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OPERAZIONE ACCIUFFAFOWL
Amsterdam, Olanda
Il comandante Diavolo Conroy, della squadra di Ranger Irlandesi che aveva l’incarico di assistere sorella Geronima in qualsiasi modo le fosse utile, considerava quella particolare missione, ossia la scorta di due bambini gemelli fino a una base segreta in Olanda, il secondo punto più basso della sua carriera.
Il punto più basso in assoluto era stato quando un generale di brigata aveva ordinato all’intera squadra di vestirsi da clown dei manga e di portare in volo un pony alla festa di compleanno della figlia. Il pony si chiamava Cacchino e volare lo rendeva sempre, per usare un eufemismo, piuttosto nervoso. Al solo ricordo di quella giornata, il comandante Conroy si sentiva ancora tremare i polsi.
Perlomeno, però, aveva capito l’obiettivo dell’Operazione Cacchino: recapitare un pony a una bambina. Quella missione – l’Operazione AcciuffaFowl, come l’avevano chiamata – era una faccenda tanto più misteriosa quanto più sgradevole. Due mesi prima, la suora spagnola era semplicemente arrivata in macchina nel campo base di Curragh, facendosi strada attraverso tutti i cancelli chiusi con una strisciata di quel suo infernale badge di plastica nera, e, in buona sostanza, ci aveva piantato le tende con il suo mezzo arsenale di gingilli ad alta tecnologia.
Quel badge nero come la pece era la prima delle cose che gli facevano venire la pelle d’oca a proposito di sorella Geronima. Quando Conroy aveva mostrato il suo tesserino di riconoscimento alla suora e le aveva chiesto di identificarsi, lei si era limitata a dare un colpetto con il badge a quello del comandante e il nero era sembrato defluire dall’uno all’altro. Mentre lui ancora fissava a bocca aperta il suo tesserino trasformato, aveva ricevuto una brusca telefonata da parte del ministro della Difesa in persona, il quale l’aveva sommariamente informato che la sua squadra era stata messa al servizio di un’organizzazione intergovernativa segretissima e che era tenuto a eseguire ogni minimo ordine di sorella Geronima fintanto che il suo tesserino non fosse tornato com’era in origine.
«E se mi rifiutassi, ministro?» aveva chiesto Conroy, spavaldo.
«Lei ci provi» era sbottato il ministro, «e si ritroverà a pulire latrine chimiche in un laboratorio di ricerca in Antartide.»
Era una minaccia decisamente specifica, e aiutò Diavolo Conroy nella decisione di eseguire gli ordini.
E così, lui e i suoi uomini altamente qualificati si ritrovavano a recapitare un paio di gemelli irlandesi in una zona industriale vicino all’aeroporto di Schiphol, affinché venissero scortati in una base segreta.
Bambini in una base segreta?!
A volte, il comandante Conroy non poteva fare a meno di chiedersi se facesse ancora parte dei buoni, e se anzi i buoni ci fossero ancora, di quei tempi.
«È tutto, comandante Conroy» gli disse Geronima non appena i pattini dell’elicottero toccarono terra. «Da qui in poi se ne occuperanno i miei uomini.»
Gli uomini di sorella Geronima scesero da due grossi SUV di cui Conroy non riuscì a identificare né marca, né modello. Due squadre di quattro militari soltanto per scortare un paio di ragazzini di undici anni addormentati.
Di sicuro è un’esagerazione, pensò Conroy; e, per un istante, cullò la pazza idea di sfidare il ministro e portare via da lì l’elicottero prima che il carico potesse essere trasferito ai veicoli di terra.
Però non lo fece. Dopotutto era un soldato, e i soldati obbediscono agli ordini. E, tuttavia, la cosa continuava a non andar giù a Conroy mentre, dopo che i passeggeri furono sbarcati, dava l’ordine di decollare, per cui si ripromise di fare qualche domanda a muso duro quando fosse tornato nuovamente a Curragh.
L’unico lato positivo di tutta quell’operazione, notò Conroy, fu che il suo tesserino si fosse scrollato di dosso la muta nera e fosse tornato del solito colore. Come se quella patina scura, o la suora stessa, non fossero mai esistite.
Per inciso, Conroy tenne fede alla propria risoluzione e, al suo ritorno in Irlanda, fece diverse domande scomode al ministro, ma le risposte che ricevette furono a dir poco elusive; Diavolo rassegnò allora le dimissioni e si portò addosso il peso della colpa per ciò che considerava un rapimento finché, quasi due anni dopo, non gli capitò l’occasione inattesa di sistemare le cose con i gemelli e di spiegare le origini del suo insolito nome.
Ma questa è un’altra storia, peraltro ancor più sorprendente del presente racconto.
La prima regola in un interrogatorio è interrogare i prigionieri separatamente, nella speranza che le loro storie possano contraddirsi l’un l’altra. Nell’arco della sua lunga carriera, sorella Geronima aveva gestito decine di prigionieri, sospetti e detenuti, e sull’argomento aveva addirittura pubblicato un libro, intitolato Todo el mundo habla finalmente (ovvero: Alla fine parlano tutti), in cui esponeva la sua filosofia inquisitoria.
È importante tenere sempre a mente, aveva scritto nella prefazione, che tutti quanti sono colpevoli di qualcosa.
Se sollecitata, Geronima avrebbe detto che il soggetto più strano che avesse mai interrogato era Gary Piumagrigia, un pappagallo africano che conosceva la combinazione della cassaforte di un capobanda londinese. Le ci erano volute qualche ora e un secchio di noccioline, ma alla fine Gary aveva spifferato i numeri.
Dopo i gemelli Fowl, il pappagallo stava per essere declassato alla seconda posizione nella lista dei soggetti strani.
