Quando dico “io”, a chi mi sto riferendo esattamente? Appartengo alla generazione più introspettiva della storia umana – sono uno di quei patetici ricercatori di un’autorivelazione da condividere –, eppure quando mi guardo allo specchio sono cieco.
Certo è che sono molto diverso da come mi descrivo. Può sembrare che io stia conducendo una battaglia più o meno eroica per sconfiggere le mie debolezze, o almeno per riconciliarmici. In realtà ho iniziato gli scavi di una città morta. Mi manca tutto per riuscire a scrutare dentro me stesso; a partire dall’onestà. Come sarebbe diversa – e sicuramente più veritiera – una ricognizione compiuta da Eleonora! Magari più a bassa quota, ma molto più a fuoco.
Eppure, dovete fidarvi di me. E sperare che non le spari troppo grosse. Vi farete un’idea sbagliata, ma non è detto che alla fine sia un male. Per esempio: sono buono o cattivo? Ultimamente ho preso l’abitudine di parlare male delle persone alle loro spalle. Niente di terribile, intendiamoci. Ma è una “tendenza”, direbbero gli statistici. E poi sono troppo sentimentale, ho il difetto di esaltarmi e di abbattermi per un nonnulla, mi piacciono troppo le donne, ho un rapporto del tutto pacificato coi miei vizi, mi annoio ad ascoltare, e sono superficiale nelle relazioni.
Anche questa cosa di Tognozzi… Come lo tratto, povero cristo! È che gli voglio bene, ma ogni tanto mi fa proprio incazzare. E non ho ancora capito se come avvocato è bravo o ha solo (spesso) un gran culo. Quando sono arrivato in ospedale, sono salito al secondo piano e ho consegnato il sacchetto per lui a un’infermiera. Non avevo alcuna voglia di far la veglia al suo capezzale.
«Gli dica che lo chiamerò domani mattina» le ho detto.
«Lei è Jacopo D’Alverno? Il paziente ha lasciato un biglietto per lei.»
Su un foglietto a quadretti strappato da un bloc-notes c’era scritto:
Ho provato a chiamare Giovanna, ma legge il mio numero e non risponde. Ti prego, chiamala tu e spiegale. Magari drammatizza un po’, ok? Insomma, parlaci. Ti prego.
L’ho chiamata appena sono risalito in auto. Ha risposto al primo squillo. Non ha detto dov’era. «Al mare» ha detto, vaga. Poi, quando ha saputo che Dario era ricoverato, è rimasta in silenzio qualche secondo di troppo prima di chiedere come stava.
«Niente d’importante, davvero. Ieri era un po’ affaticato e l’ho portato al pronto soccorso giusto per scrupolo. Dicono che lo devono trattenere un’altra notte e poi lo dimettono.»
«Ti ha raccontato di noi?»
«M’ha detto che l’hai lasciato. Non molto di più.»
«Ma sei sicuro che è all’ospedale? Non è che…»
«Dài, Giovanna, non siamo mica ragazzini.»
«Noi due forse no, ma su di lui non sarei così sicura. Tu non lo conosci.»
«No, non lo conosco. E infatti questa situazione m’imbarazza, se devo proprio dirtelo.»
«E che ci facevate insieme, ieri?»
«Mi ha chiamato; voleva parlarmi.»
«Strano.»
«È quello che ho pensato anch’io.»
«Perché non è che tu gli stia troppo simpatico.»
«Be’, la cosa è reciproca. Ecco perché è così imbarazzante.»
«Però tra noi è diverso.»
«In che senso, scusa?»
«C’è sempre stata una simpatia tra noi. O, almeno, io ti ho sempre trovato simpatico.»
«Anche io» le ho detto, mentendo. «Senti, non dovrei chiedertelo….»
«Allora, non farlo.»
«Ma perché l’hai lasciato?»
«Perché non lo amo più. Basta come spiegazione? Grazie a Dio, io sono indipendente, ho un lavoro, non ho bisogno di aggiustare un matrimonio perché ho paura di rimanere sola. Non funzionava più da tanto tempo. Anzi, a dirti la verità, non so proprio come abbia fatto a funzionare all’inizio. Dario e io siamo troppo diversi. Ora voglio fare tutto le cose che non ho potuto fare quando stavo con lui. Viaggiare, ad esempio. A te piace viaggiare?»
