Per cena, Kari ha deciso che ci porterà in uno dei due ristoranti cinesi di Rena. Il fatto che Rena conti duemilanove anime e che due dei suoi quattro ristoranti servano spaghetti di soia, jiaozi al vapore e maiale in agrodolce getta una luce sinistra sulla cucina norvegese; ma decido di astenermi dal commentare questa stranezza.

Prima di uscire di casa, rinchiuso nel bagno ho provato a chiamare Eleonora, facendo squillare a vuoto il suo numero fino a quando la linea non è caduta. Avevo preparato tutto un discorso che ora non ricordo più, onestamente; l’avevo comunque scartato: avrei solo chiesto di parlare con Sofia. L’ho sentita appena due volte, giusto il tempo per un saluto velocissimo, da quando sua madre ha stabilito in suo nome che sono un padre indegno; e maledico il giorno in cui abbiamo deciso che è ancora troppo giovane per avere un suo telefono personale. Tognozzi continua a dire che il muro contro muro con Eleonora nuocerebbe unicamente a me, che da un tribunale uscirei in mutande… «Dovete trovare un accordo» ripete. Ma mi deve spiegare come faccio a trovare un accordo con un fantasma. E poi, che cazzo! Io non voglio trovare alcun accordo: io voglio indietro la mia vita, rivoglio mia moglie e mia figlia, e tutta la serenità di cui ho bisogno per andare avanti senza dovermi ridurre a mangiare pollo alle mandorle circondato da biondissimi studenti dell’Hedmark College, mentre una squilibrata con la maglietta del tour di Pornography mi parla di complotti sionisti e sua sorella continua a smanettare messaggi sullo smartphone.

«Scusate.»

«Con chi ce l’hai?»

«No, niente» fa Astrid, con un sorrisetto compiaciuto. «Era Pål.» E dà un’ultima occhiata allo schermo del suo telefono.

Non sarò io… non sarò io di certo a chiederle chi è Pål e perché la rende così tanto di buonumore. Quanto a Kari, è alla terza birra, e mi vuole convincere che il World Trade Center non è crollato a causa della fanatica volontà di un manipolo di terroristi islamici, ma è venuto giù per mezzo di una “demolizione controllata”.

«Sì, certo.»

«Non hai notato gli sbuffi di fumo? Tipici delle demolizioni controllate. I tecnici li chiamano “squibs”.»

«Devo fare una telefonata.»

Se non esco da qui entro trenta secondi rischio d’invocare la discesa del fantasma di Simon Wiesenthal.

Fuori l’aria è fresca, il comignolo di una cartiera abbandonata risplende nell’eterno crepuscolo della terra del sole a mezzanotte, da una Volvo lanciata verso la superstrada escono le note di una canzone hip hop (musica all’aria aperta!) e io vorrei tanto indossare una delle mie colorate camicie di lino indiano e attendere il terzo Vesper Martini col gomito appoggiato al bancone del bar del mio albergo, come se niente fosse successo.

Il numero di Eleonora è staccato.

Io sono solo.

Provo a respirare forte perché questo momento di libertà assoluta mi entri dal naso; ma l’olezzo di frittura di gamberi proveniente dal Golden Mountain mi preclude anche questa possibilità.

«Che fai?»

Mi giro e Astrid mi appare, fosforescente sotto l’insegna del ristorante.

«Niente. Ora rientro.»

«Devi scusarla. È che si sente terribilmente sola; non parla mai con nessuno.»

«Mi sa che è il problema di Åsta: troppo isolata per non cedere al fanatismo e allo sterminio di massa.»

Astrid mi abbuona la battutaccia e mi mette un braccio al collo. Io non riesco a dire più niente. Anche lei rimane in silenzio; ce ne stiamo un paio di minuti così, a guardare il cielo.

Astrid è perfetta. È bella, è tosta, è saggia; ha studiato tanto, e deve avere sofferto un bel po’. Ora è pronta. Fa tiro con l’arco, va in palestra, corre. La sua perfezione ha qualcosa d’inquietante. Averla vicino è come rinfrescarsi all’ombra della statua di Minerva. In questi giorni in cui ho imparato a conoscerla ho capito che è piuttosto ignorante di storia, filosofia, arte, musica e letteratura. Sono cose che non le servono, futilità che lascia volentieri al sottoscritto.

«Come va?» dice, alla fine.

Da quanto tempo nessuno me lo chiedeva tenendo alla mia risposta? Astrid, si vede che ci tiene. Così decido di non mentirle: «Va di merda» le rispondo. «Ho paura.»

