La farmacia è chiusa. C’è più vita sulla luna che a Roma. Vorrà dire che dovrò tenermi la nausea.
Sotto il canto dei grilli, in lontananza, sento il rumore di una fresatrice. Quando cinque minuti più tardi raggiungo il Lungotevere, trovo una squadra che sta rifacendo il manto stradale: l’asfalto appena steso luccica nella canicola. Uno degli operai alza lo sguardo verso di me e mi giro dall’altra parte affrettando il passo perché mi vergogno dei pantaloni di tela color ruggine, della sgargiante camicia di lino, dell’aria da viziosa testa di cazzo che ho deciso d’indossare questa mattina.
Un uomo in pantaloncini e ciabatte sta facendo cacare il cane. I nostri sguardi s’incrociano quel tanto che basta per riconoscere nell’altro la stessa disperazione.
Astrid rientra in Italia dopodomani. Quattro giorni dopo il nostro idillio norvegese è partita per una settimana in Spagna con due amiche. L’altra sera c’era un documentario su qualche oscuro mistero custodito nell’Alhambra e ho provato a immaginarla coi capelli al vento in cima alla Torre de la Vela. Non ci siamo mai sentiti al telefono – nemmeno un messaggio. Io sono a Roma da cinque giorni, che faccio gli scatoloni (Eleonora mi ha garbatamente cacciato di casa). Dopo aver fatto a lungo anticamera col mio aguzzino, finalmente ho incontrato Leone. È chiaro che si sta vendicando di me, che vuole umiliarmi, perché, malgrado io sia finanziariamente nelle sue mani, be’, io sono sempre Jacopo D’Alverno e lui Leone Squarzina.
A casa di Tognozzi, dove mi sono trasferito temporaneamente per seguire i miei affari romani, non c’è Sky. «Che ci faccio?» m’ha detto. «Non mi piacciono né il cinema né lo sport.»
Ci sarà da fidarsi di un avvocato che fa certe dichiarazioni? Niente sport! «Cos’è» gli ho chiesto, «sarai mica frocio?»
«Ti ricordo che sono sposato.»
«Eri sposato» gli ho detto. Ma un po’ mi dispiace infierire su Tognozzi. Si vede che s’offende, che ci soffre. E poi è un amico, uno dei pochi che mi sono rimasti. Forse l’unico.
A casa, per fortuna, ci sta poco. Esce tutte le mattine alle otto e mezza, mentre io dormo, e torna un giro d’orologio dopo. Dodici ore che, quando non devo far finta di capire il mio commercialista o umiliarmi di fronte a Rassi (l’assicuratore), trascorro per la maggior parte sul divano del suo salotto a vedere quei deliziosi filmetti estivi: Cartoline da Viareggio con Gassman e la Milo, La bella di Lodi con una languida Sandrelli distesa sulla spiaggia di Forte dei Marmi, Leoni al sole con Philippe Leroy e Franca Valeri… e mi abbandono ai ricordi di lontane vacanze felici e all’odio verso Tognozzi, balsamo per questa nuova, tormentata stagione.
Sì, perché un po’ lo odio, Tognozzi: spingere il lettino pieghevole sulle ruote cigolanti lungo il corridoio di casa sua, dal ripostiglio al salone, mi annerisce il cuore. È come se m’avessero finalmente acciuffato per mandarmi a fare il militare. Se anche il matrimonio fosse solo evitare un simile squallore avrei un validissimo motivo per disperarmi della fine del mio. Eccolo che rientra: il mio commilitone – peggio di un “nonno” o di un sottufficiale sadico. E dire che mi saluta con un sorriso tutto denti, ignaro di essere, di fatto, il mio carceriere; crede che io sia contento di vederlo.
Il mio amico Dario Tognozzi: che tipo. Compagno d’università nei miei noiosi vent’anni, a quei tempi era un ragazzo meticoloso e – immaginavo – del tutto insensibile a piaceri che non fossero collegati direttamente allo studio del diritto; benché un bel giorno mi chiese di fargli da testimone per le sue nozze organizzate in quattro e quattr’otto con una matricola a cui tempo addietro aveva venduto per una cifra irrisoria i suoi ordinatissimi appunti di procedura civile. Avevano ventitré anni lui e diciannove lei quando si scambiarono gli anelli in una chiesetta all’Aventino. Nei primi tempi m’invitavano a cena, anche assieme alla mia ragazza di turno. Abitavano in un minuscolo appartamento tra piazza Navona e il Lungotevere, a pochi passi da quell’antico Albergo dell’Orso dove (pare) alloggiarono Dante e Montaigne. Giovanna – questo il nome della signora Tognozzi – apparecchiava coi piatti di plastica, Dario metteva su un disco di quelli intitolati Ibiza Lounge o Best Chill Out Mix ed entrambi mi guardavano con un sorriso di circostanza e un viso sfinito mentre mi servivo da una grande pentola piena di pastasciutta e melanzane informandoli sui miei cazzeggi.
Un paio d’anni dopo, i Tognozzi si sono trasferiti in una casa più grande, in Prati, a cinque minuti a piedi dallo studio in cui Dario stava facendo carriera. Dopo che ho sposato Eleonora gli inviti a cena si sono fatti più radi, l’espressione triste di Giovanna aveva guadagnato una nuova durezza, finché un bel giorno non è nata Sofia e la condiscendenza che fino ad allora avevo letto negli occhi della signora Tognozzi si è trasformata in odio mal dissimulato: aveva sbagliato pronostico ed ero diventato padre, per giunta, mentre lei – come mi ha confessato Dario una sera – non riusciva a restare incinta.
Adesso sta con un tale Ammar qualcosa. «Ha una galleria antiquaria dietro San Salvatore in Lauro» m’ha detto Tognozzi il giorno in cui mi è sembrato che stesse per rimetterci le penne.
Il 25 luglio (che peraltro è san Jacopo) ero riuscito a vedere Eleonora: un incontro penoso in un bar “neutrale” lungo la costa tra Roma e la casa al mare dei suoi (roba da spie). E non era andata bene. Ogni volta che aprivo bocca mi sentivo soffocare da ondate di panico, mentre la voce di Eleonora sembrava che leggesse gli annunci alla stazione; e proprio come se stesse declamando: «Si avvisano i signori viaggiatori che a causa di un guasto sulla linea…» mi ha chiesto, così, di colpo: «Ti sei divertito in Norvegia?».
