Nell’albergo c’è la sala biliardo con una grande vetrata su cui è riprodotto l’Albero della Vita. Nella luce screziata di quel mosaico avevo visto, un pomeriggio, mio padre baciare la mamma sulla bocca – l’unica volta che li ho sorpresi nel mezzo di un’effusione amorosa. È lì che mi sono rifugiato mentre il sole tramontava. Il calore dell’incendio ha rotto qualche tessera di vetro e un uccello smarrito sbatteva le ali contro il soffitto, cercando una via d’uscita. Ho preso una stecca, e l’ho guidato verso la libertà; poi ho fatto il triangolo, ho “spaccato” iniziando a mettere in buca tutte le palle, dalla due alla quindici, riservandomi la uno per ultima.

È uno dei metodi più sicuri che conosco per calmarmi. E quella sera ero molto agitato: appena avevo riattaccato con Astrid, mi ero sentito felice. Astrid, mi domandavo: sei tu?

Niente mi verrebbe più naturalmente che ripartire da zero, viste le circostanze. Ma mi terrorizza cominciare tutto daccapo. Innamorarmi eccetera. Io non me la cavo benissimo nella sfera affettiva (questo lo avrete capito). Ho maggiori tendenze verso l’astrazione. Eppure conosco uomini capaci di veri struggimenti (guardate Tognozzi: si è fatto quasi venire un infarto per quello straccetto della moglie) e di ardori senili: penso a Leone Squarzina, che si è trasformato in un vecchio satiro, di quelli che all’inizio del secolo scorso andavano in Svizzera a farsi trapiantare testicoli di scimmia.

Fuori c’era un’aria strana: era un giorno di straccatura, quando tra una burrasca e l’altra il mare si fa liscio come l’olio e non tira un alito di vento. Cominciava una sera infestata dai bombi e mia madre già presidiava la terrazza: ha il vezzo di bere una pinta di birra schiumante tutti i giorni all’ora dell’aperitivo. La cosa scandalizzava e divertiva i clienti – e lei se ne compiaceva moltissimo. Ora che beve tutta sola, davanti al crepuscolo, sembra solo una vecchia ubriacona.

L’albergo è messo male. Non malissimo. Però dà l’impressione di un reperto di un’epoca passata. Ho fatto togliere tutte le lenzuola dalle stanze e incellophanare i materassi; gli scheletri dei letti sembrano tanti catafalchi in attesa di una bara. Penso spesso a Squarzina, seduto nel suo ufficio sulle sue chiappe enormi. Avrei voglia di soffocarlo con un sacchetto di plastica, come una spia sovietica; ma so che mi andrebbe anche peggio se consegnassi la mia vita nelle mani di una banca. Dopotutto, sono ancora qui: il principe di questo castello in rovina.

Io poi non so bene – non l’ho mai capito – se l’hotel sia stato per me un paradiso (perduto) o una camera di tortura. Tutti i miei ricordi più felici vi sono ambientati; ma anche quelli più tragici. È un posto che, nonostante i molti momenti belli, non ha mai permesso al bambino e al ragazzo che ero di provare una vera felicità; anzi: mi ha sempre trasmesso un vago senso di minaccia, di pericolo incombente. Se fossi un cheyenne, penserei che sia stato costruito su un pezzo di terra maledetta; magari sopra le rovine di un antico cimitero. Uno dei motivi della sua bellezza mi pare a volte che si nasconda in questa possibilità che si stagli su un micidiale suolo di morte. E io sono di casa proprio qui, forse proprio per questo.

Egregio signor Breivik,

ricordo che quando venni a sapere che mia cugina Francesca si era uccisa, diventai così ossessionato dal pensiero della morte che non riuscivo quasi più a parlare. Durò tutta un’estate. Però si può dire che quella storia non è finita mai. Ogni volta che una persona a me vicina va a finire sottoterra, mi sforzo di pensare che la morte non è che un quarto d’ora di sofferenza alla fine di una vita. Ma c’è un particolare taglio di luce, qui, verso la fine del pomeriggio, che dona all’albergo che possiedo (un grand hotel affacciato sul mare che è diventato per me una prigione non meno odiosa della sua) una specie di dorata e inquietante inconsistenza, e mi dà a volte la sensazione che non è vero che nel morire non incontriamo mai la morte perché ce ne siamo andati prima che lei arrivi; anzi, è vero il contrario: è con noi quando stiamo morendo, perché la morte non è mai andata via.

Perché scrivo queste cose? E soprattutto, perché le scrivo a lei? Noi non ci conosciamo: i nostri sguardi si sono incontrati solo per un attimo durante l’ultima udienza del processo. Anche se io, almeno, l’ho guardata a lungo. Ero con una mia amica della stampa italiana a fare uno strano tipo di turismo, in mezzo al sangue, al dolore e alla morte, appunto.

