Chissà da dove vengono le fiabe? Sono storie tramandate nei secoli, racconti popolari che a volte avevano anche un po’ di aderenza con la realtà, a volte prendevano dai miti, a volte erano frutto di fantasia. Le troviamo in luoghi diversi, magari con lo stesso nome del personaggio principale ma non alcune variazioni. Per esempio, quella che mi raccontava una zia fiorentina (è sempre una zia la novellatrice) e che si intitolava “Prezzemolina”. Era una fiaba che mescolava altre storie che ho ritrovato in diversi libri.
«Conoscete la fiaba di “Prezzemolina”?» chiedo alle mie nipoti.
Si stringono nelle spalle, abbassano gli angoli della bocca, appaiono distratte. Thais sta leggendo qualcosa sul suo tablet: afferma che è per la scuola. Elisa invece sta guardando filmati sullo smartphone di sua mamma.
«È una principessa?» chiede Vivian, che invece sta disegnando. È la terza sorella, la piccolina, che non rientra nella competizione diretta tra le prime due, sempre un po’ in tensione.
Replico, assumendo un tono convincente: «No, è una ragazza moooolto brillante».
Lo sapevo che la curiosità di Elisa si sarebbe accesa. «E cosa fa questa “Prezzemolina”?» chiede, mantenendo lo sguardo incollato allo schermo del telefono.
«Vuoi sentire la storia?» domando allora. «Sì». Spegne lo schermo, si avvicina.
«E tu, Thais?»
Solleva lo sguardo un po’ corrucciato. «Tu inizia, io ascolto».
«Ma io preferirei che foste tutte vicine, le storie non passano soltanto dalle orecchie».
«Ah, no?» fa lei, riluttante a spegnere il tablet su cui sta chattando con l’amica.
«No, le storie passano anche dagli occhi».
Vivian si è già piazzata sulle ginocchia, il posto che considera migliore per ascoltare le fiabe. Le ragazze concordano, si aggrappolano a me come tralci su una vite.
Ora sì che posso iniziare.
PREZZEMOLINA
C’era una volta una donna che viveva in una bella casetta che dava sull’orto delle fate. La donna aspettava un bambino e ogni giorno che si affacciava alla finestra vedeva un prato pieno di prezzemolo. Che voglia di assaggiare quei bei ciuffetti! Così, la donna prese una scala di stoffa e scese nel prato per prendere un mazzetto di prezzemolo. Ma appena lo assaggiò, non riuscì a smettere di mangiarlo da quanto era buono e fresco. Insomma, si fece una gran scorpacciata, tanto che le fate, quando uscirono nell’orto, si accorsero che il prato era stato mezzo mangiato.
«Ma chi è stato?» Si chiesero l’un l’altra, contrariate. «Saranno le cavallette?» «Sarà qualche uccellino?»
Decisero così di restare di guardia a turno per scoprire chi fosse il divoratore di prezzemolo.
La donna, golosa di prezzemolo, il giorno seguente si calò di nuovo dalla finestra per mangiarne un altro poco, ma la fata appostata dietro un cespuglio balzò fuori e l’afferrò per un polso: «Ah, furfante! Ti ho presa!».
«Perdono!» piagnucolò la donna. «Aspetto un bambino e ho tanta voglia di prezzemolo!»
«Ah, si?» osservò la fata, per niente benevola. «Vuol dire che se avrai un maschio lo chiamerai Prezzemolino e se sarà una bambina la chiamerai Prezzemolina».
«Ma certo» accettò senz’altro la donna, sperando così di farla franca. Ma le fate non davano sconti, soprattutto a chi si permetteva di rubare le loro cose. «Aspetta» la trattenne infatti l’altra e con una voce poco raccomandabile intimò: «Appena tuo figlio o tua figlia sarà grande, la darai a noi».
La donna sgranò gli occhi, provò a pregare la fata di avere pietà, ma quella la ricacciò verso la scala e la rispedì a casa sua, dove la poveretta pianse tutte le sue lacrime. Ma passato quel momentaccio, dopo che le nacque una bellissima bambina, la donna non pensò più al patto con le fate. La chiamò Prezzemolina perché gli sembrò un nome molto carino che qualcuno le aveva suggerito… ma chi? Mah! Non si ricordava più, forse era stata una parente o un’amica.
Prezzemolina crebbe allegra, carina, spensierata. Ormai la sua mamma aveva completamente cancellato la disavventura nell’orto delle fate. La bambina andava a scuola tutti i giorni, passando davanti alla casa delle fate, salutandole. Giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, diventò una ragazzina molto graziosa ed educata. Un giorno, le fate, affacciate alla finestra, le dissero: «Dì alla tua mamma che ci dia quel che ci deve».
Tornata a casa, la ragazzina riportò la richiesta, chiedendole: «Ma cos’è che devi a quelle signore?».
La mamma, corrucciata, rispose: «Non saprei, non ci fare caso, tu vai per la tua strada». E così andò avanti per giorni. Le fate ripetevano la solita frase alla ragazza, e lei tirava dritto, ma ormai era incuriosita da matti.
