IL SIGNOR TADOKORO

Le persone assunte da poco nella ditta e quelli che vengono per qualche lavoro part time, di solito il terzo giorno, o al più tardi dopo una settimana, mi chiedono timidamente:

"Ma il signor Tadokoro, chi è?".

Io do una spiegazione sbrigativa del tipo: è una specie di mascotte della ditta, e anche se tutti mi guardano sempre con un'aria dubbiosa, dopo un po' finiscono con l'abituarsi.

Il signor Tadokoro arriva puntuale alle dieci e se ne va al-le sei. Si siede al suo posto, beve un caffè, legge un libro, risponde al telefono quando gli altri sono occupati, e se gli viene chiesto fa delle fotocopie. è un signore dalla pelle liscia liscia, tra i sessantacinque e i settanta. Non ha moglie.

Non ha neanche figli. Pare che viva da solo.

Quando il signor Tadokoro non viene al lavoro, senza una ragione precisa tutti diventano di malumore, si preoccu-pano, guardano continuamente il suo posto. Il capo della ditta è in un'altra stanza ma siccome viene almeno una volta al giorno a salutare il signor Tadokoro, se non lo trova, fa una faccia come se la fortuna lo avesse abbandonato e subito ritorna nel suo ufficio.

Il signor Tadokoro è come il gatto che un tempo ci veniva tacitamente permesso di allevare in un angolo del giardino della scuola. Un gatto che poteva stare sempre lì, grazie al fatto che tutti gli davano spontaneamente da mangiare. Il signor Tadokoro è come una piccola aiuola in mezzo a un gruppo di palazzi. Grazie al fatto che lui c'è tutti riescono ad amare un po' il mondo. Riescono a riconoscere la propria parte migliore. Questa cosa in sé non è né buona né cattiva. è semplicemente molto necessaria per gli esseri umani.

Quando ho cominciato a lavorare nella ditta, il proprietario ogni tanto si faceva vedere e dava alcuni suggerimenti al figlio che aveva preso il suo posto. Era un vecchietto energi-co, dai capelli bianchi, e nel vederlo pensavo: Fuma, beve caffè a litri, eppure gestisce una catena di quindici negozi di cibo naturale! Il figlio, che nel frattempo ha preso la direzione, è un maniaco salutista, di recente ha cominciato a trattare piante dal Sudamerica, e si occupa tra l'altro di progetti tesi a far ritornare i guadagni alle popolazioni indigene.

Adesso ha diminuito a tre il numero dei negozi, e rispetto a prima le dimensioni della ditta si sono ridotte ma le vendite per corrispondenza hanno mostrato una crescita e conside-rata la recessione gli affari sono abbastanza stabili. Prima io mi occupavo della creazione di bollettini e dépliant da di-stribuire in quei quindici negozi, ma dato che sono qui da tanto tempo ho fatto un po' di carriera e oltre ai dépliant mi è stata affidata la responsabilità del sito internet. Ho anche tre collaboratori personali, inclusi i part time. Trattandosi di una ditta piccola, il lavoro non è niente di eccezionale, ma in questo periodo di crisi penso di potermi ritenere fortunata del mio posto.

Il signor Tadokoro era già qui quando io, dopo la laurea, sono entrata in ditta.

Il signor Tadokoro puzza un pochino e porta abiti con-sunti. A quanto sembra ha soltanto due vestiti: uno per l'estate e uno per l'inverno. Le camicie gliele regalano, usate, gli impiegati dopo averle fatte lavare a secco, e ogni tanto anche le impiegate gli fanno qualche regalo, magari di poco prezzo. è molto basso, e pelato. Ha gli occhi come due fes-sure, e un'espressione indecifrabile. La sola cosa che cura è la barba, che rasa regolarmente. Col suo aspetto da fantasma, è un po' inquietante. Ma a guardare il signor Tadokoro, chissà perché, non si prova una sensazione sgradevole. Vi so-no persone che, anche se si presentano in modo impeccabile, a guardarle trasmettono una sensazione negativa, ma lui è esattamente l'opposto. La sensazione è simile a quella di quando si guardano le montagne. Qualcosa di lontano, e che ha una sua bellezza. Forse è il colore del suo spirito.

