EQUILIBRIO
"Ehi, quel signore laggiù non fa altro che aprire il suo libretto bancario" mi bisbigliò la ragazza tornando dopo essere andata a prendere l'ordinazione.
"Ah sì?" dissi.
Ormai in quel locale qualunque cosa accadesse non mi sorprendeva più di tanto.
Grazie ai contatti di mio padre, che aveva un piccolo ristorante, lavoravo in quel caffè, riservato ai soli soci, che era di proprietà di una grande impresa.
Il caffè era enorme, sempre in penombra, progettato da non so quale famoso giovane architetto, arredato da una no-ta designer, e sebbene fosse in perfetto stile giapponese, era un locale di gusto moderno. Arredi e vasellame erano tutti di pregio, e sebbene non fossero, a quanto si diceva, particolarmente antichi o costosi, erano tutti raffinati e di ottima qualità. Siccome molti dei clienti erano persone di una certa età, di gusti esigenti, il caffè e il tè venivano preparati con i migliori ingredienti e con la massima cura, un aspetto del locale questo che mi piaceva molto.
Venivano vari tipi di clienti. Si tenevano trattative d'affari, incontri che non si potevano fare in pubblico, c'erano amanti clandestini, bambini terribilmente arroganti, forse perché figli di persone straricche, vecchi che camminavano a stento, persone che leggevano, coppie di anziani che venivano tutti i giorni dopo la loro passeggiata del mattino, insomma persone di tutti i tipi.
Non venivano serviti alcolici e da mangiare c'erano al massimo sandwich e dolci giapponesi, ma vi accadevano più o meno le stesse cose che accadono nei posti dove si beve, e gli argomenti di conversazione non mancavano. Però siccome era severamente vietato divulgare all'esterno le cose che succedevano, noi cameriere in minigonna nera e grembiule bianco smaltivamo la frustrazione spettegolando di nascosto fra noi.
"Ti giuro, era una cifra pazzesca, con un sacco di zeri.
Forse vuole farla vedere?" disse la ragazza. "Vai tu a portargli il tè, così vedi. Ti assicuro che ne vale la pena."
"Va bene, vado io. Sono curiosa di vedere che tipo è uno che fa una cosa del genere."
Misi su un piccolo vassoio di lacca il tè verde che aveva ordinato e la tazza riscaldata, e lo portai al suo tavolo, che era piuttosto lontano.
"Prego, signore" dissi, e mentre gli servivo il tè, capii perché la mia collega aveva fatto tutto quel chiasso.
Quell'anziano signore sui sessantacinque anni, dal cappotto nero e il pullover di cachemire sciupato, aveva un aspetto molto distinto. Però spostava il suo libretto bancario verso di me in modo che potessi vederlo. Come un maniaco sessuale che apre la chiusura lampo per mostrare quello che c'è sotto.
Pensai che forse, se una di noi avesse guardato il suo libretto, quel signore dall'aria solitaria l'avrebbe usato come pretesto per criticarci e ne avrebbe fatto una storia lunga e fastidiosa. In effetti c'erano molte persone che cercavano di attaccar briga con le cameriere. Capitava anche che il carattere di alcuni cambiasse nel momento stesso in cui pensavano che quello era un circolo privato per il quale dovevano sborsare dei soldi.
Per esempio succedeva spesso che dei gruppetti di signore vestite con abiti di superlusso, tutte equipaggiate con borse di Hermes, si eccitassero parlando di argomenti incredibi-li, che sarebbe impossibile riferire, e perfino che clienti in fondo al locale, nella parte separata da porte scorrevoli, met-tessero le mani sotto la gonna delle loro accompagnatrici.
Ovviamente andando più volte a guardare con aria indifferente li facevo smettere, ma mi rendevo conto che il fatto di trovarsi in uno spazio tranquillo, circondati da tante cose belle nel vero senso della parola poteva anche non avere nessuna influenza sullo stato d'animo delle persone. Non ero così sprovveduta da indignarmi per cose come queste, ma era certo che mi rendeva più felice vedere la coppia di signori anziani che sorridendo si diceva: "Come è piacevole prendere il tè qui" o la signora di mezza età, divenuta socia perché il figlio lavora nell'impresa, venire qui con i suoi abiti semplici e bere con gusto il caffè.