Non so come abbia fatto a saperlo. Non l’avevo detto a nessuno (o no?). Sa anche di Astrid? Ero del tutto impreparato a risponderle. Ma non ho dovuto farlo; ho iniziato a balbettare qualcosa, prima che Eleonora mi interrompesse con un glaciale: «Non sono affari miei dove e con chi passi il tuo tempo». Sa di Astrid, evidentemente… Come è possibile? Ha sguinzagliato i suoi uomini in dogana a Fiumicino? Mi fa seguire da un investigatore privato? Chi è questa donna che mi sta davanti e che fino a poche settimane fa era mia moglie? Perché vuole così tanto che il nostro matrimonio finisca, e che finisca per colpa mia? Non punta ai soldi, questo no. Anche ammesso che un’Eleonora a me del tutto sconosciuta, e però autentica – la vera Eleonora – sia una scassinatrice di conti correnti, basterebbe un’occhiata al mio saldo contabile per farsi passare la voglia. Allora, cos’è?
Una volta, un russo dotato di molto petrolio e una giovanissima modella, mi ha espresso una sua teoria: una teoria sulle donne che lì per lì, sulla terrazza dell’hotel, al tramonto, già piuttosto brillo, mi era sembrata ineccepibile; e che ancora adesso, devo ammettere, mostra poche crepe. Nel suo inglese comico, agitando le braccia pelose, cariche di orologi e braccialetti d’oro zecchino, il magnate mi ha spiegato che l’uomo ideale per ogni donna ha la faccia di Brad Pitt, il fisico di Carl Lewis, il cazzo di John Holmes, il cervello di Stephen Hawking e i miliardi di un magnate russo. «Ne vorrebbe cinque, ma può averne solo uno» m’ha detto. Poi ha rivolto un’occhiata porcina alla sua bella e ha aggiunto: «A Ylenia sono toccati i miliardi» e s’è fatto una bella risata moscovita.
Sì, lo so. Suona come una banalità. Ma detta da lui, con quella faccia rossa, grassa, imperiale, faceva proprio effetto. E mi ricordo che ho pensato subito: e io chi sono, per Eleonora? Cosa mi contraddistingue come marito ideale? Non sono particolarmente attraente, il mio apparato riproduttivo non è da film porno, ho un QI nella media e, anche nei momenti più floridi, nessuno ha mai potuto scambiarmi per un riccone. Tutto quello che ho (che avevo) da offrirle era l’albergo. Un mondo. Una terrazza a picco sul mare, interminabili conversazioni e ottimi cocktails. Ho sempre pensato che Eleonora odiasse l’albergo, che lo sentisse in competizione con lei. Ma è l’albergo, in fin dei conti, tutto ciò che una donna può amare di me. Non a caso, da quando l’ho perso, proprio dal momento stesso in cui l’ho perso, sono rimasto solo.
Mentre aspettavo (Eleonora arriva sempre in ritardo), ho capito sulla mia pelle che il vederla apparire o non apparire da una svolta della strada, dall’angolo di un palazzo, dall’uscita di una metropolitana, dal portone di un condominio, dalla portiera di un taxi, deciderà sempre se una giornata è bella o brutta. Quando l’ho vista arrivare, avrei voluto accarezzarle la nuca e baciarla con tutta la passione, la violenza e la tenerezza dei primi incontri proibiti (io ero di un’altra, un’altra che Eleonora conosceva benissimo).
Un tempo avrei sfondato qualunque vetro tra me e lei, per poterla abbracciare. L’effetto che mi fa il suo corpo, lungo e nodoso, è così potente che ogni ripetizione dell’amore, in tutti i letti precari dei nostri inizi, così come nel talamo delle nostre nozze, mi conferma sempre che io devo essere nato per poterlo guardare.
I primi tempi, dopo il sesso, a volte prendevo coraggio e parlavo un po’ a vanvera. Riuscivo a tirare fuori cose su me stesso che non avrei mai confessato se non a lei. A Eleonora piaceva. Una volta ho iniziato a parlarle con la strana lingua che avevo inventato insieme a Tognozzi negli anni dell’università. Roba tipo: salsi mai di nai diomeri… Mi venivano interi monologhi dopo aver fumato un po’ d’erba. E adesso non riesco nemmeno a pronunciare il suo nome a voce alta. La lingua s’è pietrificata. Quel pomeriggio, lì in quel bar frequentato solo da lettori in ciabatte della “Gazzetta dello Sport”, avrei tanto voluto chiederle: perché? Ma non l’ho fatto. Sono riuscito solo a smozzicare roba tipo: «Sono venuto qui di mia iniziativa»… Ridicolo! E quanto al mio viaggetto scandinavo, non ho negato niente, ho solo farfugliato, prima che Eleonora, trionfante, si attribuisse un punto sul pallottoliere. Quando mi ha chiesto di liberare l’appartamento dalle mie cose («ti prego, vedi di farlo entro una settimana; renderesti tutto più facile») non ho saputo fare altro che inchinarmi muto al suo volere; e andarmene.
All’epoca in cui stavo con Giada, problematica divetta di fiction televisive, Eleonora era la sua “amica più preziosa”. Diceva sempre così, Giada, di questa sua amica che ancora non avevo mai visto: che era “preziosa”. E io, che a quei tempi mi vantavo di conoscere le donne, ero convinto che dietro un simile appellativo si nascondesse qualcosa di simile a una nana baffuta con gli occhiali.
Quando per la prima volta l’ho vista venirci incontro, in mezzo a una strada in centro, in piena euforia prenatalizia, con la sua camminata mascolina, gli enormi occhi blu e quella piccola nuca appena protetta da un lucido caschetto di capelli neri, quasi mi si è fermato il cuore. A me sembrava, con tutta evidenza, bellissima, Eleonora, e alta quanto bastava a non sfigurare accanto al suo ragazzo, ex pallavolista ritiratosi giovane a causa di uno scompenso cardiaco (poveraccio: ho saputo che è morto un paio d’anni fa). Siamo andati tutti e quattro al cinema a vedere Il grande Lebowski e poi al giapponese che piaceva tanto a Giada. Al tavolo accanto al nostro c’era un tizio identico a John Goodman e io non riuscivo a non tenere incollati i miei occhi su di lui; un aperitivo pre-cinema e un paio di birre di troppo mi avevano reso pericolosamente incline alla ridarella idiota: ogni volta che vedevo quel faccione muoversi per dire chissà cosa a una signora di cui scorgevo solo i molti, pettinatissimi capelli color melanzana, gli mettevo in bocca col pensiero una delle sentenziose ottusità del reduce del Vietnam impersonato da Goodman e mi veniva da piangere dalle risate.
