Quando ero bambino passavo ore a disegnare. Figure vagamente umane, con la testa a palloncino; giganti che sbirciavano dalle merlature di un castello; tori colorati di rosso, con le corna lunghe e sottili, come quelle dei diavoli; e più tardi i ritratti di qualche mio giocattolo: un sassofono di plastica, un leoncino di pezza e una piccola cassaforte azzurra dove custodivo una stella da sceriffo e un fischietto d’argento.

Il mio primo disegno che venne incorniciato tentava di ricopiare una stampa appesa in un corridoio della nostra vecchia casa, in cui si vedeva l’obelisco di Luxor ergersi come un torrone rosa in mezzo a place de la Concorde: io credevo che si trovasse da qualche parte a Roma e quante volte ho pregato i miei genitori di portarmi a vederlo! Chissà perché non mi hanno mai detto che quella piazza era a Parigi. «Se fai il bravo, papà ti ci porta, vero?» diceva quella gran bugiarda di mia madre. E mio padre, senza la minima espressione d’imbarazzo, mi guardava negli occhi e diceva: «Promesso!». Inutile sottolineare che la promessa – impossibile – non venne mai mantenuta; così, in mancanza dell’originale, ho continuato a disegnare l’obelisco della stampa, sempre lo stesso, finché non ne ho potuto più e l’ho fatto tagliato in due da una gigantesca lama tutta d’oro. Forse il mio capolavoro.

Mia nonna Kitty era un’ottima pittrice: il suo soggetto preferito era una ragazza che forse era stata lei, con un dolce mezzo sorriso che io credevo rivolto a me soltanto. È stata lei a insegnarmi a usare i pennelli e i colori, e presto sono diventato bravo anch’io, soprattutto con le nature morte e gli interni: ero affascinato da come gli armadi, il comodino, il portapenne, le specchiere, il paralume, la poltrona, una volta riprodotti con sufficiente verosimiglianza riuscissero trasformati, come succede in occasione di un trasloco, quando vediamo i mobili giù in strada in attesa di essere portati via e ci appaiono sotto una luce nuova, sorpresi in una nuova solitudine.

Di quei vecchi mobili che profumavano di trementina, ancora oggi la mia mano saprebbe trovare i difetti a uno a uno, così come potrei benissimo riprodurre qui e ora i disegni di certi tappeti, ormai confusi e spenti dal tempo. Ma con i volti, no: con i volti sono sempre stato rozzo, e quello di mia nonna – una principessa trasognata dal lungo collo – mi è sempre venuto troppo affilato e inespressivo. Era bellissima anche da vecchia, e sempre elegante anche quando usciva a dare acqua ai fiori con delle calosce scalcagnate. Fumava come se le sigarette fossero pesanti e la ricordo con le mani perennemente sporche di tempera. Nella fotografia che per fortuna si è bruciata solo nell’angolo in corrispondenza di uno spicchio di cielo, indossa uno di quei turbanti che la facevano rassomigliare a un incrocio tra un maharaja e Carmen Miranda. La mano ingioiellata è posata sulla mia spalla da settenne, lo sguardo è obliquo, diretto verso qualcosa che deve avere attirato unicamente la sua attenzione. Tutti gli altri, infatti, sono in posa con gli occhi puntati verso l’obiettivo: mio padre e mia madre abbracciati, mia sorella Alexandra tra mio zio Leone e mio nonno Clemente, tutto in bianco, la zia Virginia con la sua solita aria triste («la zia in nero») e, quasi tagliata fuori dall’inquadratura, mia cugina Francesca coi capelli biondi rovesciati sul golfino rosso fuoco e un’ombra nera a forma di trapezio che le si allunga sulla gonna scozzese.

Anche quel gruppo di famiglia in esterno che emerge dalla patina di una vecchia foto è mobilio pronto per essere caricato su un camion. Sembra impossibile che un tempo avessero una voce. Quella di mio nonno Clemente – l’edonista e svagato genitore di mia madre – era da cantante confidenziale: qualsiasi cosa dicesse pareva giungere come un soffio di vento sulle onde di una radio. Negli ultimi anni, però, parlava da un posto sempre più lontano, sempre più buio, e mia nonna Kitty ne era distrutta. Perché le voci cambiano. La faccia, invece, così austera, somigliava sempre a quella di Lincoln: la Grande Faccia di Pietra. Io non potevo resisterle: se mi avessero detto che il mio destino sarebbe stato quello di fissarla per sempre, l’avrei accettato volentieri.

