sono coinvolti dei Fowl. È ferita?»
«No, commodora. Sono idonea al servizio. In larga parte grazie a questi umani.»
Beckett stava inseguendo un pensiero da quando l’elfa aveva aperto bocca, e alla fine gli si accese la lampadina. «TATA!» esclamò. «Tu sei TATA, in carne e ossa.»
«Spinella Tappo» ipotizzò Myles. «Artemis ha usato la sua voce per il nostro programma di Intelligenza Artificiale. Mi ricordo che disse: “Così finalmente si potrà definire intelligente”. All’epoca non avevo capito cosa intendesse.»
Spinella sorrise a mezza bocca, mentre l’altra metà si torceva in una smorfia. Era un’espressione strana; caratteristica di chi aveva passato del tempo in compagnia di uno dei Fowl.
«Tipico di Artemis» disse. «Che ci crediate o meno, quel Fangosetto mi manca, con le sue battutacce e tutto il resto.»
«È stata promossa a commodora, dunque?»
«Sono al comando di una mezza dozzina di navi LEP e faccio da tutrice a specializzandi come Lazuli. Anche se non sembra che abbia fatto un buon lavoro, in questo campo.»
«Questo è vero» confermò Myles. «In quanto tutrice, avrebbe dovuto anticipare ogni scenario possibile.»
Spinella ignorò la frecciata e scese la scaletta. Scrutò la devastazione che la circondava. I carapaci ritorti e fumanti di un centinaio di droni perforati e il maniero stesso, crivellato di colpi, facevano sembrare quell’isola l’epicentro di una zona di guerra, cosa che in effetti era stata, quantomeno per qualche minuto.
«Sembrerebbe che si sia impegnata in un’operazione di recupero, specializzanda Platz» commentò. «Mi aspetto un rapporto estremamente dettagliato.»
«Certamente, commodora» disse Lazuli. «Posso spiegarle tutto.»
Myles non riuscì aa trattenersi dall’aggiungere per l’ennesima volta un’inutile puntualizzazione. «Si può spiegare la maggior parte delle cose, specializzanda. Causa ed effetto, e così via. Ma le spiegazioni servono a poco, per acclarare la moralità delle nostre azioni.»
Lazuli indicò Myles con un gesto brusco del pollice. «Commodora, non ha senso stare ad ascoltare questo umano.»
«Lo so» disse Spinella. «Ne conosco uno esattamente uguale.»
Beckett, intanto, era intento a bussare sulla fiancata della navicella, apparentemente ignaro delle torrette armate che seguivano i suoi movimenti. Spiffero invece non era ignaro delle torrette, e anzi, sembrava essere impegnato a sgranocchiarne una.
Spinella non poté fare a meno di mostrarsi spiazzata. «Sembra che ci sia un troll nano che mastica la mia nave, specializzanda.»
«È il motivo per cui mi sono lasciata coinvolgere. Il troll era alla completa mercé del duca e della suora.»
Spinella sbatté le palpebre rapidamente. «Potrei aver bisogno di un po’ di tempo per processare quest’ultima frase.»
Beckett appoggiò un orecchio alla scocca e si mise in ascolto. Dall’interno della navicella provenne la voce di una creatura fatata che parlava in tono sommesso e diceva al suo fidanzato che era al lavoro e non poteva parlare, al momento, e però di non scordarsi di rinnovare l’abbonamento a Picflix.
«Sarò meglio che mi facciano salire su questa macchina volante» disse Beckett «o saranno guai.»
Spinella sorrise, con un briciolo di senso di colpa. «Ci salirai, umano. C’è una procedura a cui devi sottoporti. Niente di doloroso, credimi.»
Beckett si strinse le mani come aveva visto fare ad Artemis nel video. «Fowl e Popolo, Popolo e Fowl, amici per sempre. Giusto?»
Myles sapeva cosa poteva essere quella procedura. «Avete intenzione di cancellarci la memoria, commodora. Abbiamo visto troppo del mondo fatato.»
«Certo che no, Myles» disse Spinella, aggiungendo poi in gnomico, rivolta a Lazuli: «Questi due umani li cancelliamo di sicuro. L’ultima cosa che serve alla LEP sono altri due Fowl che conoscono tutti i nostri segreti.»
Beckett scoppiò a ridere. «Ah-ah! Che imbrogliona. Ci vogliono proprio cancellare. Sembra divertente.»
Spinella scoccò un’occhiataccia a Lazuli, che per tutta risposta disse: «Stavo per avvertirla. Quello lì parla le nostre lingue».
