THE SOUND OF SILENCE
Come mai succede spesso che delle persone amiche rie-scano a intuire, da alcuni impercettibili segni, diverse cose che sarebbero dovute restare nascoste? Quando, e come, le hanno sapute, visto che nessuno ha fatto nulla perché le sapessero?
è un dubbio che mi ha assalito più volte nel corso della mia vita.
è una sensazione simile a quella di chi, in una casa dove è saltata la corrente, va avanti dritto e senza esitazioni lungo il corridoio buio, diretto all'interruttore generale. Oppure di chi, avendo fatto cadere una cartolina dietro la scrivania, cerca di avvicinarla usando una riga. Sebbene si conosca l'ogget-to, lo si possa toccare con mano e ci si muova in modo normale, per qualche ragione non lo si può vedere chiaramente.
è la stessa sensazione frustrante e precisa.
Lo pensavo per esempio ai tempi della scuola nel consta-tare che, anche se una tentava di tenere nascosta una storia d'amore alle proprie amiche, ognuna finiva sempre col capire chi piaceva alle altre, o nel vedere i ragazzi che si innamo-ravano della ragazza dell'amico e glielo tenevano nascosto, o giovani professori che non stavano ancora insieme ma erano reciprocamente attratti.
Oppure, quando un'amica, pur non dicendo nulla, soffri-va molto perché i suoi genitori, che si comportavano come se andassero d'accordo, in realtà avevano rapporti gelidi, io lo sentivo.
Il movimento degli occhi, il posto dove metteva le mani, il cambiamento nel modo di vestire. Quando le davo un piccolo aiuto, quando per qualche ragione si stupiva... qualcosa veniva in superficie. Ma anche se non c'era un pretesto in particolare, a un certo punto lo sapevo. Tutti più o meno lo capivano. Anche se non affiorava sino alla superficie della coscienza, in qualche parte profonda lo sentivo.
Anzi, la persona che nasconde e quella a cui viene nascosto, in una parte profonda di loro stesse, sanno tutte e due di sapere. Anche se la differenza sta solo tra il dire e il non dire, a causa del fatto di aver tracciato una linea, man mano che aumenta il peso del tempo, può anche crearsi una grande lacerazione. Ma può anche accadere che, per il fatto di non aver detto, si possano evitare delle irreparabii ferite. A seconda del carattere dei personaggi coinvolti, quale sia la soluzione migliore può variare, ma ad ogni modo, l'unica cosa che mi sembra sicura è che il corpo e la mente delle persone ricevono e trasmettono molte più informazioni di quanto le persone stesse non pensino. Questa colorazione misteriosa a volte mi spaventa, perché mi dà la sensazione di essere completamente esposta, a volte mi conforta e mi stringe il cuore.
Per il viaggio dopo il diploma di liceo, avevo deciso di andare con un'amica a Guam per prendere la licenza di sub, e quando dovetti rinnovare il passaporto, per la prima volta andai da sola a farmi dare una copia del registro di famiglia, e quando la vidi, pensai: Ecco.
Quando avevo detto a mia madre che dovevo rinnovare il passaporto, lei aveva fatto una faccia che sembrava dire: è arrivato il momento, ma un attimo dopo tirò fuori il certifi-cato dell'assicurazione e il sigillo come se niente fosse.
(Il sigillo con il proprio nome che in Giappone si appone sui documenti ufficiali al posto della firma. (N.d.T.) Non so se lo fece perché voleva dirmi: Ormai sei grande, pensaci da sola, o perché aveva deciso di continuare a far finta di niente. L'unica cosa di cui ero sicura era che l'avevo vista esitare. Lei aveva esitato, io me ne ero accorta, ma avevamo perso per l'ennesima volta l'opportunità di chiarire tante cose.
Mio padre e mia madre erano ormai abbastanza avanti negli anni, e da quando mio padre era andato in pensione la mattina non si lasciavano mai mancare la loro passeggiata.
Anche nelle più fredde mattine invernali, camminavano a lungo, con calma, l'uno accanto all'altra. Indossando i loro vecchi cappotti neri fatti fare insieme dal sarto, a braccetto lungo l'asfalto che brillava alla luce del mattino, camminavano in silenzio. Ma facevano tenerezza anche in versione esti-va, nel loro abbigliamento un po' sbilanciato: lui in tuta e lei in camicia di lino.