I primi tempi avevo sospettato che nella presenza inspie-gabile del signor Tadokoro in ditta si nascondesse qualcosa su cui era meglio glissare, e così controllandomi avevo taciu-to fingendo di non notare nulla di strano. Ma dopo un mese, non riuscendo più a resistere, alla fine chiesi a un mio diretto superiore, uno sposato con cui avrei in seguito avuto una piccola storia:

"Ma questo signor Tadokoro, chi è?".

Ridendo rispose: "Strano che tu non l'abbia chiesto prima d'ora".

A quanto mi disse quel mio superiore, quando il nostro attuale capo era bambino, negli anni delle elementari, era stato abbandonato dalla madre che se ne era andata di casa e pare che si fosse ritrovato nella confusione più totale. Il padre, il nostro vecchio capo, era troppo preso dal lavoro per occuparsi di lui. Il signor Tadokoro, che viveva lì accanto, in una casa malandata, e che aveva qualche rotella fuori posto, cominciò a occuparsi con assoluta dedizione di quel bambino che in fondo conosceva solo di vista. Anche quando il nostro attuale capo, che aveva preso una cattiva strada, gli prese dei soldi o lo picchiò quasi fino a ucciderlo, il signor Tadokoro continuò a trattarlo con affetto più che se fosse stato il suo stesso figlio. Riuscì perfino a salvarlo dal suicidio e gli pagò con i propri soldi un viaggio per farlo distrarre.

Quando, infuriato per una stupidaggine il ragazzino colpì con un coltello il signor Tadokoro, e questi non aveva i soldi per pagarsi le spese dell'ospedale, per la prima volta egli parlò al padre dell'incredibile dedizione di quell'uomo. E

così il vecchio capo decise di far stare in ditta, senza alcuna particolare funzione, il signor Tadokoro che era disoccupato e che aveva finito i soldi dell'eredità lasciatagli da suo padre.

Fu assunto come "consulente per l'alimentazione naturale".

Quando giunse l'età del pensionamento, continuò a lavorare come collaboratore part time. E anche se non era tenuto a farlo, prese l'abitudine di venire lo stesso in ufficio tutti i giorni. Quando il capo si ubriacava, immancabilmente, a proposito del signor Tadokoro, diceva: "So che forse lo con-siderate un ingombro, ma vi prego di sopportarlo. Non mi ha fatto niente di particolare ma per me è più di un padre e di una madre".

La cosa che mi stupiva di più è che la sua presenza non costituisse un problema. Nessuno si lamentava seriamente dicendo che il suo era uno stipendio dato a vuoto, o che bisognava licenziarlo. Mi sembrava incredibile che nella società moderna potessero accadere cose come queste. Ma forse questo succedeva non perché lui fosse amato, ma per il fatto che la sua presenza si fondeva con l'aria. A volte, quando penso al signor Tadokoro, l'immagine che mi viene in mente è quella di lui che tutto tranquillo sostiene un muro.

Le persone della ditta sotto sotto credono tutte che, se lo trattassimo male e lui dovesse andarsene, ricadrebbe su di noi una punizione. Non so se questa sia la sua magia, o il suo fascino. L'unica cosa che so è che tutti crediamo fermamen-te che sarebbe così.

C'è stato un periodo in cui facevamo i pupazzetti del signor Tadokoro e li usavamo come portafortuna, e quando qualcuno per scherzo diceva: "Come faremmo se il signor Tadokoro dovesse morire?" c'era sempre qualcun altro che si arrabbiava o aveva le lacrime agli occhi. Era una persona importante.