Il piano di Geronima era il seguente: avrebbe messo i due gemelli in stanze adiacenti e avrebbe fatto loro domande finché non si fosse palesata qualche discrepanza, e poi avrebbe usato le divergenze nelle loro storie per creare una crepa tra di loro. Geronima era consapevole che Myles era un tipo scaltro, ma era piuttosto sicura che sarebbe crollato rapidamente sotto interrogatorio.
Quando Myles si svegliò, si rese subito conto che le cose non andavano per niente bene nel suo piccolo mondo. Tanto per cominciare, era su una sedia, il che per lui era decisamente insolito. Non il fatto di essere su una sedia di per sé, quanto quello di svegliarsi su una sedia, dal momento che Myles non era certo il tipo di bambino che si appisola a casaccio; dai due anni in poi non gli era mai capitato, nemmeno una volta, di addormentarsi su una poltrona, un divano o una sedia reclinabile.
Mi spiego meglio: il cervello di Myles era talmente attivo che il ragazzo era costretto a praticare una routine di rilassamento serale per riuscire a disinnescare le sinapsi. Quella routine comprendeva l’inserimento del paradenti notturno e poi l’esecuzione degli esercizi di autoipnosi, concentrandosi sul russare bizzarramente musicale di Beckett. Tecnicamente parlando, il russare di Beckett non corrispondeva a un vero e proprio russare, bensì a un trio di fischi che esalava dalle narici e dalla bocca. Quel triplo soffio era già di per sé piuttosto insolito, ma la cosa veramente straordinaria era che ogni orifizio produceva una nota diversa. Note che si combinavano fino a creare un perfetto accordo in do maggiore, che a Myles non mancava mai di ricordare la prima Messa di Beethoven.
In quel momento Myles non sentiva l’accordo e capì di essere stato separato dal gemello. Si guardò intorno e scoprì di trovarsi in una stanza sotterranea con colonne di pietra e volte a crociera. Non c’erano elementi visivi che permettessero di stabilire che si trovava sottoterra, ma Myles aveva istintivamente capito – forse per via della pesantezza dell’aria, o della pressione che si sentiva nel cranio – di essere al di sotto del livello del mare. Il cranio di Myles era particolarmente sensibile, e il minimo cambiamento atmosferico poteva provocargli l’emicrania.
Sorella Geronima era seduta dall’altra parte di un tavolo. Strano a dirsi, la suora era intenta a lucidare un coltello da lancio con un panno di camoscio.
Che tristezza, pensò Myles. Che patetico tentativo d’intimidirmi. Geronima si aspetta che io noti il coltello, comprese, in modo che la mia paura le dia un vantaggio.
«Buenas tardes, Myles Fowl» disse la suora senza alzare lo sguardo dalla lama. «Avrai molte domande da farmi.»
In effetti c’erano diverse cose che Myles voleva sapere, ma aveva anche risposte da dare, sempre che qualcuno fosse interessato a fargli le relative domande.
Avrebbe potuto chiedere: “Dove sono, di preciso?”.
Oppure, senza dubbio: “Chi rappresenta lei, esattamente?”.
O ancora, senz’altro: “Che cosa volete da noi?”.
Myles sapeva che, se avesse finto di essere un ragazzino sciocco e spaventato per carpire quelle informazioni, Geronima se ne sarebbe accorta subito; dopotutto, la sua intelligenza era ben nota.
Per cui, anziché sommergerla di domande, disse: «Ci ha sedato con le maschere a ossigeno dell’elicottero. Un trucco deplorevole, sorella».
Geronima non mostrò il minimo imbarazzo. «I livelli sono delicati da regolare. C’è chi si addormenta.»
«Così poi lei è libera di trasferirlo nella sua base sotterranea senza problemi. Suppongo che ci troviamo ad Amsterdam. O forse Rotterdam, ma immagino sia Amsterdam. Mi piace Amsterdam. Il museo della scienza NEMO è una meraviglia, anche se ho qualcosa da ridire sull’EYE, il Museo del Cinema, dal punto di vista squisitamente architettonico. Ho scritto diverse lettere all’amministrazione.»
Geronima rivolse tutta la sua attenzione a Myles. «Molto acuto. Come fai a sapere che siamo ad Amsterdam?»
Normalmente sarebbe stata una risposta facile per il chip TATA inserito negli occhiali di Myles. La mappa del loro viaggio era comparsa nella parte interna delle lenti, visibile soltanto da lui. Sfortunatamente, TATA aveva perso il campo una volta usciti dall’aeroporto di Schiphol, per cui Myles era stato costretto a fare una stima ragionata della loro posizione.
«Non ha importanza» disse. «Sono sicuro che avrà delle domande da farmi.»
«Oh, sì» disse Geronima. «Ho delle domande, ma forse anche qualche risposta. Posso dirti dove si trova tuo fratello.»
Myles si strofinò la cicatrice sul polso. «Non serve. Beckett è nella stanza accanto.»
«Riesci a percepire il tuo gemello?»
«Le nostre cicatrici formicolano come una specie di radar spirituale» rispose Myles. «Di solito riesco anche a vederlo.»
«Non preoccuparti, chico» disse Geronima. «Presto sarete di nuovo insieme. È stato necessario separarvi per un breve periodo, considerata la vostra particolare situazione.»
«E quale sarebbe, questa particolare situazione?»
Quella era una domanda sincera. Nel corso degli anni, i Fowl erano stati coinvolti in un gran numero di situazioni particolari.
«La situazione elfica» disse Geronima, mettendo una carta di plastica nera sul tavolo.