«Be’, allora fai progressi. Oggi, in aereo, dicevi di essere preoccupato perché non ti fa più paura niente.»

«Sono sempre stato il fifone di famiglia. Quella coraggiosa è mia sorella. A undici anni si buttava di testa dagli Stecchi. Sono più di otto metri.»

«Invidioso?»

«Io? No. Mai provata invidia, per nessuno. Tutti quelli che hanno avuto più di me, di qualsiasi cosa si tratti, anche i più fortunati, l’hanno voluta sicuramente con maggiore… come posso dire? Con maggiore intensità. La verità è che io non sono un tipo “intenso”. Non so se mi spiego…»

Astrid si scioglie da un abbraccio che è stato bello, certo, ma anche un po’ scomodo; eppure ho come l’impressione che sia vagamente irritata. «Cos’hai?»

«Niente» fa, senza guardarmi. Da una tasca della sua giacca a vento tira fuori un pacchetto di sigarette e se ne accende una. «Lo sai qual è il problema coi depressi e i mariti abbandonati?» dice.

«No.»

«È che sono terribilmente egocentrici. Esistono solo loro e la loro infelicità. Mai una volta che ti chiedessero come stai.»

«Scusa.»

«Non devi scusarti.»

«Come stai?»

«Ma vaffanculo, va’» mi dice sorridendo. Dà un ultimo tiro alla sigaretta e la butta, ancora quasi intatta, sul marciapiede.

«Ma qui non vige la tortura medievale se sporchi la pubblica via?» le dico.

«Se ne vadano affanculo pure loro, norvegesi rompicazzo. Dài, rientriamo, prima che Kari si suicidi ingerendo una dose letale di wasabi.»

La lascio scomparire dietro la porta a vetri del ristorante. Prendo la cicca da terra e me la metto in tasca.

Mezz’ora più tardi, quando la nostra auto passa davanti al cinema comunale, da una gigantografia che ne sovrasta l’ingresso Jennifer Lawrence scocca un dardo infuocato che sembra indirizzato proprio a me.

La corte distrettuale di Oslo ha sede in un palazzo moderno, in pieno centro, proprio dietro la stazione; incombe su chi voglia entrarvi con la sua grande facciata quadrata, in granito bianco.

Nella hall c’è molta gente. Poche le divise. Un cameraman insegue una giornalista che a sua volta cerca di tagliare la strada a una ragazzina dalla pelle nera come i suoi capelli alla Angela Davis; sarà alta un metro e cinquanta e deve pesare meno della cinepresa a spalla che ora la manda in diretta in tutte le case della Norvegia. Astrid mi dice che si chiama Khamisa, ha quindici anni, è di origine nigeriana e si è beccata una pallottola che le ha trapassato un polpaccio. Noto che aspetta le domande della giornalista con un sorriso stupendo stampato sul faccino. Il tutto dura non più di un minuto, perché c’è evidentemente qualcun altro più importante da intervistare e Khamisa viene lasciata sola. C’è un momento in cui ci guardiamo e lei, col suo bellissimo sorriso, mi dice: «Værsågod». Ho imparato che è un saluto molto dolce, un ciao che vuol dire anche benvenuto e grazie. Ricambio timidamente, passo oltre e mi domando da dove le viene tutta questa fiducia nel genere umano, questa serenità, dopo quello che ha passato.

Ritiriamo gli accrediti per la stampa, attraversiamo il metal detector (la sicurezza è quella che da noi potrebbe essere predisposta per un torneo di squash), prendiamo gli auricolari per la traduzione simultanea e facciamo il nostro ingresso nell’aula, che sembra un’esposizione dell’Ikea, con il mobilio in legno chiaro e le pareti dipinte di uno spento turchese.

È l’ultima udienza e c’è gran fermento, almeno secondo i parametri norvegesi. Se non fosse l’auspicato epilogo di un’immane tragedia, ci sarebbe da ridere: “Ti sei distratto un po’, caro?” immagino che mi chieda mia madre al mio ritorno. “Sì, mamma. Ho visto infliggere dal vivo un ergastolo a un nazi-stragista.”

In realtà, come mi ha spiegato Astrid, l’ergastolo non è contemplato dal sistema giudiziario norvegese. Il massimo della pena che Anders Behring Breivik rischia sono ventuno anni di carcere; dopo averli scontati, sarà nuovamente giudicato, e qualora il pubblico ministero convincesse il giudice che c’è ancora un reale pericolo per la società, potrebbero dargliene altri cinque.