...In ogni caso distolsi lo sguardo cercando di evitare a tutti i costi di vedere il libretto del signore. Tuttavia quando mi piegai in avanti per versargli la prima tazza di tè, egli mi spinse il libretto aperto proprio davanti agli occhi. Io girai la faccia di lato, guardando con la coda dell'occhio nel tentati-vo disperato di non far cadere fuori il tè. Quando, finito di versare, sollevata alzai il viso, con mia sorpresa infilò il libretto tra me e la teiera. Pensando: Ma questo è un manga!
di proposito chiusi gli occhi, abbozzai un breve inchino e fe-ci per allontanarmi. Al che lui si mise a sventolare forte il libretto aperto davanti alla faccia rivolgendolo verso di me.
A quel punto non potei trattenermi dal ridere. Anche lui si mise a ridere: Ah ah ah ah. Aveva una risata simpatica.
Pensai che non faceva così per creare problemi e poi lamen-tarsi, e che voleva solo vedere la reazione, quindi gli dissi:
"Visto che ci tiene tanto, se vuole lo guardo".
E guardai attentamente il libretto. Effettivamente gli zeri erano troppi per poterli contare.
"Se la gente si accorge che ha tanti soldi, potrebbero ru-barglierli. La prego, lo metta al sicuro" gli dissi sorridendo, e me ne andai.
"Accidenti, che coraggio!" mi disse la collega quando tornai al mio posto.
Circa tre volte alla settimana, quando mia madre voleva fare le faccende di casa, aiutavo a servire nel ristorante di mio padre. Era un piccolo locale in un edificio pieno di negozi e uffici ad Akasaka, e siccome di solito era frequentato solo dai clienti abituali, come secondo lavoro non era molto impegna-tivo. Non c'era un menu con diverse portate, mio padre cuci-nava a seconda degli ingredienti più buoni e meno cari che trovava ogni giorno, e non accettava prenotazioni. Forse per questa ragione, era raro che si affacciassero clienti troppo snob. Di solito i clienti di quel tipo preferiscono prenotare in anticipo. Forse non sopportano di fare un viaggio inutilmente. Al ristorante di mio padre c'erano soprattutto persone comuni, ragazzi abbastanza giovani che si atteggiavano da adulti, e anche alcuni clienti, di solito assimilabii al gruppo degli snob ma capaci di ritirarsi con disinvoltura se non trovavano posto. Del locale di mio padre amavo anche questo.
Il rispetto che avevo per il lavoro di mio padre credo ve-nisse dal fatto che è una cosa che rende felici le persone.
Pensavo con orgoglio al suo modo di ricevere i clienti senza fare distinzioni, prestando attenzione a tutti, offrendo sempre una tazza di tè caldo al signore imbronciato che arriva prima per tenere i posti ai suoi superiori e poi se ne sta solo e annoiato, e anche dopo continua a versargli il tè e a parlar-gli ma mai più del necessario.
Io avevo appena compiuto trent'anni e di solito ero la più giovane al ristorante, ma siccome il rigore verso il cibo e la sua preparazione mi era stato inculcato sin da bambina, non era per me particolarmente dura. Anzi, siccome imparavo molte cose lavoravo con piacere.
Ero disordinata nell'abbigliamento, quando mi spogliavo lasciavo i vestiti dove capitava, avvicinavo il telecomando col piede: in queste cose ero una tipica figlia dei miei tempi, ma non avevo trascorso la mia adolescenza mangiando patatine fritte da una bustina e bevendo birra dalla lattina. Anche quando ero sola, sebbene fosse una seccatura, preparavo sempre qualche piccolo stuzzichino, e anche se erano cose comprate già fatte almeno le mettevo in un piattino, e bevevo la birra dal bicchiere. Per me, nata da genitori che si erano conosciuti mentre studiavano cucina, era una cosa naturale. Non la consideravo neanche un pregio.