«Lo odio.»
«Ora devo andare. Spero di vederti presto e di’ a Dario che domani lo chiamo.»
«No, guarda, chiamalo quando vuoi, ma non mi lasciare messaggi da riferirgli. Ho un sacco di cose da fare…»
«E lo lasci lì così?»
Stavo per risponderle. Ma lei mi ha anticipato: «Siamo fatti allo stesso modo, tu e io…».
Ho attaccato. Alla radio stavano passando Wouldn’t It Be Nice dei Beach Boys. Quando il telefono ha iniziato a suonare (Tognozzi), gli squilli hanno rovinato le armonie celesti dei fratelli Wilson; ma per fortuna sono cessati sul finale.
Sono sempre reticente, quando parlo della mia amicizia con Tognozzi, lo so. Sembro volerla sminuire. È che i miei sentimenti per lui sono sempre stati contrastanti. Se lo vedeste, sul terrazzo di casa sua, mentre dà acqua alle piante col tubo di gomma in boxer, vestaglia svolazzante e sigaro in bocca! Ha una faccia che non sai mai se prenderlo a schiaffi o stampargli un bacio sulla fronte, mentre biascica chissà quale verità sopra il suo triplo mento e un Romeo y Julieta tra i denti. Sì, perché Tognozzi è inscalfibile. Per lui la vita non è mai attraversata dal dubbio. Non è straordinario? Crede sempre di avere ragione… Ma ora, come sarebbe andato avanti sapendo di avere avuto troppo spesso torto? La fine di un matrimonio a questo ti conduce: a un tale punto di fragilità che senti che basterebbe un niente, anche solo una leggera schicchera, per mandarti in mille pezzi.
Ecco che di nuovo s’insinua una traccia di soddisfazione… Come mai le sue débâcle mi migliorano l’umore? Secondo mia madre, mi sono sempre sentito in competizione con lui. Cosa forse non vera. Però è vero che tra noi due è sempre stato lui il più maturo (almeno fino alla crisi di mezza età che ci ha trasformato in due bambini piagnucolosi). Io mi sono sempre fidato di lui, e non solo a livello professionale. E in effetti Tognozzi è il tipo d’uomo che ispira fiducia negli altri, uno affidabile, con una certa propensione al sacrificio.
C’è stato un tempo – difficile a credersi – in cui lui e io ci amavamo. La nostra era una amicizia assoluta di tipo classico; come quella di Socrate e Alcibiade. Poi è successo qualcosa, la vita ci ha un po’ divisi. Continuiamo a vederci, ma nessuno dei due (io soprattutto) parla volentieri dell’altro.
Quella notte ho dormito per la prima volta a casa di Tognozzi. Ma piuttosto che pensare al mio amico nel suo letto d’ospedale o a mia moglie e a mia figlia sempre più lontane, ho preferito sognare l’albergo, la fattoria. Ha sognato l’Eden, e Alex e Francesca. Nessuno si rincorre più in quella radura. Ci sono solo i fantasmi di quegli antichi ragazzi. Se chiudo gli occhi, in un lampo riesco a rivivere tutto l’incanto del giocare fuori; quando ci costruivamo una nostra isola del tesoro fatta di sentieri misteriosi, punti di riferimento, passaggi segreti e luoghi da far spavento. O quando, la notte, ingaggiavo con mia sorella e mia cugina quelle battaglie di cuscini senza esclusione di colpi… Un cuscino si rompeva e spandeva una nevicata di piccole farfalle.
Come vorrei rivivere tutto daccapo! Quale profonda ingiustizia è la vita: accorgersi della felicità solo quando è passata. La mia felicità è tutta rinchiusa in quelle poche estati vissute dietro l’albergo, tra erbe amare, dolci, urticanti, buone da mangiare e utili per fischiare; quando Alex era tutto il mio mondo – mia sorella, il mio dio, la mia sposa – e tutto, in quei boschi incantati, veniva a noi incontro col suo doppio nome latino tanto caro a nonna Kitty, nella piccola eternità tra le cinque e le otto di un pomeriggio d’agosto.