«Ci hai messo tutti in imbarazzo.» Il rimprovero era arrivato da Giada sulla segreteria telefonica, mentre, tornato nel mio appartamento, vomitavo Kirin, sashimi e sakè inginocchiato davanti alla tazza del cesso – una routine in quel biennio sconclusionato: se a quei tempi avessi avuto la barba, sarebbe stata perennemente impregnata di White Russian come quella di Drugo.
«Ci hai messo tutti in imbarazzo, quella sera» mi avrebbe detto qualche anno più tardi anche Eleonora, nel ricordare il nostro primo incontro.
«Però ho fatto colpo.»
«Ti ho trovato alquanto ripugnante, per la verità.»
«Non mi eri sembrata così schizzinosa, una settimana dopo.»
«Era passato quasi un mese, Jacopo.»
Eleonora era una dei duecento invitati alla presentazione della fiction di cui Giada era la tormentata protagonista (il titolo è troppo conosciuto perché io possa rivelarlo; del resto, non crederete mica che Giada si chiamasse – si chiami – proprio così, vero?). La festa si teneva all’interno del Teatro 3 di Cinecittà, dove la prima stagione della fiction era stata girata. Giada aveva scelto per me un completo nero di Armani che mi faceva somigliare a un incrocio tra Mr. Pink e Mr. Orange; per lei uno strano vestito di Aquilano e Rimondi, nero, con una fantasia verde e malva di cuori e di picche. Ci tenevamo la mano lungo il red carpet – Giada tutta sorrisi, io sfingeo, così come lei aveva deciso dopo una lunga telefonata col suo agente – e io pensavo che ancora una volta la vita mi stava regalando una lezione su me stesso: ero la comparsa nell’ennesimo film di un altro.
C’erano stati i flash, c’erano stati gli abbracci, da ex commilitoni (sì, figuriamoci!), tra Giada e gli altri attori, tra Giada e il direttore di rete, tra Giada e il produttore, tra Giada e il regista (nella sua «prima e ultima incursione televisiva», ci teneva a precisare lui con tutti i giornalisti presenti). C’erano un buffet degno di essere decantato da Petronio, ovunque evidenti segni di chirurgia plastica e pile di brochure e cartoline dal cui sfondo laccato emergeva, tridimensionale, il titolo innominabile; quello che avrebbe definitivamente imposto Giada nell’immaginario collettivo, almeno a dar retta al suo agente, che si aggirava, sudato e strafatto, comunicando a tutti (e nessuno capiva perché) di avere appena ordinato su internet un amplificatore subwoofer a sfera della Reckhorn con una membrana di alluminio da sedici centimetri: «Il massimo in quanto a neutralità del suono», aveva detto anche a me, come se mi stesse confidando un segreto di Stato.
Anche io, dopo poco meno di un’ora, ero piuttosto sbronzo, oltreché di pessimo umore: abbandonato da Giada al mio destino, gironzolavo piluccando finger-food e arraffando flûte di champagne al volo dai vassoi. In mezzo a tutta quella gente mi sentivo tremendamente fuori posto; ma poi, da quell’indistinto paesaggio umano, è emersa lei, Eleonora. «Chi è quella?» mi ha chiesto l’unica persona con cui ero riuscito fino a quel momento a stabilire una qualche forma di rapporto: un fonico con cui mi ero intrattenuto per dieci minuti a sbevazzare e a dare i voti alle invitate. Effettivamente, Eleonora abbagliava. Indossava un vestito di lamé, tutto d’oro, che le lasciava nuda la schiena. Quando si è accorta che la fissavo, ha girato altrove i suoi occhioni blu, affrettandosi a rivolgere la parola a una sconosciuta. In quel preciso momento Giada, da dietro, ha posato una guancia sulla mia spalla, lasciando un alone sbrilluccicante sul mio Armani.
«Gianni è completamente partito.» Parlava del suo agente. «È sempre così inadeguato. Vorrei spiegargli che non può farsi vedere in queste condizioni, ma si sentirebbe attaccato e diventerebbe subito aggressivo.»
«È probabile.»
«E tu?»
«Io cosa?»
«Ti diverti? Hai trovato qualcuno?»
«Ho amabilmente chiacchierato con quello là» le ho detto, indicando il fonico, che, in piedi, col piatto in mano, cercava di tagliare qualcosa di troppo piccolo e duro con un coltellino di plastica.
«Chi, Sergio? Quel maiale? Ha molestato tutto il cast femminile della serie, me compresa. Ma perché non parli con Eleonora, scusa? Eccola là. Eleee…»
Eleonora aveva alzato il mento, come per dire: “Che volete?”. Poi aveva abbandonato la cricca di uomini sbavanti che la circondava come se si togliesse di dosso un mantello e con la sua falcata militaresca ci aveva raggiunti. Profumava di erba tagliata.
«Era l’Amandière della Heeley» mi avrebbe raccontato anni dopo.
«Quella sera mi ha fatto l’effetto dell’elisir di Tristano. Quando ti sei avvicinata, tutta d’oro, avrei voluto che il resto scomparisse.»
In realtà, a un certo punto siamo scomparsi noi. Giada ci aveva lasciato perché iniziava la conferenza stampa.
DOMANDA: Il tuo, Giada, è un ruolo molto sensuale, che tu hai affrontato con una recitazione intensa, a tratti cruda…
RISPOSTA: È un ruolo lontanissimo da come sono io nella realtà. E proprio per questo ancora più affascinante da rendere.
DOMANDA: Effettivamente è una parte molto diversa da quella che t’ha vista trionfare negli ascolti nei panni della moglie del giovane Sandro Pertini.
RISPOSTA: È il privilegio del mestiere d’attore. La mia scelta è di non scegliere.
DOMANDA: Il tuo personaggio, Katia, è una seduttrice. E tu, Giada, come seduci nella vita?