Io che la mattina mi alzavo tardi, nel guardarli dalla finestra mentre uscivano di casa e si incamminavano mi dicevo spesso: Certo che se ci penso, è davvero strano che questi due anziani signori siano il mio papà e la mia mamma.
E se cercavo di pensare oltre, da sempre mi venivano in mente, in modo del tutto automatico, due scene.
Una era quella in cui mio padre pronunciava una frase.
Lo faceva ogni volta che in casa sorgeva qualche dramma.
Mia madre, in preda all'isterismo, urlava e si agitava, io piangevo e mia sorella si chiudeva in un ostinato silenzio... e a far cessare questo dramma che si ripeteva ogni volta uguale era sempre la stessa frase di mio padre:
"Ve lo chiedo per carità, non mi fate ricordare di quella volta".
Io che ero piccola non capivo il significato di quelle parole. Però nel sentirle mia madre e mia sorella si calmavano im-mediatamente e l'impeto del dramma si esauriva di colpo.
L'altra era una scena di un viaggio fatto una volta tutti e quattro insieme all'inizio dell'autunno.
Lungo il cammino della mia vita, in molte occasioni mi era tornata alla mente, in una ripetizione inesorabile. Ricordo perfino il gioco mutevole di luci e ombre, ed è così abbagliante che devo socchiudere gli occhi. Ho l'impressione di dissolvermi nello scintilhio della superficie dell'acqua.
Ho una sorella di quindici anni più grande.
Mia sorella col suo viso un po' anni settanta era abbastanza bella, si divertiva molto e aveva successo con gli uomini. Siccome era sempre in giro a divertirsi non passava molto tempo in famiglia, ma con me era molto affettuosa, mi portava in tanti posti e mi comprava un sacco di cose. Si occupava di me fino a diventare invadente, metteva becco anche nei miei rapporti con gli amici, e d'estate mi aiutava a fa-re i compiti per le vacanze fino a tarda notte.
Negli occhi e nel comportamento di mia sorella c'era una forza che non si addiceva alla sua età, e quando la scorgevo avevo la sensazione di percepire un'estrema tensione.
Quell'anno, nostro padre era appena passato a un'altra ditta. Poiché non poteva prendere molti giorni in estate, si era deciso che avremmo aspettato l'inizio dell'autunno per andare in una stazione termale. Poi scegliemmo anche l'albergo, che era gestito da un conoscente di papà. Era un albergo vecchio ma elegante, dove ogni stanza aveva un suo piccolo bagno termale, e ci fermammo lì due o tre notti. All'epoca dovevo avere più o meno dieci anni.
Come mai i ricordi dell'infanzia hanno dei colori così vividi?
Il trucco della mamma vestita nei suoi abiti migliori, il colore della camicia a mezze maniche di papà mi appaiono molto più chiari e netti del paesaggio che ho davanti agli occhi in questo momento.
"Più tardi, dopo cena, andiamo a bere da qualche parte.
Qui non c'è niente. Continuando su questa strada c'è un'osteria, genere un po' di paese" disse mia sorella.
Era distesa, e si metteva lo smalto sulle unghie delle mani.
"Ma che fai? Non mettere quello smalto così rosso!" disse mia madre. "Io mi vergogno a farmi vedere in giro con te."
"Sì? Allora lo copro con un altro" rispose mia sorella.
Ma sapevamo tutti che sarebbe uscita così, con quello smalto rosso sulle unghie.
"Io non ci vengo, dopo aver cenato sarò troppo pieno"
disse mio padre, leggendo il giornale.
"Va bene, andiamoci noi tre: solo donne" disse la mamma.
"Vieni anche tu, sai? Non ti addormentare" disse mia sorella, dandomi un leggero colpetto al piede. E fece un sorriso di intesa, arricciando un po' il naso. Era un'espressione di mia sorella che mi piaceva tanto.
Nel giardino dell'albergo, gli alberi ancora verdi spiega-vano i loro rami contro il cielo un po' pallido dove si intravedeva qualche sospetto di autunno. Ogni tanto nello sta-gno subito fuori dalla stanza saltava qualche grossa carpa.