Myles non la toccò e non tentò nemmeno di effettuare una scansione con i suoi occhiali speciali. Anche le più elementari carte di credito disponevano di tecnologia fotonica, ormai. Geronima aveva tirato fuori la sua in modo tanto plateale da convincere Myles che fosse piena zeppa di sensori avanzati in grado di rilevare una scansione. E allora avrebbe perso i suoi preziosi occhiali e ogni contatto con TATA, dal momento che l’orologio da polso e il cellulare erano rimasti a Villa Eco, accanto al letto.
«Non preoccuparti, niño» disse Geronima, percependo l’esitazione del ragazzo. «È soltanto una carta. Facciamo alla vecchia maniera, da queste parti. Non c’è nemmeno internet.»
Myles attivò i suoi sensori organici, ovvero gli occhi. A una prima occhiata, il tesserino gli parve vuoto, poi però Myles notò sette lettere in rilievo.
«ACRONYMO» lesse. «Immagino che ACRONYMO sia un acronimo.»
«Sì, correcto, Myles» confermò Geronima. «ACRONYMO sta per: Asociación para el Control, la Regulación, y la Observación de los No-humanos y la Magia Obscura.»
«Mi sta dicendo che l’acronimo di ACRONYMO è ACRONYMO?» chiese Myles. «Mi pare un po’ forzato, se posso permettermi. E funziona soltanto con lo spagnolo.»
«Tu saresti in grado di trovarne uno migliore, chico?» disse Geronima. Una mossa imprudente, visto che Myles era sempre stato un genio coi giochi di parole.
«Certo che sì» disse il ragazzo con gli occhiali. «Vediamo… Così, di getto, che ne dice di ARPIA? Associazione Rapitori e Persecutori di Infanti Abbandonati. Ho aggiunto un secondo livello all’acronimo, collegando il significato della parola all’attività dell’organizzazione.»
Geronima gli rivolse un sorriso tirato. «Molto divertente. Ma anche vagamente offensivo, no?»
«Capisco cosa intende. Proviamone un altro, allora: ELFO. Ente Localizzazione Fenomeni Occulti. Posso inventarne qualcuno in spagnolo, se preferisce…»
Geronima fece spallucce. «Inglese, spagnolo… non ha importanza. Il nome no es importante; sono le nostre azioni che contano. Siamo un’organizzazione internazionale intergovernativa incaricata di monitorare le attività del Popolo.»
«Los no-humanos» disse Myles, senza preoccuparsi di celare un sogghigno. «E allora mi dica, sorella, supponendo che ignori il ridicolo presupposto alla base dell’esistenza stessa del suo gruppo: cos’è che vuole da noi l’ACRONYMO?»
«Nada. Non vogliamo niente» disse Geronima, sgranando gli occhi. «Vi stiamo solo proteggendo.»
Myles scoppiò a ridere. «Da uno sparo? Perché dei cacciatori di creature fatate dovrebbero preoccuparsi per una fucilata umana? Ci hanno fatto il pelo, tutto qui.»
«Non c’importa dello sparo, però siamo fortemente interessati alla sparizione dell’isola.»
«Qui mi coglie impreparato» disse Myles. «Non ho davvero idea di cosa stia parlando.»
Il che non era del tutto vero.
La suora socchiuse gli occhi e cominciò a far roteare il coltello da lancio sul tavolo. «Dopo lo sparo, Villa Eco per un momento è scomparsa, prima di tornare di nuovo visibile. Noi non disponiamo di una tecnologia simile, per cui deve trattarsi di magia.»
Myles rise di nuovo. «Dice sul serio, sorella? La magia è la vostra prima ipotesi? E perché non gli alieni? Perché non gli universi paralleli? I suoi ragionamenti hanno una falla fatale, temo.»
Con un tonfo secco, Geronima piantò il coltello nel tavolo, dove rimase a vibrare, tremulo. «Stammi bene a sentire, niño. Sotto i nostri piedi c’è un’altra razza, che dispone di armi superiori e tecnologia avanzata. Alcuni anni fa si verificò un evento che mandò in tilt l’intero pianeta. Aeroporti, ospedali, tutto. Ci sono voluti anni, perché la nostra civiltà si ristabilisse, ed è costato miliardi. Molti governi sono crollati.»
Myles sospirò, per nulla turbato dal giochino del coltello. «È una notizia datata, sorella. Di cinque anni, per la precisione. Lo sanno tutti del Grande Buio.»
«Sì, il Grande Buio. Un nome a effetto, vero?»
Myles non riuscì a impedirsi di commentare: «Sempre meglio di ACRONYMO».
Geronima ignorò la provocazione. «Il pianeta fu precipitato nel Medioevo. E in tutto il mondo ci furono avvistamenti di strane creature dalle orecchie appuntite che comparivano all’improvviso e che, con la stessa rapidità, svanivano nel nulla. La tenuta dei Fowl è stata l’epicentro di questo evento. E, da allora, vi abbiamo tenuto d’occhio e abbiamo aspettato un buon motivo per intervenire. Queste creature potrebbero ricomparire da un momento all’altro. E la prossima volta potrebbero decidere di non scomparire.»
«E adesso Villa Eco è scomparsa e ricomparsa?»
«Esattamente, per cui sembrerebbe che il Popolo voglia tenere voi due chicos al sicuro per chissà quale motivo.»
«… E se ci hanno salvato una volta potrebbero salvarci di nuovo» ragionò Myles, grattandosi vigorosamente il capo. «Quindi siamo delle esche?»
«Se vuoi metterla così…» disse Geronima. «L’isola di Dalkey è sotto il vostro dominio, ma qui ho tutto sotto controllo.»
«E potete trattenere due minori a cui hanno fatto il pelo senza tutori legali né supervisione?»
Geronima sorrise. «Ma voi due non siete minori tutelati dalla legge.»
Myles afferrò subito l’antifona. «Capisco. Abbiamo attivato un GEM, ragione per cui siamo considerati terroristi.»
«Exactamente» disse Geronima, inchinandosi appena sulla sua poltrona.
