I FIORI E IL TEMPORALE
Quando sento la parola "felicità" mi torna sempre in mente una scena.
Sotto il cielo limpido, si vede in lontananza l'albergo do-ve alloggia il nostro gruppetto di cinque amici. Si vedono i balconi delle nostre stanze. E se mi volto indietro, sulla col-lina che ci siamo lasciati alle spalle si ergono le gigantesche colonne del tempio che abbiamo visitato in lungo e in largo sino a poco fa.
C'è un forte vento, siamo ricoperti di polvere, presto tor-neremo in camera, faremo la doccia, e quando verrà la sera andremo insieme in città e ceneremo senza fretta in un piccolo ristorante, bevendo un buon vino... il momento era questo.
La luce del sole cominciava appena a declinare verso oc-cidente, tinta di oro, e davanti a me e alle mie amiche che camminavamo chiacchierando e scattando fotografie, c'erano altri due amici. Parlando, camminavano precedendoci di pochi passi.
Lungo il viottolo si vedevano fiori da ogni parte. Erano quasi tutti gialli, ma qui e là si mischiavano anche fiori rosa e fiori bianchi. I rami contorti degli ulivi erano pieni di foglie asciutte di un bel verde. Inondate dalla luce, tutte le piante liberavano nel cielo i loro colori più veri e smaglianti.
Circondate da quei fiori alti, le figure di quei due miei amati amici ogni tanto sembravano scomparire, poi subito riapparivano di nuovo in mezzo a quei meravigliosi colori.
Ma non sarà il paradiso, questo? mi chiesi in mezzo a quell'abbagliante profusione di colori.
La Sicilia è piena di ladri! Portate i vestiti peggiori che avete, non portate con voi borse, mettete tutto nei sacchetti tipo quelli del supermarket, ma anche così è probabile che sarete derubati lo stesso... Terrorizzata da avvertimenti come questi, salii tutta spaventata sull'aereo per la Sicilia, e quando scesi all'aeroporto per prima cosa mi misi la borsa a tra-colla, e mi sfilai l'anello.
Eppure, avvertii qualcosa di diverso.
In confronto a Roma, dove ero già stata, l'atmosfera era più aperta e calda. Una luce morbida e forte scendeva dal cielo di un azzurro incredibile. Le montagne in lontananza ricevevano il colore arancio del sole e splendevano di una tinta dolce e delicata che non avevo mai visto al mondo.
Lungo la strada ci trovammo improvvisamente in un ingorgo: tutti, impazienti di tornare a casa, suonavano i clacson.
Ma ciò nonostante c'era qualcosa di molto dolce. Una felicità che si sprigionava dalla terra, una forza che si sentiva nell'aria. Le persone che vivevano lì amavano quel posto, e ne erano riamate, era questa la sensazione che percepivo, co-me di una speciale, gigantesca luna di miele.
Non solo non c'erano ladri, ma il cielo era sempre di un azzurro straordinario. Era luminoso anche quando scendeva la sera, tingendosi di quel blu denso di vita che avevo visto nelle opere di tanti grandi pittori posseduti dal Sud dell'Eu-ropa. Anch'io come loro mi ero innamorata di questa terra.
Questa terra dal clima mite dove di sera sia la tinta del cielo sia il cuore delle persone si fanno più dolci e distesi. è la natura, con i suoi spettacoli di colori e luci esibiti senza rispar-mio, splendidamente, a ricordarcelo. Qui ricchi e poveri, vecchi e giovani si fondono tutti in una felice armonia, qui con il primo bicchiere di vino ha inizio una notte lunga e bella. Avrei voluto fermarmi per sempre in questo mondo dai colori così felici.
Taormina era un paese pieno di salite, dove la strada principale era affollata di turisti. Una sera, dopo esserci divisi per dedicarci ognuno alla propria febbre di shopping, a un certo punto ci eravamo tutti incontrati per caso in un negozio raffinato che vendeva saponi, cosmetici e profumi e che si trovava in un angolo della strada principale. Il negozio era pieno di colori delicati. Le saponette in cui erano incor-porati fiori e frutti rosa, blu, oro, e il pullover color lavanda della padrona, attenta e gentile.
Nello scaffale principale era elegantemente allineata la serie completa di profumi di una linea che mantiene dai tempi antichi le bottiglie originali. Per la verità quei profumi li avevo annusati a uno a uno in un famoso grande magazzino di Tokyo. Naturalmente il grande magazzino era molto bello e i profumi tutti buoni, ma i sensi non erano così vivi come qui, e quindi non ero riuscita a cogliere le differenze tra le singole essenze.
