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BARBITONSORE & LANCIAVAPORE

C’era una cosa che la specializzanda Platz aveva dimenticato a proposito del camuffamento cromoforico, ossia l’effetto del vapore sui filamenti. L’acqua e il vento rimbalzavano via, ma il vapore s’infiltrava tra le fibre e le faceva arricciare una per una come un vermicello spaventato. A discolpa di Lazuli, la Filacchiappa era una dotazione piuttosto obsoleta e non veniva usata sul campo da quasi un quarto di secolo, ormai, per cui in Accademia non si perdeva tempo a studiarne più di tanto il funzionamento.

Forse, quindi, si poteva perdonare Lazuli per non aver notato che il suo mantello dell’invisibilità avvizziva sempre di più ogni momento che passava nella stanza delle docce. Del resto, quand’anche l’avesse notato, quale altra scelta aveva se non quella per cui era stata addestrata, ovvero portare a termine la sua missione?

Immaginate, prego, il brivido di sorpresa che stimolò il cervello di Lord Teddy Sang-Uisuga quando una piccola mano comparve apparentemente dal nulla, come da un’altra dimensione. E poi, come se quella stranezza non fosse già abbastanza, quando una figura minuta si materializzò lentamente dietro di essa.

«Per le fiamme dell’inferno!» esclamò il duca.

Ma lo fece sottovoce, giacché era un cacciatore nato e sapeva bene che non era il caso di lasciarsi andare a esclamazioni di volume percettibile di fronte all’inattesa comparsa di una creatura. Sapeva anche che alcuni animali potevano rivelarsi esponenzialmente più letali di quanto non si potesse desumere dal loro aspetto benigno. Era una lezione che aveva imparato da bambino, quando uno dei cigni della tenuta aveva affogato il suo cucciolo di dalmata che aveva osato disturbare i suoi cignetti. Il duca non aveva mai dimenticato quell’esperienza straziante e così, quando l’elfo – perché di quello doveva senz’altro trattarsi – era comparso, Lord Teddy non aveva dato nemmeno l’impressione di essersene accorto; la creatura, a sua volta, non aveva dato l’impressione di essersi resa conto di essere visibile.

Sempre più curioso, pensò il duca. Sembra che siamo entrambi a caccia della stessa preda.

Ci sarebbe stato un solo vincitore in quella gara, per quanto riguardava Teddy, e quel vincitore aveva una poltrona nella Camera dei Lord.

La situazione nei bagni era come segue: tre limoni, incluso Lord Teddy – l’unico che aveva tenuto il casco in testa, dal momento che non faceva parte dei cattivi e non aveva intenzione di svelarsi. Ovviamente, in senso stretto, era cattivo eccome, solo, non di quello specifico gruppo. I due limoni restanti erano impegnati a pulire i box doccia, e Teddy era sul punto di intascare il troll – e forse anche il fermasoldi, ché non si sapeva mai come potevano andare le cose. La specializzanda pixel, che nel frattempo, a sua insaputa, era diventata quasi completamente visibile, stava per attirare l’attenzione dei due uomini limone.

«E quello chi è?» disse Barbitonsore, notando la figura che si stava solidificando. «È uno di quei ragazzini?»

Lanciavapore alzò lo sguardo dalla tosatrice di Barbitonsore, che stava pulendo a vapore.

«Chi?» chiese, pur sapendo la risposta prima ancora di finire la domanda. A chi altri poteva riferirsi il suo collega, se non al grumo mimetico scintillante a forma di bambino che arrancava con strana lentezza verso la cassa degli effetti personali?

Poi, però, sia Lanciavapore che Barbitonsore ebbero un’epifania simultanea: quell’insolita creatura, qualsiasi cosa fosse, non era un bambino umano, e quel pensiero fece venire i brividi a entrambi nonostante fossero al soldo di un’organizzazione che dava la caccia a creature insolite. Quei brividi provocarono una momentanea sospensione dei protocolli di sicurezza sul posto di lavoro – segnatamente, tenere lo sguardo concentrato sulla punta degli strumenti pericolosi, quando detti strumenti venivano impiegati.