Myles apprezzò l’eleganza del piano di Geronima. «E, in quanto terroristi, possiamo essere detenuti in maniera indefinita.»
«Non preoccuparti, chico. Vi rilasceremo non appena avremo catturato un rappresentante del Popolo.»
Myles guardò Geronima dritto negli occhi e vi lesse un entusiasmo prossimo al fanatismo per il suo incarico.
Dobbiamo fuggire da qui, si rese conto. Le cose non finiscono mai bene per l’esca, in genere. Basta chiedere a un verme sull’amo.
«Quando potrò vedere mio fratello?» chiese, grattandosi dietro un orecchio.
«Presto» disse Geronima, facendo scivolare il coltello in una tasca segreta della manica. «Prima parlerò con lui. Forse Beckett vorrà condividere con me alcuni segreti dei Fowl.»
Myles quasi si dispiacque per sorella Geronima: Beckett era in grado di instillare il germe del dubbio sui propri principi fondamentali perfino negli individui più solidi. Geronima sarebbe tornata dall’interrogatorio con Beckett più confusa di prima.
Segui il piano, fratello, trasmise attraverso la parete. Ricorda la nostra via di fuga.
Beckett Fowl si era svegliato con gli occhi assonnati, il che per lui era decisamente insolito. In genere esplodeva dal sonno alla veglia in un nanosecondo, impaziente di esplorare un’altra giornata di possibilità. Quella sera, invece, si sentiva stanco e scontroso. Era successo soltanto un’altra volta: quando aveva avuto gli orecchioni, a otto anni, e aveva sviluppato uno spaventoso ingrossamento del collo che lo faceva sembrare una rana toro, e che, una volta abituato, aveva cominciato ad amare. Aveva perfino dato un nome al bozzo: Bertram.
Come dimostrava il battesimo di Bertram, tuttavia, Beckett era troppo incontenibile per restare triste a lungo; e infatti, quando notò il coltello da lancio tra le mani di sorella Geronima, il suo umore si ravvivò immediatamente.
«Bel pugnale, sorella» disse, allungando una mano sul tavolo tra loro per toccare la lama che scintillava maligna e letale.
«Sì, Beckett» disse Geronima. «Questo coltello in particolare, verso cui stai allungando il tuo morbido ditino rosa, è stato immerso in una soluzione mortale di belladonna. Un veleno davvero tremendo.»
«Perché te ne vai in giro con un pugnale?» chiese Beckett, ritirando riluttante il suo morbido ditino rosa.
Lo sguardo di Jeronima era tagliente quasi quanto la sua lama. «Zombie, Beckett Fowl. Hai mai sentito parlare di queste creature? Quando l’apocalisse si abbatterà su di noi, questa suora non si farà trovare impreparata.»
Beckett decise che era un’ottima risposta. Geronima era davvero una donna saggia. «Conosci qualche zombie?»
«Non si possono propriamente conoscere gli zombie, signorino Fowl. Sono interessati soltanto a divorare cervelli. Il veleno di belladonna è molto efficace nell’impedire che ti divorino il cervello.»
«Divorarmi il cervello» ripeté Beckett. «Fico.»
«Non conosco zombie» proseguì la suora, con un’armoniosa transizione alla propria area di interesse, «ma conosco altre creature che non sono umane.»
«Anch’io» disse Beckett.
Geronima finse tranquillità. «Ma davvero, chico? E quali creature conosci?»
Beckett si allontanò fastidiosamente dall’argomento. Tirò su la manica sinistra della maglietta e rivelò un segno rosso.
«Questa voglia ce l’ho dalla nascita» spiegò. «La chiamiamo Infinita perché Myles dice che somiglia al simbolo dell’infinito, ma questo soltanto perché non capisce niente del mondo reale. In realtà somiglia al mio pesce rosso, Gloop, che è morto. Ma due Gloop sono troppi Gloop.» Indicò la cravattina. «Questo è il vero Gloop, se vuoi metterli a confronto.»
Sorella Geronima sapeva della voglia a forma di infinito di Beckett. Era ben nota, e ne aveva anzi una fotografia ingrandita nel suo fascicolo, ripresa dai registri dell’ospedale.
«Oh, chico» disse. «Che bel modo di ricordare il caro Gloop, anche se non era umano. E ti ricordi quando ti ho chiesto se conoscevi altre creature che non erano umane, e tu mi hai detto che sì, le conoscevi?»
«Certo che mi ricordo» disse Beckett. «Conosco un delfino.»
«Ah» fece Geronima, delusa.
«E alcune creature alate.»
Questo riaccese l’interesse di Geronima. «Davvero?»
«Ho incontrato dei gabbiani, venendo qui.»
Un’altra delusione. «Capisco.»
«E ci sono dei corvi, sull’isola.» Beckett balzò in piedi sulla sedia. «A volte li chiamo. Craa! Craa! Sono io, Beckett. Craa! Sono il loro re.»
«Molto bene, Beckett. Adesso però siediti, niño.»
Beckett non si sedette. Simulò un binocolo con le mani e studiò gli archi di pietra. «Somiglia a una chiesa, o un castello sotterraneo.»
«In realtà è un po’ tutte e due le cose» disse Geronima. «Questa era una chiesa nascosta, risale al periodo in cui il cattolicesimo era illegale. Il mio gruppo usa questo spazio sotterraneo come base segreta. Voglio dire, come spazio sicuro.»
Lo sguardo di Beckett si fece vitreo. «Che storia noiosa, Geronimo.»
«Geronima» lo corresse la suora.
«Che storia noiosa, Geronima» ripeté Beckett. «Perché interessarsi alla storia quando in giro ci sono elfi volanti in sella a biciclette invisibili?»