Quando ancora non andavo in prima elementare, mio nonno mi metteva a sedere sulle sue ginocchia e mi insegnava a battere sui tasti di una macchina da scrivere Olivetti Studio 44. Eravamo nello studio di Villa Bortoletto, nascosti dietro a una cancellata in cima a una collina che domina Torino. È lì che ho trascorso tutti i miei Natali fino alla morte di nonna Kitty, nel 2001. Un tumore aveva ucciso mio nonno sette anni prima. La villa non è stata più la stessa, per me; adesso è in condizioni molto peggiori di quelle dell’hotel, in attesa di una vendita che non si realizza mai. Amavo quella strana casa con le sue massicce porte tarlate, le sue molte stanze vuote e paurose, i letti a baldacchino e certe gelide correnti d’aria che da bambini con Alexandra scambiavamo per fantasmi.

Con mio nonno, ogni volta che potevamo facevamo coppia, lui e io. Eravamo un bel duo comico, specie quando lui cantava certe vecchie canzoni e con un gesto teatrale mi invitava a entrare per il ritornello. Ogni tanto accennava a un passo di danza, quando metteva su i suoi dischi (Vous qui passez sans me voir cantata da Jean Sablon, o il tema di Luci della ribalta che lo faceva sempre commuovere): era il più stravagante ballerino che io abbia mai visto. Finché non si è ammalato, e le sue gambe hanno smesso di sorreggerlo e la voce è diventata l’eco di una grotta.

Sì, le voci cambiano. Tutte. Tranne quella di mia cugina Francesca: si è modificata fino a diventare, verso gli undici anni, una fontanella d’acqua fresca; poi un giorno qualcosa gliel’ha portata via, insieme al resto. Nella fotografia che sono riuscito a salvare, una piccola bolla le offusca il sorriso: se avessi avuto più pazienza da ragazzino, o forse solo più talento, adesso sarei in grado di restituirglielo in un bel ritratto. Invece sta lì da trentacinque anni, nascosto sotto una bollicina, in una fotografia che avevo dimenticato, insieme a tante altre cose, e che ho ritrovato nel giorno in cui ho iniziato a perdere tutto.

Ero bravo con la matita. Per qualche tempo ho avuto anche il desiderio di scrivere una graphic novel.

«Insincerità e vocazione al disastro sono i ferri del mestiere di ogni scrittore» mi ha detto Eleonora, dopo che le avevo confidato il mio sogno nel cassetto. «Ah, e poi la passione per l’isolamento» ha aggiunto. «Non dimentichiamoci di quanto ti piaccia stare per i fatti tuoi.»

«Sono un tipo solitario.»

«Solitario? Sei il campione indiscusso del farsi i cavoli propri, altro che solitario. Ti terrorizza mostrare le tue paure, i tuoi punti deboli.»

«Forse perché non ci riesco.»

«No. Tu non vuoi. L’amore è essenzialmente un atto di volontà. E tu non hai alcuna intenzione di compiere un atto simile.»

Ora, dico… ammesso che stiano così le cose: che dovrei fare se non continuare a comportarmi come sempre e vivere un compromesso il meno problematico possibile tra la verità (che solo io conosco) e una sana ipocrisia che permetta di godere dei vantaggi di una vita di coppia? Perché, ovviamente, ce ne sono. Sono tutto quello che mi manca adesso.

Poi, sì, è vero: preferisco non condividere i miei pensieri con Eleonora. Quando provo a farlo è sempre così deludente! Se l’avessi messa a parte dei problemi dell’albergo, ad esempio, cosa mi avrebbe detto? Sicuramente, per prima cosa, che è colpa mia. Tante grazie. Poi avrebbe sprecato un’ora buona a lamentarsi che avrei dovuto parlargliene prima, che parlare fa bene, che è più facile trovare una soluzione se ci si ragiona in due, e bla bla bla… Ma, alla fine, tanto, puoi parlare e ragionare quanto vuoi ma questa benedetta soluzione non viene mai fuori. Anche perché non è detto che per ogni problema ci sia una soluzione. Capita ogni giorno che la gente fallisca senza che i teneri conciliaboli condotti nottetempo con l’amato partner abbiano potuto farci niente.