«L’ergastolo, come la pena di morte, è una pena incivile.» Così la pensa Astrid.

«Sono d’accordo, però…»

«La prigione non migliora la gente» mi ha zittito.

E chi sono io per ribattere? Certo, però, che quando lo vedo entrare in aula, vestito di nero, con la cravatta dorata che spara sulla camicia bianca, una barbetta alla conte di Cavour e la faccia di chi, fosse per lui, passerebbe la vita a saltellare da un’isoletta all’altra per portare disperazione e strage, il dottor Guillotin che è in me inizia a reclamare silenziosamente un tributo di sangue. Non appena un poliziotto gli toglie le manette, fa il saluto col braccio teso e si batte il pugno sul cuore. Astrid mi spiega che è un rito del gruppo di estrema destra a cui Breivik appartiene; aveva smesso, su precisa richiesta dei famigliari delle vittime, ma oggi ha pensato bene di rispolverare la routine.

Sono a non più di cinque metri da lui. Distinguo chiaramente il colore dei suoi occhi mentre, ridendo, si mette a sedere; rimane immobile e pronuncia qualcosa che per me è incomprensibile quando il giudice (una signora coi biondi capelli a caschetto e gli occhiali) entra in aula.

«Che cosa ha detto?» chiedo sottovoce ad Astrid. «Non riesco a sintonizzare la traduzione.»

«Non riconosce l’autorità della Corte» mi risponde, mentre traffica col mio apparecchio fino a quando in cuffia non mi raggiunge un più comprensibile inglese.

«Ah. È grave?»

«Lo ripete all’inizio di ogni udienza. Sostiene che il giudice Arntzen è intima amica della sorella di Gro Harem Brundtland.»

«E chi è?»

«L’ex primo ministro, nonché leader del partito laburista.»

La nostra sommessa chiacchierata è resa impercettibile dal rumore dei flash dei fotografi. Lui, il biondo assassino xenofobo, si lascia ritrarre sorridente, mentre alle sue spalle i parenti dei ragazzi uccisi piangono in silenzio.

Sarei un ipocrita se vi dicessi che sono addolorato per loro. Sento di doverlo essere, ma in realtà l’unico sentimento che riesco a riconoscere è quello di un certo disagio; dopo la scarica d’adrenalina che la vista di Breivik mi ha dato, tutto ciò a cui riesco a pensare è che qui dentro sono un intruso. Abbasso lo sguardo, come uno che si vergogna, e noto i piedi di Astrid dentro un paio di ballerine: sono contratti e si vedono tutti gli ossicini in rilievo. Si capisce che è concentrata ed eccitata: prende appunti sul suo Moleskine e ogni tanto soffia via una ciocca di capelli, proprio come faceva sul campo da tennis quando era ragazza. Mi ricorda Alex: la stessa determinazione di mia sorella – una abituata a prendere il toro per le corna. Io, invece, sono abituato a prendere qualunque discorso per la coda. Come adesso.

Dovrei parlare di Breivik. Ma svicolo. Perché? Forse mi manca un autentico spirito d’osservazione; ma questo trentaduenne con la fronte sudaticcia e la pelle sanguellatte – come si dice a Roma – mi risulta del tutto insignificante. Ho letto che è un culturista dilettante e fa uso di steroidi; eppure mi dà l’impressione di essere flaccido. Cos’altro so di lui? Che era un impiegato di banca, che va pazzo per i cavalieri templari e le croci celtiche, che è membro di un Club della Pistola e di una loggia massonica, che ascolta terribile musica white power e nazi-punk e ce l’ha con i musulmani; anche se ancor di più odia i politici – come i laburisti norvegesi – che sostengono il multiculturalismo: ed è per questo che si è fatto largo a colpi di mitragliatrice tra gli abeti e le betulle di Utøya.

Da un anno è rinchiuso nella prigione di Ila, a pochi chilometri da qui. Nella sua cella di tre stanze dispone di un computer e una piccola palestra. Ad Åsta, nei mesi di autoreclusione, giocava al piccolo chimico; in carcere, ora, pare che si atteggi a Silvio Pellico e scrive lunghissimi cahiers de doléances perché non gli hanno ancora sostituito la PlayStation 2 con la PlayStation 3 o perché la penna che ha in dotazione è “ergonomicamente scorretta” e gli causa “dolorosi crampi alla mano”.