Il mio amico era in difficoltà nel decidere quale scegliere tra due profumi. Tutti noi che eravamo presenti, io, le mie amiche, la padrona del negozio, il suo amico, lo circondava-mo preoccupati, annusandogli i polsi e discutendo su quale dei due gli stesse meglio. Tanto eravamo liberi, avevamo tutto il tempo a disposizione. Lì il tempo scorreva a profusione, come acqua trasparente che sgorga da una sorgente.
"è impossibile scegliere!" esclamammo tutti all'unisono, ma quelle parole avevano un senso vago e leggero, che sarebbe stato impensabile a Tokyo.
"Pensateci fino a domani" propose la signora.
E su questa frase, così insolita per un negoziante, uscim-mo dal negozio e andammo a cena.
La mattina seguente nel negozio eravamo di nuovo in-decisi, così la signora ci disse: "Perché non fate una passeggiata e poi ritornate? Camminando il profumo cambia, ed è più facile scegliere". E ancora una volta, gentilmente, ci salutò.
"Ah, questa è la vita che vorrei fare!" disse il mio amico.
Poiché tutte le persone che partecipavano a quel viaggio erano di solito terribilmente cariche di lavoro, quelle parole entrarono in noi come l'acqua quando si ha sete.
"Essere indeciso su quale profumo scegliere, passeggiare, scegliere finalmente il profumo, e finire una giornata soddi-sfatto, questa è la vita che vorrei fare..."
Dopo esserci divertiti a sazietà sulla spiaggia, morti di stanchezza, finalmente il profumo fu scelto.
Quel suo aroma dolce e fresco si sprigiona ancora con la stessa freschezza dalla mia memoria.
Fu subito dopo quel viaggio, che la madre del mio amico morì.
Molto tempo prima, una volta, ero stata a casa sua e avevo mangiato i piatti cucinati da lei. Sua madre era calma, rideva spesso e dalla sua persona sembrava diffondersi una lu-ce bianchissima.
Andando ancora più indietro nel tempo, la prima volta che l'avevo incontrato era stata la sera del giorno in cui la madre aveva avuto il suo primo infarto. Dato che ci eravamo appena conosciuti, non riuscivo ancora a parlare bene con lui, e stavo pensando che piano piano saremmo diventati intimi, quando gli fu annunciata quella notizia. Tutti noi che eravamo lì attorno naturalmente provammo una forte tenerezza nei suoi confronti, e lo guardammo partire per l'aeroporto con calore sincero. Fu il preludio di una lunga amicizia.
Quando morì sua madre, tutti coloro che sapevano quanto lui l'amasse non ebbero il coraggio di dirgli generiche parole. di conforto. Tanto il suo amore e il suo abbattimento erano comprensibili e sacri.
è una cosa che capisce chiunque abbia perso una persona che ama veramente.
Quando gli telefonai per fargli le condoglianze, era stranamente allegro.
è una reazione che le persone hanno per i primi tempi, quando hanno perso qualcosa di importante. I giorni della solitudine vera arrivano dopo, implacabili, confondendosi con la quotidianità. Per quanto ne possa essere ben cosciente, un amico non può fare niente. Può solo stare a guardare.
"Piangi tanto, mangia tanto, dormi tanto" gli dissi. "E
poi non c'è altro da fare che aspettare che passi il tempo."
"Farò così" rispose lui. "Piangerò tanto, mangerò tanto, dormirò tanto, mi metterò tanto profumo."
E tutti e due, col cuore stretto, ridemmo.
La volta successiva che lo incontrai fu in Toscana, nel pieno dell'inverno.
Era un altro viaggio in Italia, più o meno con le stesse persone dell'altra volta.
Una sera, fummo colti da un grande temporale.
Durante la notte, a un tratto fui svegliata da uno strano rumore metallico, e vidi che fuori dalla finestra il buio si illuminava a intermittenza e cadevano con gran frastuono grossi chicchi di grandine. Il vento sibilava infuriato, e tutt'intorno si vedevano tegole e vasi di piante caduti e spaccati. Accidenti, ma questa è una vera tempesta... Io e la mia compagna di stanza ci sentivamo perse. Non c'era corrente elettrica, l'acqua era entrata in gran quantità dalle finestre e il pavimento era mezzo allagato.