RISPOSTA: [a bassa voce, con un sorriso che non ammette repliche] Ma per favore…
«Devo fumare sennò impazzisco» ho detto, sperando che Eleonora mi accompagnasse.
«Vengo con te.»
Siamo usciti. Cinecittà dormiva sotto un cielo senza stelle. Di fronte a noi, un capannone con su scritto CINE ARS si stagliava in tutta la sua pencolante decrepitezza.
«Giada continua a ripetermi che sei una interior designer pazzesca e che dovrei affidarmi a te per svecchiare il look dell’albergo.»
Ma Eleonora non mi stava neanche a sentire. Qualcosa aveva attratto la sua attenzione. «Guarda!» ha detto, avvicinandosi al capannone: semicoperta da una palma spelacchiata c’era una statua enorme, alta più di tre metri, che ho riconosciuto subito.
«Ma è il Cristo dorato della Dolce vita! Quello che viene trasportato da un elicottero fino a piazza S. Pietro!»
«Ah, sì? Non mi ricordo se l’ho visto, La dolce vita…»
«Come, non ti ricordi? O l’hai visto o non l’hai visto. Ma se l’hai visto non puoi averlo dimenticato.»
«Ah, ma io i film li dimentico tutti» ha replicato Eleonora, mentre bussava con due nocche sul fianco della statua. «È vuota. Vetroresina.»
Il Cristo della Dolce vita si lasciava auscultare impassibile, dimenticato chissà da quanto tra un totem e una catasta di sedie di plastica, mentre ai suoi piedi giaceva, stramazzato, un cavallo (finto), residuo di chissà quale western.
«Dài, entriamo.» Eleonora aveva girato la maniglia di una porta, che si era docilmente aperta, e ora incedeva nel capannone, incurante dei miei tentativi di fermarla. C’era un odore di acetone e vetroresina che dava le vertigini; ma lei ormai aveva già trovato l’interruttore della luce. Accatastate una accanto all’altra, una sull’altra, per tutto l’enorme stanzone, e fino a sfiorare il soffitto, ci guardavano centinaia di statue, di ogni foggia, dimensione e colore: piccoli idoli indù dorati, marmi canoviani, sfingi, scheletri, bocche di squalo, angeli, ippogrifi. E io per poco non ho inciampato in due delfini mitologici, identici a quelli che nella corsa delle bighe di Ben Hur servivano per contare i giri. Saranno stati effettivamente loro? Il fatto che avessero nuotato dall’oceano d’argento del grande schermo fino a quell’impolverata rigatteria mi sembrava un’assurdità della fisica, come se la materia impalpabile di cui sono fatti i nostri sogni cinematografici avesse subito uno sconvolgimento molecolare. Avevo la certezza che avrei ricordato a lungo quel momento; e sentivo di essere felice di condividerlo con Eleonora, quello schianto tutto d’oro che lasciava ovunque il segno del suo dito sulla polvere di settant’anni di film.
Abbiamo passeggiato tra file di oggetti accatastati: una gabbietta per uccelli, un Buddha che sembrava di giada ma che se ci bussavi sopra – toc toc – era finto come tutto il resto là dentro. C’erano anche le riproduzioni giganti di complicate divinità egizie. In diversi punti il tetto di lamiera lasciava entrare la pioggia, che aveva appena iniziato a battere forte, e si percepiva distintamente il rumore delle gocce su un colossale David di Donatello in gesso. L’elettricità andava e veniva, lussureggianti frasche erano penetrate dai lucernari coi vetri sfondati; una debole brezza faceva oscillare un’enorme campana di bronzo in vetroresina, leggerissima chincaglieria in Panavision.
La pioggia batteva sempre più forte. Non potevamo uscire per tornare alla festa. Così abbiamo continuato a guardare i reperti, a parlare degli arredi dell’hotel e chissà di cos’altro. Finché io non le ho detto: «Sei la più bella che io abbia mai visto».
«Non dire scemenze.»
«La mia macchina è appena fuori dal cancello d’ingresso. Vado a prenderla, butto giù la sbarra, tu sali al volo e ce ne andiamo via di qui…»
«Ma dove?» ha detto lei ridendo.
«Via. Lontano. Andiamo a Napoli a mangiare le sfogliatelle all’alba da Pintauro, a via Toledo.»
«Perfetto. Prima, però, andiamo a raccontare il nostro piano a Giada, che ne dici?»
«Poi proseguiamo per la costiera e facciamo il bagno a Positano. Prendiamo una suite alle Sirenuse e non usciamo più.»
«Considerati un uomo fortunato, Jacopo D’Alverno, visto che farò finta di non avere ascoltato…»
«Ti prego. Giuro che non appena torniamo a Roma lascio Giada» le ho detto.
Eleonora era appoggiata di schiena contro uno scaffale, e quando io mi sono sporto in avanti verso di lei, è sgusciata via sotto il mio braccio dicendo: «Sarà meglio tornare alla festa». E io, mortificato, l’ho seguita mentre usciva e riattraversava la strada verso il Teatro 3 sotto l’acquazzone.
«Mi sa che Eleonora era un po’ giù di corda, stasera» mi ha detto Giada mentre risalivamo in auto. «Raffaello non l’ha voluta accompagnare; ha gli allenamenti domani mattina presto.»
«È già “domani mattina presto”, mia cara. Sono quasi le quattro.»
«Ti sei annoiato?»
«Mortalmente.»
«Eleonora s’è annoiata più di te. Se l’è filata in taxi a mezzanotte.»
Io ho cambiato discorso. Avevo paura di tradirmi; ma non facevo che pensare alla mia Cenerentola dorata nella luce tremolante della CineArt. La statua più perfetta.
Tre giorni dopo l’ho chiamata.
«Pronto? Studio 171?»
«Sì?»
«Posso parlare con Eleonora Rovatelli?»
«Con chi parlo?»
«Le dica che è Jacopo D’Alverno.»
«Jacopo. Non mi riconosci?»
«Eleonora! Scusa.»
«Cosa vuoi?»
«Be’, ti ho chiamato per sapere se ti andava di prendere un caffè, o qualcosa di più forte, nel pomeriggio.»
«Jacopo, io non esco con gli uomini delle mie amiche.»
«Ma non ti ho mica chiesto di scappare con me…»
«Come l’altra sera…»
«Un caffè. Solo un caffè. Che c’è di male?»
