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Il padre

Nella cella Henry si guarda intorno e si ritrova a pensare a Sammy. Spera che Jenny lo porti fuori per una bella sgambata, ma poi si china in avanti e si prende la testa nelle mani. Povera Jenny. Scaricarle addosso anche questo, oltre a tutti gli altri guai.

Chiude gli occhi al pensiero del monumentale pasticcio che ha combinato. Perché, ma perché non ha avuto semplicemente il coraggio di premere il grilletto?

Ha cercato di stendersi sulla dura tavola rialzata che dovrebbe fungere da “letto”, ma gli fa troppo male la schiena. Il sottile materassino blu di plastica non basta a proteggerlo dalla rigidità della lastra di cemento. Chissà per quanto tempo lo terranno lì. Guarda la porta e rabbrividisce al ricordo del rumore metallico che ha fatto quando l’hanno chiusa. È qualcosa che non si può immaginare finché non ci si trova dal lato sbagliato. Henry normalmente non soffre di claustrofobia, ma non è mai stato messo alla prova. È abituato all’aria aperta. Alla libertà. Al fuori. Cerca di ricordare cosa dice la legge. Per quanto tempo la polizia può trattenere una persona in questo modo senza incriminarla?

Gli hanno preso le scarpe e la cintura e all’improvviso Henry si rende conto di essere probabilmente più abituato di tanti ad andare in giro indossando solo le calze. Gli stivali finiscono nello stanzino. Di pantofole proprio non se ne parla. Si rende anche conto che in quegli ultimi giorni deve essere dimagrito perché quando si alza e va alla porta munita di quell’orribile, piccola griglia di osservazione, sente scivolare i pantaloni.

Pensa a Barbara e alla sua torta di prugne. Ad Anna che fa le ruote sul prato. Agli amici di Anna che corrono avanti e indietro negli spruzzi dell’irroratore. Gli serve un Tardis, la macchina del tempo del Dottor Who, per tornare indietro. Sì. In una versione completamente diversa del passato.

A un tratto Henry si sente riempire di insofferenza e collera. Ne ha abbastanza di questo. Di tutto questo. Questo posto. Questo cazzo di posto.

«C’è qualcuno con cui possa parlare?».

Nessuna risposta.

Henry sferra un calcio alla porta con la pianta del piede e grida più forte. «Ho bisogno di parlare con qualcuno».

Pochi minuti dopo si sente il rumore del tassello che copre la griglia che viene spostato, e un agente in uniforme sbircia nella cella. «Faccia meno chiasso, per favore».

«Voglio mettermi in contatto con il mio avvocato».

«Pensavo che “non avesse fatto niente e non avesse bisogno di un avvocato”». Il tono è di puro sarcasmo.

«Be’, adesso voglio il mio avvocato. Conosco i miei diritti e non parlo con nessuno finché non sento il mio avvocato».

«Benissimo. Ho preso doverosamente nota. Ma qui comandiamo noi e lei dovrà aspettare».

Henry lo sfida con lo sguardo attraverso la griglia. «Non ho fatto niente di male».

«Certo che no».

Passano due ore che costringono Henry ad affrontare l’umiliazione di usare l’orribile toilette in vista pregando che non avvengano movimenti allo spioncino mentre lo fa.

Ha insistito per parlare con un avvocato di sua scelta invece che con un difensore d’ufficio, e ciò a quanto pare sta rallentando la procedura.

Quando finalmente gli viene concesso del tempo da solo con Adam Benson, che fino a ora si è occupato solo di questioni immobiliari e del suo testamento, Henry capisce la gravità della situazione e del suo errore di valutazione. Adam sottolinea esplicitamente la sua limitata esperienza in diritto penale. Henry dice che non vuole tirare in ballo nessun altro. Il consiglio di Adam è semplice. Dimmi la verità. Fidati di me. C’è qualcosa che mi devi dire, Henry? Perché se è così, ti raccomando vivamente di farlo ora in modo che io possa contattare chi è davvero in grado di gestire la tua situazione.

La verità?

Henry pensa ad Anna seduta accanto a lui in macchina. La sua faccia cerea. Mi fai schifo.

Avverte un tremito nel labbro inferiore mentre lo accompagnano nella stanza degli interrogatori dove Adam è già seduto di fronte a quell’insopportabile ispettore di Londra. L’uomo che gli è così indigesto.