Geronima tossì un paio di volte e fu lieta di non aver avuto dell’acqua in bocca. «Elfi, chico?»
«Be’, quantomeno un elfo» ammise Beckett. «Io e Myles sappiamo tutto degli elfi e delle altre creature del Popolo. Artemis ci ha raccontato molte storie. Artemis è il nostro fratellone… È andato nello spazio.»
«Quali storie?»
Beckett si capovolse sulla sedia, poggiando le spalle sul sedile e mettendo le gambe contro lo schienale. Rese la sua posizione ancora più precaria spingendo la sedia all’indietro su due gambe con un piede.
«Una sul lemure che viaggia nel tempo. Non è una scimmia, se non lo sapessi. Una sul guerriero fantasma che si era impossessato del mio corpo. Per tua informazione, mi formicolava tutto. E la mia preferita, quella sul nano che faceva cacche di fango, una gran cosa per l’ambiente, in verità. E poi ci sono demoni che vivono in un’altra dimensione, e il folletto furioso che si fa esplodere in un cilindro nucleare.»
Stiamo andando un po’ fuori tema, si disse Geronima.
«Parlami di quell’elfo invisibile» disse la suora.
Beckett si raddrizzò. «Ma certo» disse. «Prima, però, Myles.»
«Myles sta dormendo» disse Jeronima.
Beckett la guardò con aria sconvolta. «Questa è una bugia, sorella. Mio fratello dice che non bisogna mentire mai, a meno che non sia per un proprio tornaconto.»
«Quale fratello?» chiese Geronima.
Beckett ci pensò per un istante, prima di rispondere. La sua espressione, mentre lo faceva, era di sorpresa, come se non riuscisse a credere a quel che stava accadendo.
«Entrambi» disse. «E anche mio padre.»
Geronima si finse innocente. «Myles sta davvero dormendo. I miei soldati mi hanno assicurato che dormiva come un sasso.»
«No» la contraddisse Beckett. «È nella stanza accanto, perfettamente sveglio e in piena riflessione.»
«Cosa sta pensando Myles, niño?» chiese Geronima, chiedendosi quanto fosse realmente forte il legame tra i gemelli.
«La stessa cosa che sto pensando io» disse Beckett, grattandosi la testa contro la sedia. «Perché ho tutto questo prurito?»
Sorella Geronima scortò Beckett alla porta accanto e i gemelli si ritrovarono. Si strinsero formalmente la mano prima di abbracciarsi, così da soddisfare la sensibilità di entrambi.
Myles squadrò Beckett dalla testa ai piedi. «Vedo che sei illeso, fratello.»
«Questo posto però mi ha rotto le scatole» disse Beckett.
«Suvvia» lo ammonì il gemello. «Non usiamo espressioni come “rompere le scatole”. Sono gergalismi.»
«Posso dire “Questo posto mi puzza”?»
«Anche qui, inaccurato. C’è un po’ di umidità, certo, ma è una cosa di fatto inevitabile in qualsiasi cripta sotterranea.»
«Sotterranea» disse Beckett. «Lo sapevo. Per via dell’aria più pesante.»
«Questa frase è soddisfacente» approvò Myles. «Dato che un gas può essere compresso, la sua densità dipende tanto dalla pressione quanto dalla temperatura, per cui in effetti l’aria sotterranea è, a livello atomico, più pesante.»
Beckett si lasciò sfuggire un gemito. «L’ho appena detto. Perché devi prendere tutto quello che dico e renderlo noioso?»
Myles alzò un dito saccente. «L’istruzione porta alla conoscenza, che a sua volta porta al potere.»
Geronima stava cominciando a simpatizzare con Beckett.
«A nessuno piacciono i sabelotodos, Myles. i… Com’è che si dice, da voi? I saputelli, convinti di sapere tutto.»
Myles si risentì. «Ma non so affatto tutto, sorella. Non esiste nessuno che sappia tutto. Ci vorrebbero un’infinità di vite per conoscere anche soltanto una minima frazione del tutto. E più si impara…»
«… meno si sa. ¿Correcto?» Sorella Geronima completò la massima nella speranza di interrompere la lezioncina del ragazzo.
«Più si impara, meno si sa?!» esclamò Myles, inorridito. «Ma che ridicoli vaneggiamenti sono questi? Come si può imparare di più e sapere meno? Ovviamente, stavo per dire: “Più si impara, più si sa”. Davvero, sorella, è questo che passa per intelligenza nella comunità dell’intelligence?»
«Non intendevo dire letteralmente.»
«Non posso certo indovinare quel che intendeva dire, sorella. Io mi limito a interpretare le sue parole e a trarre deduzioni dal movimento delle sue pupille, del suo corpo, e dal portamento generale. Non sono dotato di telepatia.»
Geronima stava cominciando a sospettare che forse non era l’unica esperta in interrogatori, in quella stanza.
«Muy bien, Myles Fowl» tagliò corto. «Sei stato chiaro. Sarò meno disinvolta nell’uso dei proverbi, in futuro.»
Myles era ancora sconvolto. «“Più si impara, meno si sa”, figurarsi. Se davvero fosse così, tutta la mia vita sarebbe priva di senso, priva di scopo. Dobbiamo ricercare la conoscenza con tutte le nostre forze. Gli umani non possono far altro che grattare la superficie di questa vita e sperare di ricordare tutto a ogni singola reincarnazione.»
Beckett udì la parola “grattare” e si ricordò di grattarsi, cosa che fece subito. E, visto che grattarsi è un’azione contagiosa quasi quanto sbadigliare, Myles si trovò ben presto a imitarlo.
«Madre de Dios» disse Geronima, irritata dall’ennesima distrazione dal suo interrogatorio. «Ma cos’avete da grattarvi così?»
«Mi pare evidente che sia per il fatto che le nostre teste sono fastidiosamente pruriginose» sbottò Myles.