Lanciavapore e Barbitonsore si deconcentrarono per un istante, quel tanto che bastava perché Barbitonsore intaccasse il pollice di Lanciavapore, che gridò di dolore e lasciò partire un getto di vapore bollente sul collo di Barbitonsore, provocando l’ululato di quest’ultimo.

Tutto quel gridare e ululare non distrasse Lazuli, dal momento che era una professionista e si credeva invisibile, ma era intollerabilmente fastidioso per Lord Teddy, che si rendeva conto di avere un problema da risolvere e che quei buffoni in giallo non erano altro che un intralcio.

Per cui Teddy estrasse dalla fondina ascellare a scatto una pistola a gas Myishi a canna corta e sparò sommariamente un paio di pallottole di cellophane verso i due uomini. Il bello di quella fondina era il fatto che avesse una presa a scatto, per cui una minima pressione sull’impugnatura faceva sì che l’arma gli balzasse in mano, e il bello dei proiettili avvolgirestringenti era che non serviva prendere accuratamente la mira, dal momento che bastava un qualsiasi contatto con il bersaglio. A prescindere da questo, Lord Sang-Uisuga si era allenato a sparare a qualsiasi cosa camminasse, nuotasse o volasse per tanti di quei decenni che ormai era in grado di colpire un passero a cento metri di distanza con una semplice occhiata di sfuggita; e anzi, una volta, quando era andato in visita alla fabbrica di Ishi Myishi su una delle più inospitali tra le isole giapponesi, aveva avvolgiristretto un colibrì per impressionare il suo più vecchio amico.

Teddy ricordava con affetto quella visita. Era rimasto a cena nella residenza sotterranea di Myishi, dove il fucile improvvisato in Birmania dal fabbricante d’armi era stato incorniciato e appeso alla parete. Il brindisi era stato: “Al mio primo fucile. Averti quasi ammazzato, Sang-Uisuga-san, è stata la cosa migliore che abbia mai fatto”.

Per come la vedeva Teddy, mai brindisi fu più vero.

L’effetto del proiettile di cellophane su Barbitonsore era prevedibile, nella misura in cui l’uomo fu rapidamente avvolgiristretto da una pellicola trasparente, come un pollo al supermercato. L’impacchettamento di Lanciavapore fu però insolito, dato che il vapore interferiva con la diffusione del virus, facendo sì che il cellophane si riempisse di bolle e rigonfiamenti.

Perbaccolina, pensò Lord Teddy. Interessante variazione. Dovrò parlarne al buon vecchio Myishi.

In ogni modo, il cellophane era sufficientemente virulento da contenere Lanciavapore e il suo vapore, che ben presto annebbiò l’interno della bolla.

Nel frattempo, Lazuli considerò che il suo avversario fosse sufficientemente distratto da tentare il recupero del troll, recupero che avrebbe anche avuto successo se non fosse stata ormai decisamente non invisibile. Ovvero: perfettamente visibile.

Lazuli aveva appena preso il piede del troll con due dita, quando l’umano in giallo le puntò la pistola sotto il mento e le disse: «Ti vedo, creatura del Popolo.»

E Lazuli pensò: Vapore. D’Arvit.

E da qui ha inizio il raggruppamento dei nostri protagonisti in una linea narrativa più fluida. Tradizionalmente, dovrebbero esserci due gruppi: i buoni e i cattivi, per usare dei termini pedestri di cui Myles Fowl avrebbe senza dubbio condannato l’impiego. In questo caso, però, abbiamo una cattiva convinta di essere una dei buoni, uno dei buoni che è disposto a essere cattivo secondo necessità, un buono puro che parla coi corvi, un antico cattivo che non si fa nessuna illusione sulla propria natura, un paio di cattivoni idioti avvolti nel cellophane e una tirocinante buona e disarmata. A breve giungeremo però a due gruppi di personaggi assortiti.

In quell’istante, Myles e Beckett stavano tornando sui propri passi per riprendersi le loro cose. Myles aveva attivato l’IA nei suoi occhiali per affidarle un compito di cruciale importanza.

«TATA» disse. «Riesci a bypassare la password di questo telefono?»

