IL PESCIOLINO

Quando ero ancora al liceo, mi si formò una specie di escrescenza in mezzo al petto. Per lo sfregamento dei vestiti si ruppe, uscì del sangue, e si creò un forte gonfiore. Aveva un colore rossastro simile al sangue ma non mi faceva male né mi dava prurito. Non sarà mica cancro? pensai, e mi pre-cipitai in ospedale.

"è un adenoma" disse il dottore.

Spiegò che si trattava di un'accumulazione di grasso e fi-bre. A tagliarlo poteva accadere che si riformasse o addirittura aumentasse di volume, per cui mi disse che dovevo met-terci sopra un cerotto medicato per tre anni.

Tre anni? pensai, e la cosa mi sembrò tanto assurda che lasciai perdere la cura.

Ogni tanto, quando a causa delle stagioni la pelle era più delicata, quando portavo biancheria troppo stretta, o se la lana di un pullover lo irritava, succedeva che l'adenoma diventasse più rosso e gonfio, mi desse un po' di prurito o facesse un po' male. Ma ritenendo che non si trattasse di niente di importante, per molto tempo lo lasciai stare com'era. Era diventato una parte del mio corpo. Se abbas-savo gli occhi era sempre lì, al centro del mio petto. A guardarlo bene, aveva la forma di un piccolo pesce.

Accadde un giorno d'inverno. Al ritorno dai bagni ter-mali, mi accorsi di avere un certo prurito, e infatti la pelle lì intorno era arrossata e gonfia. Ecco, ci siamo, pensai.

Mio padre aveva avuto la stessa cosa in un altro punto, e un giorno, una decina di anni prima, quella parte si era in-fiammata ed era andato in ospedale. Avevo sentito infinite volte il racconto di quanto l'asportazione fosse stata dolorosa. Diceva perfino che, tra tutti i dolori che aveva provato nella sua vita, nessuno era stato così forte. Decisi di andare a farmi vedere prima che si aggravasse ulteriormente, e che se mi avessero detto che bisognava inciderlo, avrei chiesto di trattarlo con dei farmaci. Con l'occasione avrei chiesto anche se si poteva togliere in altro modo.

Scelsi una clinica aperta di domenica e relativamente vicina, dove facevano anche interventi col laser, e provai a telefonare. Pensavo che se si potevano eliminare le rughe e le cicatrici da acne e venivano trattati anche i cheloidi, forse lo si sarebbe potuto togliere con il laser. Quell'adenoma era una cosa che mi affliggeva abbastanza. Se si fosse infiammato si sarebbe dovuto tagliare, inoltre la terapia sarebbe stata molto dolorosa, e poiché questo pensiero non mi abbando-nava, avevo sempre come un peso sul cuore.

"Gli appuntamenti sono al completo, ma se se la sente di aspettare un po', venga pure" mi disse con voce gentile la signorina al telefono. Senza alcuna preoccupazione presi un taxi. Si era messo a piovigginare. Era un pomeriggio grigio e coperto, caldo, e soffiava un forte vento. I passanti per strada avevano tutti l'aria di godersi il loro giorno di riposo.

La clinica era pulitissima e la sala d'aspetto molto spazio-sa. Medici, la cui foto era apparsa nelle riviste, passavano tutti indaffarati. Anche le infermiere lavoravano con alacrità.

Dentro di me pensavo: Per oggi me la caverò con un controllo e qualche pomata antinfiammatoria. Fui chiamata dal dottore prima di quanto mi aspettassi, e con una spiegazione accurata e gentile fui messa al corrente delle condizioni del mio adenoma. Mi fu ripetuto quanto già detto nell'ospedale dove ero stata in passato, e cioè che se un medico che non se ne intendeva lo avesse tagliato, ci sarebbero state molte probabilità che si riformasse aumentando di volume.

"Se è possibile vorrei toglierlo" dissi.

Il dottore mi diede una spiegazione molto dettagliata sui costi e sul laser.

"In tutto ci vorranno quattro sedute. Possiamo cominciare già da oggi" disse deciso.

Io non avevo pensato a niente. E poi ritornare un'altra volta sarebbe stata una seccatura, quindi risposi senza esitare: "Cominciamo subito".

Mentre aspettavo nello studio del dottore, non capivo perché ma mi sembrava di avere la testa tra le nuvole. Ne at-tribuii vagamente la causa alla paura dell'anestesia e del laser. Anche mentre compilavo il foglio del consenso informato, provavo una vaga sensazione di stordimento.

