XVIII
— È in casa don Pepè? — domandò, ansante, don Marcantonio Ravì, non riconoscendo a prima giunta donna Bettina accorsa ad aprir la porta.
— E voi chi siete? — domandò a sua volta donna Bettina irritata dalla furiosa scampanellata del Ravì, squadrandolo da capo a piedi.
— Oh, scusi, gentilissima signora! Son Marcantonio Ravì, ai suoi comandi. Scusi, se vengo così presto… Accidenti a questo cane! Lo sente come abbaja?… Debbo parlare con Pepè di un affare urgentissimo e di grande importanza per lui e per me.
— Favorisca, — disse donna Bettina un po' rabbonita, ma pur tra le spine vedendo entrare in casa quell'omaccione dall'abito non bene spazzolato e dalle scarpe poco pulite. — Credo che sia ancora a letto… Vado a chiamarlo.
Don Marcantonio si mise a passeggiare per la stanza, agitatissimo. Pepè si presentò poco dopo, stropicciandosi le mani gronchie dal freddo, con la faccia lavata di fresco e asciugata in fretta.
— Eccomi qua.
— Caro don Pepè, ditemi subito che intenzioni ha vostro cognato. Sto per schiattare dalla bile. Stanotte non ho chiuso occhio. E l'ho pure a morte con voi.
— Con me?
— Gnorsì. Lasciatemi dire, o schiatto, vi ripeto. Come vi è venuto in mente di condurre quell'energumeno, quel pezzo d'ira di Dio, in casa di mia figlia?
— Io? — disse Pepè. — C'è voluto venir lui.
— Per mettermi la guerra e il fuoco in casa? Ditemi subito quali sono le sue intenzioni.
Pepè protestò di non saper nulla; si dichiarò dolente anche lui di ciò che Ciro il giorno avanti aveva detto in casa Alcozèr, e aggiunse che avrebbe voluto trovare una scusa per impedire che suo cognato tornasse quel giorno a visitare Stellina.
— Trovatela, don Pepè! — esclamò il Ravì. — Trovatela per amor di Dio! Vi ho preso per un ingrato: me ne pento! Credevo che vi foste messo d'accordo con vostro cognato per rovinarmi la figlia. Ho avuto torto. Sarebbe infatti anche la vostra rovina. Parliamoci chiaro; anzi, fatelo intendere a quel pazzo furioso, ditegli pure di che si tratta… per voi… Mia figlia ha bisogno solamente di un'altra spinta come quella di jeri, e butta all'aria tutto, ve l'assicuro io! A sentir che la legge può venirle in ajuto e ridarle la libertà, ha preso fuoco. Ah, se l'aveste intesa jersera, appena siete andati via voi due… La libertà, asina, sai che vuol dire? — le ho detto io. — Che speri? dove te n'andrai? Ho cercato di prenderla con le buone; sono arrivato finanche a dirle che sapevo quale sarebbe stata la sua inclinazione, e l'ho scongiurata, per la sua felicità, ad aver prudenza, pazienza… Uno, due anni… che cosa sono? Se mi dicessero: tu devi far la vita del più scannato miserabile, schiavo tra le catene, due anni, cinque anni, e poi, in compenso, avrai la ricchezza, la libertà; non la farei io forse? E chi non la farebbe? Questo non è sacrifizio! Io sacrifizio intendo, quando non si avrà mai nessun compenso. Ho fatto il sacrifizio io, per esempio, dando la figlia a un vecchio, per il bene unicamente di lei; quando piuttosto, se il mio sangue fosse stato oro, mi sarei svenato per farla ricca e felice. E lei, ingrata… Basta: "Figlia mia", le ho detto, "il sogno come ti può diventar realtà, se non fai così?…". Capite, don Pepè, quel che m'è toccato di dire? E voi venite a rompermi le uova nel paniere, conducendomi in casa quel ficcanaso accattabrighe… Però… però… però, santissimo Dio, ho forse fatto peggio. Gnorsì. Mia figlia adesso, almeno a quanto m'è parso d'intendere, l'ha pure a morte con voi, nel sospetto che vi foste messo d'accordo con me per farle sposare il vecchio…
— Io? — esclamò Pepè, arrossendo fin nel bianco degli occhi. — E come avrei potuto?
— V'ho difeso! — lo interruppe subito don Marcantonio, per rassicurarlo. — V'ho difeso, parlando in generale… Perché, il vostro nome, capirete benissimo, non è venuto fuori… Peccati grossi, don Pepè, debbo aver io su la coscienza, senza saperlo, se Domineddio non m'ha voluto far la grazia di ritirarsi dal commercio di questo mondaccio quella merce avariata di settantadue anni! A proposito: giusto jeri m'imbatto nel medico che l'ha curato e salvato: ci teneva! E io non mi son potuto trattenere dal dirgli: "M'avete fatto questo bel regalo!". Basta; don Pepè, intendiamoci: son venuto per aprirvi gli occhi: badate che vostro cognato tira a rovinarvi. Vi ripeto, fategli intendere, magari in quattro e quattr'otto, di che si tratta. In fin dei conti, di che possono accusarmi? di voler fare la fortuna, prima, e poi la felicità di mia figlia? Non è delitto: sono anzi il dio dei padri. Vi saluto, don Pepè, e mi raccomando.
L'Alletto rimase in preda a una vivissima agitazione e con una segreta stizza contro Stellina. Come! Dunque non lo amava più? o non intendeva che, ribellandosi adesso, mandava tutto all'aria? L'odio per il vecchio marito era veramente più forte dell'amore per lui? E se era sorto in lei, ora, il sospetto d'un accordo tra lui e il padre, non si sarebbe cangiato in odio l'amore? non si sarebbe rivolta anche contro di lui quella rabbia? Che fare?
Gli pareva d'impazzire, tra l'avvilimento e la confusione. Pensava: "Vuol liberarsi dal marito! E come, se il padre non la vuole più in casa e io non posso far nulla per lei? Dunque pensa a un altro, che potrebbe ridarle la libertà? E io? posso io consigliarle pazienza? Dovrebbe consigliarsela da sé, se veramente mi amasse… Dunque non m'ama più".
Eppure, fino all'altro jeri…
Un altro pensiero gli balenò: che Mauro Salvo avesse scritto a Stellina qualche lettera, insinuandole il sospetto dell'accordo, per vendicarsi. Ne era ben capace quel vile! Sì, sì… Ma quale accordo? "Io" pensava, smaniando "io debbo assolutamente dimostrarle che è una calunnia, codesta. Mi metterò contro il Ravì, apertamente. Pregherò tanto Ciro, finché non mi otterrà un impiego, e allora…"
Decise di recarsi subito dal cognato; ma un altro pensiero lo trattenne. Quel giorno Mauro Salvo col suo satellizio doveva essere in cerca di lui, per la città, come un cacciatore arrabbiato, in mezzo ai suoi bracchi. Si mise allora a studiare per qual via sarebbe stato prudente recarsi in casa del Coppa, eludendo la vigilanza del rivale.