Ah, come mi piacerebbe poter parlare con lei, discutere con lei, annoiarmi nel darle ragione! Amo vederla concentrarsi “sul problema”. D’altronde, se ci penso ora, amo qualsiasi cosa la riguardi. Non l’ho mai tradita. Benché ci sia andato molto vicino almeno un paio di volte (l’ultima delle quali con quella massaggiatrice napoletana con le àncore tatuate sulle caviglie che avevamo preso l’estate scorsa al Beauty Center; ma l’ho licenziata subito).

Vorrei parlarne ad Astrid. Di Eleonora, intendo. Ma – lo so – non sarei del tutto sincero. Non riuscirei a dirle che sospetto che Eleonora non mi ami più. È qualcosa che trovo inconcepibile da pronunciare ad alta voce.

Neanche dell’incendio ho voglia di parlarle. Rischierei di risultare troppo romanzesco. La scena che verrebbe fuori, a scriverla, sarebbe un impressionante quanto artificioso tableau vivant. Tutte le cose – il fumo, l’elicottero, l’albero, Galatea sbalzata dallo schianto contro il parapetto di roccia, la mano di Stacey Atwood che tiene i cordoni della borsa a fiorami (una mano che avrebbe potuto staccare senza sforzo la testa a un pollo), il dottor Pane che agita assurdamente il tubo per innaffiare le rose sul patio, l’abbaiare lontano di un cane, che dev’essere quello del padre di Empio (l’ultimo degli anarchici), il lampo di sadica soddisfazione che balena nello sguardo della figlia di Harry Frick, il magnate dell’acciaio, e il gancio arrugginito che spunta dal parapetto (uno di quelli per non far volare via gli ombrelloni del bar) da cui stillano alcune gocce del sangue che imbratta la camicetta di Galatea all’altezza del fianco sinistro – sulla pagina non sono altro che indicatori passionali del dramma in corso, ma non sono il dramma: per sempre, per me, l’incendio non si svolge più nel mondo reale, ma all’interno di una visione del tempo che è deformata dalla mia memoria e da tutta la cattiva letteratura in cui la mia memoria l’ha trasformato. È solo un piano-sequenza che esprime la mia crisi – UNA VITA IN FUMO! – con precisi movimenti della macchina da presa.

Non ricordo nemmeno quanto tempo è passato prima che qualcuno (chi?) mi strappasse quella ragazzina svenuta ed esangue dalle braccia e la portasse via.

Sudavo, mi girava la testa, non avevo una meta. Capivo di avere perso ogni autorevolezza e credibilità nei confronti di tutte quelle persone che scappando chi in una direzione chi in un’altra parevano attraversarmi come un fantasma. Solo Julien Penrosa, l’uomo che per 900 dollari sistema i capelli ad Anne Hathaway e a Ellen Barkin, ciabattando mi si è fatto incontro con un gran sorriso: «It’s not goin’ to burn down the whole damn place, isn’t it?». Poi, come tutti gli altri, è scomparso dalla mia vista annebbiata dal fumo e dalle lacrime.

Sarebbe andato tutto a puttane? Davvero? Era quello il giorno in cui la mia vita da commedia americana si sarebbe trasformata, nella migliore delle ipotesi, nel racconto di un superstite? Dov’era finito l’albergo che fino a pochi minuti prima era avvolto nello splendore domenicale, circondato da verdi e azzurri smaglianti e dall’odore dell’estate?

Un conato di vomito mi ha quasi strozzato il respiro. Mi sono affacciato dalla ringhiera e ho guardato verso la cala: la Torre di Scacciadiavoli era quasi invisibile, soffocata da una nuvola di fumo rossiccio. Solo in quell’istante mi sono venute in mente mia moglie e mia figlia nella dépendance sotto la torre.

Se devo essere onesto, di loro mi ero ricordato, fugacemente, poco prima che l’albero si schiantasse sul capanno del bar.

Avrei dovuto correre subito da loro? Facile giudicare se non si era lì, con il fuoco, la ragazzina ferita, i clienti impazziti e tutto il resto. Sono un mostro? No, non lo sono. Ma nemmeno una di quelle vittime che ispirano solo pietà – è meglio che voi lo sappiate subito. Se volete incolparmi di qualcosa, però, non incolpatemi di quello che ho fatto o non ho fatto quel pomeriggio. Ci sono così tante cose a cui potete aggrapparvi per pronunciare una sentenza di colpevolezza! Prima di tutto, sono un giovane vecchio viziato. Mettiamola così: se al mattino non c’è qualcuno che mi prepara la colazione, non faccio colazione. Sono pigro: ho passato una buona metà dei miei anni adulti a farmi le canne, a leggere e ad annoiarmi; ora prediligo lo sport in tv. L’unica certezza che ho è che amo l’albergo più di ogni altra cosa. Più della mia famiglia? Più di mia moglie e di mia figlia? Be’, questo no. Quel pomeriggio era una semplice questione di priorità nelle emergenze. Ma vallo a spiegare a Eleonora.