«No.»
«D’accordo. Va bene. Scherzavo. Non è per questo che ti ho chiamata.»
«Ah, no? Sentiamo.»
«Volevo sapere se uno di questi giorni ti andrebbe ti venire a vedere l’albergo, così, per renderti conto di cosa c’è da fare. Vorrei che te ne occupassi tu, come ti avevo già detto.»
Silenzio.
«Pronto?»
«Sono qui.»
«Allora?»
«Ok.»
«Fantastico! Quando? Facciamo giovedì?»
«Sì, d’accordo.»
«Passerei a prenderti verso le nove, se ti va bene. Ci vogliono due ore scarse per arrivare.»
«D’accordo. A giovedì. Alle nove. Grazie.»
«Perfetto.»
«Giada lo sa?»
«Certo che lo sa!»
«E viene anche lei?»
«Lo sai che Giada non si sveglia prima delle undici. Ma glielo chiedo, se vuoi. Anzi, perché non glielo chiedi tu?»
Non mi risulta che qualcuno abbia chiesto a Giada se le andasse di accompagnarci all’hotel, quel nuvoloso mattino di fine ottobre. Per tutto il tragitto in auto, Eleonora è stata al telefono con clienti e fornitori vari. È riuscita anche a ricordarsi di dover telefonare al botteghino di un teatro di Trastevere per prenotare due posti (il 24 novembre!) per una replica. Tutto pur di non rivolgermi la parola.
Siamo arrivati all’albergo, chiuso per l’inverno, a mezzogiorno meno un quarto. Nella hall gelida e deserta, mentre la baciavo sembrava spaventata: «Perché proprio io?».
Bella domanda. A cui ancora oggi non so dare una risposta. All’inizio (dopo gli sconquassi di una doppia confessione, le crisi di pianto di Giada e le minacce del pallavolista offeso), Eleonora si è accucciata nella mia ombra, e questa sola disposizione d’animo, questa sua sola attitudine me l’ha fatta se non amare almeno piacere più di ogni altra donna con cui ero stato prima. Leggeva i libri che le consigliavo, cucinava (mediocremente) i piatti che preferivo senza mai assaggiarne un boccone (la sua dieta è sempre stata quella di un santone birmano), lasciava a me il compito di scegliere quale film andare a vedere, dove passare il weekend, quali amici frequentare. Sfido io che Giada la considerava preziosa! La generosità dei suoi slanci erotici mi gratificava. E quando è rimasta incinta le cose, a letto, non sono cambiate granché; anzi. La sua pancia tesa e rotonda con l’ombelico dilatato, il seno più grosso, le braccia piene e quel morbido surplus di ciccia sotto il mento mi eccitavano perché al tatto mi sembravano i dettagli di un corpo sconosciuto, regalandomi l’illusione di una specie di tradimento, di una breve vacanza che mi prendevo dalla solita Eleonora (perché era già diventata “la solita Eleonora”), godendomi una donna tutta nuova e misteriosa.
Senza nemmeno accorgermene, è arrivato l’amore. Non credo che all’inizio ci fosse. Non c’è mai, all’inizio. Quella è un’altra cosa: chimica, curiosità, gusto dell’avventura, desiderio, sesso e pericolo, eros e thanatos, e così via. Ma poi è arrivato. E ha invaso ogni spazio: anche il futuro, e il passato.
L’altro giorno, facendo gli scatoloni, ho ripescato una fotografia in cui Eleonora, all’ottavo o nono mese, guarda dritta verso il fotografo. Dietro di lei, una spiaggia e un mare d’inverno, con l’acqua fosforescente per via di un crudo raggio di sole che sbucava da una nuvola nera. Se potessi tornare a quel pomeriggio, adesso, butterei via senza pensarci in un istante i quattromila giorni che m’intralciano il ritorno a quella felicità.
Un’ora dopo il mio umiliante rendez-vous con Eleonora in quel baraccio, mi ha telefonato Tognozzi. Tempismo apprezzabile: sembrava proprio che il mio matrimonio fosse a una di quelle svolte in cui si rende imprescindibile un avvocato.
Ma non era del mio matrimonio che Tognozzi voleva parlarmi. Voleva parlarmi del suo. Sapevo già del gallerista giordano, ma mi sono fatto dire tutto da capo (forse con sottile soddisfazione) e, mentre ricevevo i suoi lamenti, dal terrazzo del nostro appartamento a Monteverde ammiravo la distesa dei tetti al tramonto, dorata e lucida come una lama. Andava avanti così da giorni, con l’enorme sole rosso sangue che scompariva alle mie spalle senza che una singola nuvola si permettesse di interferire col suo spettacolare numero; un paesaggio così inevitabile e uguale a se stesso che il mio senso del dovere ne risultava, come dire, sedato; come se quella vista, identica da un giorno all’altro, alterasse il mio calendario interiore regalandomi l’idea che dall’incendio non fossero che trascorse poche ore.
Ma quella sera, non appena la casa era piombata nel buio, mentre ancora Tognozzi parlava e parlava, avevo preso coscienza che non ci avrei mai più dormito. Stava per andare in scena uno dei momenti più patetici dell’esistenza di un uomo: l’abbandono coatto del tetto coniugale. Così, quando Dario ha voluto accertarsi timidamente dove avrei trascorso le notti seguenti, senza pensarci troppo gli ho dato qualche speranza: «Decido domani mattina» gli ho detto. E lui, esultante e grato (e subito, mi è sembrato, dispiaciuto per quella sua esultanza e gratitudine) mi ha pregato di farmi vivo appena possibile, perché «devo dirti delle cose che al telefono proprio non riesco…».
La querelle tognozziana m’incuriosiva come l’a parte comico di una tragedia; e, sebbene volessi negarlo a me stesso, iniziavo ad assaporare l’istante in cui avrei visto scendere qualche lacrima da quei suoi occhietti nascosti nel grasso.
Dovevo fare gli scatoloni a casa e levarmi di torno. Sì, ma per andare dove? Bisognava trovare una sistemazione. Giuro, però, che Tognozzi e il suo appartamento da neoscapolo senza prole non mi erano venuti in mente: vive in un palazzo che al piano terreno ha un centro di ricostruzione delle unghie. Tognozzi è un uomo che raggiunge il suo stato di massima eccitazione quando sotto casa compare il furgone marrone dell’UPS: l’idea di condividere un appartamento con lui era un suicidio. La cosa più sensata da fare sarebbe stata prendere una stanza in un albergo, stando attento a non spendere troppo (che triste novità, fare economia).