Nell’ascoltare le testimonianze sulla strage che lei ha compiuto sull’isola, ciò che più mi colpiva era proprio il suo sguardo. Non era lo sguardo basso di un pentito, né quello vuoto di un pazzo. Era uno sguardo pieno di luce, lo specchio di una vanità enorme.

“Di cosa si sta vantando? Di cosa è fiero quest’uomo?” mi domandavo mentre le spiavo ogni minimo movimento del corpo. Credo che la risposta sia che lei provasse l’orgoglio di avere opposto all’irreversibilità dell’esistenza l’irripetibilità della sua fine. Non so se posso chiarire questo concetto, ma ci provo. Ciò che voglio dire è che le nostre decisioni cambiano il corso della storia, giusto? Costruiamo con le nostre stesse mani quello che ci separa per sempre dal passato e realizza il futuro, induriamo la parte molle del nostro destino; e la parte molle del destino dei ragazzi di Utøya si è indurita fino a esplodere. Per mano sua, signor Breivik.

Il battito d’ali di una farfalla in Brasile può provocare un tornado in Texas. La morte di un singolo essere umano non realizza un’infinita serie di pensieri, di gesti, di eventi e parole? E quella di settantasette? Dev’essere capace di spostare l’asse di un intero pianeta! C’è da sentirsi divini nel determinare un simile cataclisma, non è vero? Vietare che un incalcolabile numero di amplessi si realizzi, che un indeterminato numero di canzoni venga ascoltato, che si compiano centinaia, migliaia, milioni di discorsi, di giochi, di viaggi, di morti diverse: è la suprema vanità. Per un essere ripugnante come lei. Mentre sarebbe un rimorso ingestibile per una persona con dei medi valori morali.

Io, ad esempio. È possibile che una mia decisione – o meglio, una mia omissione – abbia (molto indirettamente) contribuito a portare una ragazza di soli tredici anni – mia cugina Francesca – a togliersi la vita. Be’, io credo proprio che…

Niente. Non riuscivo a esprimere ciò che avrei voluto. Cosa volevo dire a Breivik? So solo che c’entra la morte, e qualcosa nel suo sguardo in cui ho riconosciuto…

Qualche minuto dopo le otto e mezza ho chiesto a Giusy di portarmi del roastbeef e un’insalata di pomodori. Ma dopo appena un paio di bocconi già non mangiavo più: giocherellavo col cibo, prima di lasciarlo quasi tutto nel piatto. Ho provato a rilassarmi un altro po’ col biliardo. Poi Giusy è tornata ad avvertirmi: «La signorina Astrid è arrivata».

Com’era possibile? Avevo capito che si sarebbe presentata la mattina successiva. Invece doveva essere venuta direttamente dall’aeroporto; partita non appena avevamo finito di parlarci al telefono. Chi ha mai fatto una cosa del genere per me?

Lanciando la stecca sul tavolo, ho domandato dove fosse.

«È in terrazza che parla con la signora.»

Mi sono precipitato fuori per evitare che mia madre potesse dire qualcosa di folle e irreparabile e le ho trovate che stavano ridendo. L’abbronzatura dava ad Astrid qualche anno in più; gli occhi di mia madre, invece, brillavano come quando li guardavo da bambino.

«Di che parlate?»

«Di te, ovviamente» ha detto mia madre, terrorizzandomi.

«Non ti aspettavo così presto» ho detto ad Astrid mentre prendevo posto tra lei e mia madre.

«Cos’è, non sei felice che sono venuta?»

«Devi scusare il troglodita» s’è intromessa mia madre. «Ora vi lascio. Timeo mi chiama.»

«Il suo uccellino» ho spiegato.

«Ah.»

Nel darci la buonanotte, mia madre, di nascosto, mi ha fatto l’occhiolino. Sicuramente per incoraggiarmi, non sapendo che odio chi mi fa l’occhiolino; soprattutto se a farlo è lei.

«Hai mangiato?»

«Un ottimo panino all’autogrill.»

«Vuoi bere qualcosa?»

«Sì. Una vodka liscia, ghiacciata, andrebbe benissimo.»

«Te la vado a prendere. Sai, siamo un po’ a corto di personale» le ho detto per farla ridere.

«Ti accompagno.»

«Va bene. Ma il bar è stato smantellato e dobbiamo andare nelle cucine; una volta entrati lì dentro devi darmi la mano.»

«Perché?»

«È un labirinto. Se non ci sei mai stata potresti perderti.»

«Cretino.»

«Sono contento che sei arrivata stasera.»

«Meno male.»

«Sono felice.»

Quando ho premuto l’interruttore, è sembrato che la cucina, come un mostro d’acciaio, volesse inghiottirci: la luce al neon per poco non ci ha accecato. Sono andato dritto verso il frigorifero giusto, ho preso due bicchieri da una credenza ornata da una ragnatela, poi ci siamo seduti per terra, con le schiene contro un grande sportello, e abbiamo aperto la bottiglia.

«Spegni la luce.»