«Ah-ah-ah» disse TATA. L’Intelligenza Artificiale non stava propriamente ridendo, quanto piuttosto pronunciando le parole ah-ah-ah, dato che la sua autocoscienza non aveva ancora raggiunto il livello di spontaneità richiesto per una vera risata (ma ci sarebbe giunta a breve). Era però cosciente che la domanda di Myles richiedeva di essere derisa. «Fai sul serio, Myles? Ho aperto in due quel giocattolino come un martello che spacca una noce nel momento stesso in cui siamo arrivati qui.»

Myles trasalì. Non apprezzava quei tentativi di umorismo, o di linguaggio figurato. Forse avrebbe dovuto rimuovere un po’ di circuiti dal sistema centrale di TATA.

«Molto bene, TATA. Fa’ una scansione antivirus. Scarica tutto ciò che riesci a recuperare e, quando avrai ristabilito una connessione di rete, spedisci un malware via email a tutti i contatti che trovi.»

L’avatar di TATA comparve sulle lenti di Myles. Pareva interdetta. «Tutti? Vedo diversi bar, nella lista. E un negozio di cappelli in Italia. E anche una cioccolateria di Berna, che mi pare produca deliziosi pasticcini.»

Myles trasalì di nuovo. «“Deliziosi”, TATA? Davvero? Credo proprio che sia un fatto irrilevante.»

«È rilevante, se sei affamato» ribatté l’IA

«Desidero inviare l’email a tutti i contatti» ripeté Myles. «Che producano cose deliziose o meno.»

«Il capo sei tu» disse la luminosa faccia arancione, poi svanì per risparmiare carica mentre si metteva al lavoro.

L’IA non poteva saperlo, ma era da molto tempo che Myles aspettava di sentirsi dire quelle parole esatte.

Il capo sono io, pensò. E sarò io a tirarci fuori di qui.

L’avrebbe fatto, sì. Ma non da solo.

Nel frattempo, la nostra apprendista LEP era nei bagni della base segreta con la canna di una pistola puntata sotto la fossetta del mento.

D’Arvit, stava pensando la specializzanda Platz.

Avrete ormai dedotto il significato della parola gnomesca D’Arvit. Trattasi di un termine spesso impiegato in momenti di tensione estrema, quando ci si ritrova con la canna di una pistola puntata sotto la mascella, ad esempio. Non è una parola che sentirete spesso in un colloquio di lavoro o durante un discorso pubblico.

La specializzanda Platz si rese conto che, essendo ormai visibile, poteva anche tornare udibile, per cui ripeté l’imprecazione ad alta voce.

«D’Arvit, eccome» disse Lord Teddy.

«Sta’ in guardia, umano» disse Lazuli. «Non sai con chi hai a che fare, non ne hai proprio idea.»

E, benché fratello Colman gli avesse spiegato, durante le sue rivelazioni indotte dal siero, come le creature del Popolo fossero dotate per i linguaggi umani, il duca fu spiazzato nell’udire una simile padronanza della sua lingua.

«Au contraire, mademoiselle» replicò lui, nascondendo il proprio sconcerto dietro il copricapo. «Si dà il caso che io abbia, a dire il vero, un’idea piuttosto precisa del tipo di creatura che ho alla mia mercé. Tu appartieni al Popolo, benché non sappia dire con certezza a quale specifica specie.»

Lazuli serrò la mascella e si sforzò di mandar lampi con gli occhi. «Tu dammi il troll e non succederà niente. Non serve che qualcuno si faccia del male, oggi.»

Ma Lord Teddy era troppo avanti con gli anni per un bluff, ed era per giunta incline a dissentire.

«Oh, invece penso proprio che qualcuno dovrà farsi del male» disse, considerando che a quella distanza perfino un proiettile di cellophane avrebbe lasciato un bel livido.

In quell’istante, Beckett Fowl sparigliò le carte in tavola balzando nella sala, con una domanda perentoria che gli sfuggiva dalle labbra: «Dov’è Spiffero?».