L’appuntamento, il giorno dopo, per pranzo, era al suo solito ristorante. All’inizio abbiamo parlato di Eleonora. Tognozzi voleva sapere quanto antica, precisamente, fosse la sua famiglia. «Tutte le famiglie sono antiche» gli ho spiegato. «La sua ha solo avuto da sempre il pallino di mettere ogni cosa per iscritto.»
Eravamo seduti a un tavolino sotto una fila di platani. Abbiamo ordinato un mezzo bianco e una caprese e finalmente siamo entrati nel vivo del discorso: Giovanna era partita per la Sardegna. «Mi ha detto solo che si farà viva lei. Quando le ho chiesto se ci andava con lui, non ha negato.»
«Ma, scusa, perché vieni a raccontare certe cose proprio a me? Io non sono bravo a consolare la gente. E poi lo sai che Giovanna non mi è mai stata simpatica.»
«No che non lo sapevo. Anzi, ho sempre pensato che voi due siete parecchio simili.»
«Ah sì?»
«Be’, insomma… Come te, Giovanna è sempre stata un po’ anticonformista.»
«Per via della sua bigiotteria etnica?»
«Adesso sei cattivo.»
«Te l’ho detto che non sono la persona adatta.»
«Negli ultimi tempi s’è messa a scrivere. Poesie, credo. Voleva chiamarti, a un certo punto, per avere un giudizio. Tu che sei un gran lettore…»
Il cestino del pane era vuoto. Se l’era mangiato tutto Tognozzi, già al terzo bicchiere di vino. Potrei dire che mi faceva pena; ma forse era solo la disabitudine a vederlo scamiciato: senza il blazer e i suoi orrendi nodi di cravatta sembrava quasi una persona normale. Ha ordinato un piatto di rigatoni al ragù bianco – con trentaquattro gradi all’ombra – ed è andato avanti nel suo tentativo di convincermi che sua moglie e io avevamo molte cose in comune. A un certo punto, dopo avere chiesto un’altra caraffa di Vermentino, l’ha buttata in politica: «La pensa come te».
«In questo momento è difficile pensarla diversamente» gli ho detto, ben sapendo da quale parte battesse il suo cuore. Un cuore che proprio in quel frangente ha iniziato a giocargli un brutto scherzo; o almeno così sembrava, perché dopo l’ultimo rigatone Tognozzi proprio sul cuore si è portato una mano e ha iniziato a lamentarsi che gli formicolava il braccio sinistro. Sudava molto, le occhiaie e il mento gli erano diventati viola. «È solo il caldo» diceva. «Mi sto autosuggestionando.» Ma non sembrava troppo convinto.
«Ti sei scolato un litro di vino» gli ho detto. «E non dei migliori. Fai l’esperto, ma non ci hai mai capito niente. Ti ricordi quando eravamo universitari e tu per fare bella figura con le ragazze ordinavi sempre una bottiglia di Galestro Capsula viola?»
Ma Tognozzi non ha riso.
Ho insistito per accompagnarlo all’ospedale. «Ti fai fare qualche accertamento, un elettrocardiogramma… Roba di dieci minuti e non ci pensi più.» Dopo qualche resistenza, Tognozzi ha accettato e siamo partiti alla volta del Pronto Soccorso. In macchina, mentre lui mi parlava della moglie, io m’interrogavo sul perché gli avessi dato una spalla su cui piangere, perché mi preoccupassi per la sua salute, perché stessi perdendo tempo con lui. E mi è sembrato di capire che lo stavo facendo per il solo motivo che mi entusiasmava vederlo a terra; addirittura, una parte di me sperava che i medici gli trovassero qualcosa, certo niente di grave, ma qualcosa sì: una sorta di piccola ricompensa per l’odio che provavo per lui sin da quando un giorno di tanti anni prima, mentre assieme a un’altra quindicina di fuori corso occupavamo la facoltà di giurisprudenza suonando a tutto volume dei rap di un gruppo napoletano dalle casse di uno stereo portatile, era arrivato lui in giacca e cravatta, con sottobraccio quella sua tristissima cartellina in pelle, e mi aveva rivolto uno sguardo pieno di commiserazione e un sorriso falso, dicendomi più o meno: «Certo che non hai proprio un cazzo da fare», prima di scomparire dietro la porta metallica del dipartimento di filosofia del diritto, dove di sicuro andava a portare la sua solidarietà a una cricca di ricercatori più tristi di lui.
Ma no. Sono ingiusto con me stesso. Io non odio Tognozzi. E mi dispiace vederlo così giù, di questi tempi. Quel giorno, poi, ero davvero preoccupato. Siamo arrivati davanti all’ingresso dell’ospedale, dove era inciso
SE POTETE GUARIRE, GUARITE;
SE NON POTETE GUARIRE, CALMATE;
SE NON POTETE CALMARE, CONSOLATE
e ci siamo ritrovati in un cortiletto al centro del quale stava un busto di Pio IX, coperto da tazebao di protesta contro qualche circolare del ministero della Sanità. Dentro, un’infermiera ha ascoltato la mia veloce anamnesi (parlavo io; Tognozzi era paralizzato dal terrore) e ci ha assegnato un codice giallo.
«Cosa vuol dire?»
«Che passi davanti ai codici bianchi, verdi e blu.»
«C’è solo il rosso di peggio.»
«Ma se non ti hanno ancora visitato! Cosa vuoi che facciano quando arriva uno che dice che ha dolori al petto? È ovvio che cerchino di controllarti prima di un bambino che s’è sbucciato un ginocchio, no?»
Lo hanno chiamato per primo, dopo cinque minuti. Un nano in zoccoli di gomma lo ha scortato lungo un corridoio buio mentre io gli dicevo: «Ti aspetto qui».
Tognozzi. Tutto ciò a cui ho cercato ferocemente di non assomigliare. Sparito in un tunnel di dolore e solitudine – lo stesso che stava aspettando anche me.
Venti minuti più tardi, rieccolo. Sembrava sollevato: «Dicono che probabilmente non ho niente. L’elettrocardiogramma è ok».