Tornare lì, all’Eden, e trovarlo bruciato… non lo sopporterei. Ma anche se fosse rimasto intatto, quel posto sarebbe ugualmente uno spettacolo spaventoso; ogni fiore scampato all’incendio sarebbe lo stesso identico fiore di trentacinque anni fa: sboccia e sfiorisce, sboccia e sfiorisce, sempre uguale. Mentre noi… Alex e io… siamo vecchi!
Avevo più o meno l’età che ha adesso mia figlia. E cosa ho combinato da quando ero grande come Sofia a oggi? Se lei buttasse i suoi prossimi trent’anni come ho fatto io, m’ammazzerei. Anestetizzarsi per sopravvivere. Non vivere mai veramente. Non sentire niente. Che schifo. Quanti anni in fumo. Quale spreco di tempo. E ormai non c’è più niente da fare.
Si trattava di decidere dove e come passare la serata. La prima a Roma da solo, senza più una moglie e una figlia, senza più un tetto che potessi chiamare casa mia, né un cane con cui parlare. Mi sarebbe andato bene pure Tognozzi (uno che usa espressioni come “cosa bolle in pentola?”), ma l’ospedale era riluttante a risputarlo fuori e dovevo arrangiarmi, venire fuori da tutto quel silenzio.
La città era morta; sembrava ci fosse la peste. Escluso rimanere rintanato nell’appartamento di Tognozzi: l’idea di dovermi preparare un piatto di pasta da consumare su un vassoio davanti alla tv, solo, in casa d’estranei, era così deprimente che non appena l’avevo concepita mi ero ritrovato per strada ad accompagnare con silenziose maledizioni il tramonto del sole. Ma dove andare? Non avevo amici a cui telefonare (quei pochi rimasti tornano a Roma ogni anno giusto in tempo per accompagnare i figli al primo giorno di scuola al Virgilio, al Convitto o al Marymount); e trovo inconcepibile sedermi da solo al tavolo di un ristorante e ordinare una cena circondato da sguardi carichi di commiserazione (giovani coppie che, alla tua vista, si stringono la mano dribblando i bicchieri sul tavolo per confermarsi che mai faranno una simile fine); del resto non esisteva nemmeno l’opzione McDonald’s: io non mangio – né da solo, né in compagnia – in un posto dove le sedie sono attaccate ai tavoli e non ci sono camerieri che ti portano quello che hai ordinato. L’unica alternativa – più che altro un destino – era un bar: il bar di un albergo. Il mio habitat.
Dopo aver considerato e scartato l’Excelsior (pianobar da texani), l’Hassler (un mortorio) e il de Russie (roba da parvenue), ho optato per il Plaza, elegante e fané al punto giusto. Circondato dagli arredi liberty, verso le otto e mezza ho finito di scolare il primo Moscow Mule, provando inutilmente ad ascoltare il lavorio della coscienza: non avrei dovuto permettere che l’amore di Eleonora si raffreddasse; non avrei dovuto lasciare che l’albergo finisse, moribondo, nelle mani di Leone Squarzina (mani grosse, pelose e non curate; mani da videopokerista, da puttaniere, da usuraio); non avrei dovuto dimenticarmi di mia moglie e di mia figlia nel bel mezzo di un incendio; non sarei dovuto partire con una donna semisconosciuta per andare a vedere un mostro in catene; perché per vedere un mostro – questo mi era ormai evidente – mi bastava uno specchio.
Ma la mia coscienza non mi parlava. Lo specchio rimandava solo la scena di una bambina americana che si divertiva a scuotere quel che restava di due cubetti di ghiaccio con un bastoncino da cocktail, sotto lo sguardo indifferente di una madre già annoiata da una città che promette, promette e non mantiene mai.
Alle nove, dopo un secondo drink, aspettavo il mio club-sandwich quando madre e figlia si sono alzate e sono rimasto l’unico cliente del bar. Sarei diventato uno di quei matti che camminano per le vie del centro borbottando parole incomprensibili con un’intonazione da contralto?