Anche il fatto di poter mangiare le cose squisite che mio padre preparava al ristorante mi rendeva felice. Sin da piccola ero cresciuta mangiando i suoi piatti, ma sul lavoro, anche se si trattava di una piccola cosa la preparava con un altro spirito. Di giorno guadagnavo il mio stipendio nel club privato, imparavo a preparare il tè e il caffè usando vasellame e ingredienti di qualità, e quando la mamma, che era più vecchia di papà, si fosse stancata, l'avrei lasciata riposare a casa, e finché papà fosse stato in grado di mano-vrare il coltello avrei lavorato ogni giorno nel suo ristorante, imparando tante cose: questo era il mio fermo e stabile progetto di vita. Non ero capace di imparare la cucina giapponese, ma pensavo che avrei potuto gestire una semplice osteria. Mi sarebbe piaciuto, anche in un lontano futuro, senza fretta, aprire un piccolo locale in cui avrei servito degli stuzzichini e del buon sakè, possibilmente con il mio compagno.
Ma a causa di quella vita così piena, la domenica la passavo a dormire come un sasso, e anche se avevo un ragazzo non riuscivo a trovare il tempo da passare tranquillamente con lui, e in breve tempo il rapporto si spegneva naturalmente. Avevo molte storie, ma duravano sempre poco.
Quel giorno, appena entrai nel ristorante, mio padre mi disse:
"Che cosa hai combinato al locale?".
"Qui? Ma se sono appena arrivata, e ieri sono tornata a casa con te" dissi.
"No, parlo dell'altro locale, quello di giorno."
"Niente, perché?"
Mentre cominciavo a preparare, mi apparve il viso del
"vecchietto con il libretto bancario".
"Il signor Saito ha fatto sapere che il proprietario ti vuole parlare" disse mio padre.
Il signor Saito era uno dei clienti fissi, quello che mi aveva raccomandato al club privato. Ebbi un cattivo presentimento. E se il vecchio con il libretto fosse stato il proprietario, che finora al caffè non si era fatto vedere nemmeno una volta?
Ma subito il ristorante si riempì di clienti, fui presa dal lavoro e quel discorso restò in sospeso.
Il giorno seguente, il direttore del club mi disse di finire prima il lavoro e, dopo essermi cambiata nei miei abiti normali, di andare al tavolo in fondo al locale, che chiamavamo
"il privé", e lì come sospettavo trovai seduto il vecchietto.
Sotto una giacca imbottita di ottima qualità, portava il solito vecchio pullover di cachemire.
Sul viso della collega che venne a portarci l'acqua era scritto, molto più chiaramente che se l'avesse detto a parole:
"Poverina, sarai rimproverata e licenziata, scusami, se non ti avessi detto di andare a guardare...". Io annuii sorridendo, cercando di trasmetterle il messaggio: "Non ti preoccupare e dissi:
"Anche per me un tè verde".
Lei, tutta mortificata, si allontanò.
"La prego di scusarmi, non sapevo che lei fosse il proprietario" dissi.
Avevo sentito dire che questo signore si era ritirato dagli affari molto presto lasciando tutto al figlio, era stato uno dei fondatori di quella grande impresa ed era stato lui a decidere di aprire questo caffè, su suggerimento della moglie che aveva detto: "Sarebbe bello avere un posto, una specie di sa-lone privato, in cui anche le famiglie degli impiegati potessero godersi un momento di calma". Pare che avesse scelto co-me sede del bar dei locali all'interno dell'azienda, ma avesse pagato l'allestimento e gli arredi con i suoi soldi, cedendo tutti i proventi alla ditta.
"Niente, niente, colpa mia che non mi ero ancora fatto vedere" disse.
A guardarlo bene, aveva una pelle liscia e sembrava molto giovane.
"Tre anni fa ho perso mia moglie, e siccome mio figlio ha ormai una famiglia sua, mi sono trasferito in una casa più piccola. E quindi c'è anche il fatto che mi sono allontanato un po' da questa zona. Prima di morire mia moglie attende-va con impazienza che questo locale fosse pronto, e venire qui ogni giorno era il suo sogno. Quello che vede qui è tutta roba che avevamo a casa: da quel mobiletto a questo servizio da tè. è morta appena prima che i lavori fossero terminati.
In un locale come questo, il vasellame è destinato a romper-si rapidamente, e questo è triste, ma tanto quando uno muo-re non se lo può portare appresso. Nel deposito di casa sono rimasti ancora tanti oggetti. A mano a mano penso di portar-li tutti qui" mi raccontò un po' alla volta.
"Non è che io mi intenda di queste cose, ma qui c'è un'atmosfera rilassata, come essere a casa di una persona amica, perciò lavorarci è piacevole" dissi.