Una domanda che nessuno si aspettava, incluso il secondo gemello Fowl, che seguiva suo fratello da vicino e se ne distingueva soltanto per via del portamento distinto e dello sguardo penetrante enfatizzato dagli occhiali.

«Spiffero. Me n’ero dimenticato» disse, prima di studiare la stanza, notando i limoni avvolgiristretti e i due individui che si contendevano l’action figure che Beckett aveva raccattato.

«Il mio giocattolo!» esclamò Beckett, e, senza il benché minimo preavviso, sferrò un pugno a grappolo a Lord Teddy.

«Perbaccolina» disse quest’ultimo, non mostrando alcun segno di paralisi. «Ha fegato, il piccoletto.»

Myles fu sorpreso di vedere che suo fratello aveva mancato il bersaglio. Impartì immediatamente un comando all’IA «TATA» disse, «metti in background quella faccenda dell’ACRONYMO e fa’ una scansione dell’uomo in giallo.»

«È un ordine piuttosto generale, Myles, il che è insolito per te. Non è che vorresti darmi qualche parametro, magari?» chiese TATA.

«Profilo generale; cerca anomalie fisiche.»

Il duca di Scilly abbaiò una risata. «Ma certo, giovanotto, scansiona pure. Fa’ con comodo.»

Mentre TATA usava gli scanner biometrici negli occhiali di Myles per controllare la struttura fisiognomica di Lord Teddy e il profilo generale, Beckett era intento a fare una scansione tutta sua, costruendo un quadrato con gli indici e i pollici delle mani e guardandoci attraverso – benché, a dire il vero, basasse tutto sul puro istinto animale. E, quand’anche Beckett fosse stato equipaggiato con degli occhiali TATA, gli scanner dell’IA sarebbero stati inutili nel mandare a segno un pugno a grappolo, dal momento che perfino Myles doveva ancora sviluppare uno scanner per i meridiani. Inoltre, ma Beckett non poteva saperlo, le manipolazioni di Lord Teddy sul proprio DNA avevano alterato la disposizione delle sue linee meridiane in modo da non avere nessun punto di intersezione, il che rendeva il duca immune agli attacchi di Beckett.

«Braccia lunghe» proclamò Beckett. «Ricalibro il punto d’impatto.»

«Concordo» disse TATA negli occhiali di Myles. «Quel drugo ha le braccia lunghe. E i suoi campi energetici sono dappertutto, qui dentro. Sono d’aiuto, questi fatti?»

«Non proprio» disse Myles. «E ti prego, smettila di usare termini come “drugo”.»

Lord Teddy aveva sopportato quell’insensato sproloquio più di quanto non fosse disposto a fare. I gemelli Fowl avevano mandato all’aria il suo progetto di rapimento, e ora gli sbucavano letteralmente in mezzo ai piedi in quel momento tanto delicato… Uno dei due sembrava intento a parlare tra sé e sé, mentre l’altro aveva addirittura osato attaccare la sua regale persona. Di solito un gentleman non ama picchiare i bambini ma, in quel caso specifico, Teddy pensò che non gli sarebbe dispiaciuto più di tanto.

E poi, ovviamente, c’era l’elfa. Quella che parlava. Sarebbe stato meglio avvolgirestringere la creatura e ficcarla in un sacco per poterla esaminare con calma a Childerblaine House. Certo, sarebbe stato doloroso.

Non per me, pensò il duca.

Nei cinque secondi che seguirono ebbero luogo sviluppi cruciali. Un singolo secondo è parecchio tempo, in battaglia, come ben sa ogni combattente esperto, e cinque secondi possono marcare la differenza tra la vita e la morte. In quel caso non ci sarebbe stata nessuna morte, ma certamente parecchio dolore.

Ciò che accadde in quei cinque secondi dev’essere rallentato nella narrazione, affinché lo si possa propriamente apprezzare.