Eppure, eccolo là: è lui. È proprio lui. L’orrore che ha interrotto le trasmissioni televisive ed è entrato nelle case di tutto il mondo; l’Assassino, il Diavolo, il Male. Provo a immaginare cosa ha provato il 22 luglio 2011, dalle 15:22 e ventidue secondi – l’istante in cui il nitrato d’ammonio ha fatto saltare in aria un intero isolato di Oslo – alle 18:35, quando sull’isola di Utøya si è arreso agli uomini delle forze speciali. Ci provo; ma non ci riesco. Si sarà sentito il padrone del mondo? Immensamente potente come un dio? Spari! Grida! Sangue! Morte! E poi? Ammesso che tutti quegli spari, quelle grida, quel sangue e quei morti siano stati eccitanti, un vero sballo… ne è valsa la pena? Guardatelo: vi sembra un uomo contento della fine del cazzo – qualunque essa sia – che sta per fare?

Su uno schermo il pubblico ministero sta mostrando una serie di foto: in una Breivik indossa un’alta uniforme dei templari, col petto ricoperto di medaglie; in un’altra, i paramenti massonici; in un’altra ancora, una tuta per la guerra batteriologica. Nell’ultima fa di tutto per sembrare un sinistro dandy norvegese. Si commuove quando l’accusa fa vedere il video di propaganda di dodici minuti, da lui stesso girato e diffuso in internet il giorno dell’attacco. Sulla spalla c’è una scritta che significa cacciatore di marxisti. Sta dicendo: «È l’ora di abbracciare il martirio per la lotta all’Islam». Nel rivedersi, Breivik ha il viso arrossato per l’emozione e si asciuga un paio di lacrime.

Nel suo manifesto, Breivik ha scritto:

I marxisti culturali, gli umanisti suicidi e i fautori della globalizzazione capitalista sono tutti dei multiculturalisti. Il multiculturalismo è un’etichetta per coloro che favoriscono quella che un tempo veniva chiamata “ingegneria sociale”: l’ideologia antieuropeista creata per distruggere la nostra cultura, l’identità nazionale e il Cristianesimo (in altre parole, la stessa civiltà occidentale). La maggior parte di costoro si autodefinisce in base a etichette stereotipate: “socialisti”, collettivisti, femministe, egualitari, attivisti pro-gay o pro-disabili, animalisti, ambientalisti, ecc.

Mi è del tutto chiaro che, se potesse, questo simpatico ragazzone farebbe a pezzi anche me e banchetterebbe sul mio cadavere.

Lo dico ad Astrid mentre siamo seduti a un tavolo della Brasserie Paleo, durante una pausa dell’udienza. Nella cucina a vista si muovono tre cuochi a cui Breivik non avrebbe certamente dato la cittadinanza norvegese.

«Qui, l’unica questione» dice lei, scansando dei minuscoli trifogli dal suo trancio di salmone, «l’unica cosa che conta è stabilire se Breivik ci fa o ci è. È capace di intendere e di volere o si è bevuto il cervello?»

«A me, invece, interessano le sue motivazioni. Quanti, in Norvegia e in Europa, la pensano come lui su argomenti scottanti come l’integrazione? Quanti credono che i musulmani dovrebbero starsene a casa loro o piegarsi al nostro modello culturale? Breivik sarà pazzo, ma la sua ideologia razzista e neonazista è condivisa da molti.»

«Al contrario di mia sorella, non nutro per l’islamismo alcuna simpatia, te lo devo dire» fa Astrid irrigidendo la mascella. «Non mi piace come i musulmani trattano le donne, non mi piace come si rapportano con chi crede in un dio diverso dal loro, non mi piace che non protestino mai con forza contro chi compie attentati terroristici nel nome di Allah. Non mi piacciono, punto. È razzismo, il mio? Te lo chiedo…»

«Be’, tecnicamente sì» rispondo.

«Vorrà dire che sono razzista, allora. Ma con Breivik non ho nulla a che fare.»

«Non ho mai pensato il contrario» dico, accennando un sorriso.

«Quello che io penso di certi uomini che a Riyad o a Oslo o a Milano trattano la propria moglie come se fosse un cammello non c’entra niente con il mio giudizio su di lui.»

«E quale sarebbe?»

«Il mio giudizio su Breivik? Che sicuramente non è pazzo» dice Astrid. «Non si scrivono oltre mille pagine con tanto di indice analitico, mille pagine così organizzate e dotate di senso (che ti piaccia o no) se non ci si sta con la testa. Per me, i pazzi sono quelli che s’infilano la forchetta in un orecchio; sono un’altra cosa. Breivik è un sanissimo pluriomicida e merita il massimo della pena.»