Ormai ero rassegnata a qualsiasi cosa, ma tentai, disinvol-tamente, di fare appello alla mia capacità di reazione.
Ma come mai questo signore così distinto voleva mostrare il suo libretto bancario? L'uomo è un essere misterioso.
In quel momento la mia collega arrivò con il vassoio, e per la prima volta presi il tè da cliente. Era davvero ottimo.
Sembrava che la tazza, nel toccare lievemente le labbra, ne esaltasse il sapore.
"Temevo di intristirmi, perciò non sono riuscito a venire."
"D'ora in poi spero che verrà spesso" dissi io sorridendo, anche se pensavo che stavo per essere licenziata.
"Le andrebbe di uscire con me, adesso?" chiese il signore.
Con tutta la buona volontà, un fidanzato più vecchio di mio padre non fa per me, per quanti zeri possano esserci sul suo conto, pensai.
Le parole "Se non accetto, sarò licenziata?" mi salirono fino alla gola. Ma nell'istante in cui stavano per affiorare alla bocca, la gola le bloccò. Lasciai perdere. Se anche avessero colpito nel segno, quelle parole avevano lo stesso grado di volgarità della frase: "Se esco con lei quanto mi dà?". Non erano parole da dirsi a un uomo con una lunga vita alle spalle, e che aveva perso la sua compagna. Nemmeno se aveva quel lato che lo portava a mostrare il suo libretto bancario.
A volte il mio corpo ha reazioni di questo genere. Qualcosa blocca le parole che spontaneamente arrivano fino alla gola. Il perché lo capisco solo dopo, quando cerco di spie-garmene la ragione.
Quindi, risposi:
"Finito qui, ho un altro lavoro. Non verrebbe al ristorante di mio padre? Siccome non si può prenotare, potrebbe essere tutto pieno, ma troverò il modo di farla sedere: alla peggio si può sempre mettere uno sgabello in un angolo del bancone, e le farò mangiare qualcosa di veramente buono".
Il signore fu per un attimo colto di sorpresa. Era normale, fino ad allora era stato in chissà quanti e quali ristoranti di lusso, e gli doveva sembrare una follia seguire come se niente fosse questa strana cameriera al ristorante di suo padre.
Però accettò di seguirmi.
Si chiamava Shinjo, il signor Shinjo. Quando entrai nel ristorante insieme a lui, per un momento mio padre mi guardò con l'aria di dire "Ti strozzo", ma subito lo spirito del ristoratore lo fece tornare in sé. Nel ristorante per fortuna non c'era ancora nessuno, perciò potemmo dargli un posto comodo e farlo bere con calma. Il signor Shinjo mangiò con moderazione cose buone e tornò a casa felice. Mentre saliva sul taxi in quello squallido vicoletto di Akasaka, salu-tandolo con la mano pensai: Ah, meno male, non solo ho procurato a papà un nuovo cliente, ma non sarò licenziata.
In realtà in quello stesso periodo ero coinvolta in un altro problema un po' delicato.
Un bambino delle elementari che abitava vicino a casa mia e studiava flauto con l'ambizione di entrare all'Università della musica, veniva spesso da me di notte perché lo ascoltassi suonare.
Era una cosa che andava avanti da quando lui era al primo o secondo anno delle elementari. Siccome il suono del flauto mi piaceva, se non durava troppo a lungo, lo lasciavo venire volentieri a casa, dove avevamo un pianoforte su cui mi esercitavo da piccola e che la mamma ancora suonava ogni tanto. La stanza del piano era insonorizzata, e lì lui poteva suonare il flauto di notte facendo tutto il rumore che voleva.
Lui mi diceva che i genitori lo ascoltavano ormai solo con la mente rivolta al futuro esame di ammissione, il maestro gli era odioso, e prima di entrare al liceo sperava di andare a studiare all'estero. Secondo quanto si diceva di lui nel vicinato, il ragazzo era un piccolo genio e certamente promette-va bene per il futuro, e se anche non fosse diventato un soli-sta famoso in tutto il mondo, certamente aveva abbastanza talento per diventare un musicista di professione.