L’ho spenta. E ci siamo scolati mezza bottiglia di Stolichnaya nella luce zebrata che filtrava dalle persiane, parlando di Eleonora («ci hai provato, col matrimonio, ma non ci sei portato» ha sentenziato lei; «sei troppo una testa di cazzo.» Amen), del suo ex marito («non provo alcun rancore; è solo che non ho mai capito dove volesse arrivare») e della mia recente tendenza a voltarmi sempre indietro.

«Un nostalgico» ha commentato lei. Sa come togliere la buccia a tutto quello che sente.

«Ah, io potrei essere inesauribile sul tema della nostalgia!»

«Me ne sono accorta» ha detto scolando l’ennesimo bicchiere con la testa buttata all’indietro. «Cos’è che ti piaceva di me?»

«Innanzi tutto, il tuo modo di camminare.»

«Perché, come cammino?»

«In un modo unico, non lo sai? Sembra che voli.»

«Ah, ecco.»

Non so se l’ho già detto, ma mi fa impazzire il modo in cui Astrid incassa i complimenti: sembra esserne al tempo stesso irritata e lusingata. Per toglierla dall’imbarazzo le ho esposto la teoria sulla maggiore capacità di astrazione degli uomini, a cui difetterebbe, invece, un po’ di passionalità. Ma Astrid non mi è sembrata troppo coinvolta. Ha pigramente difeso la razionalità femminile: «Nei momenti più difficili siamo più composte» ha detto.

«Ah, se a parlare fossero gli armadietti dei medicinali di tutte queste donne composte, come dici tu! Dietro la loro compostezza, due volte su tre, c’è il Valium. Fattelo dire da uno che qui dentro ne vede sfilare un bel campione. E magari ti dicono che è merito dello yoga o del pilates…»

Il discorso, poi, è scivolato sui nostri padri; su quanto e in che modo hanno provato a rovinarci la vita. Ed è stato il momento in cui ho capito definitivamente che grande imbecille fosse Paolo Cecchetti.

«Ma tu non ti farai piegare!» ho detto con tono melodrammatico, agitando in aria il bicchiere.

«Piegata, spezzata e riattaccata con lo scotch un milione di volte!» ha ribattuto lei ridendo, e ha appoggiato la fronte sulla mia spalla.

Le ho raccontato di quando ho dovuto subentrare a papà alla guida dell’hotel. «Il ricordo della sua morte non si cancella mai» le ho detto. Ed è vero. Continuo a vederlo sofferente, logorato da un senso di colpa che provava a combattere infliggendoci un’ulteriore tortura (mostrarsi buono! Lui! Che crudeltà, che sarcasmo!), trincerato nell’orgoglio, nella sua amatissima, fottuta Dignità (con la D maiuscola, la D che fosse stato per lui avrebbe dovuto essere grande come quella della scritta sulla collina di Hollywood)…

«Facciamo un bagno?»

«Un bagno?»

«Hai presente il mare? Quella cosa grande e nera che sta laggiù?» ha detto Astrid indicando a caso un punto tra la friggitrice e il montacarichi.

Devo confessare che quando ha proposto una nuotata al chiaro di luna, malgrado sapessi quanto freddo sia il mare di mezzanotte anche in agosto, ho accettato subito sperando di rivivere il momento del laghetto in Norvegia. Purtroppo, barcollando dalle cucine alla terrazza, in direzione della sua stanza, Astrid mi ha dato appuntamento «qui, in costume, tra cinque minuti»; e il sogno di rivederla nuda è svanito con un colpo di vento preautunnale – presagio di una bella bronchite.

Ma anche in bikini è uno schianto. Sembra nata con un due pezzi addosso. Abbiamo preso le scale che portano giù al Beach Club (l’ascensore è fuori servizio dal giorno dell’incendio) e ho acceso i faretti.

«Se stessimo insieme, sapresti che sono estremamente freddoloso» le ho detto saggiando la temperatura dell’acqua col piede, dalla piattaforma.

«Se stessimo insieme sapresti che odio le femminucce» ha risposto lei tuffandosi di testa nell’ignoto.

Non rimaneva altro da fare che seguirla. Da quanto non facevo un bagno notturno? Chissenefrega da quanto. Basta guardarsi alle spalle, Jacopo. La felicità è laggiù, dove tutto è gelido e nero. È ora di buttarsi… Quando piove merda, ridi, diceva una canzone. Preziosissimo insegnamento.

L’acqua, in effetti, era congestionante. E quando sono riuscito a riavviare una normale respirazione e ho tentato di avvicinarmi ad Astrid con goffe bracciate, lei – che sembrava quasi non muoversi – si allontanava, come una mosca quando cerchi di prenderla.

«Non è fantastico?»

«Davvero» ho rantolato. Poi le ho detto: «Se stessimo insieme, sapresti che nuoto come un olimpionico».

«Gara?»

«Vediamo chi raggiunge prima la scaletta.»

«Cos’è, un modo paraculo per uscire in fretta dall’acqua? Se stessimo insieme, sapresti che non è facile prendermi in giro.»