«Secondo me vuole soltanto dire che prudono» disse Beckett.
«Sì, intendo dire che prudono. È cominciata in elicottero. Avevo sospettato una qualche forma di reazione allergica, ma ora tenderei a credere più a una qualche infestazione parassitica.»
Sorella Geronima si ritrasse. «¿Los parásitos? No, non lo permetterò.»
Myles sbuffò. «Il suo permiso è del tutto irrilevante per i parassiti, sorella. I parassiti tendono a non sapere l’inglese. Né lo spagnolo, se è per questo.»
«La maschera soporifera prudeva» disse Beckett grattandosi l’attaccatura dei capelli con le nocche.
Geronima era scettica. Dopotutto, non erano forse quelli i fratelli di Artemis Fowl, uno dei più grandi intriganti del pianeta?
«Ven aquí, chico» disse a Beckett, che le si accostò immediatamente senza bisogno che gli si traducesse quell’ordine, cosa che Geronima avrebbe dovuto subito notare, dal momento che lo spagnolo non era indicato nel dossier del ragazzo, ma era troppo concentrata a smascherare quella pagliacciata del prurito.
«Lo sapevo» disse, passando le unghie curate tra i capelli di Beckett. «Non c’è niente…»
E invece qualcosa c’era.
Piccoli insettini bianchi, che scoppiavano come minuscole bolle sotto le sue unghie.
«¡Madre di Dios!» gridò, facendo un passo indietro. «¡Piojos! Pidocchi!»
E, benché fosse vero che sorella Geronima Gonzalez-Ramos de Zárate era nel giro dei servizi segreti da diversi decenni e non aveva mai battuto ciglio di fronte alla morte, esistono a questo mondo ben pochi individui in grado di vedere un cranio brulicante di pidocchi senza provare un fremito di repulsione. Nel caso di Geronima, il fremito fu così intenso che, per un istante, sembrò ballare.
«Oh, per l’amor del cielo» sbottò Myles. «Se, come sospetto, siamo preda del Pediculus humanus capitis, non c’è motivo di allarmarsi tanto. Basterà una serie di trattamenti con un apposito sciampo.»
«Nooo!» disse Beckett, sconvolto. «Gli insetti sono miei amici.»
Sorella Geronima riprese un contegno. «Le mie scuse, bambini. Non abbiate timore, striglierò la squadra di elicotteristi per questa infestazione, ma non possiamo permetterci il lusso di perdere tempo. Non ci sarà nessuna serie di sciamp… amenti.»
«Sciampi» la corresse Myles. «E se non ci saranno i dovuti trattamenti, lei che suggerisce? Un metodo barbarico, non c’è dubbio…»
A Geronima venne un’idea. Un’idea che le era stata inoculata nella mente da Myles durante il suo interrogatorio in solitaria.
«No. Niente di barbarico. Ci limiteremo a fare il pelo a entrambi.»
Myles finse di essere atterrito. «Vorrebbe rasarci la testa? È così che trattate i vostri ospiti?»
«È così che tratto gli ospiti infectados» disse Geronima con fermezza da suora. Alzò una mano e schioccò le dita. Qualcuno li stava osservando, ovviamente, perché pochi secondi dopo entrarono nella stanza due massicce figure con tute anticontaminazione giallo limone, complete di caschi e maschere in stile apicoltore.
«Per l’amor del cielo» esclamò Myles. «Non le sembra di esagerare? Siamo due ragazzini coi pidocchi, mica alieni radioattivi.»
«Voi non siete semplici ragazzini» replicò sorella Geronima. «Siete due Fowl. C’è una grossa differenza.»
Myles accettò questa sorta di complimento rovesciato con un cenno del capo. Era vero. I gemelli Fowl erano eccezionali, anche più di quanto pensasse la loro aguzzina.
«Portateli via» ordinò Geronima agli scagnozzi. «Rasate los niños. Rendeteli totalmente privi di capelli, e bruciate anche i vestiti, fino all’ultima fibra.»
«Niente capelli!» esultò Beckett. «Una novità!»
«Sono meno entusiasta sulla nostra imminente tosatura di quanto non lo sia mio fratello» disse Myles. «Ma non apprezzo la presenza di insetti ematofagi così vicino al mio cervello, da dov’è plausibile che possano in qualche maniera corrompere il mio fluido cerebrospinale, il che potrebbe, in teoria, interrompere in qualche modo il mio processo intellettivo. Immagino quindi che una rasatura completa sia praticamente a prova di errore.»
«Praticamente» confermò Geronima. «Ma, per esserne assolutamente certi, useremo anche le lance a vapore.»
«Lance!» gracchiò Beckett, al settimo cielo.
Lance e rasatura! Quello era di sicuro un giorno memorabile.
«Almeno quaranta gradi» si raccomandò Myles. «Altrimenti sarebbe inutile.»
«Precisamente» concordò sorella Geronima. «Prima la lancia, poi la rasatura. E poi di nuovo la lancia, per buona misura.»
Gli scagnozzi in tuta annuirono; se però fosse stato presente uno studioso di cinesica, ossia il linguaggio del corpo, avrebbe probabilmente notato che, nonostante il cenno di assenso, uno dei due pareva trovare piuttosto angoscioso il concetto di rasatura completa. Quando trasalì, infatti, il materiale plastico della tuta mandò uno scricchiolio ben udibile dai presenti. Forse perché l’uomo aveva visualizzato la rasatura forzata della sua stessa barba, che aveva orgogliosamente curato con cento colpi di spazzola al giorno negli ultimi centotrentadue anni.