«Che non è l’ergastolo.»

«Che non è l’ergastolo, esattamente.»

«E a te va bene così.»

«Sì, te l’ho già detto.»

«Perché?»

Astrid beve l’ultimo sorso di vino bianco, posa il bicchiere e si sporge in avanti, come se volesse baciarmi o sputarmi in un occhio. «Va bene, te lo dico» fa. «Sono contraria all’ergastolo per Breivik, come per chiunque altro, perché tra vent’anni sarà un’altra persona.» Alza la mano per chiedere il conto, e continua: «Tu lo sai come è fatto il nostro cervello?».

«Più o meno.»

«E lo sai che il nostro sistema di neuroni non è fisso e immutabile, vero? È plastico e si rigenera. Guarda noi due.»

«Sì?»

«Siamo forse le stesse due persone che eravamo quando ci frequentavamo da ragazzini?»

«Dici di no?»

«Assolutamente no! Scriveresti, oggi, una lettera come quella che mi hai scritto allora? Ti spacceresti per un malato terminale di cancro?»

«Per impietosirti? Forse sì» dico, ridendo.

Ma è arrivato il conto, e dobbiamo rientrare.

È il momento delle testimonianze dei superstiti. La prima a parlare è Nicoline, una bella ragazza bionda con la pelle lucida e l’ovale tondeggiante: «Si è avvicinato a uno dei ragazzi caduti a terra e gli ha sparato in testa» dice con la voce tremante. «Poi è andato incontro a un altro e ha sparato anche a lui. La gente correva gridando: “C’è un tipo che sta sparando a tutti! Scappate!”. Era estremamente calmo, cambiava direzione, si girava, sceglieva una nuova vittima, e sparava. Sembrava il protagonista di un film sui nazisti».

Breivik guarda spesso verso il soffitto. Ha l’aria annoiata. Se niente esiste senza scopo, qual è il suo? Che ragione ha di esistere, in questo mondo, Anders Behring Breivik?

Khamisa, la ragazzina con il sorriso dolce che ho incontrato qui fuori, non riesce a togliergli gli occhi di dosso; noto che le tremano gli angoli della bocca. Era sull’isola, un anno fa, quel giorno. Ed è evidente che ora è di nuovo là. Che ci tornerà per sempre.

La seconda testimonianza è di un ragazzo che si chiama Tobias. Racconta di essere scappato nel bosco, tra gli alberi, e di avere raggiunto la vecchia scuola abbandonata, dove si è nascosto insieme a un’altra quarantina di persone: «Ho scritto un sms ai miei, il classico messaggio che uno pensa di lasciare in un caso del genere: “Grazie di tutto, vi voglio bene”».

Secondo la ricostruzione del pubblico ministero, Breivik raggiunge il lago Tyrifjorden alle ore 16:45 e s’imbarca sul traghetto per Utøya col suo pesante borsone delle armi. Alle 17:17 mette i piedi sull’isola, dove, sotto la pioggia, inizia a fare fuoco con una pistola Glock e un fucile semiautomatico Ruger Mini con proiettili a espansione. Il primo a cadere sotto i suoi colpi è un ex ufficiale che fa il volontario per la sicurezza – l’unica persona armata a Utøya: Breivik gli spara a bruciapelo sul pontile. Poi va verso la caffetteria, mostra un documento, chiama tutti attorno a sé e dice di essere un poliziotto che è venuto a proteggerli. Ne fa fuori venti con questo trucco, finendo i feriti con un colpo alla testa.

Eccolo là, il giustiziere: tiene le braccia conserte sul petto come uno che sta dicendo: forza, fatemi vedere di cosa siete capaci… Ogni tanto getta uno sguardo verso le sue vittime – ragazzini che si sono beccati una pallottola e che stanno facendo la prova del fuoco: resistere alla paura dell’Uomo Nero, farsi rinchiudere in una cassa di vetro insieme al pescecane degli incubi peggiori. Lo guardano per provare a se stessi che la vita, sì, potrà andare avanti, che il mondo vale la pena di essere vissuto, anche per quelli che non potranno viverlo più. E lui, che fa? Li guarda con l’occhio distratto di una tigre allo zoo; e di quando in quando sbadiglia, come a dire: “Non provate nemmeno a pensare che io vi darò la chiave per uscire dalla stanza degli orrori. Io non cederò di un millimetro e vi spaventerò anche dal buco del culo più nero e profondo in cui riusciranno a ficcarmi”.