Due coppie – una giovane, una anziana – sono arrivate dopo una mezz’ora. Francesi o tedeschi. O entrambe le cose. Poi ne è entrata una terza. E avrei voluto sprofondare: l’uomo coi ricci capelli brizzolati che cingeva la vita a una vertiginosa ragazza bionda era Giancarlo Baldieri, un vecchio compagno di liceo. A quei tempi lo chiamavamo Monciccì, come il pupazzo, per via del viso tondo, del pelame scuro e delle orecchie carnose e all’infuori. Era un ragazzino obeso e subdolo, sempre nervoso, con in testa un mucchio di porcherie. Adesso il vestito di lino beige cadeva a pennello addosso a un ultraquarantenne magro e dall’aria sicura e soddisfatta. I suoi occhi cupi si sono posati fugacemente sull’antico aguzzino, per fortuna scartandolo subito come qualcosa di meramente esornativo. Intanto la sua bella – sicuramente una escort – si era sistemata su una poltroncina che stentava a contenere l’esuberanza del suo corpo e la gonna di pelle rossa le era salita fino in gola.
Non mi ha riconosciuto, il vecchio Monciccì? O forse è in imbarazzo? Si era seduto strategicamente di spalle e io potevo godermi senza problemi la sua chierica e le cosce delle ragazza. Si diceva in giro che Monciccì, che ai tempi della scuola aveva sempre i pantaloni della tuta macchiati di piscio e che tutti prendevano in giro per la sua pronuncia calabrese («quanto hai preso al compito, Monci?», e lui: «Occio», tutto fiero), avesse ereditato una fortuna immobiliare divenendo a soli trent’anni il padrone di mezza Catanzaro. Ma vederlo sorseggiare un cocktail, tutto lavato e stirato, al Plaza, in compagnia di una puttana d’alto bordo, mi faceva comunque un certo effetto. Tutti i desideri di quell’uomo, ai tempi in cui se ne stava stipato in un banco per lui troppo stretto, erano schivare gli scherzi dei compagni e abboffarsi di Girelle Motta. Questa cosa – i soldi, la magrezza, il sesso – andava ben più in là non solo delle mie previsioni, ma pure delle sue.
E io, di contro? («Per favore, una vodka ghiacciata.») Io che ero il predestinato, il prescelto? Guarda, Monci, che fine che ho fatto: prenditi pure la tua rivincita.
Ma lui non mi guardava; ha continuato a darmi la schiena e a prendere di tanto in tanto un’oliva da una ciotola, mentre la escort alternava piccoli sorsi da un largo bicchiere a rapidi controlli sullo schermo del suo smartphone con cover perlinata. A un certo punto si è alzata, diretta verso la toilette; ed è stato quello il momento che Monciccì ha scelto per spostare di qualche grado la sua poltrona, quel tanto che gli bastava per incontrare il mio sguardo con una leggera torsione del busto.
«D’Alverno.»
«Giancarlo. Come stai?»
«Benone» ha detto, mentre si alzava e – orrore? – veniva al mio tavolo; veniva per sedersi.
«Non sei invecchiato per niente.»
«Faccio una vita sana.»
«Ah, sì?»
«Perché, tu no?»
«No, no. Anch’io» gli ho detto buttando giù tutta la vodka in un sorso. «Non si vede? No? Be’, non mi rende bello, ma mi fa stare bene.»
«Sono felice per te.»
«No, non è vero, caro il mio Monci…»
«Non chiamarmi Monci. Sei ubriaco? Fai un po’ pena.»
«Tu non sai nemmeno dove sta di casa la felicità.»
«Sì, sì…»
«Credi che accompagnarti a una troia ti ripaghi delle umiliazioni che hai dovuto subire quando eri largo come un canotto e ti pisciavi addosso?»
«Sì, sì, certo, va bene.»
«È così.»
L’escort è tornata. Monciccì si è alzato, mentre io, sbronzo e fuori di me, tentavo di afferrargli un braccio.
«Va bene, D’Alverno, ciao.»
«Una vita sana… Col cazzo! Io faccio il contrario di una vita sana, proprio il contrario. E sono felice.»
«Sei proprio un coglione. L’ho sempre pensato» ha detto Monciccì mentre prendeva la ragazza, un po’ stupita, sottobraccio. «L’abbiamo sempre pensato tutti.»
Tognozzi è stato dimesso dopo ventiquattro ore. Erano più o meno le cinque del pomeriggio e io ero appena riuscito a risvegliarmi dal post-sbornia. Dalla finestra del salotto l’ho visto scendere da un taxi con la sua busta della spesa, la barba non fatta e l’aria stranita di chi ha appena ottenuto una seconda possibilità.
«Non ho un beneamato cazzo, Jacopo. Dobbiamo brindare!»