Avrete senza dubbio già intuito che il secondo scagnozzo in tuta altri non era che il nostro cattivo, Lord Teddy Sang-Uisuga che, per inciso, non disdegnava travestimenti e sotterfugi. Uno dei suoi eroi, infatti, era quel Guy Fawkes che aveva progettato la tristemente nota Congiura delle Polveri per far saltare in aria il palazzo del Parlamento inglese; lo stesso piano che il duca di Scilly aveva accarezzato per qualche tempo, anni addietro, quando la Camera dei Comuni aveva messo al bando la caccia alla volpe. Il fatto che a dei plebei fosse concesso di intimare a un signore cosa potesse cacciare o meno sulle proprie terre gli faceva venire l’orticaria.
A parte questo: come diavolo aveva fatto Teddy a infiltrarsi nella base segreta dell’ACRONYMO? Ecco una domanda sensata che merita una risposta. E la risposta è forse più diretta di quanto non si possa pensare, considerando l’efficacia dei moderni sistemi di sicurezza. Il problema con tali sistemi è che, da qualche parte lungo la catena, c’è sempre un anello umano. E gli esseri umani sono invariabilmente fallibili, spesso inesperti e di tanto in tanto anche un po’ tardi. L’umano che Lord Teddy aveva incontrato riuniva in sé tutti e tre i pregi.
Ricapitolando, come si suol dire.
Ricorderete che quasi tre ore prima il proiettile Myishi CV di Lord Teddy aveva avvolto il troll nano in una pellicola di cellophane con codice radioattivo, caso mai la sua preda dovesse in qualche modo spostarsi dall’area di caccia. Quando era accaduto, ricorrendo a un elicottero dell’esercito il duca si era precipitato al molo e aveva tirato via l’incerata che copriva un velivolo ultraleggero pieghevole, che solitamente stipava nel retro del suo yacht come fosse una moto d’acqua. Con l’aiuto di una catena aveva fatto spiegare le ali, che portavano inciso il suo stemma personale, poi era salito nell’abitacolo a due posti e si era messo in volo sulla scia dell’elicottero Westland.
Lord Sang-Uisuga aveva acquistato l’idrovolante dal suo vecchio amico Ishi Myishi, che si fregiava di rifornire la maggior parte dei criminali più esigenti del mondo. Lo slogan della compagnia di Myishi, peraltro, recitava quanto segue: Il novanta per cento dei migliori geni criminali del pianeta non può sbagliare, e il restante dieci per cento è in carcere.
A Teddy veniva da sorridere ogniqualvolta ripensava a quello slogan. Myishi era di sicuro un genio del marketing, oltre che della tecnica.
Lo Skyblade Myishi era una creazione superlativa, impreziosita da alcuni accorgimenti pensati su misura per le necessità di ogni bracconiere. Accorgimenti quali una fusoliera in alluminio rivestita di materiale quantico mimetico, grazie al quale di notte il velivolo era virtualmente invisibile a occhio nudo o a un apparato elettronico, e una rete da caccia piombata in grado di trasportare grandi animali per diverse centinaia di chilometri. Il duca adorava il suo piccolo aereo e aveva già preordinato una macchina volante alla Myishi, che sarebbe stata in produzione cinque anni prima che qualsiasi forza di polizia del pianeta potesse metterci le mani sopra. Non esistevano confini, per un uomo con un motore volante a lungo raggio.
Lo smartphone di Lord Teddy si era sincronizzato con il sistema di navigazione dello Skyblade, e in quattro e quattr’otto aveva estrapolato la destinazione più probabile per l’elicottero dell’esercito. Così, due ore dopo, a tarda notte, prima ancora dell’arrivo dei gemelli Fowl, lo Skyblade era planato nello spazio aereo olandese. Teddy si era posato illegalmente sui moli occidentali di fronte al Palazzo di Giustizia, il che gli era parsa una piacevole ironia della sorte, ed era rimasto in attesa nell’ombra di una chiatta per le feste ormeggiata nel canale mentre i rapitori di troll facevano il loro ingresso in città.
Amsterdam stava chiudendo i battenti per quella sera, ma c’era ancora qualche gruppetto di irriducibili festaioli che ancora si aggirava lungo i moli; nessuno di loro, però, aveva notato il velivolo leggero che tagliava la verde seta della superficie del canale come le forbici di un sarto. Lord Teddy si era ritrovato a canticchiare un’aria sulle note di You’ll never walk alone, che nel frattempo veniva storpiata da un ultimo gruppo di ubriaconi appassionati di calcio. Il duca aveva accarezzato l’idea di avvolgirestringere quel manipolo nel cellophane per fare un po’ di pratica ma aveva subito scartato l’ipotesi.
Prima il dovere, poi il piacere, Ted, si era detto. Non sai che non bisogna perdere di vista l’obiettivo?
Lo sapeva bene.
Se c’era una cosa che il duca di Scilly aveva imparato nel corso dei decenni, era l’arte della concentrazione.
Non aveva dovuto aspettare a lungo. Come il computer di bordo dello Skyblade aveva predetto, l’elicottero dell’esercito era atterrato nella zona di Schiphol – non nell’aeroporto vero e proprio, però, bensì nella zona industriale adiacente. Quella lieve deviazione rispetto alla traiettoria prevista del segnalatore aveva mandato Lord Sang-Uisuga su tutte le furie e aveva anche messo in chiaro il fatto che i suoi avversari disponevano di un ottimo aggancio politico. Mentre lui, per un puntiglio dei regolamenti internazionali sul volo, era stato costretto a introdursi in Olanda evitando di farsi intercettare dai radar dell’aviazione, a quell’elicottero si dava licenza di atterrare accanto all’aeroporto, dove non ci sarebbe stato nessun controllo dei passaporti. Molto comodo, per loro.