Quando tutti hanno capito che cosa sta succedendo sull’isola, è ormai troppo tardi. Alcuni si nascondono dietro i massi, sulla riva; altri si arrampicano sugli alberi; altri ancora si buttano in acqua: la terraferma è a meno di settecento metri, ma piove, l’acqua del lago è gelata, i vestiti sono zavorre, come pure la paura. Breivik è calmo, risoluto, pignolo nell’attuazione del suo piano.

Racconta la terza testimone: «Io mi sono nascosta sotto la scogliera, con altri ragazzi. Dopo un po’ l’abbiamo sentito camminare a un paio di metri sopra le nostre teste. Ho sentito cambiare il caricatore di una pistola. Ho smesso di respirare per non fare rumore».

Alle 17:39, Breivik si accorge che qualche suo bersaglio sta tentando la fuga a nuoto. Si immerge nelle acque del lago fino alla cintola, punta il fucile e grida: «Dovete morire tutti!». Poi fa fuoco.

Ci viene mostrato un video in cui si vede Breivik mentre osserva alcuni cadaveri che galleggiano nell’acqua. Altri ragazzi cercano di allontanarsi nuotando, ma Breivik gira la testa e li vede. Prende la mira e li ammazza uno dopo l’altro, come tonni.

Adrian, il quarto testimone, ricorda: «L’ho visto puntare il mitra direttamente contro di me. In quel momento è stato come se riuscissi a vedere dentro di lui: ho visto quello sguardo senza paura, lo sguardo di uno che ti sta dicendo che stai per morire. Così ho gridato più forte che potevo: “Per favore, non spararmi. Ti prego, non uccidermi”. E inspiegabilmente lui non lo ha fatto. Si è girato verso altri che come me stavano provando a scappare a nuoto e ha gridato: “Questo è il giorno in cui morirete perché io vi ucciderò tutti!”. Ma a me, mi ha risparmiato».

Alle 17:40 Breivik si dirige di nuovo verso l’interno dell’isola, dove ci sono la scuola e il campeggio. La polizia è stata avvertita, ma non ha un elicottero. C’è ancora tempo. «Andava verso le tende, le apriva lentamente, guardava dentro e sparava» racconta un altro ragazzo. «La tenda si colorava di rosso dall’interno.»

Il lupo coi tre porcellini. Un lupo strafatto di efedrina e steroidi anabolizzanti, che a un certo punto, prima ancora dell’arrivo della prima pattuglia, chiama il centralino della polizia e farfuglia: «Qui è il comandante Breivik del movimento anticomunista contro l’islamizzazione. Operazione compiuta e chiedo di arrendermi alle forza Delta».

Finalmente, alle 18:25, due gruppi dell’unità speciale della polizia norvegese sbarcano a nord e a sud. «Quando abbiamo visto tre poliziotti coi mitra venire contro di noi, ho pensato: “Oh no, quelli sono i suoi complici!” ricorda l’ultimo dei ragazzi a sfilare sul banco dei testimoni. Così ho cominciato a gridare, a tirare sassi. Pensavo che fosse la fine.»

È la fine, in effetti. Breivik ha già deposto le armi quando lo trovano; si arrende senza fare resistenza in una radura in mezzo al bosco. E io penso: perché non si è ucciso? Tutti si uccidono! Perché si è fatto prendere? Lo guardo. È un uomo insignificante. Come è possibile che sia al tempo stesso questa nullità e quell’orrore?

Allora capisco. Lui vuole questo processo! Vuole sentirsi dire ancora e ancora e ancora che è stato lui, che è lui il mostro, che è suo il potere di spaventarci fino a farci battere i denti (osservate la piccola Khamisa: i suoi occhi sono pieni di terrore), perché quando si guarda allo specchio, nella sua cella deluxe, evidentemente dubita anche lui. Di cosa ha bisogno Breivik? Ha bisogno del suo palcoscenico, del suo pubblico.

E il suo pubblico sono io.

Nello stesso istante in cui formulo questo pensiero, Anders Behring Breivik si volta nella mia direzione e mi fissa dritto negli occhi. Lo sta facendo. Per un paio di interminabili secondi, io e il più efferato killer della storia europea di questo secolo ci stiamo guardando.