Poiché non mi piaceva dare troppo peso al talento di un ragazzino così piccolo, cercavo di pensare solo: Magari ogni tanto gli farà bene cambiare un po' aria. Mi sarebbe sembra-ta una forzatura dare importanza a quelle sue visite con im-plicazioni tipo: Prego, usa pure questa stanza per costruirti un futuro. Quando aveva voglia di suonare, io non avevo problemi a lasciargli usare casa mia.
Quella notte ero stanca morta, le ossa così a pezzi che mi ero messa sulla spalla un cerotto contro il dolore, quando fuori della finestra sentii un fievole suono di flauto. Era un segnale: mi infilai una giacca, aprii la tenda, e il bambino, Taizo, era lì fuori in piedi, il suo lungo flauto che brillava nella notte. Aprii la portafinestra che dava sul giardino, e lo feci entrare.
I lineamenti erano delicati, ma in confronto ad altri bambini della sua età che vedevo per strada, dall'aspetto più fi-ne, era un ragazzotto un po' rozzo. Però suscitava anche tenerezza, perché faceva sentire che dedicava tutta la sua vita al flauto. Io gli dicevo spesso: "Vai presto a studiare all'estero, e impara anche un po' di stile. Se vai a Vienna, potrai girare un po', e divertendoti imparare tante cose, vedere i rì-
storanti europei eccetera".
"Dai, fammi usare la stanza del pianoforte" disse bruscamente.
Avevo voglia anch'io di bere un bicchiere prima di andare a letto, con il flauto in sottofondo, perciò lo seguii nella stanza del pianoforte. Mio padre e mia madre alle due di notte dormono già. Da quell'ora in poi, in quanto nottam-bula, sono padrona assoluta della casa. E anche se mi sarei potuta portare a casa indisturbata chiunque, con la vita che facevo, invitavo al massimo un bambino delle elementari.
Anche Taizo, giustamente, aveva sonno, e il suono usciva un po' appannato. A furia di bere sgranocchiando delle alghe coreane molto croccanti che mi ero portata per accompagnare il sakè, ero un po' brilla e stavo quasi per scivolare nel sonno quando il suono a un tratto si fece concentrato e meravigliosamente limpido. Pensai: Ormai cominceranno a succedergli diverse cose, e anche il suo modo di suonare cambierà. Però quella particolare caratteristica del suo suono, quel senso di "vorrei essere amato da qualcuno" e nello stesso tempo la mancanza di qualunque civetteria, non cambierà mai, per tutta la vita.
"Io vado a dormire, tu continua pure quanto vuoi" dissi, arrivata al limite del sonno.
"Ma se nessuno mi ascolta mi annoio" rispose lui.
"Allora facciamo domani, oggi non riesco più a tenere gli occhi aperti" dissi gentilmente, uscii dalla stanza e mi diressi verso la mia camera.
Taizo, riluttante, chiuse il flauto nella custodia e mi seguì.
Ogni volta che riponeva il flauto, lo puliva con cura usando un panno, lo lucidava, e con gesti delicati lo adagiava dolcemente nella custodia. Era lo stesso modo di fare che mio padre usava quando maneggiava yuzu e taro. Guardarlo mi piaceva.
"Ciao allora" dissi aprendogli la porta della veranda, ma a quel punto lui mi abbracciò. Da qualche tempo avevo una vaga sensazione che stesse per accadere qualcosa del genere.
"Quando sarò più grande, lascia che ti sposi" disse lui.
"In realtà volevi dire 'lascia che ti scopi', no? Ma se il pi-sellino ancora non ti si drizza e non ti sono neanche cresciuti i peli!" dissi.
Aveva appena dodici anni.
"Non penso che avrei problemi" disse, e mi spinse verso il pavimento.
Un ragazzino delle elementari, pensai, questo è un altro manga!
"Ci penserò tra una decina di anni, adesso scordatelo"
dissi, e gli strinsi la testa come facevo quando era piccolo.
Aveva un odore di erba secca.
"Ho capito" disse lui con aria scontenta, ma cercò di cir-condarmi la testa e mi accarezzò lievemente i capelli. è così piccolo ma è già un uomo, pensai, provando una lieve scossa. Visibilmente duro sul davanti dei pantaloni, si staccò e si allontanò senza voltarsi. Poverino, pensai. Farlo venire a letto e cercare di darmi da fare sarebbe stato semplice, ma troppo pesante. Non me la sentivo proprio di contenere, con la mia povera spalla incerottata, quella enorme quantità di energia che aveva da parte, e che gli sarebbe servita per girare il mondo, diventare un tipetto alla moda e innamorarsi di tante ragazze.