«Dài. Sei pronta?»

«Sì.»

«Via!»

Ho vinto io, per fortuna. Ma di poco. E per fortuna siamo usciti. Mentre ci asciugavamo con gli accappatoi che nessun cliente probabilmente userà più, abbiamo continuato a prenderci un po’ in giro, anche per vincere un improvviso imbarazzo.

«Bella forza battere una ragazza!» ha detto lei.

«Ti brucia, eh?»

«Che fai, ti vanti, adesso? Che pena! Ma perché non ingrassi e ti compri una moto come fanno tutti gli uomini con la crisi di mezza età?»

«Se stessimo insieme, comprerei una moto, una di quelle cromate, rumorose e cafone, e ti scarrozzerei avanti e indietro lungo la costa.»

«Se stessimo insieme» ha replicato lei, «sapresti che io odio tutto ciò che è cafone, e in particolare le motociclette e le automobili cafone, e soprattutto le moto e le auto cafone che scorrazzano sul litorale.»

«Se stessimo insieme…»

Ma Astrid mi ha interrotto: «Tra noi e quest’ipotesi non c’è che un filo d’aria» mi ha detto. E ha accostato le sue labbra alle mie.

«Ti amo» ho bisbigliato tra un bacio e l’altro.

«Pensavo che avessi dimenticato.»

«Non ho mai dimenticato. Nemmeno per un momento.»

Egregio signor Breivik,

l’ho vista al processo. Si sente un dio per aver deciso la morte di settantasette persone, non è vero? Ma mi lasci dire una cosa…

Astrid infila un braccio tra me e lei e con gentilezza ci divide. I suoi occhi color nocciola sembrano dilatarsi mentre slaccia la cintura, sfila l’accappatoio dalle spalle e lascia che cada ai suoi piedi, prima di sedersi su uno dei lettini. Tolgo anch’io l’accappatoio, mi siedo accanto a lei e riprendiamo a baciarci; le sciolgo il pezzo di sopra del costume e sento il suo corpo che s’irrigidisce, inarcando il dorso.

«Tienimi stretta» mi dice; non è un gesto d’amore quello che sembra chiedermi, ma d’aiuto. La sua pelle è liscia e fredda, i suoi capelli bagnati mi ricordano l’odore dell’inchiostro. Non ho mai vissuto un momento più a lungo desiderato di questo: è come se tutto il mio passato non fosse servito che a preparare la scena di me e Astrid, qui, davanti al mare, che presentiamo l’uno all’altra i nostri corpi dopo anni di parole dette e scritte, di lunghissimi silenzi frutto di irritazione e imbarazzo, di altri amori e delusioni, di ricordi e di oblio.

Con dolcezza lascio che la sua schiena trovi il contatto con la tela del lettino e m’inginocchio accanto a lei. Finisco di spogliarla e mi fermo a guardarla, terrorizzato dalla possibilità che un tale spettacolo si offra proprio a me; poi mi chino su di lei, le bacio la pancia, le abbasso un ginocchio allargandole le gambe, mentre la sua mano cerca di tirarmi giù il costume.

«Quanto l’ho sognata» le dico piano nel momento in cui realizzo che sto toccando la fica di Astrid. Il Sacro Graal. Lei non dice niente; ma sento le labbra morbide che s’inumidiscono al mio tocco. Si bagnano grazie a me; per me. La guardo mentre stende un braccio dietro la testa e apre un poco la bocca. Ha attanagliato con una mano uno dei sostegni del lettino e ha fatto un lungo respiro, come se stesse per cominciare un esercizio di yoga.

«Com’è strano, vero?»

Il «sì» che le esce, è la prima volta che lo ascolto da Astrid: è un invito ad andare avanti, a unire la sua storia con la mia. Con la mano libera, la aiuto ad abbassarmi il costume; sento la sua mano – che conosco da sempre – e di nuovo la sua voce, che ora dice: «Lo volevo tanto anch’io». Sembra toccarmi con gesti calibrati, così che il contatto risulti leggero, ai limiti dell’irrealtà. Vedo che un suo piede si strofina contro il bordo metallico del lettino nel momento stesso in cui mi tira verso di lei. Davanti a me, distante chilometri, scintilla un puntino luminoso in fondo alla mezzaluna della costa; e immagino una festa con tanta musica e uomini che con gli occhi sbranano donne bellissime ed elegantemente vestite, sentendomi in netto vantaggio su di loro: Astrid è già nuda, nelle mie mani, e molto più bella di qualunque donna io possa immaginare a una festa, stanotte.