In quella stanza sconosciuta, immersa nell'ombra, mentre guardavo la luce nel giardino, era straordinariamente piacevole il solo fatto di stare così, oziosamente, ognuno a fare quello che gli piaceva. In famiglia andavamo davvero d'accordo, come si suol dire eravamo "amici". Papà e mamma nonostante il passare del tempo continuavano a mantenere un rapporto di uomo e donna, e tra la mamma, che sembrava più giovane, e mia sorella, che aveva sempre avuto un'aria più adulta dei suoi anni, c'era un rapporto di complicità come tra sorelle. Io era ancora una bambina insignificante, ma a volte, come in questa occasione, mi includevano nelle loro uscite e io, tutta felice, partecipavo al mondo degli adulti.
A mia sorella il piccolo bagno termale annesso alla stanza piaceva da morire, e durante il giorno stava lì all'infinito senza quasi uscire. Tanto da preoccuparsi che stesse lì dentro nuda per tanto tempo. E quel pomeriggio non so per quale ragione mi portò con sé e facemmo il bagno insieme.
Sebbene fosse fatta di rocce, in realtà la vasca era poco più di un giocattolo, l'acqua era vera acqua termale ma piuttosto tiepida, e anche lo steccato che divideva questa zona dal giardino era in miniatura. Dalla vasca si sentiva perfettamente il sonoro della televisione che era nella stanza. La vasca era quindi molto piccola, e se si faceva il bagno in due, mentre una era immersa nell'acqua, l'altra poteva te-nerci al massimo i piedi. Nostro padre disse che a lui un bagno così piccolo non piaceva per niente, e andava in quello grande dell'albergo, e la mamma non lo utilizzava così tanto, perciò era come se avessimo un bagno termale privato, tutto per noi.
Mia sorella aveva messo una bottiglia di sakè in una bacinella piena di ghiaccio, e lo beveva sorseggiandolo piano. Io avevo messo nel ghiaccio un succo d'arancia, e imitandola bevevo anch'io a piccoli sorsi. Era un giorno di forte vento, e ogni tanto da uno squarcio tra le nuvole filtravano dei raggi di sole molto intensi. Stava per scendere la sera e mentre guardavamo la luce mutare lentamente colore, io e mia sorella ce ne stavamo a bagno senza parlare.
Oltre lo steccato, si vedevano le montagne fitte di vegetazione, dalla forma simile a quella delle ghiande. Anche in quelle montagne dai contorni indistinti, colpiti dalla luce d'oro del sole al tramonto, il verde degli alberi cominciava a sprigionare una luminosità sublime. Anche le nuvole che scorrevano senza pausa nel cielo cominciavano a tingersi di rosa, vaporose come zucchero filato.
Quella sottile trasformazione, che per quanto uno potesse fissarvi lo sguardo era impossibile fermare, era una successione di colori smaglianti che si potevano vedere solo per un istante.
Appena sentivo un po' freddo tornavo a immergermi in quell'acqua tiepida e quando mi ero riscaldata uscivo e bevevo un sorso di succo d'arancia.
Mia sorella era completamente ubriaca, e beveva il sakè accompagnandolo con delle alici secche, con aria contenta.
Stava stesa comodamente con le braccia appoggiate alla vasca e canticchiava a bocca chiusa.
Sì, quando mia sorella era di buonumore chissà perché canticchiava sempre la famosa canzone di Simon & Gar-funkel The Sound of Silence. Ma la cosa tremenda era che la cantava cambiando le parole, adattandole alla musica. La sua canzone diceva:
"Le mutande del vecchietto... Le mutande del vecchietto-o... Le mutande, le mutande del vecchie-etto...".
Pare che fosse un gioco che andava di moda a scuola, ma il modo di fare di mia sorella che, dimentica di tutto, cantava quella canzone nel bagno termale faceva proprio venire in mente un vecchietto ubriaco. Le sue lunghe gambe attraverso l'acqua sembravano deformate. I peli del suo pube che uscivano a metà dall'acqua ondeggiavano come alghe. Il sudore le scorreva in mezzo ai seni.
Mentre la guardavo fissa, pensai: Ah, le unghie delle nostre mani hanno la stessa forma, si vede che siamo sorelle.