«Non potete tenermi qui. Non ho fatto niente. Niente di illegale».

«Ha puntato un fucile da caccia contro uno dei miei agenti, signor Ballard. Noi giudichiamo quel comportamento minaccioso».

«Avete fatto irruzione nel mio fienile. Ero sorpreso. Stavo proteggendo la mia proprietà».

«Abbiamo fatto irruzione dopo che lei ci ha telefonato in uno stato di notevole agitazione, signor Ballard, chiedendo di parlare al sergente Melanie Sanders. Abbiamo fatto irruzione per impedirle di fare del male a se stesso o ad altri. Lei lo sa bene e lo so bene anch’io, di conseguenza la invito a smetterla con questa sciocchezza della violazione di domicilio. Ci farà risparmiare un sacco di tempo».

Adam si gira verso di lui, lo guarda con gli occhi sgranati e lo incoraggia con un cenno del capo.

«Ero sconvolto. Sono andato in crisi. La scomparsa di Anna». Henry sente il cuore che gli batte forte e si sforza di apparire più pacato. All’improvviso ha una gran voglia di essere a casa, di scusarsi con Barbara e soprattutto con Jenny per la scena al fienile. Tutte quelle grida. Il confronto armato. Il povero Sammy che abbaiava come un pazzo davanti al fienile. Il casino. Questo tremendo casino. Vuole anche parlare con Melanie Sanders, non con questo babbeo di Londra.

«Perché non posso parlare con il sergente Melanie Sanders?». Quando ha telefonato dal fienile ha detto che voleva parlare con lei. Solo con lei.

«Al momento non è al lavoro. Glielo abbiamo detto quando ci ha telefonato. Allora, veniamo a noi. L’ultima volta che ci siamo parlati ufficialmente… prima di quest’ultimo episodio…», l’ispettore abbassa lo sguardo. Ha con sé dei fogli. Henry presume che stia rileggendo la sua dichiarazione dell’ultimo interrogatorio, quella dopo l’appello in TV, «…ci ha dato la sua seconda versione su dove si trovava la sera in cui Anna è scomparsa. Dunque, la sua dichiarazione attuale è che la sua macchina è stata lasciata vicino alla stazione ferroviaria per quasi tutta la notte perché lei aveva alzato un po’ troppo il gomito e aveva deciso di dormire sul sedile posteriore».

«Giusto».

«Ed è quello che ha raccontato a sua moglie? Il motivo per cui le ha chiesto di mentire per lei?»

«Sì. Mi imbarazzava d’essermi ubriacato in quel modo. Avrei dato una gran brutta immagine di me».

«Qui però abbiamo un problema, signor Ballard. Abbiamo risentito i testimoni che hanno telefonato dopo l’appello in televisione e loro non hanno visto nessuno che dormiva in macchina».

«Forse non mi hanno visto perché ero sdraiato. O forse hanno visto l’auto prima che io tornassi indietro dal pub».

«Ah già, il pub. Il Lion’s Head. Ecco il mio secondo problema. Vede, mi sembra strano che non avesse lasciato la macchina nel parcheggio del pub. E poi… sembra che nessuno ricordi d’averla vista al Lion’s Head quella sera».

«C’era molta gente. Tante macchine al parcheggio e tanta gente nel locale. Pieno zeppo. Perché avrebbero dovuto notare me?».

Sotto il tavolo Henry sente le mani improvvisamene sudate e se le asciuga sui calzoni. Si gira verso il suo legale che sta scrivendo qualcosa e si chiede a cosa possano servire quegli appunti. Sposta gli occhi sul registratore e si chiede se ne ricaveranno una trascrizione. Il problema quando si mente è che devi ricordarti i particolari della bugia. In modo che corrispondano ogni volta. È una cosa che sta imparando adesso. Ogni nuova versione delle sue dichiarazioni gliela rende più difficile.

«Quanto bene conosce Sarah, l’amica di sua figlia?». L’ispettore si è bruscamente proteso verso di lui e sta osservando con estrema attenzione la sua reazione.

«Non so che cosa intende. È la migliore amica di Anna. Lo è da anni. Viene a trovarci spesso come anche tutti gli altri suoi amici. Noi li abbiamo sempre accolti con piacere».

«E quand’è stata l’ultima volta che ha visto Sarah, signor Ballard?»

«Scusi?».