In punta di piedi andammo a vedere cosa succedeva nella stanza dei nostri amici, e naturalmente anche loro si erano svegliati. Il temporale era di una tale violenza che era impensabile che qualcuno potesse dormire. Non essendoci la corrente accendemmo delle candele e, non sapendo che altro fare, ci radunammo tutti e quattro in una sola stanza. Come facciamo? Anche spostarsi domani sarà difficile, anzi, se continua a entrare acqua non potremo restare neanche in questa stanza... ehi, il riscaldamento si è spento, che freddo!
Volete il kairo? Ve lo do. Però, che buffo, è una sensazione eccitante... mentre ci scambiavarno frasi di questo tipo, tutt'a un tratto mi accorsi che il mio amico era seduto da so-lo su una parte rialzata rispetto al pavimento, che si trovava al centro della stanza.
Nel vederlo illuminato debolmente dalla luce dei lampi e delle candele, ebbi una specie di allucinazione, e per un momento vidi seduto lì un bambino.
Ma quando guardai meglio, vidi che lì c'era, scaraventato fuori dal letto dal temporale, assonnato, circondato dalle persone che amava, eppure sperduto, il mio amico che ormai da tanto tempo era un uomo.
E in quel momento per la prima volta capii davvero, davvero.
Lui non ha più la madre.
Non so come, ma questo pensiero mi salì dal fondo delle viscere. Mi venne un po' da piangere, ma pensai che non sarebbe stato il caso, e mi rivolsi a lui con voce normale. Lui sorrise, e tornammo alla nostra allegra conversazione nottur-na, sussurrata a bassa voce. Sebbene circondati dai rumori di quel violento temporale, eravamo diventati di ottimo umore. Be', che facciamo? Tentiamo di dormire? Tanto adesso non possiamo fare altro, ridemmo.
Domani, ci penseremo domani, ci dicemmo a vicenda.
LA CUCINA DI PAPà
Dall'altro lato del corridoio la Takahashi cammina nella mia direzione. Porta un cardigan rosso. Sono talmente agita-ta che io stessa stento a crederci, mi sembra di non riuscire nemmeno a coordinare correttamente braccia e gambe. E mi vergogno del mio aspetto impresentabile, la frangetta tratte-nuta da un fermaglio. Penso che non avrei dovuto montarmi la testa quando un collega mi ha detto che avevo una bella fronte. Impallidisco.
La Takahashi è insieme a una persona che non conosco.
E nel momento in cui ci incrociamo, la cosa più scioccante è che lei non mi vede nemmeno. Loro due sono completamente prese da un discorso. Capto una frase: "Da quando porti la cintola per gestanti?". Tutto davanti a me si oscura, e appena torno alla mia scrivania ci sbatto sopra con forza i documenti che ho in mano. Poi vado nella stanza della direzione e trovo Shimizu. "Che cosa significa?" chiedo. "Come è potuta succedere una cosa simile?" urlo. Ma lui è stranamente indifferente e non presta alcuna attenzione alle mie lacrime. "Mi dispiace, ma non c'è niente da fare, è una cosa che dura da molto tempo..." dice vagamente, con la fronte corrugata, continuando a eludere il discorso. Il suo modo di spiegare è stranamente spavaldo, per essere in ufficio. "Quando mi ha detto che le piacevo, io cosa avrei dovuto fare? ri-fiutare, secondo te? Ma io non avevo nessuna intenzione di limitare i miei rapporti con le donne." I suoi occhi sono molto freddi. Non tenta nemmeno di fermare la mia mano che batte sulla scrivania, anche se mi verrà un livido. Pensavo che la sua fosse una calma su cui fare affidamento. Ma in realtà lo sapevo da sempre. Era solo indifferenza, il fatto che gli piacesse una persona e il desiderio di non ferirla semplicemente in lui non erano collegati. Come me ne sono accorta? Ah sì, quando io ero ricoverata in ospedale per un'ap-pendicite e lui entrò sbocconcellando qualcosa. Anche quando mi disse che forse lei era incinta, lo fece guardando con la coda dell'occhio i Downtown (Coppia di comici originari della regione del Kansai. (N.d.T)
alla televisione. Anche quando la mia amica fu violentata da un suo amico, tutto quello che seppe dire fu: "Le sarà venuto dentro?". Forse per la Takahashi che adesso portava nella pancia il suo bambino, tutto questo andava bene. Io invece ne soffrivo. Guardando fuori della finestra, pensavo. Era una vista che mi piaceva: il giardino interno dell'edificio dove c'era la ditta, con un grande albero di gingko. Sì, ne soffrivo... Ma avevo almeno venti telefonate da fare quel pomeriggio. Come avrei fatto?... Non riuscivo a fermare le lacrime.