Anche le unghie dei piedi, anche le onde dei capelli, anche la forma del naso si assomigliavano molto. Anch'io quando sarò grande diventerò una signorina come lei?
pensai.
Entrai in acqua con un tonfo e dissi:
"Io tra poco esco".
"Va bene, io resto a bere ancora un po'."
"Senti..."
"Cosa?"
Non so ancora adesso perché le feci una domanda come quella.
"Io e te ci assomigliamo come mamma e figlia, vero?"
Mia sorella sgranò gli occhi, poi abbassò le lunghe ciglia, ma fu solo per un breve attimo. Simulò un mezzo starnuto, con un gesto dinamico tirò fuori la bottiglia dalla bacinella e la versò nel bicchiere. Quindi bevve tutto d'un fiato e si im-merse nell'acqua fino alla testa. Mentre io la guardavo stupita, disse: "Ah, mi sento meglio!" e uscì fuori dall'acqua co-me un mostro marino.
Poi di nuovo ci fu un momento di silenzio.
Istintivamente, alzai gli occhi verso il cielo. In quella breve pausa in cui avevo distolto lo sguardo, il suo aspetto era mutato ancora. Tutto si era acceso di un rosa pazzesco, e anche gli uccelli sembravano intinti in quel colore. Le montagne che fino a poco prima erano verdi adesso sembravano essersi di colpo ricoperte di rosse foglie autunnali.
Mia sorella, strizzandosi via l'acqua dai capelli, ricomin-ciò a cantare: "Le mutande del vecchietto...". Era un modo incredibilmente abile di eludere.
Poi tutto tornò come prima ma in quel silenzio che era sembrato durare un'eternità... il tempo si era distorto, allun-gato, e mi aveva precipitato di colpo, in quella risposta man-cata, nel mondo di una realtà completamente nuova. Mentre il cielo cambiava colore momento per momento, nella banale, calda intimità fra sorelle, costruita nei tanti giorni passati insieme, i corpi attaccati come animali, io, come spiando un lago trasparente, avevo trovato la verità negli occhi di mia sorella.
Chissà perché mi riaffiorò alla mente anche l'espressione di mio padre che diceva: "Non mi fate ricordare di quella volta".
Mentre ero immersa nell'acqua con le mie braccia e gambe esili e il torace quasi piatto di bambina, tirai fuori, con una freddezza e una furbizia superiori a quelle di un adulto, la decisione di far finta di non essermi accorta di niente.
Quando tornai a guardare fuori, il cielo aveva già cominciato a scurirsi e il rosa si stava trasformando in indaco.
"Guarda quel rosa laggiù, sulle montagne. Se l'amore ha un colore, sarà sicuramente così" disse mia sorella.
Ubriaca com'era, forse aveva già completamente dimenticato il momento di prima ed era tornata di buonumore. Poi sorridendo tutta contenta senza ragione, con il dito indicò lontano.
"è veramente bello" dissi, guardando anch'io in quella direzione.
Sulle cime delle montagne, brillavano gli ultimi residui del sole, tremando come fiamme o vampe di calore.
Quando ero alle medie, mia sorella rimase incinta di un americano con cui aveva una storia e se ne andò di casa.
Mia madre cercò di convincerla ad abortire: come avrebbe fatto a vivere in un paese straniero? Quell'uomo non aveva ancora avuto il divorzio dalla moglie, no? E poi si sapeva che lì tutte queste cose finivano in tribunale, e lui sarebbe rimasto senza un soldo.
Ma in realtà in famiglia capivamo benissimo che la mamma parlava così perché aveva paura di perderla.
Ma forse ormai non era più possibile tenere prigioniera la mia sorella ribelle in questa piccola scatola chiamata casa...
Sebbene triste e frastornata, ascoltavo cercando di farmi forza.
Poi restai a guardare i disegni nel mio cuore andare e venire, comporsi nelle venature del marmo, poi confondersi.