Ecco a voi, dunque, la logorroica storia di un momento:

1. Non appena si rese conto di essere, in effetti, pienamente visibile, la specializzanda Lazuli Platz era passata dal Famopo al Cos Tapa, che, in termini di velocità, era un po’ come passare dal modem 14k alla banda larga. Cos Tapa si può tradurre approssimativamente, dallo gnomesco, con “Piedi Veloci” o “Piedi Indistinti”; è uno stile di combattimento particolarmente aggressivo sviluppato dai pixie studiando animali come le iene, i gatti e le razze di cani più piccole, tutti spesso costretti ad azzuffarsi con avversari molto più corpulenti. Lazuli aveva un ottimo equilibrio, era agile con le mani e i piedi, e aveva velocità da vendere. Con una manovra tipica degli scoiattoli dei cartoni animati, Lazuli rinforzò la presa sul polso di Lord Teddy e fece correre i piedi lungo le gambe e il torso dell’umano fino a portare gli stivali sotto l’ascella dell’aggressore. Quella mossa era nota come “il pendolo”. Poi tirò il braccio di Teddy e inclinò il mento a sinistra – il che fu cruciale.

2. Lord Teddy premette il grilletto della pistola a gas Myishi a canna corta mentre già cominciava a sentire una certa pressione all’articolazione della spalla. Anche così, non riuscì a reprimere un “Aha!” trionfante, mentre l’arma sparava con un psssh invece che con il più tradizionale bang.

3. Il proiettile avvolgirestringente sibilò oltre l’orecchio puntuto di Lazuli – così vicino che la pixel pensò di essere stata colpita – ma lei mantenne salda la presa, pensando che il proiettile pareva di natura virale e avrebbe così avvolto entrambi.

4. Beckett Fowl decise che avrebbe sicuramente dovuto unirsi al combattimento, visto che aveva raggruppato tutti gli uomini limone nella categoria dei cattivi, e, dato che la spalla di quell’uomo limone era pronta per ricevere un colpo, mise in opera il suo caratteristico saltello e tirò un pugno alla spalla di Lord Teddy mentre riscendeva.

5. La spalla del duca fu subito dislocata.

6. Myles non si fece coinvolgere dall’alterco. Niente di sorprendente, visto che il combattimento non era la sua area di expertise e non avrebbe fatto altro che intralciare il fratello. Si limitò invece a raccogliere, con tutta calma, le proprie cose dalla cassa di metallo.

Tutto ciò nell’arco di cinque secondi.

Farsi dislocare una spalla è un fatto particolarmente straziante; su una scala degli infortuni dolorosi, si posiziona all’ottavo posto, appena sotto farsi spezzare il collo. E infatti, Lord Teddy si trovò talmente a disagio da dimenticare ogni altra cosa, per un istante, che non fosse quell’esplosione di dolore vivo che gli pulsava nella spalla.

«Oh, perbacco» gemette. «Per tutte le baccoline.»

Per via del suo lignaggio, era la cosa più vicina a un’imprecazione che avesse mai pronunciato. Crollò sul lastricato, facendo attenzione a non scuotere il braccio, che pareva attraversato da una scarica elettrica. Sfortunatamente per lui, Lazuli aveva ancora gli stivali puntati sotto la sua ascella, per cui la spalla ferita fu ancor più traumatizzata dalla caduta. Gli occhi del duca si rovesciarono all’indietro mentre cercava di affrontare quel nuovo livello di sofferenza. Non provava niente di simile da quando si era rotto il tendine di Achille negli anni Settanta, durante una partita di squash, così in voga a quei tempi. Rompersi il tendine di Achille, per inciso, è alla decima posizione nella scala degli infortuni dolorosi.

Lazuli strisciò fuori da sotto a l’umano accartocciato e cercò di afferrare il troll nano nell’esatto momento in cui Beckett ci si avventava sopra, e i due si ritrovarono entrambi con una mano sul troll.

«Mio» disse Lazuli, in gnomico.

«Mio» le fece eco Beckett, sempre in gnomico, cosa che Myles avrebbe derubricato a semplice mimetismo linguistico se fosse stato attento a quel che dicevano, e non era quello il caso.

Beckett e Lazuli guardarono verso il ragazzo con gli occhiali, come in attesa di un verdetto, dal momento che i suoi modi trasmettevano un’irresistibile senso di autorità.

«Capisco» disse Myles, parlando con il vuoto. Quindi aggiunse: «Notevole». Seguito da: «Se lo dici tu».