Il mio lamento mi svegliò.
è stato un sogno spaventoso... pensai, tirando un sospiro.
Ma dove mi trovavo? Ero dentro al futon, e sul soffitto si rifletteva una luce azzurra, chiara. Che aveva la forma della finestra. Silenzio... Fuori della finestra gli alberi ondeggiavano. I rami di un albero gigantesco. Poi ricordai chiaramente: ma sì, certo, ero nel cottage di mio padre in montagna. Avevo gli occhi pieni di lacrime, e il corpo irrigidito dalla paura. Io non ero stata così coraggiosa. Mi era solo venuto mal di stomaco, e zitta zitta avevo lasciato la ditta. Non mi sarei più portata la colazione sotto l'albero di gingko. Era strano, più delle persone, più della passione per il lavoro, mi mancava l'albero di gingko.
Ogni volta che l'albero fuori della finestra ondeggiava al vento, anche la luce sul soffitto oscillava forte. L'aria era ghiacciata. Io avevo paura dell'eccessiva grandezza dell'oscurità. L'oscurità, in cui si poteva essere risucchiati, era viva come un gatto e respirava in ogni angolo della stanza.
Come fa papà a vivere da solo in un posto che fa così paura? pensavo spesso i primi tempi. Adesso, sogni come quello mi facevano più paura della tranquillità della montagna. La vita di città che appariva nei sogni era molto surreale, ognuno era sempre gravato da un senso di colpa, e ti faceva pensare che non ci si impegnava mai abbastanza.
A stare qui, finisco col capire tante cose che nella mia ca-sa tranquilla non avevo capito. Il fatto che il mondo è grande, e che la notte possiede una forza capace di estendersi in eterno, e che a differenza del giorno è una creatura vivente...
cose come queste. Anch'io quand'ero piccola fantasticavo spesso così. Chiedendomi quanto erano lontane le stelle...
eccetera. Di recente, tornando a casa dopo aver fatto gli straordinari, sulla strada dalla stazione, mi limitavo a consta-tare per abitudine, quasi automaticamente, la presenza delle stelle di prima grandezza, quelle che si distinguevano appena nella semioscurità. Anche la luna, che cambiava forma ogni sera, sembrava disegnata per uno scenario. Dopo essere venuta qui, queste cose a una a una mi entravano sempre un po' di più nel cuore.
Si dice che ritirarsi in una casetta in montagna dopo essere andati in pensione sia il sogno di tutti i padri, ma nel caso di mio padre non si era trattato di un sogno così pacifico.
Aveva comprato questa casetta fatta di tronchi di legno per andare a passarci i week-end, ma quando si era scoperto che aveva un'amica lui e mia madre si erano separati.
A casa nostra, mio padre era ormai diventato un argomento quasi tabù. All'inizio mia madre era furiosa e aveva parlato di divorzio, odiando mio padre che non prendeva una posizione chiara, ma alla fine si era calmata, come se la cosa non le importasse più. E aveva continuato la sua vita normalmente. Una volta mio fratello andò a vedere com'era la situazione, ma non c'era ombra di donna. Papà ha detto che si è dimenticato di lei, fu la notizia che ci riferì. Dopo aver sentito questo, la mamma si addolcì un po' e quando ogni tanto papà tornava a casa gli tirava fuori gli abiti della stagione o gli preparava i suoi piatti preferiti. Una vera e propria conversazione non c'era, ma piano piano tornava l'atmosfera di prima, quella a cui eravamo abituati. Allora c'è qualche speranza per la loro vecchiaia, pensai, e dopo aver lasciato la ditta in seguito a quell'incidente, per la prima volta andai nel cottage dove viveva mio padre.