L'intervento fu molto rapido.

L'iniezione dell'anestetico fu sorprendentemente dolorosa, ma una cosa da niente in paragone al dolore descritto da mio padre, di quando gli avevano spremuto il pus. Si capiva che nel letto accanto al mio, dietro un paravento, si stava svolgendo un intervento per l'eliminazione delle rughe. Mi coprii gli occhi, tentando di non vedere la luce del laser, mentre il suo raggio mi colpiva al centro del petto. Sentii una specie di solletico, e nessun dolore.

Presi un nuovo appuntamento, pagai, e uscii in strada.

Nel frattempo era scesa la sera e aveva smesso di piovere.

Andai in farmacia a comprare un disinfettante. Credevo di essere calma, ma mi resi conto di provare una strana agitazione. Andai alla cassa con appeso al braccio un ombrello che avevo intenzione di comprare, ma pagai solo il disinfettante e fu solo dopo essere uscita che mi accorsi di avere abilmente messo in atto un furto. Mi ero dimenticata di avere l'ombrello appeso al braccio. Quando uno non è cosciente, tutto fila senza problemi, dissi pensando all'arte del furto, poi mi venne voglia di sedermi e così entrai in un caffè.

Era un vecchio locale. Perché quando uno si ritrova di domenica in un caffè dove ci sono dei gruppetti di persone, si deprime? Parlavano oziosamente di cose di cui sembrava non importasse granché neanche a loro. Mentre senza volere li ascoltavo mi sentivo sempre più giù. E come se nelle parole dette senza pensarle col cuore, ci fosse qualcosa di sporco.

Bevendo il caffè caldo, finalmente capii di essere in uno stato di estrema agitazione.

Quando uscii dal locale era già buio. I negozi avevano acceso le loro luci vivaci, per invitare i passanti a entrarci.

Io alzai lo sguardo verso il cielo e sentii una strana profonda tristezza. Lungo la strada dove si susseguivano negozi di vario genere, camminavo lentamente guardando i passanti, persone di ogni tipo, che si affollavano ai saldi, sedute ai caffè all'aperto, che mangiavano dolci mentre passeg-giavano, che entravano da sole nei ristoranti di rdmen. Il vento caldo e pieno di umidità mi scompigliava i capelli.

Il cielo era blu oltremare. Ma che cos'era quella strana sensazione di angoscia? Mi sentivo come se mi fossi separata da qualcuno.

Tornata a casa, bevendo una birra che mi era stato proibito di bere, telefonai a casa dei miei.

Mi rispose mia sorella, così le raccontai di quella giornata e del dolore provato durante l'anestesia.

"Ah, che peccato, mi mancherà. Perché non gli chiedi che ti lascino almeno quella forma di pesciolino?" disse lei.

Era una cosa insensata, ma fui attraversata da una specie di lampo. Mia sorella aveva toccato esattamente il punto.

Poi venne al telefono mia madre.

"Prima ho fatto un sogno in cui c'eri anche tu. Quando mi sono svegliata avevo gli occhi pieni di lacrime."

"Cosa? Mi sembra un brutto presagio" dissi.

"No, nessun brutto presagio. è una cosa che è veramente accaduta. Eravamo in spiaggia, tutti e quattro, avevamo montato l'ombrellone, noleggiato le sdraio, e tu che avevi più o meno due anni piagnucolavi perché avevi sonno. Ti ho fatto stendere sulla sdraio, e anche se eri ancora bagnata dall'acqua di mare ti sei addormentata profondamente."

Chissà perché, mentre sentivo la storia, quel momento mi ritornò in mente con chiarezza: il mio piccolo corpo tutto impregnato d'acqua, anche il costume della mamma ba-gnato, il sonno, il caldo, quella sensazione terribilmente spiacevole.

"Che triste, vero, mamma?"

"Sì che è triste!"

Mio padre, che è anziano, non cammina più, e anche la mamma non nuota più. Tutte queste cose fanno ormai parte di un passato da ricordare con nostalgia. Era per questo?

No, io ero triste per la mamma che aveva fatto quel sogno.

Sotto la garza c'era ancora un po' di gonfiore, avevo un leggero prurito, e il prurito in qualche modo mi rendeva cosciente di quella zona. Stentavo a crederci. Possibile che quel pesciolino non ci fosse più? Una parte del mio corpo che era lì da tanto tempo, nei momenti tristi e in quelli felici... mi sembrava terribile. La mia forma, anche se solo in un punto, era chiaramente cambiata.