Poi l’attenzione di Myles tornò alla stanza e i suoi occhi si strinsero nel vedere lo strano rubabandiera che aveva innanzi a sé.

«Beckett, lascia quel troll» ordinò.

Beckett disobbedì.

Solitamente disobbediva agli ordini per principio ma, in quel caso, aveva sviluppato a modo suo un feroce e irragionevole attaccamento a un oggetto che era diventato suo soltanto da poco tempo.

«No, Myles» disse. «Spiffero è il mio giocattolo.»

Lazuli fece per controbattere, poi cambiò idea. Forse sarebbe stato meglio per tutti se gli umani avessero continuato a credere che quel troll non fosse altro che un giocattolo. Per cui, invece di correggere il ragazzo chiamato Beckett, decise di stare al gioco.

«È il mio giocattolo» disse in lingua umana.

Myles doveva aver notato la sua espressione bellicosa, perché alzò le mani in segno pacificatore.

«Non c’è motivo di aggredirci. Siamo amici. “Fowl e Popolo, Popolo e Fowl, amici per sempre”, ricordi? Sembra uno scioglilingua sugli elfi, ma il sentimento è genuino.»

Beckett era allibito. «Abbiamo amici elfi? Le storie sono vere?»

Lazuli aveva molte domande, ma la più urgente era: «Come fate a sapere che sono un’elfa?».

Myles poteva rispondere a entrambe le domande con un’unica parola: «Artemis».

L’invocazione di quel nome ebbe come effetto di sbalordire tanto il ragazzino iperattivo quanto la specializzanda elfica.

«Te l’ha detto Artemis?» volle sapere Beckett. «Dallo spazio?»

«No» rispose Myles. «Niente di così cosmico. Mi ha lasciato un messaggio negli occhiali.»

«Artemis» mormorò Lazuli, ricordando le parole della sua tutor: “Se mai incontrerai Artemis Fowl, sappi che di lui ci si può fidare”.

Avrebbe dovuto prestar fede a quelle parole, ora, a prescindere dai dubbi che poteva nutrire a proposito dei gemelli.

«Tuo fratello Artemis» disse a Myles «ha lasciato istruzioni?»

«Sì» rispose Myles. «Ma sono prolisse addirittura per me.»

«Riassumi» disse Lazuli, udendo dei passi pesanti lungo il corridoio.

«In sostanza: “Collaborate, trovate un posto sicuro”.»

Il concetto andava bene sia a Beckett, sia a Lazuli. Adesso, perlomeno, formavano una squadra.

Beckett lasciò la presa sul troll nano. «Occupati tu di Spiffero.»

«Così, semplicemente?» si sorprese Lazuli.

«Mi servono le mani libere» spiegò Beckett, infilandosi al collo la cravattina di pesce rosso. «Myles è il Signor Sotuttoio, io sono il Signor Tiprendoapugni.»

Myles sospirò, esasperato. «Mi scuso per lo scempio che mio fratello infligge alla lingua, anche se essenzialmente è corretto: io penso, lui fa

Il tramestio distante si fece più forte.

Lazuli si ficcò il troll sotto la tunica e si preparò a combattere.

«E io sono la Signorina Tiprendoaschiaffi» disse, seguendo Beckett in corridoio.

Myles non seguì subito la coppia ma si trattenne un istante in più per tirar via la maschera di Lord Teddy e guardare in faccia l’ennesimo nemico che, in qualche maniera, si erano scelti.

TATA confrontò quel viso con l’archivio di riconoscimento facciale e trovò corrispondenze con il cecchino di Dalkey e la fotografia di un passaporto dai suoi database interni.

«Bene-bene-bene, abbiamo un nobile» disse. «Costui è nientemeno che Lord Teddy Sang-Uisuga, duca di Scilly.»

«Ah, Sua Eccellenza» disse Myles, profondendosi in un inchino. «Che bello poter fare la sua conoscenza.»

Ovviamente, Myles conosceva il duca dalla sua reputazione e aveva sentito le voci che correvano sulla sua insolita longevità, ma quella era la prima volta che Sang-Uisuga veniva a scontrarsi con la famiglia Fowl.