Venticinque anni fa (un quarto di secolo!) avevo raccontato ad alcuni amici che Astrid mi aveva fatto un pompino nei cessi del bowling sul Lungotevere; e mi ero pure concesso la libertà di aggiungere che non era stato granché. Quella era stata l’unica uscita in coppia: una partita a bowling, due hamburger alla piastra con patatine al bar annesso, e il montante disagio per una serata che non avrebbe mai potuto decollare. Avevamo iniziato a parlare di tennis e finito con lei che mi confidava di avere il cuore spezzato «per uno che conosci»… Così si era espressa, e io mi ero quasi strozzato col milkshake. Inutile estorcerle il nome: «Mi dai l’aria di essere un gran chiacchierone».

Mioddio, venticinque anni, forse anche ventisei o ventisette. Non si riesce nemmeno a tenere il conto. Che tenerezza, e che strazio: due ragazzini del tutto ignari di cosa sia l’amore e l’odio; due cosmonauti atterrati per sbaglio sul pianeta Venere, che chiedono disperatamente a qualche riccioluto nerd di Cape Canaveral di riportarli a casa.

E ora eccoci qui. Invecchiati, più stanchi, ma anche più belli (almeno lei), a chiudere il cerchio.

«Voglio sentirti dentro.»

Mi ha rovesciato sul lettino con l’energia di una wrestler e non appena si è messa a cavalcioni su di me tutto il sangue del mio corpo è precipitato nel punto di congiunzione con il suo.

«Ti piace?»

«Sì» mi dice, «sì.» I capelli le vanno sulla faccia e lei li soffia via dicendo «sì» e di nuovo «sì». Sì a me, alla mia cieca fiducia nella bellezza di tutto il suo essere, dai tempi in cui era poco più che una bambina. Sì a un’altra possibilità – chissà? – e comunque a un appuntamento che ci eravamo dati in un’altra vita, posticipandolo fino a ora, forse perché il suo sì suonasse così arrendevole, e dolce, e definitivo. «Sì!»

Ora, però, il ritmo invece di accelerare diminuisce e quando guardo negli occhi di Astrid, la sua espressione è tutta diversa, senza che io abbia avuto il tempo per vederla trasformarsi. Sembrerebbe… è così. Astrid, in silenzio, sta piangendo: «Scusa».

Si è fermata. Mi sento scivolare via da lei; siamo di nuovo due corpi separati.

«Non ce la faccio» riesce a dire, e poi scoppia in un pianto rumoroso, disperato, incongruo. Senza che io abbia avuto il tempo di accorgermene, siamo di nuovo i due ragazzini con le tute spaziali capitati sul pianeta sbagliato.

Qualche fuoco d’artificio è esploso (troppo tardi) in lontananza, nel cielo nero. Abbiamo rimesso gli accappatoi e ci siamo di nuovo seduti uno accanto all’altra. La fronte di Astrid era sulla mia spalla; l’ho abbracciata mentre piangeva e avrei voluto piangere anch’io, ma a me spettava il compito di consolarla.

«Scusa.»

«Non è successo niente.»

«Ti prego, perdonami.»

«Cosa c’è che non va?» le ho chiesto mentre le baciavo i capelli.

«Non sei tu» mi ha detto. «Non siamo noi. Sono io. Non ci riesco.»

Ora piangeva più forte. Ed era una scena al tempo stesso straziante e clamorosa, perché Astrid – la mia Astrid, quella che ho venerato nell’arco di interi decenni – non può piangere.

Per alcuni minuti siamo rimasti lì, immobili, sperando che il tempo agisse con miracolosa rapidità sul nostro imbarazzo. Il pianto è cessato quasi subito.

«Mi è venuto freddo.» In effetti, stava iniziando a battere i denti.

«Dài, rientriamo.»

Dietro il banco della reception abbiamo recuperato la sua valigia. Ho preso la chiave di una suite – l’unica con il letto fatto e gli asciugamani in ordine – e gliel’ho consegnata. «Vuoi che ti accompagni?»

«Voglio dormire insieme a te» mi ha detto. Il suo tono era perentorio; e io mi sono sentito come se m’avesse appena detto: «Prometto di amarti e onorarti per tutti i giorni della mia vita».

Dentro la vetrina accanto alla scrivania del concierge, gli occhi del braccialetto-serpente, colpiti dalla luce artificiale, brillavano come due gocce di vino. Ho girato la piccola chiave fino a far scattare la serratura e ho sollevato il braccialetto dal suo cuscino di velluto, con la stessa preoccupata cerimoniosità con cui Artù deve avere estratto la spada Excalibur dalla roccia.

«Questo è per te.»

«Cos’è?»

«È qui da secoli. Ho sempre provato a immaginare chi l’avesse dimenticato: una principessa araba, una cortigiana, una diva di Hollywood. Chissà. Nessuno l’ha mai reclamato.»

«Perché lo dai a me?»

«Perché nessuna donna che ho mai sognato con questo bracciale addosso è più bella di te.»

Sollevando un poco la manica dell’accappatoio, Astrid si è messa il braccialetto al polso; le stava largo.

«In realtà, andrebbe messo sul braccio.»

«Sì, lo so.» Finalmente è spuntato un sorriso quando mi ha chiesto: «Lo sai come si chiama questo gioiello?».