La sera scende su Utøya, una pioggia leggera cade sui sopravvissuti: avvolti negli asciugamani, tremano come foglie. Ci sono cadaveri ovunque, coperti da lenzuoli bianchi. Il mare è nero. Nell’ultimo fotogramma del video che ci è stato mostrato, si distingueva un mucchio colorato sulle rocce scure. Altri corpi, ammonticchiati uno sull’altro.

Un conto è uccidere settanta persone in un colpo solo, facendo esplodere una bomba; un altro è ammazzarle una per una. Mi chiedo se alla fine Breivik non sia andato a caccia degli ultimi superstiti per conquistarsi la solitudine, per cancellare tutto; o avrà calcolato che il disgusto universale gli terrà per sempre compagnia?

Dentro l’aula, dopo tre ore faceva un caldo indescrivibile. La mania norvegese di accendere il riscaldamento anche in piena estate. Quando è arrivato il momento dell’ultima dichiarazione dell’accusato, Breivik si è alzato e ha iniziato a parlare. Ha riconosciuto di aver commesso gli attacchi, ma non ha voluto dichiararsi colpevole perché, ha detto, «ho agito per legittima difesa per conto del mio popolo, della mia città, del mio Paese». Ha chiesto di essere assolto oppure condannato a morte: «La pena massima che rischiate di infliggermi è patetica». E ha concluso: «Chiunque abbia una coscienza non può permettere che il suo Paese venga colonizzato dai musulmani».

È stato solo a quel punto che mi sono accorto che Astrid non era più al mio fianco. Mi sono girato, l’ho cercata con lo sguardo dappertutto, ma non c’era.

Due poliziotti hanno scortato Breivik, ammanettato, fuori dall’aula, sotto una pioggia di flash; e io mi sono ritrovato dentro un fiume umano che premeva verso l’uscita, trasportato nel corridoio senza quasi toccare il pavimento coi piedi. E Astrid non c’era. Sono rimasto cinque minuti buoni davanti alla toilette. Niente. Ho provato a chiamarla al telefono. Staccato. La capigliatura afro di Khamisa è spuntata per pochi istanti da un capannello di persone; istintivamente mi sono accodato, nella speranza che mi portasse – chissà perché – da Astrid. Il tribunale, Oslo, l’intera Scandinavia erano luoghi sconosciuti e ostili, popolati da orchi e sirene.

Ho girato a vuoto, ancora e ancora e ancora, come un criceto intrappolato tra insormontabili pareti di granito su cui sono incise le leggi norvegesi – per chi può capirle. Alla fine mi sono seduto nella hall ormai semideserta: ho provato tre, quattro volte a richiamare Astrid al telefono, senza successo. Ho sparato una serie di stizzose imprecazioni contro l’intera Norvegia, con l’impulso di spaccare in due il mio inutile smartphone nuovo di zecca. Ho pensato a mia figlia Sofia, a quanto mi mancasse, e ho provato, di colpo, un’immensa vergogna per non aver lottato per lei, per non essermi appostato sotto le sue finestre per reclamare forte e chiaro la sua presenza nel mio mondo.

Mio padre non l’avrebbe permesso. Questo pensavo; ed era un macigno sullo stomaco. Mio padre non avrebbe mai lasciato che una moglie e un cancello e il culo di una bella donna incontrata dopo vent’anni e il remoto processo a un mostro vichingo si frapponessero tra lui e suo figlio.

Dove s’era andata a cacciare Astrid?

Sono uscito sulla piazza e per poco non venivo accecato dal riflesso del sole sulle finestre nere del Thon Hotel che occhieggiavano da una enorme e incombente parete di mattoni. Appena sono riuscito a riaprire gli occhi l’ho vista: se ne stava seduta su una panchina dall’altro lato di Hambros Plass, sotto l’insegna di un club di jazz, chiuso. E parlava al telefono. Non appena mi ha visto, continuando a parlare mi ha fatto un cenno con la mano, come a dire: «Ehi, sono qui!». Ma vaffanculo.

Ho attraversato la strada e quando l’ho raggiunta ho fatto appena in tempo a sentirle dire: «Farvel» (che vuol dire “a presto”, ho imparato) e riattaccare. «Scusa» mi ha detto, «ero con Pål.»

«Chi è Pål?»

«Un mio amico.»

«È mezz’ora che ti cerco.»

«Ero qui.»

«Lo vedo.»

Mi chiede se sono arrabbiato mentre si alza e mi prende sottobraccio, tutta allegra. Io non dico niente.

«Che fai, il geloso, adesso?»

«Geloso? Di chi, di Pål? A parte il fatto che ha un nome ridicolo, non ho la minima idea di chi sia…»

«Te l’ho detto, è un mio amico.»