Da allora, il signor Shinjo prese a venire quasi tutti i giorni.
E cominciò a chiedermi ogni giorno, con insistenza, di andare a trovarlo a casa sua e di cucinargli qualcosa. La mia collega, non essendo un problema suo, mi incitò: "Sposalo, e poi fatti lasciare tutto in eredità!". Io obiettai: "E se poi vive fino a novant'anni, come la mettiamo?". Al che lei rispose ridendo: "In quel caso assumi me come cameriera, così viviamo insieme e ci divertiamo un sacco. Basta che mi fai dare un buono stipendio, eh! ".
Quella notte, faceva un freddo terribile.
E inoltre la sera prima mio padre si era arrabbiato furio-samente con me, quindi ero un po' giù. Mentre ero presa dal gran daffare, il riso già preparato in una scodella si era raf-freddato, io senza accorgermene l'avevo servito, e il cliente aveva detto: "è freddo", mostrandosi molto seccato. Ogni tanto mi succede di fare grossi errori come questo. Quella mattina mia madre mi aveva detto: "Sei stanca, oggi vado io al ristorante, tu pensa a riposarti". E così era andata a lavorare al posto mio, anche se non si sentiva bene per colpa della menopausa.
Io non sono assolutamente gelosa, ma mio padre e mia madre si somigliano di aspetto, e anche le cose che realizza-no sono molto simili. Quando sono insieme al ristorante, si crea un armonia impensabile quando ci lavoro io. Si crea un bellissimo ritmo. Non si interrompe mai, nemmeno se litiga-no. Quando lo vedo, mi capita a volte di sentirmi un po' fuori posto. E ogni volta che provo questa sensazione, spunta in me una specie di impazienza: il desiderio di avere un mondo solo mio, di avere un compagno solo mio.
Quella sera in cui mi ero ritrovata improvvisamente libera, poco prima di smontare dal lavoro nel club, era venuto il signor Shinjo a prendere il tè.
E quando uscii dalla porta di servizio per andarmene, lo trovai lì che mi aspettava. "Andiamocene insieme" disse.
Mi tese il braccio, e quando vi misi il mio, sentii un odore più familiare e antico di quello di mio padre o di mio nonno.
E così pensai con molta forza: Come Taizo non può essere che un sostituto di un uomo adulto che mi ama, così il sentimento di questo signor Shinjo che mi segue non si avvicina nemmeno lontanamente all'amore immenso e insosti-tuibile che provava per la moglie che ha perso.
Provai a pensare a cosa sarebbe successo a mio padre se avesse perso la mamma, e lo immaginai facilmente. Probabilmente avrebbe cercato di distrarsi con un'infatuazione per una donna giovane, più o meno della mia età.
La casa dove viveva il signor Shinjo era davvero piccola.
Solo il giardino era grande, ma la casa in sé era poco più grande di un ripostiglio. Accanto alla casa c'era un deposito vero. Fu quello che il signor Shinjo mi fece vedere per prima cosa. Forse non c'erano cose di grande valore, ma era pieno di oggetti di tutti i tipi, conservati con molta cura, e non si sentiva odore di polvere né di muffa. Sembrava di vedere il tocco gentile della moglie che si occupava di quelle cose con tutto il suo amore.
Dentro casa, si sentiva molto la tristezza per la sua assen-za. Non era sporca, ma da alcuni dettagli si percepiva una sensazione di indescrivibile malinconia e abbandono. Era come se la casa avesse perso la sua anima.
C'era un gatto che poltriva.
"Non so perché vivo con questo ammasso di peli, ma se lo chiamo mi risponde e ci vogliamo bene, buffo, no?" disse il signor Shinjo, e in quel momento mi accorsi davvero dell'odore di solitudine che riempiva la casa e che sembrava dovesse farla esplodere. Capii che era stata quella solitudine in-curabile a spingerlo fino al punto di abbordare le ragazze giovani nel club facendo vedere il suo libretto bancario.