Forse, dopo aver lasciato il lavoro, ero un po' strana. Per prima cosa non facevo altro che dormire. Non ne avevo la minima intenzione, ma senza che me ne accorgessi era sera e la cosa più grave è che avevo ancora sonno. Ormai ero arrivata al punto di uscire dalla stanza solo quando avevo fame, e anche il mio corpo aveva perso tono. Quando mia madre mi parlava, anche se le rispondevo normalmente, lei diceva che ero disattenta. Esci, non stare a casa, mi diceva, ma siccome non mi andava l'idea di uscire e usare i miei risparmi, decisi di stare a casa. E così, vedendo che mia madre per la troppa preoccupazione era sull'orlo di un esaurimento, mi venne in mente, come possibile destinazione, la casa di mio padre. Temevo che, a sentirmi controllare tutti i giorni il co-lorito, sarei diventata ancora più strana. Eccezionalmente la mamma ebbe una lunga conversazione telefonica con mio padre, e disse che aveva deciso di affidarmi per qualche tempo a lui. A me disse, furbescamente: "Mi raccomando, controlla con i tuoi occhi se si vedono altre donne in circolazio-ne. Per quanto uno possa fare il furbo, lo spirito di osserva-zione di una donna è troppo forte. In questo mi fido molto più di te che di tuo fratello. Mi raccomando, perché quello che mi dirai mi servirà a prendere le mie decisioni". Ma io non ero la persona adatta a svolgere quel compito. In quel momento, che papà potesse avere una donna, un uomo, un orso, non mi poteva importare meno. Dovevo impiegare tutte le mie forze a tenermi in piedi.
Quando mio padre, che aveva sempre guidato Crown o Benz, è venuto a prendermi alla stazione in un'auto a quattro ruote motrici era così improbabile che sono scoppiata a ridere. Troppo depressa perfino per mangiare il mio o-bento, quando vidi mio padre dimagrito scendere agilmente da quel macchinone mi rasserenai di colpo. In un certo senso ebbi la sensazione che la mia mente avesse avuto come un cambiamento improvviso.
L'interno della macchina era pulito e ordinato in maniera quasi insopportabile, sembrava la stanza di mio padre a casa.
Era così ordinata che era difficile entrarci a cuor leggero.
Papà, che non vedevo da tanto tempo, mi parlò come fossi stata una bambina.
"Ho saputo che hai lasciato la ditta."
"Già."
"Spero che resterai un po'. E se vuoi restare da sola, io posso anche tornare a casa.
"Hmm..."
Gli alberi fuori, il colore dei rami, il colore della terra. Su quella tortuosa strada di montagna, guardavo attenta quel paesaggio a me nuovo.
"Papà, sicuro che non ti do fastidio? Non è che stai vivendo con una donna?" chiesi.
"è stata la causa per cui sono andato via, ma ora non c'è più" rispose. "Per vivere in un posto così ci vuole una certa determinazione, ma se ci si abitua si sta bene."
"Ah sì?" dissi non molto convinta.
Non torna a casa, anche se non ha una donna, pensai.
Non sapevo se per mia madre fosse una cosa positiva, o no.
Quando era successo che la mamma aveva dimenticato di essere una donna? Oppure nutriva ancora dei rancori profondi? Non capivo nulla, era come se si trattasse di una coppia sconosciuta. E poi, per il fatto che non vivevamo insieme da un po' di tempo, mi sembrava che mio padre mi parlasse co-me se fossi una bambina.
Poiché sul sedile c'era un bruco, feci un gran baccano.
"Ma come? Tu che un tempo prendevi in mano i bruchi con la massima tranquillità!" disse mio padre ma poi, rasse-gnato, fermò un momento la macchina, con un fazzoletto di carta lo prese e lo gettò fuori.
"Anch'io sono sorpresa di me stessa."
Quando la mia resistenza nei confronti dei bruchi si era abbassata sino a ridursi a zero? Ero molto stupita di questo.
Da quando avevo toccato l'ultima volta un bruco, le mie informazioni a riguardo non erano cambiate, eppure, per il solo fatto di non esserci più abituata, avevo avuto tanta paura... Fino a che punto avevo sacrificato la mia sensibilità? In quel momento, alzando lo sguardo verso il cielo, lo trovai veramente strano. Sì, perché da bambina raccoglievo i bruchi in una bottiglia e poi li liberavo. Accovacciata a lungo per terra guardavo le cavallette che volavano in mezzo all'erba una dopo l'altra, di un verde più brillante dell'erba. Oppure afferravo rapida una farfalla che si era fermata sullo steccato, e dopo averla osservata a lungo, aprivo la mano lasciandola andare. Era raro che le uccidessi. Le toccavo e le guardavo soltanto. Mi piaceva anche guardare le uova delle falene attraverso il vetro, trasparenti e brillanti, con la vita che si muoveva dentro di esse. Il mondo era talmente grande da darmi i brividi. Possibile che ora non sentissi più niente? Il cielo era soltanto il cielo, e la terra aveva il colore della terra.