Anche Astrid… Quando gliel’ho raccontato, ho sentito un certo… come dire? Irrigidimento. Avrà pensato: “Ah, ecco. È con una testa di cazzo simile che ho deciso di andare a Oslo? Stronzo come a sedici anni”.

«Ma non stavano in albergo con te?» mi ha domandato.

Nonostante non abbia alcuna voglia di parlare dell’albergo, alla fine non facciamo che parlarne. Le ho spiegato che la regola che vige da sempre, da noi, è: vietato l’ingresso ai minori di dodici anni. Nemmeno io posso derogarvi; infatti, nei mesi estivi occupo con la mia famiglia una villetta (la dépendance) il cui giardino confina con l’albergo, facendo avanti e indietro lungo i trecento metri di strada tutta curve con uno scooter che avevo riverniciato in celeste e crema. Lo stesso che spronavo in salita per raggiungere Eleonora e Sofia, mentre all’improvviso mi raggiungeva il dubbio che potessero essere in difficoltà… Ed ecco che le immaginavo già rintanate e assediate dal fumo, con il fuoco che doveva avere ormai fuso il tavolo di plastica in veranda e fatto scoppiare il coccodrillo gonfiabile in migliaia di stelline verdi e nere.

Non avevo potuto prendere la Mini perché quell’idiota di Angelo – il portiere del garage dell’albergo – l’aveva incastrata tra le auto di qualche cliente. Ma il motorino sarebbe bastato: avrei potuto far sedere Eleonora dietro di me e Sofia sulle mie ginocchia. Sarebbe andato tutto bene.

Il fumo m’irritava gli occhi, mi entrava nelle narici per non farmi respirare, mentre, con una precisione che ancora adesso mi terrorizza, riuscivo a visualizzare la scena di quando sarei passato sotto lo stipite infuocato della stanza di Sofia e facendomi largo tra dense masse di calor bianco avrei trovato il suo corpo rannicchiato ai piedi del letto, proprio nell’istante in cui si irrigidiva per sempre. Si può concepire una simultaneità-lampo, la coincidenza assoluta tra la coscienza di sé e l’istante della morte? Prima dell’ultimo tornante, con l’eco lontana delle pale di un elicottero nelle orecchie, avrei scommesso di sì: avrei giurato che Sofia, nell’ultimo secondo della sua breve vita, si sarebbe resa conto di quanto inutile e triste e folle sia il mondo; di come tutta la fiducia riposta nel suo papà e nella sua mamma (cos’altro attutisce le paure di una ragazzina di dodici anni?) fosse stata sempre una stupida illusione; e tossendo e piangendo e urlando il suo nome: «Sofiaaa!», mentre già vedevo il cancello della villetta e la situazione non mi sembrava poi così grave, protraevo comunque la mia apocalisse e provavo a consolarmi pensando che quella simultaneità tra verità e morte, ammesso che esista, sarebbe, per fortuna, perfettamente inutilizzabile, perché nell’istante successivo – o forse nello stesso istante – non esiste più alcuna coscienza e tutto è bianco, silenzio e vuoto.

Intanto, però, la scena – vaporose volute di fumo grigio e una specie di barba rossa che guizzava sulle creste dei pini dietro la casa – mitigava il terrore e alimentava il senso di colpa: no, non erano morte, non potevano esserlo; ma io le avevo lasciate lì per troppo tempo, non avevo telefonato a Eleonora (perché non lo avevo fatto? Perché non lo facevo ora? Perché non lo aveva fatto lei?) e sicuramente quella mia omissione mi sarebbe stata fatta pagare a caro prezzo. Avrei dovuto sostenere lo sguardo deluso di Sofia (dov’eri, papà? Perché non sei corso a salvarci?) e con mia moglie sarebbe iniziato il solito gioco, quello in cui uno reagisce alla mossa dell’altro con una contromossa tale da annullarne il vantaggio, ma senza voler stravincere subito per il piacere di continuare per ore – magari per giorni – a farsi male. Lo “stallo”, lo chiamava lei. Sai che divertimento.