Tognozzi tutto gongolante che fa «piani di guerra» per la serata (qualcosa che allude immancabilmente a un puttanaio) è uno spettacolo ben più squallido di Tognozzi che aspetta tremante i risultati delle analisi su un letto d’ospedale. Il suo ritorno a casa – benché fosse la sua – era un’intrusione insopportabile nella mia privacy, una violenza contro la mia emicrania e la mia nausea. L’idea di trascorrere una, due settimane con lui lì dentro mi è parsa di colpo una delle mie peggiori (e spesso mi vengono delle idee davvero pessime). Eppure ho deciso che sarei rimasto, come se stessi accettando una giusta punizione. Me lo meritavo, Tognozzi. In fondo, dove sono tutti gli amici che ogni estate sbafano tuffi in piscina e manicaretti stellati? Dove siete, eh? Perché non venite a condividere le mezzemaniche col tonno e l’insalata di mare del Carrefour con me e quella sagoma di Dario Tognozzi? Ah, avete da fare? Certo… I figli. Le mogli. Le piste per le biglie, la passeggiatina su qualche pontile, mano nella mano. Il gelato e i tramonti. Le grigliate di pesce che sanno di Autan. Eurodisney. Il Salento. La vacanza culturale a Parigi o a Istanbul. Le Eolie. Gli aperitivi al Plaza con le troie. Solo Tognozzi è qui. Stasera non pensa a Giovanna: «Fanculo Eleonora e Giovanna!» grida uscendo dal bagno in accappatoio, inseguito da una nuvola di vapore. «Stasera si scopa!»
«Sono molto stanco, Dario. Ho bevuto troppo ieri sera.»
«Conosco un posto» continua lui frizionandosi i capelli col cappuccio dell’accappatoio. «All’Eur. Una terrazza.»
«Davvero, Dario. Io non…»
«Fica a mazzi!» esulta coi suoi occhi porcini.
Impossibile dirgli di no, almeno stasera. Da quant’è che non fa sesso con una donna che non sia la sua Giovanna? Venti anni?
E io? Non ho mai tradito Eleonora. Perché? A dar retta alle confidenze degli amici e alle statistiche, tutti scopano in giro. Perché io non l’ho fatto? Per amore? Per rispetto? Per paura? Per pigrizia? E chi lo sa… Potrei farlo adesso, certo. Ma se non fossi più in grado di portarmi a letto una donna? Se fosse questa la verità: che nessuna donna – che non sia una tardona ninfomane o una ubagi con il labbro deformato dal disco di legno o una cieca – mi sceglierebbe mai per farsi una scopata? A questo punto siamo arrivati: non so più se ne sono capace… Di che cosa? Di piacere, direi. È così. La mia autostima ha subito troppi colpi, di recente, e sono tornato a essere il ragazzino brufoloso che non riesce a fare la dichiarazione ad Astrid.
Perché lei non è qui? Perché Astrid, anche lei, mi ha abbandonato? Cos’aveva la Spagna più di me? E quel suo toy-boy norvegese, come si chiamava… È probabile, del resto, che io sia diventato invisibile. Se il campo di gioco della mia identità è la sfera sociale e la sfera sociale fa BLOP come una bolla di sapone, non resta poi molto. C’è solo il mio occhio che vi vede andare via, sappiatelo!
«Eh?»
«No, niente. Mi sa che sto esagerando con l’alcol.»
«Si vive una volta sola, no?» ha detto Tognozzi. Ed era così entusiasta, così patetico, che avrei voluto abbracciare quella rotonda e rubizza testa di cazzo. Nonostante tutto, a Dario il mondo deve continuare a sembrare interessante. Il denaro, le aritmie, la politica, l’angoscia, la cronaca nera (ne va matto), l’amore non corrisposto, il desiderio di paternità, lo sport, il cibo, le donne, la perplessità, l’abbandono. Quante cose per cui vivere! Tutto ad alta tensione, come piace dire a lui. Ed è per questo che, nonostante tutto (un tutto grosso come l’Oregon), gli voglio bene. Anzi, potrei addirittura giurare che è l’unico uomo al mondo a cui ne voglio, se si eccettuano Sir Gordon, Mr. Daniels e il compagno Smirnoff.