Non c'era più la profondità di un tempo, vertiginosa e infinita come i disegni sulle ali delle farfalle.
"Che ne dici, papà, non sarebbe bello se vivessimo tutti qui, inclusa la mamma? Coltivando i campi, prendendo gli insetti, lavorando tutti tanto, mangiando tanto la sera e poi dormendo profondamente. Tutti in fila. Nel buio" dissi.
Era una scena talmente impossibile e lontana che mi veniva quasi da piangere. Ma perché? Perché era così impossibile? In che cosa, dove avevamo sbagliato? Forse nello stesso percorso nel quale io avevo perso la mia sensibilità per gli insetti, anche qualcosa nella mia famiglia, un poco alla volta, era andato perduto.
Mio padre non rispose nulla. Sballottata dall'automobile, la testa che riceveva scosse, provai una specie di vertigine.
Negli occhi tutto era verde, verde, verde.
Eppure quello scenario già perduto dall'inizio si incise con chiarezza nella mia mente, come le luci sulla strada di montagna di notte. La famiglia riunita intorno al tavolo alla luce di una lampadina. Spenta la televisione, non si sente che il suono degli arbusti che tremano al vento. La notte è più buia. Il respiro di mio fratello nel sonno. Il russare di mio padre. I capelli fuori posto di mia madre. Una famiglia stretta nella notte...
Vivendo con mio padre l'ho capito perfettamente: la famiglia può funzionare solo quando l'uomo e la donna si di-vidono i compiti con estrema serietà.
All'inizio mi svegliavo in preda agli incubi e dormivo po-co, quindi ero sempre giù, ma di cose da fare ce n'erano molte, e così dandomi da fare il tempo che passavo graziosa-mente sprofondata nell'ozio diminuiva gradualmente. In cambio delle incombenze che svolgevo nella mia vita lì, rice-vevo un senso di benessere. Era una ricompensa visibile.
Mio padre era incapace di tostare il pane, quindi se volevo evitare i suoi pessimi toast, dovevo essere io a occuparmene. A questo scopo, mi svegliavo prima. Quando non pio-veva, andavo a piedi a comprare il pane appena sfornato in una panetteria a due chilometri di distanza. Le strade di montagna erano asfaltate, perciò non è che avessero questo grande fascino, ma le possenti piante di montagna che sembravano entrarmi dentro e che invadevano le strade allun-gandosi, mi sopraffacevano con la violenza dei loro colori.
Stanca per il camminare, la mente smetteva di girare e non me ne importava più di come mi vedevano gli altri, se la mia fronte era bella o brutta. Pensavo che se qualcuno, vedendo-mi così stanca, non mi trovava carina, non me ne importava nulla. La faccia di lui non mi affiorava quasi mai alla mente.
Quando compravo il pane, c'era solo il pane. Era una splendida forma di rieducazione. Forse in quel periodo avevo energia fisica in eccesso, e per questo potevo pensare a cose superflue.
Tornata a casa cucinavo le uova da sola, mettevo in fila le fette di pane, mangiavo guardando la televisione insieme a mio padre, bevevo molto caffè e facevo le pulizie.
Mio padre tagliava la legna per il fuoco.
Era da tanto tempo che non vedevo mio padre fisicamen-te così attivo.
Andare a fare la spesa al supermercato la sera era l'unico divertimento della giornata. Vedere cibarie di tutti i tipi di-sposte in fila, illuminate dalla luce della civiltà, mi faceva sal-tare di gioia. E poi, pensare a cosa cucinare era il tema principale della giornata. Nella libreria del supermercato compravo molti libri e provavo a leggere a letto ma diventava talmente scuro che finivo col guardare il buio e le stelle e mi addormentavo subito.
"Sei proprio in forma..." mi diceva mio padre stupito.