Era stata una mia scelta, quella di cambiare, visto che tanto prima o poi avrei dovuto tagliarlo, eppure non mi ripren-devo dallo stupore. Come si sentiranno allora le persone che hanno fatto una chirurgia plastica? Non si incontreranno più con se stesse, per il resto della loro vita. Un seno prospe-roso? Che cosa si proverà a cambiare il proprio corpo, fatto delle proprie cellule, un corpo al quale una, per quanto possa avere un seno piccolo, è abituata? Non è che fossi contraria. Semplicemente non mi ero mai chiesta prima che cosa potesse significare.

Quando arrivò il mio ragazzo, gli raccontai quanto era successo.

Dopo avermi manifestato la sua sorpresa per quella cosa così improvvisa, disse serio:

"Ah, quindi non ce l'hai più? Sai, mi dispiace un po'...".

A questo proposito, quando mi spogliavo per la prima volta davanti a uno dei ragazzi con cui stavo, li avvertivo sempre: "Veramente ho qui un gonfiore a forma di pesce...". Per nessuno questo aveva mai rappresentato un problema. Non c'era neanche stato qualcuno che avesse detto: "Ma non sarebbe meglio che te lo facessi togliere?". Certo pensavano che fosse una parte di me, più ancora di quanto lo pensassi io. Quando piangevo nella vasca da bagno dopo essermi lasciata con qualcuno, sicuramente vedevo quella forma. E

pensavo: Questa è una parte di me.

Poi si fece l'ora della nostra solita tranquilla cenetta, e man-giammo guardando la tivù. Ravioli cinesi, birra, un'insalata di konsai con maionese. Anche se non c'era niente di diverso dal solito, io mi sentivo stranamente depressa. L'effetto dell'anestesia era finito e la ferita mi faceva un po' male, perciò presi un analgesico che mi avevano dato alla clinica, mi venne un sonno tremendo e mi addormentai profondamente sul divano.

Mi svegliai di colpo, era passata un'ora.

Non c'è più, pensai.

Ah, se avessi potuto tornare indietro a quella mattina.

Probabilmente avrei deciso comunque di farmelo togliere.

Eppure, al di là di ogni logica, pensavo che avrei voluto poter guardare, toccare quel pesciolino ancora una volta.

Pensavo a lui come a una persona. Se avessi staccato la garza, non ci sarebbe stata più quella forma. Io non ero più la stessa. Non esagero, era quello che sentivo. La sensazione di quando si è costretti a separarsi da qualcosa o qualcuno che ha una sua piccola importanza... per esempio quando durante un viaggio si incontra una persona con cui si crea una certa simpatia reciproca, e improvvisamente, che sia uomo o donna, ci si fa amicizia. Il legame non è forte al punto da diventare amanti o amici intimi, ma è qualcuno con cui c'è molto feeling, o qualcuno che vive in un posto molto lontano da noi e che, se non avessimo incontrato per caso in quell'occasione, non avremmo mai cono-sciuto. Dopo avere incontrato questa persona, siccome la nostra destinazione è la stessa, decidiamo di passare insieme quella settimana, e poi facciamo tutto insieme, dal mangiare al visitare i posti, dormiamo nello stesso albergo, andiamo avanti e indietro dalle rispettive stanze, ridiamo, nasce qualche piccolo malumore, e poiché la prossima destinazione è diversa, una mattina ci separiamo... ecco, era una sensazione simile. E anche se non è che quella persona ci piaccia in modo così particolare, pensiamo: Be', ci vedremo ancora, e facciamo insieme colazione per l'ultima volta.

Da quel momento tra noi e lei comincia a infiltrarsi una in-definibile malinconia. Ci scambiamo indirizzo e numero di telefono, la accompagniamo alla stazione e la salutiamo agitando la mano.

Poi, quando cominciamo a camminare da soli, ce ne ac-corgiamo di colpo. Di essere sopraffatti dalla malinconia.

Sappiamo che probabilmente non vedremo più quella persona in quello stesso posto, e forse non viaggeremo mai più insieme. Anche se dovessimo incontrarla, non ritroveremmo il compagno di viaggio con cui, fino a un giorno prima, ci eravamo rotolati a terra dal ridere. Ma forse addirittura non la vedremo mai più, quella persona, anche se solo fino a un attimo prima era lì, e potevamo toccarla.