«Bene.»
«Però mi devono fare altri esami.»
«Ah, e quando?»
«Adesso, subito.»
«E quanto durano?»
«Mi devono ricoverare. È il protocollo. Devono eseguire degli esami ogni sei ore, o una cosa così.»
«Cioè, devi passare qui la notte?»
«Purtroppo. Anzi, senti… Queste sono le chiavi di casa mia. Mi dovresti fare un favore.»
«No, guarda…»
«Mi ci hai messo tu in questa situazione. Io neanche ci volevo venire.»
«Adesso è colpa mia…»
«Non volevo dire questo. Sei stato un amico, davvero. Solo che ho bisogno di un pigiama, dello spazzolino… E poi che altro? Un cambio, forse… Ti prego. Che ti costa? Ci metti mezz’ora. Non ho nessuno a Roma, tranne te.»
Per essere tragico, l’eroe deve cadere da un mondo apparentemente sicuro e felice nell’abisso di un’afflizione senza scampo. In questo senso, si poteva dire che Tognozzi (il Tognozzi umiliato e offeso che avevo lasciato all’ospedale) fosse un eroe tragico. Eppure, se la vittima soffre inconsapevolmente la sua pena, l’effetto drammatico non ha luogo. E Tognozzi – ne ero certo – non sapeva bene cosa lo avesse portato da un solido rapporto coniugale a un letto di ferro in una camerata d’ospedale.
Qual era stato il motivo? Ho provato a capirlo una volta entrato nell’appartamento al quinto piano di una palazzina stuccata di un giallo biscotto. Avevo aperto le tapparelle del salone, ed eccole lì le prove, virate in oro dalla luce violenta del pomeriggio agostano: un tavolo di cristallo, le sedie hi-cut della Kartell, tre divani di pelle nera, un televisore al plasma largo due metri, un carrello in un angolo con le bottiglie di whisky e i bicchieri in cristallo chiaro di Boemia, una lampada da terra di Castiglioni il cui arco metallico proiettava un’ombra sottile su un quadro astratto – verde acido – incassato alla parete… Tutto come se fosse stato appena tolto dal cellophane e mai utilizzato. I fiori in un vaso sembravano finti – non lo erano. Sul parquet quasi nero si era depositata la leggera polvere dell’estate, ma il teak non presentava un graffio. Era una casa non usata, tipica di due persone che la abitano solo dopo le nove di sera e che al mattino escono dopo essersi raccomandati alla colf di non dare troppa acqua alle piante.
Sono entrato nella camera da letto e ho aperto gli armadi: dovevo prendere dei vestiti puliti per Dario, ma mi spingeva soprattutto la curiosità di rovistare tra le cose di Giovanna. Ovviamente, si era portata via tutto. Gli unici indizi che la presupponevano un tempo inquilina di quell’appartamento erano alcuni cassetti vuoti e una gigantesca fotografia in bianco e nero che copriva interamente la parete alle spalle del letto disfatto: lui e lei apparentemente felici, in primo piano e freschi di parrucchiere.
Davanti al letto, addossato alla parete, un altro enorme televisore. Su un comodino, un telefono e l’involucro di un dvd intitolato Amiche mie… Atto 69 (non sa, il povero Tognozzi, che esiste YouPorn?). I cassetti e metà dell’armadio a muro occupati dagli abiti di Dario erano lo specchio della sua natura meticolosa. Ho afferrato un pigiama blu scuro, l’ho buttato sul letto come se mi dovessi liberare velocemente di qualcosa di viscido e sono andato in bagno per prendergli deodorante, spazzolino e dentifricio. Lì mi sono seduto sulla tazza e me ne sono servito, devo dire con una certa voluttà. Quando ho finito, non ho scaricato: il motivo non mi era chiaro, ma mi sembrava l’unica cosa da fare.
In cucina ho trovato una busta della spesa vuota: ci ho messo dentro quanto avevo preso per Dario, ho richiuso le tapparelle del salotto e stavo per uscire dall’appartamento quando ho deciso di tornare in bagno per eliminare le tracce maleodoranti del mio passaggio. Enough is enough.
L’apice dell’esasperazione l’avevo raggiunto il giorno dell’appuntamento con Leone Squarzina: il padre di mia cugina Francesca, l’uomo che mi tiene per le palle, il cosiddetto fideiussore deluso. Oltre al mio scroto indolenzito, ha in mano l’albergo, con mia madre annessa. Ma quel pomeriggio, mentre sotto il suo ufficio aspettavo in macchina che arrivasse l’ora della mia umiliazione e l’ho visto svoltare l’angolo, la sua mano era in quella di una chilometrica ventenne, bionda, difficilmente italiana. I due passeggiavano tubando, e fortunatamente non sono stato visto mentre ripensavo a una frase che Leone mi ha detto l’ultima volta che ci siamo incontrati per discutere dell’albergo: «C’è chi passa l’estate a fare castelli di sabbia e chi a calpestarli».
Di lì a cinque minuti avrei dovuto provare a sistemare le cose; o, per meglio dire, prostrarmi al suo cospetto ed evitare almeno una resa incondizionata, facendo appello ai vincoli famigliari. Vincoli insistenti, peraltro, da quando Francesca è morta e Leone e zia Virginia si sono separati. Gli avrei parlato di Francesca? Perché nessuno (mia madre, mia sorella, io stesso…) ne parlava mai? Io ho amato la mia infanzia; l’ho amata ai tempi in cui l’ho vissuta, e l’ho amata ancora di più quando sono cresciuto. La mia memoria di quegli anni è vivida e intatta, ancora pulsante benché non verbalizzabile – non una memoria di qualcosa, ma del fare qualcosa, come sciare, andare in bicicletta o tuffarsi da un trampolino. Allora perché la morte di Francesca è stata trasformata in un tabù? Cos’è tutta questa solerzia nel volermi proteggere? Io so bene chi sono, e so anche – esattamente – cosa ho fatto.
Visti da dietro, Leone Squarzina e la ragazza con cui stava passeggiando adesso sembravano ridere. Per la prima volta ho provato tenerezza per quell’uomo; ero felice per lui.