Myles stava per cominciare a interrogare Lord Teddy, quando al suo orecchio giunse un inconfondibile rumore di pugni.

«Oh-oh» esclamò TATA, interpretando quei suoni e desumendo che fossero stati prodotti da Beckett.

Oh-oh, pensò Myles, era una reazione ragionevole, se non propriamente scientifica, e decise che sarebbe stato meglio assicurarsi che suo fratello non facesse troppo male a qualcuno.

Nella storia del cinema esistono molte scene famose di combattimenti nei corridoi – per la maggior parte inadatte a un pubblico minorenne, motivo per cui non se ne farà menzione in questa pagine – ma basti dire che quello svolto nel corridoio della base segreta sotterranea di Amsterdam le superò tutte in stranezza. Le mosse non erano esagerate quanto quelle dei film, ma le espressioni sulle facce degli assalitori erano davvero impagabili.

Dodici addetti alla sicurezza, tra uomini e donne, procedevano lungo il corridoio che passava accanto ai bagni ed era inevitabile che, una volta giunti lì, si allargassero per circondare il gruppetto neoformato di loro avversari. Tuttavia, finché si trovavano ancora nello stretto corridoio, gli agenti dell’ACRONYMO erano ostacolati dai propri fisici massicci e dunque costretti ad avanzare a due a due, motivo per cui l’AFP (ovvero l’Alleanza Fowl Pixel) optò per l’approccio Termopili, che tanto bene aveva funzionato per re Leonida e i suoi spartani (quantomeno per i primi tre giorni). In altre parole, il ragazzo e la specializzanda ingaggiarono una feroce lotta in uno spazio ristretto, attaccando un agente alla volta.

Beckett Fowl sbucò dai bagni con tale rapidità che andò a rimbalzare sulla parete opposta alla porta e, con un grido deliziato, si avventò sulla prima preda.

L’agente in testa al gruppo ebbe il tempo di restare sorpreso per un istante appena. Avevano ricevuto ordine di mettere in sicurezza l’edificio e di non uccidere nessun “piccolo umanoide”.

E chi dovrei uccidere? Questi due ragazzini?

Il secondo ragazzino, che in realtà era una strana elfa, non rimbalzò sulla parete ma incassò la testa tra le spalle, oltrepassò il primo bambino e si mosse con rapidità sconcertante verso il gruppo armato fino ai denti.

L’agente in testa optò per un tono conciliante. «Ehi, piccoletti…» cominciò a dire, tendendo la mano. Un tremendo errore, visto che Lazuli afferrò quella mano, gli corse su per il corpo e, con un poderoso strattone, scaraventò l’uomo a capofitto verso il muro di pietra.

Beckett continuò a ridere perfino mentre sferrava un pugno a grappolo sull’agente successivo; poi, usando il corpo crollato del primo uomo come un trampolino, si spostò alla guardia che era dietro, una donna. Lei ebbe appena il tempo di esclamare: «Non c’è bisogno di…», prima di unirsi al suo collega temporaneamente paralizzato.

Continuarono ad avanzare così, ragazzo e pixel, fendendo il gruppo di élite come se gli agenti dell’ACRONYMO fossero stati fascine di biada secca. Era una gioia per gli occhi, a meno di essere agenti dell’ACRONYMO – o sorella Geronima, che osservava la scena dalla stanza degli interrogatori sul suo orologio da polso, sincronizzato con le telecamere di sicurezza.

Il problema del video era che le telecamere inquadravano soltanto la metà superiore del corridoio, tagliando completamente fuori il ragazzo e la pixel. Tutto ciò che riusciva a vedere Geronima era dunque la fila dei suoi sottoposti che venivano sbattuti da una parte all’altra, sotto i colpi di aggressori invisibili. I microfoni delle telecamere erano omnidirezionali, però, e riuscirono a cogliere le seguenti parole:

«Ehi, piccoletti…»

«Non c’è bisogno di…»

«Ma che…?»

«Hai visto…?»

«Sono scimmie, quelle?»