Lo sapevo anch'io. La casa governata da mia madre era ordinata e piacevole, ma il disordine creato da mio padre coi suoi calzini puzzolenti, le mutande con un rigo marrone, i peli del naso lunghi e le scarpe imbrattate di fango, non era solo una cosa fastidiosa a cui bastava fare l'abitudine, ma una forza che girando faceva andare avanti la vita, Il fatto che in casa ci fosse un uomo che invecchiava. E inoltre il fatto che parallelamente ci fosse, sebbene separata, una donna che invecchiava. E che la bambina generata da loro, diventata grande, fosse adesso qui e che alla fine sarebbe invecchia-ta anche lei.
Perché mi ero indebolita fino a quel punto?
Non era solo che la natura era meravigliosa. Vedevo gli sceneggiati in tivù, percorrevo strade asfaltate e al supermercato avevo a disposizione le merendine più nuove.
Ero più che consapevole che questa era una falsa vita di campagna. Che cosa era quello che avevo perso? Non era mio padre. Forse il modo di vivere? Adesso, se pensavo a quel periodo, mi venivano in mente degli esseri alieni che vivevano con solo la testa che galleggiava. Avevo la sensazione che andassero avanti e indietro senza corpo, solo con la testa impegnata a pensare a questo e quello, assen-ti, in uno spazio simile all'acqua, come meduse. Senza di-stinzione di sesso, senza desiderio. Incapaci di muoversi come pensano.
Questa era la sensazione che avevo.
Cara Sanae,
come stai? Qui alla ditta si sente molto la tua mancanza. Pare che il capo divisione abbia fatto qualcosa con la nuova ragazza part time, la moglie telefona ogni santo giorno e tutti sono eccitati. Per un po' di tempo si è parlato molto di te. Il fatto che tu ci abbia lasciato ha colto tutti di sorpresa. Sai, l'immagine della donna terribilmente ferita.
Per la Takahashi, è una situazione difficile da sostenere. Ma ben le sta, no? Proprio mentre la pancia si ingrossava, pare che il suo rapporto con Shimizu si sia un po' rovinato. Comunque, che noia adesso! Quanto vorrei nell'intervallo del pranzo poter mangiare una piz-za e dividere un bicchiere di birra con te. Certo che a pensarci bene, con tutto il lavoro che facevi quando eri qui, il fatto che senza di te la ditta non sia andata a rotoli è incredibile. Io non ho particolari no-vità. I soliti incontri col mio solito ragazzo. Il week-end praticamente viviamo assieme. Mah, vedremo che succede. Ah, recentemente hanno aperto un piccolo ristorante dalle parti di casa mia, una sera ho provato ad andarci da sola, e c'era un'atmosfera molto simpatica, penso che lì si possano fare anche amicizie. Quando torni ci andiamo. Come va la vita con tuo padre? Penso che la natura guarirà le tue ferite di cuore. Fai attività fisica, respira quell'aria pulita e risorgi, mi raccomando! A presto.
No, è un po' diverso. C'è qualcosa di diverso. Capisco le cose che dice, e a grandi linee corrisponde, ma c'è qualcosa di diverso... pensai dopo aver letto quella lettera.
Davvero quando lavoravo alla ditta lei era la persona cui ero più amica? No, era solo una con cui mi trovavo bene, come capitava con le amicizie della scuola. Era una brava ragazza, certo, ma ormai era lontana. Forse addirittura non l'avrei più rivista. E se le cose tra la Takahashi e lui andavano bene o meno, non mi interessava. Perché ero stata con quell'uomo? Lo incontravo, ci camminavo a braccetto, ci andavo a letto anche se non sentivo un vero trasporto per lui, fingevo di provare un sentimento di affetto, e anche se in realtà il mio cuore era freddo, gli sorri-devo con tenerezza. Era perché avevo tempo da perdere.
Anche se adesso ho tanto tempo in più, in quei giorni di lavoro frenetico avevo molto più tempo da perdere. Voglio dire dentro di me.
La lettera di quell'amica dei tempi della ditta mi arrivò in un giorno di pioggia, il primo dopo tanto tempo. Quando ebbi finito di leggerla, mi lasciò un sapore spiacevole, e quel giorno non uscii di casa e restai a guardare la pioggia dalla finestra. Non era il sapore di un amore andato male.