Leone Squarzina è di Empoli, ma vive a Roma da prima che nascessi io. Pesa non meno di un quintale, nonostante sia alto come un fantino, e ha delle dita grosse come carote con cui si diverte ad attanagliare la mano dell’interlocutore, specie se l’interlocutore è un tipo come me, ovvero un ondeggiante ed emaciato figlio di papà; e non c’è categoria che zio Leone odi di più. Maggiore indulgenza, di certo, lo zio nutre nei confronti degli usurai, dei ladri e degli evasori fiscali – tre ordini professionali a cui lui stesso appartiene di diritto. Il motivo per cui mia zia Virginia lo ha sposato mezzo secolo fa rimangono oscuri: tra le ipotesi più accreditate c’è quella di mia madre, secondo cui la zia ha scelto «il bifolco per fare uno sgarbo a quei gran snob dei D’Alverno», ovvero Ugo e Maria Pia, i miei nonni paterni.
«Intanto, è uno che si è fatto da sé» ha provato a dire una volta Alex, così, giusto per irritare un po’ nostra madre.
«Fa il camionista» ha risposto lei, seccata.
Ovviamente, non è vero. Squarzina, a settantacinque anni, non sembra avere alcuna intenzione di abbandonare la guida della più grande ditta di autotrasporti del Centro Italia. Malgrado il grasso lo ricopra interamente (anche gli occhi sembrano adiposi), è forte come un toro e la sua sete di denaro è insaziabile. Cosa se ne farà, poi, di tutti quei soldi… Non vive certo da nababbo e non ha eredi. Accumula, credo, solo per ridersela di gente come noi D’Alverno, per mandare fuori di testa chi lo disprezza. Me compreso.
L’incontro è andato peggio di quanto io stesso mi aspettassi. Tanto per cominciare era presente Agnieska: ventotto anni, da Gdynia, cittadina polacca i cui abitanti – se la summenzionata Agnieska ne rappresenta un campione significativo – sono dediti soprattutto ai colpi di sole e alla prostituzione d’alto bordo. Durante i quarantacinque minuti concessimi da zio Leone, è rimasta silenziosa su un divanetto, occupatissima nel trovare il modo giusto di accavallare le gambe senza che le si afflosciassero i polpacci.
Lo zio (perché continuo a chiamarlo così?) mi ha annunciato che si sposeranno in autunno. Io, ovviamente, mi sono congratulato; ma la mia espressione deve avere tradito qualche perplessità se il quasi ottuagenario neofidanzato s’è sentito in dovere di appiopparmi la sua personale interpretazione dell’istituto matrimoniale.
«Perché un uomo, soprattutto un uomo della mia età, non dovrebbe volere accanto una donna giovane e bella? Sono tornato scapolo da tanti anni, non ho figli…» ha detto guardandomi dritto negli occhi. «Coi soldi che ho, potrei avere una ragazza per ogni giorno della settimana. Se devo rinunciare a tutte le altre per una sola, tanto vale che sia uno schianto, come Nanà.»
Nanà ha sorriso, mentre un polpaccio spasimava per un piccolo, adorabile crampo. Non ha sorriso al suo bello; ha sorriso a me – come a dire: hai capito, tesoro, dove andranno a finire tutti i soldi, e il tuo amato alberguccio? Oh, sì. L’ho capito, l’ho capito benissimo. Fine Tipica n. 1: la fica. L’Origine del Mondo e la sua Apocalisse. Big Bang e Big Crunch. Be’, meglio della Fine Tipica n. 2: le banche. O della mia, di fine: le banche e un vecchio zio acquisito, avido e sessuomane. Inutile chiedergli pietà.
Eleonora me lo ripeteva sempre: «Leone è un uomo nero». E io, anche se lo sapevo, non volendole dare soddisfazione, criticavo la sua diffidenza: «Per te sono tutti colpevoli di qualcosa, stanno tutti nell’ombra a tramare alle nostre spalle».
Non c’è stata una singola cosa tra quelle che un uomo non dovrebbe dire a una donna (comprese certe bravate su mie lontane prestazioni sessuali) che io non abbia detto a Eleonora. Quanti commenti offensivi, quante crudeltà, quante bugie! «Dimmi qualcosa che suoni plausibile» mi ripeteva lei ogni volta che le mentivo sullo stato delle nostre finanze o sulla mia dipendenza dalle droghe e dall’alcol. E aggiungeva: «Non mi interessa che non sia la verità».
Ogni tanto, quando ad esempio arrivava la scena romantica in un film, cominciavo a desiderare con tutte le mie forze di amare Eleonora con la stessa forza, la stessa intensità che una buona sceneggiatura e una recitazione accettabile riuscivano così disinvoltamente a simulare sullo schermo. Io l’amavo. La amo. La amerò fino alla fine. Eppure mi sono sempre sentito inadeguato nel dimostrarglielo. Non ho mai saputo come dirglielo. Anche l’altro giorno, quando ci siamo incontrati in quel bar, appena l’ho vista mi è tornata in mente l’Eleonora di tanti anni fa, in mezzo ai fiocchi di neve che scivolava sul ghiaccio, ubriaca, cantando La Isla Bonita.
«Sai che strana cosa ho imparato stasera?» aveva biascicato mentre cercava di rialzarsi, guardandomi con un’aria meravigliata.
«Cosa?»
La mia mano era tesa, lì a pochi centimetri dalla sua, inguantata; eppure lei non la vedeva, o faceva finta di non vederla. Gli altri, intanto, erano rientrati nel rifugio e gli schiamazzi erano cessati quando la porta di legno si era richiusa, aiutata da un vento sottozero. Era quasi mezzanotte e saremmo dovuti scendere, non si sa come, tutti a valle sulle nostre gambe – o, per meglio dire, sui nostri culi.
«Ho imparato che la grappa mi riconcilia anche con Madonna, quella gran troia senza talento. E anche che mi piace il modo in cui mi guardi quando sono sbronza.»
«E come ti guarderei?»
«Come se volessi approfittarti di me.»
«Ma per chi mi hai preso?» avevo ribattuto ridendo.
«Non fare il santarellino con me» aveva detto lei togliendosi la neve di dosso con delle vigorose pacche sulle cosce. «Lo so bene che ho sposato un depravato.»
Quella notte, quando siamo tornati in albergo e l’ho messa a letto semisvenuta (Eleonora è praticamente astemia), con le ultime forze mi ha detto: «Tu e io… non finirà mai, vero?».
Quando io le ho promesso di no, già russava come un cosacco.