Il coccodrillo di plastica se ne stava a pancia all’aria in mezzo al giardino; la bici di Sofia – una Graziella bianca, col cestino di vimini attaccato al manubrio – era parcheggiata ai piedi della veranda. La porta di casa era chiusa, ma dalla fessura non usciva il temuto fumo. Sembrava tutto a posto. Mentre gridavo i nomi, e nessuno mi rispondeva, mi sono frugato nelle tasche per cercare le chiavi e ho capito di averle scordate in albergo. Ho bussato e bussato, continuando a urlare: niente. Ho provato a girare la maniglia: la porta si è aperta. Il salone era vuoto. Sono corso su, alle camere da letto. Non ho trovato nessuno. Nemmeno nei bagni, in cucina. Sparite.

Sono uscito di nuovo in veranda e ho tirato fuori il cellulare, deciso a chiamare Eleonora. Solo allora mi sono accorto che da quando avevo spento il telefono entrando in riunione non lo avevo più riacceso. Ho pigiato il tasto di accensione, ma non ho aspettato che comparisse la meletta sullo schermo. Sapevo dove erano andate: senza auto (la Mini era in albergo), l’unica opzione era la discesa a mare, un sentiero con ripidi tratti scalinati che precipitava fino alla Cala Scacciadiavoli e di cui si servivano solo le case del comprensorio.

Sono corso giù per la discesa, mentre il telefonino ormai acceso continuava a emettere dalla tasca uno, tre, sei, dieci avvisi di messaggi di Eleonora.

Eccola là: dal parapetto in cima all’ultima rampa ora la vedevo, ancora come un puntino lontano; ma era lei, col pareo sul costume intero, bianco, dritta come un fuso, i piedi a mollo nell’acqua, con Sofia accanto. Attorno a loro due, una manciata di vicini, tra cui la coppia inglese, gentile, che ogni estate portava a Sofia una scatola di quei biscotti al burro che lei adorava. Tutti guardavano in direzione del versante incendiato di Capo Scacciadiavoli, che chiudeva la baia a nord. Solo Eleonora era girata verso monte. Mi stava guardando. E dalla sua immobilità (non un gesto, non un cenno di richiamo) ho capito che era furiosa.

Non mi importava. Erano laggiù, le avevo trovate; e solo ora che finalmente potevo vederle mi rendevo conto di quanto il mio amore per loro fosse vero, assoluto; come se fosse reale solo nel momento in cui riconosceva il suo oggetto. E in quel momento, davvero per la prima volta quel giorno… in quel preciso istante, anche se l’immagine che avevo davanti era rassicurante … è stato proprio allora che ho provato paura.

Ancora adesso, appena abbasso le palpebre, riesco a rievocare la scena. Qualche giorno fa, per strada, ho visto un ragazzo con una T-shirt con su scritto NON PENSO, DUNQUE FORSE NON SONO. Divertente, no? Be’, io so di essere io – io e nessun altro – perché posso ricordarmi di quando sono arrivato alla spiaggia: tolgo le scarpe, affondo i piedi nella sabbia, corro verso la mia famiglia. La mia famiglia. A venti passi di distanza riesco a vedere gli occhi di Eleonora, ciechi e neri come la morte.

Chiamo: «Sofia!». Ma lei niente. «Sofia! Amore! State bene?» le chiedo.

Ma non mi risponde.

Mi avvicino ancora, tanto da poter accarezzare il soffice caschetto di capelli di mia figlia. Quelli di Eleonora sono spessi e neri, tagliati cortissimi. Eppure il vento riesce ad agitarne le punte. Per evitarmi, volge lo sguardo verso il mare: sul collo, sotto la nuca, appare il grosso neo nero che ho sempre adorato. Quando provo a prenderle una mano, lei sibila: «Non ti permettere».

È il momento in cui sento su di noi gli sguardi degli altri. Ma non è successo niente, alla fine, no? Cosa ho fatto mai? Di quale enorme colpa mi sono macchiato per dover subire un’umiliazione simile?

«Una cliente si è fatta male. La stanno portando in ospedale. Voi tutto bene?»

«Noi benissimo, grazie. Torna pure al tuo albergo del cazzo.»

Avrei voluto dire qualcosa. Avrei voluto dirle: una ragazzina s’è ferita, è grave, perde molto sangue; ho dovuto soccorrerla… Cosa avrei dovuto fare, lasciarla lì? Ma mi è bastato guardare Eleonora per capire che era meglio rimanere in silenzio.

Così ho girato i tacchi e mi sono messo a correre verso il sentiero come una bestia inseguita dai lupi.