Il posto era abominevole. Ci siamo seduti a un tavolo all’aperto, sotto una statua di Superman a grandezza naturale. Io ho preso nell’ordine un Mojito, un Moscow Mule e un Dark ’n’ Stormy. Rum, vodka, altro rum, e una quintalata di zucchero. Tognozzi s’è fatto tentare da un pomposo Pan Galactic Gargle Blaster: gin, vodka, blue curaçao, crema di menta, acqua tonica e una zolletta di zucchero.
Da dietro una tenda sono arrivate le ragazze. Hanno guardato sorridendo l’improbabile duo e si sono andate a sistemare sugli sgabelli del bar, come amorini o nani di gesso in esposizione.
«Dài, andiamo via.»
«Ma sei pazzo?» Tognozzi aveva gli occhi iniettati di sangue. «Tu fa’ come vuoi, comunque. Io vado.» Si è alzato puntando dritto verso una ragazza minuta, coi lunghi capelli neri e il rossetto rosso fuoco; e insieme sono scomparsi dietro la tenda.
Tognozzi: l’uomo del primo banco a sinistra a messa la domenica, il marito irreprensibile, il fustigatore delle nuove “depravazioni” adolescenziali («se avessi una figlia di tredici anni la chiuderei a chiave in camera sua»), utilizza la tecnica vittoriana delle due personalità: Dottor Jekyll e Mr. Hyde. E io? Ero disposto a mandare giù la pozione e vagare come uno gnomo gotico nel bordello che occupa la metà sommersa di questa città? Se la vita che mi aspettava era tutta come quella delle ultime due sere sarebbe stato meglio morire – cento volte meglio morire. Sono rimasto da solo al tavolo (un’altra volta) a contemplare i bicipiti in vetroresina di Superman e a sorridere tristemente a una ragazza dai tratti vagamente orientali, che ogni tanto appuntava il suo sguardo su di me. Ogni cosa mi infastidiva: le luci, il caldo, la musica strumentale, i profumi forti, il palo, il tavolo di un addio al celibato… mentre il mio, cos’era? Tutto il contrario. Un lungo addio al matrimonio.
«Mi offri da bere?»
Era la ragazza orientale. Sbucata dietro il divanetto, all’improvviso.
«No, grazie.»
«Cioè, tesoro, mi ringrazi di non offrirmi da bere?»
Be’, la frase era arguta e ben formulata. Il suo italiano quasi senza accento.
«Non è serata, mi dispiace.»
«Fai la guardia al tuo amico?»
«Sa badare a se stesso.»
Si era già seduta, accavallando un paio di gambe troppo magre.
«Non ti piaccio?»
«Sei molto bella. Ma sono d’accordo con Montaigne.»
«E chi è?»
«Uno che sosteneva che il desiderio è tanto più vivo quanto più difficile appare il suo soddisfacimento.»
«Cosa sei, tu, un filosofo?»
«No, no.»
«Be’, allora?»
«Allora cosa?»
«Non beviamo niente?»
Come un avvoltoio, al tavolo s’era avvicinato un cameriere; un roscio vestito di plastica, con un paio d’ali attaccate alla schiena: «Cosa prendete?».
«Tu cosa vuoi?» le ho chiesto, ordinando per me vodka liscia.
«Io rum e Coca.»
«Come ti chiami?»
«Bia.»
«Bia?»
«Sì. Bia. Con la “b”. Com’è che hai cambiato idea?»
«Su cosa?»
«Mi hai offerto da bere.»
«Ti sei seduta.»
«Se vuoi vado via.»
«Per me puoi rimanere.»
È rimasta. Ha tirato fuori il suo telefono e ha cominciato a scrivere a chissà chi. Non vedevo l’ora che Tognozzi ritornasse per potermi liberare dalla sensazione di squallore che mi stava quasi strozzando.
Ugo D’Alverno, mio nonno, pare invece che fosse un gran puttaniere. Invecchiando era assillato dal mantenimento della forma fisica, perché non poteva tollerare – così mi ha detto una volta, qualche anno prima di morire ottantenne – di non soddisfare più una donna. Tutte le mattine praticava degli antiquati e un po’ ridicoli esercizi di ginnastica e respirazione secondo il metodo di un certo Müller, un insegnante di educazione fisica danese che aveva dato alle stampe, prima ancora che il nonno nascesse, un librone illustrato dal titolo Il mio sistema: quindici minuti di lavoro giornaliero per la salute. Sono anni che non vedo più quel libro. Dev’essere ancora da qualche parte all’hotel. Ma ricordo le fotografie con lo stesso biondo e baffuto Müller in posa, nudo (a eccezione di un minuscolo slip), tutto muscoli e scandinavo vigore. Dovrei recuperare My System (era in traduzione inglese) e provare quegli esercizi per rimettermi un po’ in sesto. Col nonno, dopotutto, funzionava.