In quel momento per la prima volta tutti i ricordi del viaggio acquistano una luce particolare, e conosciamo lo scorrere del tempo in tutta la sua crudeltà e fugacità.

Anche l'altro forse in quello stesso momento è sopraffat-to dalla stessa malinconia, quella persona che adesso vor-remmo disperatamente vedere, più di qualunque fidanzato, amico del cuore, familiare. Eppure basteranno poche ore e ci si dimenticherà a vicenda, l'immagine dell'altro sbiadirà, e comincerà un nuovo domani. Ed è proprio questa la cosa più triste.

Durante la notte squillò il telefono, poi il messaggio risuonò ad altissimo volume attraverso la segreteria telefonica.

Era la mama al maschile di un bar di Shinjuku nichome, (Parte del quartiere di Shinjuku dove c'è un'alta concentrazione di bar e locali gay. (N.d.T)

che con il suo robusto vocione gridava:

"Sei già andata a dormire? Sono io! Richiamami! Sono io!

Svegliati! è urgente! Se senti il messaggio richiamami! ".

Dopo averci pensato un po', richiamai, e come avrei dovuto immaginare si trattava solo di due mie amiche che erano andate lì a bere e si erano ubriacate. La mama del locale e le due amiche si alternavano al telefono facendo i ti-pici discorsi capricciosi da ubriachi: Voglio licenziarmi dalla ditta! La casa che avevo scelto è andata in fumo! Voglio andare alle terme! Che mutande porti? E così via. C'e-ra anzi da stupirsi che non insistessero perché le raggiun-gessi. Ti abbiamo chiamato perché non avevamo niente da fare! gridavano una dopo l'altra. Quel modo di parlare vol-gare da ubriache aveva tanta forza da spazzare via la mia malinconia. In quel momento le voci spudorate delle amiche così su di giri mi sembrarono pure e dolci come i sus-surri degli angeli.

L'amica che parlò per ultima era una donna di notevole intuito.

"Alle terme potrò andarci solo nella seconda metà del mese. Ti ricordi quella macchia in rilievo che avevo sul petto? Me la sto facendo levare col laser, dopo l'intervento non posso fare il bagno per tre giorni" dissi.

E lei subito:

"Aspetta un attimo, non è che hai perduto qualcosa?".

"No, non direi... anche se dal punto di vista fisico ho ap-punto perso quel gonfiore che avevo sul petto" risposi.

"Ah sì? Strano, sai? Nel momento in cui ti ho sentita ho avuto la sensazione che tu avessi detto addio a qualcuno, o come se stesse avvenendo qualche cambiamento... ti ho sentita così triste!" disse.

Che intuito! pensai. Mentre parlavamo si sentiva dall'altro lato del telefono un gran baccano, lei urlò: "State zitte!"

quindi le altre due a turno vennero di nuovo al telefono, dis-sero: "Scusa se abbiamo chiamato a quest'ora... possiamo parlare ancora due ore?". Questa battuta fu ripetuta almeno tre volte, poi riagganciarono.

Nella stanza tornata silenziosa, la mia malinconia era un po' svanita. Parlare, anche in piena notte, con persone care, che se hanno voglia di chiamarci lo dicono chiaramente, che chiacchierano con chi vogliono loro, parlare con persone abituate a questo tipo di comunicazione diretta, senza doppi fini, è meno stancante di una telefonata formale di giorno, anche di cinque minuti, con una persona che non si conosce bene e con cui non si ha un particolare desiderio di parlare.

Provai un senso di gratitudine per quegli angeli chiassosì.

Mi sembrò si fosse trattato di un intervento di Dio, che mi aveva vista oppressa dalla tristezza e anche scioccata di esserlo.

Sicuramente molto presto nel vedere la pelle del mio petto diventata piatta, non avrei più provato quella stretta al cuore. Non avrei più visto l'immagine del pesciolino. Avrei pensato che ero diventata più bella e che anche le mie preoc-cupazioni erano finite. Ma solo per quella sera sentivo la sua mancanza, non c'era più il pesce che era stato il mio compagno di viaggio, e anche se fino al mattino era stato con me, non l'avrei più rivisto. Sei stato un bravo amico, grazie di tutto, scusa se all'improvviso ti ho fatto bruciare dal laser, però addio, pensai, e scivolai nel letto caldo dove il mio ragazzo già dormiva profondamente.