«Non me ne intendo molto.»

«Si chiama bracciale alla schiava.»

«Giuro che non lo sapevo.»

«È bellissimo, grazie» mi ha detto. E mi ha dato un leggero bacio sulle labbra. «Non posso accettarlo; ma se vuoi, posso indossarlo per te stanotte.»

Quando siamo entrati nella suite, sembrava avere ritrovato il controllo. E anche la sua abituale spavalderia. Si è tolta subito l’accappatoio, sistemando il bracciale appena sopra il gomito del suo braccio destro.

«Va bene così?»

Le ho raccontato che c’era una vecchia canzone che parlava proprio di un braccialetto a forma di vipera d’oro attorcigliata:

Vipera, vipera

sul braccio di colei

che oggi distrugge tutti i sogni miei…

Nel momento stesso in cui cantavo il ritornello, mi davo dell’idiota.

«Mi dispiace aver distrutto il tuo» mi ha detto. I suoi occhi erano tornati tristi.

«Scherzavo. È solo una canzone cretina.»

Portandosi dietro la sua piccola valigia, si è chiusa in bagno. Ne è uscita cinque minuti dopo, con indosso i pantaloni di un pigiama e una canottiera. La vipera era ancora attorcigliata al suo braccio.

«Vado a recuperare qualcosa da mettermi e uno spazzolino» le ho detto.

«Non andartene. Lavati i denti col mio. E per quanto mi riguarda, puoi tranquillamente dormire nudo.»

Davanti allo specchio del bagno, mentre strofinavo lo spazzolino di Astrid, guardavo il mio riflesso e facevo fatica a riconoscermi. Quel sacchetto floscio ero io? Quell’uomo dall’aria fosca e stanca era l’uomo capace di scatenare un numero sufficiente di scintille erotiche perché una fuoriserie come Astrid volesse denudarlo al chiaro di luna? Be’, il fuoco, comunque, s’era spento presto; non avevo alcunché di cui vantarmi.

Doveva essere stata colpa mia. Astrid era evidentemente abituata a qualcosa di meglio.

A impressionarmi maggiormente, comunque, era la somiglianza tra la faccia che vedevo sullo specchio e quella di mio padre. Una vera sorpresa. Di mio padre ricordo tutto, ma se dovessi selezionare le sue scene migliori per un trailer sulla sua vita, alla fine sceglierei quelle nella sala-biliardo: era un fenomeno con la stecca, e ogni volta che provo a richiamare la sua immagine lo vedo chino sul panno verde, con lo sguardo concentrato e un po’ strabico, nell’attimo in cui la traiettoria elaborata dal suo cervello sta per diventare, con qualche millimetrico scarto, il risultato del movimento del suo polso e del suo avambraccio. Ora so, invece, che per rivederlo, mi basta guardarmi: mai come quella sera, nella luce azzurrina di quel bagno, ho avuto chiara la percezione dell’origine del mio sangue.

Mia madre, invece – la mia mamma trentenne all’epoca in cui le signore portavano i figli a scuola in tuta e scarpe da ginnastica con sopra una pelliccia di visone – e quella ancora più antica di quando mi baciava sulla fronte prima di spegnere la luce; be’, quella, irreplicabile, è destinata a vagare per sempre qui dentro come un fantasma, evitando di avvicinarsi alla suite in cui dorme l’anziana rompiscatole che ha usurpato il suo posto.

Cosa avrei detto a mia madre – quella in carne e ossa, quella con la lingua biforcuta – l’indomani, a colazione? Come avrei giustificato la presenza di Astrid senza che lei si sentisse in dovere di esprimere con mezze frasi e ammiccamenti e occhiate tutta la sua soddisfazione per il mio tradimento consumato ai danni dell’odiata Eleonora?

Se avessero saputo, lei ed Eleonora, come quel tradimento si fosse risolto in una défaillance! E ora bisognava tornare di là, e infilarsi – nudo – sotto le stesse lenzuola con Astrid, senza la minima idea se la cosa giusta da fare fosse consolarla fraternamente o saltarle addosso con maggiore decisione, fregandosene della sospettosa spiritualità con cui certe donne rivestono l’atto sessuale.

Astrid era già a letto, ambrata dalla luce che filtrava dall’abat-jour. Il braccialetto era sul comodino. Mi sono tolto il costume ancora umido e sono scivolato accanto a lei, senza sfiorarla.

È stata lei a mettere la testa sul mio petto e una gamba sulla mia. «Voglio spiegarti cosa è successo» mi ha detto, «ma è piuttosto imbarazzante.»

«Non mi devi alcuna spiegazione.»

«Da quando ho lasciato Paolo, mio marito» ha continuato senza darmi retta, «o per meglio dire, da quando lui ha lasciato me, non riesco più… Quando provo a farlo, è come se mi avventurassi oltre me stessa. Evidentemente ho ancora paura del mondo lì fuori.»

«Mi sei sempre sembrata un tipo molto sicuro.»