Un pomeriggio di pioggia, andai dal signor Tadokoro a portargli del tè.

Dietro le sue gracili spalle si vedevano, attraverso il vetro della finestra rigato di pioggia, le luci sfocate dei palazzi.

"Signor Tadokoro, le ho portato un tè. Ma non sembra in forma, c'è qualcosa che la preoccupa? Ha il raffreddore?

Vuole che le vada a prendere delle gocce di propoli dal magazzino?" dissi nel vedere che il simpatico signor Tadokoro, il quale appena mi vede avvicinarmi con il tè mi sorride sempre e mi fa perfino ciao con la mano, quel giorno se ne stava a guardare fisso fuori dalla finestra succhiando una caramel-la al propoli.

"No, non ho il raffreddore. Ma sono preoccupato. A casa mia c'è qualcosa dietro la lavatrice. E ho paura che con questa pioggia si senta triste" rispose.

Io ebbi un leggero capogiro.

"C'è qualcosa, che cosa vorrebbe dire?"

"è un po' come Kochan, un po' come mia mamma morta. Mi fa anche pensare un po' a Dio, o forse è uno spirito della casa. Quando non è contento fa tremare la lavatrice.

Vive bevendo l'acqua che cola dai tubi. è sempre in casa. Mi pare di aver sentito che quando dormo esce zitto zitto e va in giro per la stanza."

Per inciso, Kochan è il capo della ditta, quello attuale.

"Perciò non posso usare la lavatrice. L'ho già detto altre volte, no? Quando lavo, lavo sempre a mano. Non posso certo spaventarlo."

"Con questa creatura in casa non si sentirà solo, no?" dissi sorridendo.

"Già. Ora che Kochan è diventato grande e si è sposato"

rispose il signor Tadokoro.

Poi tornò a guardare fuori dalla finestra.

Sentendomi stringere il cuore, corsi in bagno e piansi un poco. Io che non avevo pianto neanche nei momenti più dif-ficili della mia storia con quel superiore sposato.

Ero felice che tutti fossero gentili con una persona come il signor Tadokoro e di questo mondo in cui c'era uno spazio per lui, anche se piccolo. Ero grata del fatto che in me ci fossero ancora lacrime piene di tenerezza come quelle. E poi se pensavo alla sua vita mi sentivo stringere il cuore. In ditta non partecipava al trambusto degli affari, non viveva il calore delle storie d'amore, non conosceva il desiderio per una persona sposata, non avrebbe visto il viso dei suoi nipoti. Lui che viveva tranquillo con quella cosa nascosta dietro la lavatrice.

Anche se a volte gli dicevano cose tipo: "Ehi, nonnetto, lo prendi il tè?". Oppure "Ma sei rimbambito?", "Che ci vieni a fare qui?" tutti lo guardavano con affetto.

Nella ditta dove prima facevo il part time sbrigando dei lavori di ufficio, un pomeriggio, nel momento di massimo lavoro, in quel clima di concentrata tensione in cui tutti sono in silenzio davanti ai computer, il telefono squilla, e arrivano le visite dei clienti, risuonò tutt'a un tratto un urlo. Fui colta talmente di sorpresa che dapprima non capii cosa fosse accaduto. Una delle impiegate si era alzata in piedi e gridava:

"Che cosa avete tutti? Non è colpa mia! Non ne posso più!". Ripeteva sempre le stesse frasi, con una strana intona-zione, urlando e piangendo, strappandosi i capelli. Tutti ri-manemmo attoniti, e quel momento ci sembrò interminabi-le. Restai a guardare stordita mentre le persone che erano più vicine a lei, sostenendola la portarono nella sala di ri-creazione. Anche se nessuno ne aveva colpa, era stata messa con le spalle al muro: era una sofferenza a cui nella società capita di assistere spesso.