Era il peso di quel tipo di vita vissuta senza chiarezza mentale. Forse è così che si sentono le persone quando abban-donano una setta religiosa di cui erano diventati adepti e nella quale si erano buttati anima e corpo per un po' di tempo, pensai. Sarebbe stato meglio se avessi vissuto la fi-ne di un amore con una persona che almeno avevo amato davvero. O se fossi stata davvero occupata a causa del lavoro, un lavoro che mi piaceva. Ma avevo la sensazione che in fondo il lavoro non mi tenesse davvero occupata, era solo che mi agitavo come una forsennata. Mi vergo-gnavo. Come ero arrivata a convincermi di essere innamorata di una persona che non mi piaceva nemmeno? Perché non avevo altro da fare? Perché mi era sembrato valido uno che non era interessante né come persona né come uomo, e che mancava completamente di giudizio? Magari fosse stata la forza dell'amore! Ma sapevo che la ragione era un'altra. E cioè che non avevo fiducia in me stessa, mi sentivo in colpa per il fatto stesso di vivere, e quindi avevo finito col convincermi che dovevo considerare con gratitudine un uomo che mi corteggiava dicendomi che era at-tratto da me. Se davvero lo avessi amato, anche se avessi pianto fino a diventare pazza, anche se fossi impazzita davvero, i colori sarebbero stati smaglianti come quelli degli alberi colpiti dalla pioggia.
Continuai a lungo a guardare quegli alberi inzuppati d'acqua. Mi sembrava che le foglie godessero di sentirsi ba-gnare dalla pioggia, come noi esseri umani quando respiria-mo. Le gocce trasparenti scorrevano rapide sulla loro superficie brillante. Era una visione sensuale. Io guardavo seria e assorta il giorno di pioggia passare. L'odore della terra bagnata, l'odore del verde. Anch'io ho un odore, pensai. Si sprigiona da me. Ero lì, lo sguardo alla stessa altezza degli alberi di quella foresta, e come loro guardavo in alto verso il cielo. Nel vetro della finestra, strisce trasparenti di pioggia scorrevano senza interruzione, tagliando i colori sfumati della foresta come in un film.
Fino a quando la stanza diventò buia, restai a guardare fuori, senza pensare a nulla.
Avevo la sensazione che, mentre il cielo biancastro via via si incupiva, il rumore della pioggia diventasse sempre più forte.
A un certo punto avevo cominciato a sonnecchiare, ma fui svegliata da un odore di grasso che veniva dalla cucina.
Era un odore familiare, nostalgico. Che cos'è?... mi chiesi ancora un po' intontita. Fuori era buio pesto. Quella sera non cantavano neanche gli uccelli. Andai in cucina. Vidi la schiena magra di mio padre che stava friggendo delle uova.
"Wow, che nostalgia, l'omelette di papà!"
Quell'omelette con le cipolle, che avevo mangiato tante volte da piccola, era dolce e aveva un forte sapore di burro, e ci voleva una giornata intera per digerirla ma stranamente era squisita e a casa nostra aveva grande successo. Forse tra le cose che faceva mio padre quell'omelette era l'unica che avesse tanto successo. Io cominciai a preparare la cena: tirai fuori le birre, aggiunsi dei funghi passati in padella al riso avanzato dal giorno prima. Mio padre finì di cuocere l'omelette.
"Il segreto è mettere il burro all'inizio, con gli altri ingredienti" spiegò.
"Ah, non lo metti sul fondo della padella?" chiesi.
"No, sul fondo della padella non bisogna mettere niente"
rispose.
"Non l'avevo immaginato. Perciò ha quel gusto così denso. Ma è quello che la fa essere così buona."
"Proprio così" disse mio padre con fierezza.
La sera in quella casa temporanea, il sapore della cucina di mio padre su quella tavola così semplice. Nel mio futuro non c'era nessuna prospettiva, e in quel momento c'era solo il presente. Capii un poco la ragione per cui mio padre, anche se era amato dalla famiglia, invece di tornare a casa se ne stava lì. Perché non aveva nessuna prospettiva, niente di giusto o di convincente davanti a sé.
Il sapore di quella omelette, mangiata dopo tanto tempo, mi dava una nostalgia da morire, e io, che dopo tanto tempo avevo la sensazione che vivere avesse un significato, finii col bere troppa birra. Va be', tanto dopo aver visto uno sceneg-giato o qualche altra cosa me ne andrò a dormire, pensai.
Nel vivere ci sono davvero tanti significati, e una quantità incredibile di scene, più numerose delle stelle, tante da non poterle ricordare a una a una, inonda il mio spirito, però mai più cercherò di attribuire alla vita dei significati, mai più ca-drò in un errore così brutto e meschino.