Nella cucina, dove il vetro della finestra era rotto da chissà quanto, c'era un bottiglione vuoto di sakè che rotola-va sul pavimento. Nel lavandino c'erano diversi bicchieri nei quali probabilmente l'aveva bevuto. Gli alberi del giardino trascurati, troppo cresciuti, avevano completamente invaso il vetro della finestra e ogni volta che soffiava il vento facevano un rumore, insieme sibilante e frusciante, di una tristezza indescrivibile. Era un suono che risuonava do-lorosamente nel petto, come il suono di cui si parla in quella fiaba, che fa pensare al piccolo storno rimasto orfano: La mamma è tornata!
Facendogli compagnia mentre beveva, gli preparai dei semplici ankake nikomi udon. Anch'io mentre cucinavo bev-vi e finii con l'ubriacarmi completamente.
"Ti prego, spogliati, mi basterà solo guardarti" mi chiese con insistenza.
Un po' distrattamente mi spogliai, e per di più finii con l'andarci a letto. Cioè a letto con un uomo più vecchio di mio padre. Arrivata a quel punto, anni o non anni importava poco, ma in ogni caso portò a termine l'impresa. "Quello che è successo oggi non si potrà ripetere, presto potrei spo-sarmi" dissi io, ma lui, ignorando i miei discorsi, disse:
"Mi è bastato che tu mi abbia lasciato stare con te oggi.
La mia realtà è che potrei morire anche domani, e non ho intenzione di ostacolare il tuo futuro. Mi basterà essere accol-to ogni tanto al ristorante di tuo padre, vederti al mio club, e magari fare ancora una volta o due quello che abbiamo fatto oggi".
Capii che era sincero. Sentivo che ormai per lui il desiderio di morire era più forte del crudo desiderio sessuale o del bisogno di ottenere quello che voleva dagli altri. "Non vorrei fare una morte vergognosa, correndo appresso a una giovane donna, ma non mi interessa nemmeno fare una morte onorevole" disse il signor Shinjo. "Se succede una cosa co-me questa, anche se è solo un'illusione, ne sono felice. Ma non sono così stupido da attaccarmici."
Per farmi portare a casa, chiamò una macchina con autista, ma io mi feci lasciare un po' prima.
Appena scesi mi colpì un forte soffio di vento del Nord, e mi chiusi il davanti del cappotto. Le gambe e la nuca erano ancora calde della passione di lui.
Ma che razza di vita sto facendo? pensai.
Adesso papà e mamma saranno in piedi nel ristorante al colmo dell'animazione. Non sarà che sono innamorata di mio padre? mi chiesi, tentando di risolvere il problema semplicemente, affidandomi alla psicologia, ma sapevo che non era così. Per questa situazione, avevo delle responsabilità. Se venivo lasciata in continuazione da uomini della mia età che pensavano seriamente al matrimonio, una ragione doveva esserci, no? Cercavano donne più esperte? Io ero troppo sciatta? No, non era nemmeno quello... mentre pensavo a queste cose, camminavo. Certo, c'era qualcosa di irrepara-bilmente distorto.
Ero ormai arrivata a un santuario shintoista del vicinato, dove andavo sempre per la preghiera di Capodanno, e nell'oscurità, un po' barcollante, penetrai nel recinto. Oltre il piccolo torii rosso nascosto dall'ombra degli alberi, c'era una vecchia e lunga scalinata di pietra. Salii per quei gradini ricoperti di muschio che luccicavano e raggiunsi il tempio principale.
In fondo al tempio era tutto buio, e non si vedeva niente.
La sagoma del tetto, appuntita, sembrava tremare al vento.
Gettai le monete in offerta e con le mani fredde diedi una scossa al cordone intrecciato di un bel colore, e nel buio risuonò forte e gentile il suono della campana. Poi, dopo aver fatto due inchini, battuto due volte le mani, e fatto un altro inchino, feci la seguente preghiera:
"Basta con i bambini e con i vecchi, vorrei trovare un compagno dell'età giusta, anche se il cammino dovesse essere lungo".
Alzai lo sguardo verso l'alto, e tra le ombre scure dei rami degli alberi, vidi moltissime stelle che brillavano.
Siccome ragionare più profondamente mi sembrava di una difficoltà insuperabile, decisi di non ragionare più, e poi ormai pregando avevo affidato i miei sentimenti agli dèi, perciò anche per tutto il resto avrei lasciato fare a loro, che sia quel che sia... e così pensando, scesi la scalinata affrettan-domi verso casa.