«Non è così. Vivo una vita chiusa, nonostante le apparenze. Oltre al lavoro non mi è rimasto molto altro. Mi rendo conto di essermi costruita un muro attorno e per un po’ la cosa è andata bene. Solo che ora non riesco più a tenere le emozioni fuori dalla mia vita; ci sono cose che filtrano attraverso quel muro. E una di quelle cose sei tu.»

Sollevando un poco la testa, mi ha guardato dritto negli occhi, fino a quando non ho interrotto il silenzio dicendole che la amavo. Mi ha permesso di baciarla, e in quei brevi istanti ho sentito come se il passato che la prevedeva (un passato fatto di allenamenti sui campi da tennis e festicciole e interi pomeriggi seduti sui motorini davanti a un bar) si allontanasse per sempre. Ormai c’era solo Astrid lì e ora. Una persona nuova.

«È che non sono del tutto sicura di volermi mettere nelle mani di un altro» ha detto non appena ha staccato le sue labbra dalle mie. «Lo capisci?»

«Certo che lo capisco. Molto più di quanto tu non pensi. Nonostante io abbia accumulato un numero da record di aperitivi e cene con persone sconosciute, non sono quello che si può definire un tipo socievole. Non ricevo grandi stimoli dal resto del mondo.»

«Ah, sì?»

«Tendenzialmente, trovo l’umanità piuttosto deludente. Preferisco la compagnia dei divi del cinema e degli assi dello sport.»

La cosa la divertiva: «Preferiresti che fossimo dentro un letto preparato dal reparto scenografie?».

«Perché no? C’è gente che si eccita ad andare a letto con una donna mentre altre venti persone sono lì che guardano. E poi, vuoi mettere quanto sono più rassicuranti gli stereotipi della fiction? L’oca bionda che s’aggrappa al rozzo mascalzone…»

«Spencer Tracy e Katharine Hepburn. Ecco a chi vorrei che somigliassimo.»

«Purtroppo ci tocca sempre la realtà.»

«E qual è la nostra, di realtà?»

«Be’, per come siamo messi in questo momento, rischiamo di fare la fine di Alvy e Annie in quel film di Woody Allen. Una breve storia che potrebbe trasformarsi in una lunga amicizia.»

«Ti dispiacerebbe?»

«Un po’ sì. Anche se me lo aspettavo.»

«Sempre ottimista!»

«Preferisco non farmi troppe illusioni e pensare che, comunque, niente nella vita va preso sul serio.»

Non appena ho concluso la mia massima a effetto, Astrid mi ha baciato di nuovo, con più intensità, col palmo della sua mano disteso sul mio petto. «A cosa stavi pensando, adesso?» mi ha domandato con un filo di voce.

«A come fa una donna a baciare un uomo. Lo trovo francamente disgustoso.»

«Quanto sei cretino.»

«No, davvero. Come fate?»

«Be’, se sei tu l’uomo da baciare, non è poi tutto questo gran sacrificio.»

«Non tentare di risollevare la mia autostima. Non funziona.»

«Non intendevo farlo.»

«Non capisco se fallisco con le donne perché scelgo le donne sbagliate o perché sono sbagliato io.»

«Suona come un’offesa nei miei confronti.»

«Guarda che non volevo dire che tu sei sbagliata.»

«Be’, in genere lo sono. È statistico: gli uomini si stufano in fretta di me. E fanno bene: sono rigida, testarda, tendo all’isterismo e ormai da troppo tempo sono frigida. Non proprio quello che si dice un buon partito.»

«Ma che dici?»

«È la verità. Ma ci convivo serenamente da anni. A un certo punto ero così stufa di me che andavo in giro a guardare le altre donne per decidere con quale avrei fatto a cambio. E la sai la cosa divertente? Con Paolo avevamo conosciuto questa coppia, durante un viaggio a Barbados. E lei era così affascinante, e bella, e simpatica, che ho sognato di essere lei, e ho sperato almeno che diventassimo amiche; così, quando siamo tornati a Roma, ho insistito con Paolo perché lui diventasse suo paziente. Lei fa la fisioterapista. Ho iniziato a invitare lei e il marito a cena, una, due volte, e poi a organizzare dei weekend da noi al mare; ero io a saldare le sue fatture con bonifici on-line, anche se la schiena di Paolo non è che migliorasse granché; ma non ho mai dubitato delle capacità terapeutiche del mio modello femminile di riferimento. Fino a quando non ho scoperto che la donna che io avrei voluto essere era proprio quella che Paolo si portava a letto, o per meglio dire sul lettino, da sei mesi. Stanno ancora insieme, lo sai? Faranno otto anni a settembre. E hanno tre figli. A me sono rimasti solo due aborti e la frigidità.»

«Hai trovato un imbecille lungo la tua strada. Tutto qua.»