Nella ditta dove lavoravo adesso, capitava a volte che qualcuno scaricasse la propria rabbia sul signor Tadokoro. Gli dicevano: "La tua sola presenza è un insulto", "Cosa ti credi?

Che lavoriamo per mantenere te?" oppure quando passava il tè lo escludevano, o se sbagliava a fare delle fotocopie lo in-sultavano. Se qualcuno esagerava davvero, qualcun altro magari diceva: "Non te la prendere col signor Tadokoro".

Lui non diceva nulla. Però una volta sbollita la furia, il giorno dopo o al massimo quello dopo ancora, tutti si facevano un esame di coscienza, e gli mettevano dei fiori sul tavolo o andavano da lui a chiedergli scusa. Lui si limitava a ringraziare, con quel suo sguardo lontano e sfocato. Non sorrideva né consolava né si scusava a sua volta. Ma la vita ritornava alla normalità.

Io pensavo che la realtà non fosse una cosa tanto semplice, però assistendo a queste scene finivo col chiedermi se in fondo le persone non fossero semplici. Se c'è un posto per trattare con il lato oscuro del cuore, non si viene messi alle strette fino al punto di urlare nel mezzo dell'ufficio.

Molto tempo fa, quando ancora ci nutrivamo di carne di mammut, gli uomini prendevano le donne con la forza e le donne facevano un sacco di figli, e quando ancora i paesaggi si stendevano all'infinito senza interruzione... quando è stato? quanto tempo fa? Be', comunque sia a quel tempo in ogni villaggio c'era sicuramente una persona che svolgeva il ruolo del signor Tadokoro.

"Piove anche oggi, signor Tadokoro. Non è che quella cosa che ha lì a casa sua si sentirà triste?" gli chiesi, portan-dogli il tè.

"Ah, ho scoperto che cos'è, sa? è un'ametista" rispose lui con decisione.

Agli angoli della bocca aveva un po' di crema dei dolcetti che un collega, tornato da un viaggio di lavoro, aveva distri-buito in ufficio.

"?"

"è una pietra che mia madre mi aveva lasciato in ricordo.

Ero convinto di averla persa, e invece è ritornata lì. è strano, ma durante la notte nel buio ho visto una luce viola. Splendeva come una fiamma. Anche in televisione un importante professore ha spiegato che le pietre sono vive, perciò non ho dubbi" disse il signor Tadokoro.

"Lei è sicuro che ci sia, vero?"

"Sì, perché ci sono i segni. Certo, se dovesse andarsene mi mancherebbe."

"Stia tranquillo, lì si trova bene, quindi resterà" dissi, poi trovai il modo di allontanarmi e tornai al lavoro.

Il signor Tadokoro bevendo il tè guardava dalla finestra.

La pioggia scorreva lungo il vetro. E scendeva sulla terra, la-vando l'asfalto. Le nuvole in lontananza splendevano bianche, e ogni tanto giungeva attutito il rimbombare di un tuono. Il mondo era tutto color cenere. Il nostro palazzo, dove la pioggia non penetrava, era bello e confortevole. E qui dentro, forse senza che gli altri se ne accorgessero, viveva una grande persona. Dolcemente, senza far rumore, proprio come quella "cosa" che abitava dietro la sua lavatrice.

Quando, un po' più tardi, andai a fare delle fotocopie, mi venne in mente tutt'a un tratto il numero speciale di una rivista femminile che avevo lì, dedicato alle pietre per orecchini, e la portai con me. Così, mettendo da parte il mio lavoro, sostituii la carta comune con dei bei fogli colorati, e fotoco-piai la pagina dell'ametista per il signor Tadokoro.

E mentre facevo quel lavoretto con una tazza di caffè in mano, nella stanza delle fotocopiatrici impregnata dell'odore di carta, e il rumore delle gocce di pioggia che picchietta-vano contro i vetri, in quel tiepido pomeriggio di pioggia assaporai la serenità che colmava il mio cuore.