E probabilmente la più imbarazzante:

«Oh, mammina cara…»

Quest’ultima frase era stata pronunciata da un omone del Texas, che venne poi licenziato il giorno dopo. E, benché non se ne abbia mai avuta prova certa, gira voce che il texano licenziato sia entrato in possesso del video del corridoio e l’abbia caricato per vendetta su internet, dove è diventato virale in men che non si dica, ispirando il film campione di incassi I piccoli ninja fantasma di Xanadu e una collezione di magliette con la scritta SONO SCIMMIE, QUELLE?, andata a ruba in tutto il mondo.

Ma tutto questo non è che un inciso.

A interessarci è il risultato del conflitto, che vide Beckett e Lazuli giungere in fondo al corridoio, lasciandosi alle spalle una scia di corpi in preda alla paralisi o privi di sensi. Per chissà quale motivo, uno di quelli privi di sensi si era messo a cantare Supercalifragilistichespiralidoso nel sonno, e Myles avrebbe tanto voluto svegliarlo per sottoporlo a una seduta di psicanalisi.

Si potrebbe pensare che Myles fosse impressionato dalle abilità del fratello, invece aveva sempre concordato con Isaac Asimov, il quale sul fatto che la violenza fosse l’ultimo rifugio degli incompetenti. Considerando però la suora furiosa alle loro spalle, il duca slogato nella sala da bagno e le brigate degli agenti dell’ACRONYMO che stavano senz’altro convergendo verso la base sotterranea, giunse alla conclusione che fosse più prudente mettersi in scia e rinviare ad altro momento la lezioncina contro la violenza.

«Vogliamo procedere?» li invitò, scegliendo con cura dove posare i piedi in quella corsa a ostacoli di arti e corpi fino a raggiungere i gradini di pietra in fondo al corridoio. «Non ho dubbi che possano esserci altri rinforzi di sorella Geronima, nelle vicinanze.»

Nella stanza degli interrogatori, sorella Geronima strillava nel suo orologio: «Sento tutto quello che dici, orribile mocoso! Yo también puedo verte».

In tutta franchezza, Geronima aveva i suoi buoni motivi per dare in escandescenze:

  1. Era stata battuta in astuzia da due bambini e, quando il fatto fosse trapelato, la sua reputazione come miglior interrogatrice di tutta l’organizzazione sarebbe andata in frantumi… e quel genere di fatti aveva tendenza a trapelare, eccome.
  2. La sua squadra d’intervento speciale era sparpagliata sul pavimento come tanti birilli da bowling.
  3. La prima pista concreta che era riuscita a trovare dopo anni di ricerche stava fuggendo via nel mattino di Amsterdam.
  4. Era ammanettata a un tavolo.

La sua isteria, però, fu smorzata dalla vista di una nuova venuta sui gradini di pietra. Un’altra bambina?

No.

Geronima avvicinò la faccia allo schermo dell’orologio sul polso ammanettato al tavolo e rimase a bocca aperta.

Le orecchie.

Quelle orecchie erano a punta. E indossava un’armatura dotata di una qualche strana tecnologia.

Sorella Geronima provò una sorta di reverenza mentre fissava senza battere ciglio quel piccolo schermo, come se si fosse trovata di fronte a un’apparizione mariana.

«Oh» sussurrò. «Eccoti, elfo.»

La suora pianse senza trattenersi, poiché ora sapeva che la sua fede era più che fondata. Quelle non erano lacrime di tristezza, bensì di gioia, giacché sarebbe stata riabilitata.

«Finalmente» disse.

Avrebbe catturato quell’elfa e l’avrebbe messa in salamoia in un tubo, così che l’ACRONYMO potesse sezionarne il cadavere e apprendere i segreti del mondo sotterraneo.

«Hai preso il mio telefono, signorino Myles» disse, rivolgendosi a una delle piccole figure sullo schermo. «E dove va quello, io posso seguirlo.»

Forse Myles Fowl non è furbo come crede, pensò Geronima.

Tenuto conto delle circostanze, e considerando gli eventi più recenti, sembra quasi incredibile che una persona tanto scaltra potesse davvero credere una cosa del genere.