«No, no. Paolo era un uomo fantastico. Bello, ricco e premuroso. Molto colto. Insegna alla LUISS

«Alla LUISS ha insegnato anche qualche famigerato ministro. Non è una garanzia contro la stupidità. Piuttosto, non ti sei mai posta qualche domanda sul perché l’uomo che hai sposato si chiamasse come tuo padre?»

«Lascia perdere Freud, Jacopo, che non è il tuo forte.»

«È che vorrei farti capire quanto sia assurdo che una donna come te affoghi nell’autocommiserazione. Non è possibile.»

«Io non mi autocommisero.»

«Ma tu ti rendi conto, spero, che ogni uomo che sia veramente tale ti sbava dietro quando ti vede camminare per strada…»

«In questo, sei rimasto proprio un ragazzino. Alle donne non importa che gli uomini sbavino loro dietro; importa che raccolgano le loro lacrime. E che, sì, un pochino sbavino. Giusto un pochino.»

«Magari potessi tornare il ragazzino che ero! Dammi un pezzo di carta con la firma del Diavolo, che ci metto subito sotto la mia.»

«Sul serio?»

«Perché, tu no? Oh, io ci andrei subito indietro fino al 1983. Ho sempre invidiato i registi cinematografici; gente a cui danno dieci milioni di dollari per ricreare il mondo della loro giovinezza. Mi divertirei un mondo a fare il casting per la tua parte.»

«E per la tua?»

«Lì avrei bisogno del tuo aiuto. Perché credo di avere una visione limitata di me stesso. Come tutti, del resto. Non sarebbe facile scrivere dei dialoghi per me stesso, farmi fare certe cose. Anche se so che al mio personaggio non capiterebbe mai di trovarsi a letto con te e saltarti addosso invece che continuare a filosofeggiare sulla ricerca del nostro vero io.»

«Ci sei rimasto male, lo capisco.»

«No, figurati. Non ci penso già più.»

«Non ti credo. Purtroppo so che non è così.»

«Be’, un po’ hai ragione. Non potrebbe essere diversamente, no? Parliamo, ma in realtà pensiamo a tutt’altro. Capita di continuo.»

«A me no. Io dico sempre quello che penso.»

«Invece io credo che sia proprio così che va. Sotto ogni dialogo ce n’è uno silenzioso, segreto, che è quello vero.»

«E cosa ci staremmo dicendo in questo misterioso dialogo, io e te?»

«Non lo so di preciso. Anche perché la cosa interessante è che spesso invece di un dialogo si tratta di due monologhi.»

«Be’, allora informami sul contenuto del tuo.»

«Se devo essere del tutto sincero, continuo a chiedermi se ci sarà un’altra occasione per portare a termine quello che avevamo cominciato.»

«Lo sapevo.»

«Sì?»

«Sei un po’ troppo prevedibile.»

«E tu? Qual è il tuo, di monologo?»

«Più o meno uguale al tuo.»

«E ti sai dare una risposta.»

«Finora, ogni volta che ho cercato la risposta che volevo a quella domanda, sono rimasta delusa.»

«Anche con Pål?»

«Riecco Otello!»

«Anche con lui?»

«Non c’è stato mai niente di più di quello che hai visto, con Pål. Ti ho mentito. Non c’è stato niente di più di quello che abbiamo fatto tu e io, prima, lì fuori. Purtroppo. Non ho un rapporto completo da otto anni.»

Non sapevo cosa dire. Così sono rimasto in silenzio. Non una parola nemmeno da Astrid. Ho continuato ad accarezzarle i capelli, tenendo la sua testa sul mio petto, fino a quando non è stata lei a parlare: «All’inizio, questa cosa mi ha fatto soffrire terribilmente. Piano piano, poi, ho imparato a gestire la situazione. Kari, che ha studiato alchimia, una volta mi ha raccontato una storia sul dolore, che è come una perla.»

Mi sono ricordato di quando in Norvegia la sorella di Astrid aveva notato la fede che porto al dito e mi aveva detto: «Ci pensi mai al fatto che l’oro della tua fede potrebbe essere nato dalla collisione di stelle di neutroni?».

«Mi ha spiegato che gli alchimisti avevano un’immagine molto bella per esprimere la trasformazione della sofferenza in un valore» ha continuato Astrid. «Pensa a una perla.»

«Sì.»

«Be’, la perla all’inizio non è che un granello di sabbia che si è insinuato dentro la conchiglia. Strato su strato, quel granello viene ricoperto finché un bel giorno è una perla. Ma non basta: perché sia davvero una perla, bisogna che qualcuno si tuffi in mare, raggiunga il fondo e la liberi dalle valve sigillate della conchiglia. A quel punto, possiamo indossare quella perla, che è il nostro antico dolore. E dobbiamo indossarla sulla pelle calda perché mantenga il suo splendore. Ora tutti possono ammirarla: quello che prima tenevamo nascosto con vergogna, ora lo mettiamo in mostra, fieri.»

«E tu lo fai? La mostri la tua perla?»

«È quello che sto facendo con te.»