«Mamma, quelle insistono. Dicono di ricordarti quel che devi dare».
«Ma sì, che dicano pure» ribatté la donna, seccata.
«E cosa devi dare?»
«Che facciano come credono!» si lasciò sfuggire la donna, che non ne poteva più di quell’insistenza, convinta che fosse tutta una sonora sciocchezza. Ma il giorno seguente, quando le fate ripeterono: «Hai chiesto a tua mamma che ci dia quel che ci deve?». Prezzemolina rispose: «Sì, mamma ha detto che facciate come volete». Svelte, senza farselo ripetere, quelle afferrarono la ragazza e la trascinarono in casa.
Prezzemolina non ci capiva più nulla. Di colpo, si trovò davanti a una stanza sporchissima, dove le fate tenevano il carbone. «Ascolta bene, cara» disse una di loro «Ti diamo tempo tutto il giorno per pulire questa stanza. Stasera dev’essere candida e dipinta con tutti gli uccelli. È chiaro?»
«Ma se non riesco?» chiese la ragazza, impaurita.
«Se non riesci ti mangiamo» l’avvertì un’altra, e si misero tutte a ridere, contente della prospettiva, poi uscirono di casa sfregandosi le mani. La ragazza si mise a piangere e provò a pulire quella camera nera, ma era un’impresa impossibile. Dopo un po’, sentì suonare alla porta e andò ad aprire con la morte nel cuore, convinta che fossero le fate, già di ritorno, pronte a divorarla. Invece era un ragazzo dall’aria sveglia, che si presentò: «Sono Memé, il cugino della fate. Cos’hai da piangere?».
Prezzemolina protestò: «Vorrei vedere te al posto mio! Se non pulisco questa stanza finché non è bianca, con gli uccelli dipinti, le fate mi mangeranno».
«Ti do una mano se mi dai un bacio» propose lui, facendole l’occhiolino. Al che, lei ribatté:
Preferisco esser mangiata
che da un uomo esser baciata.
Memé scoppiò a ridere: «Ah, che caratterino!» commentò. «Guarda Prezzemolina, ti aiuterò lo stesso, perché mi stai simpatica». E così, in un battibaleno pulì tutto e dipinse le pareti come avevano chiesto le fate. Le quali, quando rientrarono, rimasero molto male.
«Com’è possibile?» si domandarono, rimirando la stanza tutta linda. «Come hai fatto?» Prezzemolina taceva e le fate, confabularono tra loro: «Mandiamola dalla fata Morgana, quella non perdona». Così, l’indomani ordinarono alla ragazza: «Vai dalla nostra sorella la fata Morgana e chiedile la scatola del Bel Giullare».
«D’accordo» obbedì Prezzemolina e uscì, diretta verso la casa della fata Morgana. Ma per strada, d’un tratto incontrò il cugino Memé.
«Che sorpresa!» la salutò allegro. «Dov’è che stai andando?»
«Dalla fata Morgana, a chiederle la scatola del Bel Giullare».
«Ma senti!» esclamò Memé. «Non lo sai che quella è pericolosissima?» Prezzemolina si strinse nelle spalle. «E cosa cambia? Anche le fate sono cattive».
«Ma questa è peggio ancora» la informò lui, con l’espressione preoccupata. Poi, tirò fuori dalla tasca una boccetta. «Tieni questa boccetta. Troverai una porta, ungile i battenti e lei ti farà passare». Prezzemolina prese la boccetta e la mise in tasca del grembiule, intanto Memé estraeva due pagnotte da una bisaccia. «Prendi» le disse. «Troverai due cani che si mordono tra di loro, butta il pane e ti lasceranno passare». La ragazza annuì e mise le due pagnotte nella tasca del grembiule, ma Memé non aveva ancora finito. Trasse un rotolo di spago e un grosso ago dalla tasca e glieli porse. «Ascolta: incontrerai un ciabattino che per cucire si strappa la barba e i capelli, dagli lo spago e l’ago e ti farà passare».
«Non so come ringraziarti Memé».
«Potresti darmi un bacio» disse lui, speranzoso. Ma lei replicò, scostante:
Preferisco esser mangiata
che da un uomo esser baciata.
«Esagerata» sorrise lui, e aggiunse: «Aspetta. Tieni anche questa scopa. Troverai una fornaia che spazza il forno con le mani, dalle la scopa e lei ti lascerà andare».
«Bene, grazie mille» disse la ragazza e proseguì. Arrivò al palazzo della fata e vide la porta, prese la boccetta dell’olio e unse i cardini. La porta smise di cigolare e la fece passare. Poi incontrò i due cani che si mordevano e gettò loro i pani. I cani si avventarono sulle pagnotte e la lasciarono passare. Poi vide il ciabattino che si strappava i capelli per cucire le scarpe, e gli porse lo spago e l’ago, e lui la ringraziò di cuore. Infine, trovò la fornaia che spazzava il forno con le mani, e le dette la scopa.