«Tu come ti chiami?» mi ha domandato Bia, senza distogliere lo sguardo dal telefono.
«Fabrizio, Tullio, Anastasio. Che differenza fa?»
Bia ha posato lo smartphone sul tavolino e si è sporta in avanti: «Non ho ancora capito se sei un tipo pericoloso o sei soltanto antipatico».
«Mi dispiace. Ti chiedo scusa» le ho detto mentre il cameriere-Cupido portava da bere.
«Sono quaranta.»
Gli ho allungato un pezzo da cinquanta, in attesa del resto.
«E altri quaranta per Bia.»
«Ecco come funziona» ho detto con un sorriso mentre allungavo altre tre banconote al roscio.
«Non sei mai stato in un locale come questo?» mi ha chiesto Bia.
«Direi di no. Sono stato in posti anche peggiori di questo. Ma pure in posti migliori. Molto migliori.»
«Lo dici per insultarmi?»
«Non era mia intenzione.» La ragazza iniziava a starmi simpatica. Si capiva che doveva essere intelligente e vagamente isterica. Un bel problema per il romanticone di turno con lo sghiribizzo di riscattarne la sordida esistenza e offrirle un’altra occasione e bla bla bla (Tognozzi non lo farebbe mai. Tognozzi, domani mattina, se incontrasse per strada la moretta che con tutta probabilità gli sta succhiando il cazzo, di là, su un divanetto macchiato del seme di cento altri Edward Hyde come lui, cambierebbe marciapiede). «Comunque, io mi chiamo Jacopo» le ho detto, tendendole la mia mano da stringere, come se fossimo nella saletta della Freccia Alata.
«Bel nome. E cosa fai nella vita, Jacopo?»
«Io scrivo. Faccio lo scrittore.»
«Wow! Non un filosofo, ma poco ci manca. E cosa scrivi?»
«Romanzi. Gialli.»
«Gialli? Che vuol dire?»
«Quelli con un assassino e un detective. Hai presente?»
«Ah, noir. Io non so benissimo l’italiano.»
«Al contrario. Il tuo italiano mi sembra eccellente.»
«Detto da uno scrittore… Vorrei leggere tanti libri, sai; ma mi stanco. Però, mi piacciono quelli di Harry Potter e qualche tempo fa ne ho letto uno di Pramoedya Ananta Toer.»
«Non ho idea di chi sia.»
«Uno scrittore molto importante del mio Paese. Un prigioniero politico.»
«Di dove sei?»
«Indonesia. Ma siamo scappati quando mio padre ha capito che lo avrebbero preso. Era un politico, un uomo buono e istruito. Lo accusavano di essere un dissidente. È morto un mese dopo che siamo arrivati in Italia.»
«Terribile.»
«Con Suharto, se eri comunista, o scappavi o morivi. Pramoedya Ananta Toer era un dissidente. L’hanno rinchiuso dieci anni, senza dargli nemmeno carta e penna per scrivere. S’inventava i libri recitando storie agli altri prigionieri. Ecco il tuo amico che ritorna.»
Tognozzi ricompariva sulla scena con un lembo della camicia che gli usciva dalla patta sbottonata.
«Devo andare.»
«Peccato.»
«Non ti sei persa molto, credimi.»
«Tu sì» ha detto Bia mentre scriveva il suo numero di telefono su un tovagliolo di carta. Lo ha infilato nel taschino della mia camicia e mi ha dato un bacio sulla guancia. Sapeva di arancio e cannella. Poi s’è alzata, in cerca di maggior fortuna.
«Il sesso è un’attività molto sopravvalutata» ha detto Tognozzi mentre ne ricomponevo i poveri resti sul suo letto un’ora più tardi. «E la vita è una merda» ha aggiunto prima di perdere i sensi.
Come dargli torto?