Ciò detto, Teddy non poteva strepitare troppo a lungo, poiché il segnalatore del troll reclamava tutta la sua attenzione mentre si dirigeva pulsando verso il centro della città. Il duca aveva abbassato le ali dello Skyblade in posizione di supporto acquatico e si era preparato a pedinare con discrezione i suoi nemici, ovunque potessero essere diretti nella città dell’acqua. Venti minuti più tardi, era stato ricompensato dalla vista di un convoglio ridotto che gli era passato accanto, sui moli. Due SUV modificati per essere super furtivi. Teddy aveva pensato che gli ricordavano delle pantere in agguato nei dintorni di uno specchio d’acqua.
Molto belli, aveva pensato, chiedendosi per un istante se per caso Myishi non avesse cominciato a fornire materiali anche alle forze governative.
Improbabile. Nei pagamenti, i criminali sono più puntuali dei governi.
Come un’ombra, Lord Teddy aveva pedinato le automobili nere, restando sul lato opposto del canale, al riparo delle ingombranti chiglie di chiatte e case galleggianti. Per un caso incredibilmente fortunato, il punto di ammaraggio del duca era a circa un chilometro e mezzo di distanza dalla destinazione del convoglio, che pareva essere un chiassoso bar all’angolo del Prisengracht.
Un bar, aveva pensato Teddy, lasciando che lo Skyblade scivolasse dietro la murata di una casa galleggiante. Ma perché mai i servizi segreti dovrebbero scegliere l’unico punto affollato di tutta la stramaledetta strada?
Gli era venuto in mente che uno dei due mocciosi poteva aver avuto bisogno del bagno.
Non era così: dalle macchine era scesa l’intera compagnia ed era entrata nel locale, raggruppata in un manipolo irregolare di persone che un passante avrebbe potuto immaginare casuale, ma che Lord Teddy aveva riconosciuto come una formazione difensiva.
I gemelli sono in mezzo a quel crocchio. Ci scommetto le anguille elettriche.
E dove c’erano i gemelli, doveva esserci anche il duca… Ne andava del suo futuro, prevedibile e imprevedibile.
Teddy era riluttante a lasciare lo Skyblade ormeggiato a un molo pubblico, ma i sistemi antifurto del velivolo erano considerevolmente più drastici delle versioni legali. Qualsiasi ladro avesse avuto l’ardire di posare un dito sulla cloche biocodificata dell’aereo si sarebbe ritrovato una scarica elettrica da diecimila volt in corpo, ragion per cui il duca si sentiva ragionevolmente fiducioso del fatto che lo Skyblade sarebbe stato al sicuro da scansafatiche e buoni a nulla.
Aveva attraversato lesto il ponticello arcuato verso il bar, con le suole gommate degli stivali che squittivano sull’acciottolato come se il duca stesse pestando un topo a ogni passo.
Amsterdam non cambia mai, aveva pensato, mentre i familiari afrori di birra stantia e sudore cavalcavano la musica a tutto volume fuori dalla porta aperta. È sempre una città di marinai che vengono qui a sperperare la paga.
Sperperare non era nella natura di Lord Teddy, specialmente quando si parlava di tempo, per cui aveva messo da parte ogni dubbio che potesse aver nutrito sul fatto di lasciare là fuori la sua spettacolare macchina volante e aveva fatto un rapido giro di perlustrazione a passo di corsa attorno all’edificio, che, come gran parte delle case un po’ sbilenche di Amsterdam, si appoggiava pesantemente al vicino come un compagno ubriaco.
Il congegno rilevatore incorporato nell’orologio da polso aveva emesso un suono simile a una goccia d’acqua, informando Teddy che la sua preda si trovava ora al di sotto del livello del mare.
Sono scesi in una qualche sorta di scantinato, aveva pensato il duca. Questo è uno spiacevole sviluppo.
Spiacevole perché le fortezze sotterranee sono notoriamente difficili da infiltrare, motivo per cui i guerriglieri usavano spesso i tunnel per ripararsi dagli attacchi delle forze nemiche. E Teddy aveva ricordi decisamente spiacevoli di quella volta in cui si era trovato ad azzuffarsi con un atletico boero sudafricano in una polverosa catacomba sotto il veld.
Quel disgraziato ha avuto la faccia tosta di tirarmi la barba, aveva rivangato Teddy. Una cosa davvero inammissibile.
Si era quasi rassegnato a un ennesimo periodo di appostamento quando era giunto a una stretta rampa di scale che scendeva giù, verso una porta nascosta nell’ombra. I gradini erano stati compressi da secoli e secoli di pressione esercitata dagli edifici adiacenti ed erano irregolari come i tasti di un pianoforte sbilenco.
A-ha!, aveva pensato Teddy. Forse sarebbe stato possibile scardinare quella porta con un po’ di forza bruta, e infiltrarsi da lì.
Alla fine non c’era stato bisogno di forza bruta – perlomeno con la porta – visto che, di punto in bianco, si era semplicemente aperta e ne era emerso un tizio allampanato, coperto dalla testa ai piedi da una tuta antiradiazioni gialla, che si era messo a digitare furtivamente sulla tastiera del telefonino, mentre con un piede teneva aperta la porta d’acciaio.
Scommetto che dentro non prende, aveva pensato Teddy. E sarei pronto a scommettere anche che Johnny Messaggino sta infrangendo il protocollo.
Lord Teddy aveva vinto entrambe le scommesse e, non essendo mai stato un tipo da guardare in bocca a caval donato, si era infilato una mano in tasca per prendere il tirapugni di ottone ivi riposto.
Quando la vita ti dà un limone, aveva pensato, facendo scivolare le dita nei fori dell’arma, tu spremilo fino all’ultima goccia.
Dovrebbe bastare una botta secca, si era detto. E poi sarà fin troppo semplice camuffarmi sotto quella tuta vistosa.
Stavolta, il duca si sbagliava.
C’erano volute due botte.