Se pensavo che era mia sorella, sentivo solo un po' di tristezza. Ma se non era così, allora una cupa e nera gelosia mi montava dentro. In un attimo provavo un odio senza confini per tutti e tutto: per il bambino che doveva nascere, per la nuova vita di mia sorella, per il fatto che se ne andava la-sciandomi lì, rinunciando a vedermi crescere. Ma se pensavo: è mia sorella, quello stato d'animo si scioglieva come neve sulla stufa, senza lasciare traccia. Restava solo, come acqua pulita, il pensiero: Che peccato, mia sorella se ne va... Guardavo con curiosità i miei sentimenti girare vorti-cosamente tra due colori opposti come la pallina in una roulette.
Finita la cena, ne parlammo tutti insieme a tavola, mangiando le paste e la frutta. Mio padre, guardando la televisione come se non prestasse troppo ascolto a noi, ogni tanto borbottava qualcosa del genere: "Fai quello che vuoi".
Eravamo tutti molto tristi. Ma il fatto che mia sorella avesse un bambino nella pancia aveva ormai cambiato tutto.
La discussione si fece più tesa, mia madre cominciò ad assumere un tono un po' sarcastico, e finalmente dopo tanto tempo mio padre tirò fuori il suo cavallo di battaglia:
"Ormai sono vecchio, perciò vi prego, non mi fate ricordare di quella volta".
Ah, ha aggiornato la sua frase in versione terza età, pensai dentro di me.
In quel momento mia sorella disse:
"Ma cosa credi, anch'io non ho nessuna voglia di fare come quella volta: cancellare il fatto di avere amato qualcuno, farne ricadere tutto il peso su di voi, fingere tutto il tempo. Non l'ho mai detto, ma ho sempre pensato di avere sbagliato. Ormai non ho più rimpianti, ho vissuto felice, va tutto bene, ma una cosa del genere mai più. Lo so, faccio sempre cose azzardate e capisco che siate preoccupati, ma se provo di nuovo a fingere che non sia successo nulla, diventerò pazza
Mia madre restò in silenzio. Mio padre annuì ma era un gesto senza significato. Gli occhi di mia sorella fiammeggia-vano ma subito dopo aver sputato quelle parole, il suo viso assunse un'espressione affettuosa e guardandomi disse:
"Vieni a trovarmi, eh, puoi anche venire a studiare lì".
Era la sua espressione che mi piaceva, quando sorrideva dolcemente, arricciando il naso.
Sorella, madre, con qualunque nome l'avessi chiamata, il rapporto non sarebbe cambiato. Era una delle poche cose che sentivo dal fondo del cuore. Nonno, nonna, papà, mamma, il problema non era quello. Noi eravamo una famiglia.
Era molto più comodo pensare così. Era più allegro, e dava una sensazione di espansione. Sentii che come il rosa del cielo di quel giorno, una luce incandescente eppure delicata viveva momento per momento vivace, pulsante, come una co-rona solare, avvolgendo la famiglia che aveva accettato questa decisione.
Mia sorella adesso, a causa del lavoro di suo marito, vive in Canada. Ha un bambino, un maschio, quello che aspettava in quel periodo. Più o meno una volta all'anno io e mia madre andiamo a trovarla, o è lei che viene col figlio. Il bambino si è molto attaccato a me, quindi occuparmene è fatico-so, ma bello. Con la sua vocetta carina mi chiama per nome.
Non mi sono mai pentita della mia decisione.
Quel pomeriggio all'inizio della primavera, nel vento freddo in cui già si mescolava il profumo dolce dei fiori della nuova stagione, e senza che mia madre avesse aggiunto alcun commento, andai a prendere il passaporto.
I grattacieli di Shinjuku si stagliavano contro l'azzurro del cielo.
Mentre lo guardavo pensavo alle montagne quel giorno, alla lunghezza di quel silenzio.
Rividi il colore dei capelli bagnati e luccicanti di mia sorella che era venuta fuori dall'acqua come dopo essersi immersa in qualche luogo profondissimo, e aveva cominciato a canticchiare come se non fosse successo nulla.
Devo fare la spesa, comprare i contorni per la cena, stase-ra cucino io, farò il riso misto al vapore che piace tanto a papà. E poi la verdura bollita con salsa di soia, il brodo di ostriche... ripetendo tra me e me, sottovoce, come una formula magica, parole di tutti i giorni come queste, io che per un poco avevo lasciato vagare i miei pensieri, ritornai alla mia vita di sempre.