Entrata dentro il palazzo, cercò la scatola del Bel Giullare, la trovò e corse via subito, come le aveva consigliato Memé. La fata Morgana, accorgendosi del furto, strillò: «Fornaia che spazzi il forno con le mani, ferma quella ragazza!».
«Ma neanche per sogno! Mi ha dato la scopa per spazzare!»
Allora la fata chiamò il ciabattino: «Ciabattino che cuci le scarpe con i capelli e la barba, ferma quella ragazza!».
«Ma neanche! Mi ha dato spago e ago, benedetta lei». La fata si rivolse perciò ai cani:
«Cani che vi mordete, fermate quella ragazza!».
«Ma nemmeno a pensarci! Ci ha dato una pagnotta per uno!»
E la fata provò con la porta: «Porta che cigoli e sbatti, ferma quella ragazza!».
«Neppure per idea! Ha unto i miei cardini!»
Così, Prezzemolina, svelta corse via lontana da quel palazzo incantato. Ma appena fu in salvo, cominciò a domandarsi: “Che ci sarà mai in questa scatola?”. Incuriosita, pensò di dare giusto una sbirciatina, sollevò appena il coperchio ma quello saltò via di colpo e dalla scatola uscì un lungo corteo di ometti che suonavano, un’intera banda che tagliò la corda. Prezzemolina provò a riacchiapparli e a metterli dentro la scatola, ma quelli scappavano da tutte le parti. Disperata, si accasciò per terra, in lacrime.
«Che pasticcio hai combinato?» sentì domandare alle sue spalle. Era Memé, che però rideva.
«C’è poco da ridere!» si disperò lei. «E ora come faccio?»
«Un rimedio lo avrei, se mi dai un bacio» propose lui. Al che, come al solito, Prezzemolina ribatté:
Preferisco esser mangiata
che da un uomo esser baciata.
«Tu sei proprio irrimediabile» sorrise lui. «Ma io rimedierò a questo pasticcio». Batté una bacchetta a terra e gli ometti marciarono compatti dentro la scatola del Bel Giullare.
La sera stessa, Prezzemolina si presentò a casa dalle fate con la scatola in mano. Come restarono di stucco! Non potevano credere ai loro occhi.
«Non siete contente? Non era la scatola che mi avevate chiesto?» si divertì a domandare Prezzemolina.
«Certo, certo» risposero quelle, interdette. «E che ti ha detto la fata Morgana?» «Mi ha detto di salutarvi».
«Ah ecco» borbottarono, scambiandosi occhiate.
«Bisogna mangiarla noi, è chiaro» bofonchiarono poi tra loro. «Domani, è deciso, quando avrà finito le faccende di casa, le faremo mettere un pentolone sul fuoco e quando bolle la buttiamo dentro».
Ma in un angolo buio era nascosto Memé, che aveva sentito tutto. Corse perciò da Prezzemolina, chiusa nella sua stanzetta. «Stai attenta, perché domani vogliono buttarti nel pentolone quando l’acqua bolle. Quando ti diranno di accendere il fuoco, di’ che manca la legna, ci vedremo in cantina».
Il giorno dopo, andò come aveva detto Memé. Le fate ordinarono a Prezzemolina di mettere sul fuoco il pentolone, per fare il bucato. Ma la ragazza annunciò che la legna era finita.
«Vai a prenderla in cantina!» le ingiunsero le fate, stizzite.
Prezzemolina scese per le scale e all’ingresso della cantina trovò ad attenderla Memé. «Vieni con me» la invitò lui, prendendola per mano. E le fece strada lungo il corridoio, finché non giunsero in una stanzetta piccola e nascosta. Dentro, c’erano lumini accesi. «Queste sono le anime delle fate. Soffiamo insieme!» Soffiarono e spensero i lumi. Le fate così svanirono. C’era poi un lume enorme e ci volle tutto il loro fiato per spegnerlo! Era lo spirito della fata Morgana, che finalmente scomparve.
Prezzemolina e Memé tornarono al piano di sopra, ormai erano padroni di tutto.
Memé le disse, allegro:
«Adesso la mia sposa sarai se un bacio mi darai!»
E cosa fece Prezzemolina? Stavolta lo baciò!
A dirla tutta, mia zia Rosa (la zia fiorentina che mi raccontava questa storia) insisteva che Prezzemolina non baciasse nemmeno stavolta il povero Memé, perché “le ragazze si devono far desiderare”. Ma oggi i tempi sono molto cambiati e una ragazza bisogna sappia che è meglio non tirare troppo la corda e stufare anche un tipo che sa aspettare come il cugino delle streghe.
Né Thais né Elisa hanno da obiettare, sono grandi e appagate da un finale in cui due personaggi si baciano, come nei film. Ma Vivian si informa:
«E si sposarono zia?»
«Sì, certo, si sposarono e vissero felici con tutto quel ben di Dio ereditato dalle fate». Ora sì che anche Vivian è soddisfatta.
In effetti le fiabe bisogna concluderle come si deve, vale a dire che vissero sempre felici e contenti.