«Sia come sia, è necessario» disse Spinella, riprendendosi subito. «Non è una cosa per cui propenderei, personalmente, ma ci sono regole da seguire per gli incontri ravvicinati. Gli umani devono essere cancellati, e possibilmente trasferiti con nuovi impianti leggendari.»
«Leggendari?» chiese Beckett. «Posso essere un troll? So già parlare la lingua.»
«Forse potremmo fare un’eccezione…» propose Lazuli, esponendosi per i suoi compagni umani. «Senza questi ragazzi, a quest’ora io e Spiffero saremmo in pezzi su un tavolo da laboratorio.»
«Niente eccezioni, specializzanda» disse Spinella, evidentemente a disagio per quelle norme ma determinata a seguirle. Poi aggiunse: «Spiffero?»
«Il troll nano» spiegò Lazuli. «Beckett, il secondo Fowl, gli ha dato un nome. Ed è vero che possono parlarsi tra loro.»
Spinella pareva sbalordita. «Parla anche la lingua troll? Pensavo di non potermi più sorprendere, quando si tratta della famiglia Fowl, ma mi sbagliavo. Sono tanto sorpresa quanto incuriosita, e purtuttavia il comandante Algonzo mi ripete in continuazione che la legge è legge, indi per cui dovranno essere cancellati.»
Myles giunse le mani dietro la schiena in un modo che faceva molto pensare al suo fratellone. «In tal caso, commodora» disse, «debbo eccepire un codicillo riguardante la legalità di suddetta cancellazione mnemonica. Artemis mi ha lasciato un video sull’argomento, che desidero presentare come elemento probatorio difensivo A.»
Spinella sospirò. «Quando un Fowl vuole discutere su qualcosa, solitamente ci vogliono almeno un paio d’ore, e non abbiamo tempo per questo.» Indicò i due elicotteri sospesi a mezz’aria sopra di loro. «Il sole si sta alzando e ci brucerà via la copertura della foschia. E abbiamo un intero battaglione di paracadutisti umani da trasferire.»
«E un duca» disse Beckett.
«Certo, anche il duca» accordò Spinella. «E dove possiamo trovarlo?»
«È giù nel buco, coperto di plastica.»
Spinella si strofinò la fronte. Aveva quasi dimenticato a che livelli di stranezza si potesse arrivare, quando c’erano di mezzo i Fowl. «Ma certo, ovvio. E probabilmente non è questa la cosa più strana che sentirò oggi. Molto bene, lo tireremo fuori di lì e daremo una bella sistematina nella sua testa. Niente dissezione, però, non è così che operiamo, noi.»
«Soltanto qualche cicatrice mentale, eh, commodora?» commentò Myles, sarcastico.
Spinella ebbe l’impressione di essere tornata indietro nel tempo, in quel campo minato verbale della polemica Fowl. «Myles, abbiamo delle leggi che proteggono la nostra società. E la cancellazione mnemonica non è più la tortura di una volta. Non usiamo più nemmeno il trapano.»
«Molto divertente, commodora» disse Myles. Ma dubito che ci cancellerete la memoria. Le mie argomentazioni sono piuttosto convincenti.»
«Non mi aspetto niente di meno, da un Fowl» disse Spinella, e posò una mano affettuosa sul suo collo nudo, ripetendo poi lo stesso gesto con Beckett.
Myles percepì un lieve pizzicore nel punto di contatto. «Un sedativo, commodora? Una mossa davvero subdola.»
Il tono di Spinella non era di scuse. «È soltanto un cerotto soporifero da trenta minuti. Non ci saranno effetti collaterali. Vi sveglierete, anzi, completamente rinvigoriti, e, se il video di Artemis sarà davvero convincente, magari la vostra memoria sarà ancora intatta.»
Beckett si sedette nel fango. «Mi sento il cervello che ronza» disse. «Raccontami una storia, fratello.»
Myles sentì che doveva alleviare il passaggio di suo fratello allo stato di incoscienza, e cominciò a raccontare: «C’era una volta, in una terra magica chiamata Università di Harvard, una squadra di ricerca guidata dal fisico Isaac Silvera che schiacciò due diamanti quasi incomprimibili per ottenere l’idrogeno metallico.»
Beckett gemette e chiuse gli occhi prima ancora che il cerotto facesse effetto. «Che noooia…» gemette, e fece finta di russare per qualche secondo prima che il suo tipico accordo in do maggiore prendesse il sopravvento.
Cinque secondi dopo, anche Myles cedette al potere del cerotto soporifero della LEP e si sentì accompagnare delicatamente a terra da due creature fatate che nel frattempo erano comparse ai suoi fianchi. L’ultima cosa che udì prima che un’oscurità di velluto scendesse su di lui fu Spiffero che grugniva il nome di Beckett.