«… e non vedo, comunque, perché io dovrei essere geloso di te, mia cara.»

«E non fare l’offeso! Sto scherzando, dài.»

Mi stringe il braccio più forte e continua a camminare, ma voltata verso di me per guardarmi negli occhi. Poi ride e indica un caffè. «Che ne dici?»

Le rispondo che sono stanco e che voglio andare alla macchina. Continuiamo a camminare in silenzio, a braccetto. Con la coda dell’occhio, Astrid mi guarda quando pensa che io non me ne accorga; per controllare se io voglio da lei qualcosa di più, per capire le mie reali intenzioni. Se fossero quelle che lei crede (e lo sono e non lo sono) ne sarebbe infastidita o lusingata? E chi lo sa. Chi lo sa cosa vogliono le donne.

«Allora, come ti è sembrato il processo?» mi ha domandato mentre riprendevamo la E6. Per tutto il tragitto ho ascoltato quello che aveva da dire lei e solo ogni tanto, brevemente, mi sono permesso di interrompere il suo monologo. Ma una volta a casa, lì, sulla veranda, seduti uno di fianco all’altra con i piedi sul tavolo, le ho detto dello sguardo che ho incrociato con Breivik: era il momento giusto per dirle quali reazioni avevano provocato quegli occhi su di me.

«Breivik?» fa Astrid. «Breivik ti ha guardato?»

«Sì.»

«E che effetto ti ha fatto?»

«È stato come se per la prima volta da quando siamo atterrati ieri, io abbia realizzato dove sono.»

«Non riesco a seguirti.»

«Ti capita mai di vivere la tua vita come se in realtà la stessi guardando da fuori?»

«A volte, sì.»

«Be’, a me capita spesso. Molto spesso. Quasi di continuo. Credo sia un modo per difendermi.»

«Da cosa?»

«Non lo so. Dalle emozioni troppo forti. Dai sentimenti. Se non sono io a provarli, ma quello lì, dentro la palla di vetro, che guardo dall’esterno…»

«Ho capito quello che vuoi dire.»

«Non è che sia un granché, come esperienza. Però ti anestetizza.»

«E tu hai bisogno di essere anestetizzato.»

«Mi ricordo quando è morta mia nonna Kitty, una decina d’anni fa; quando fu chiaro che quello che le impediva di scendere per la cena non era una delle sue malattie diplomatiche. La trovammo immobile, sotto le coperte, con gli occhi sbarrati. “Sto bene, sto bene” ripeteva senza muovere un muscolo, come se quella voce uscisse da una corazza. Le ho toccato la fronte. Bruciava. Abbiamo dovuto convincerla a misurarsi la febbre. Aveva 39. Non voleva prendere la Tachipirina, ma alla fine ha ceduto. Il mattino seguente, però, aveva 39,4. È arrivato il medico, il dottor Abiuso, che era quasi più vecchio di lei. La nonna ci ha ordinato di uscire dalla stanza, tutti quanti. Mi sono affacciato sul cortile d’ingresso dell’albergo e ho visto Empio, il factotum di mio padre. Parlottava con una cameriera. Non sentivo quello che diceva, ma a un certo punto ha allargato le braccia, come per dire: “Non c’è più niente da fare”. Sicuramente non voleva dire quello, non stava parlando di mia nonna; ma quel pensiero mi spaventò moltissimo. È stato uno di quei momenti in cui mi ritrovo all’improvviso dentro la palla di vetro, non so se mi spiego.»

«Sì.»

«Quando il dottor Abiuso è uscito, dalla faccia che aveva… be’, insomma, si capiva tutto. Le aveva preso del sangue, doveva fare delle analisi. “Attendiamo i risultati” mi ha detto, prima di andarsene. E i risultati sono arrivati, per via telefonica e del tutto irrituale – alla faccia della tutela della privacy – sul mio telefono. Quando l’abbiamo dovuta trasportare in ospedale, mia nonna ha fatto chiamare Empio e gli ha dato precise disposizioni per la cura delle sue piante… Non so perché ti racconto tutte queste cose. Scusami.»

«Non devi» mi ha detto Astrid. E mi ha dato un bacio su una guancia. Poi si è accesa una sigaretta e ha provato a psicanalizzarmi, come dice lei. È venuto fuori che ho paura della morte.

«Grazie tante. Quanto le devo, dottoressa?»

Abbiamo riso e abbiamo fumato un po’. E parlato ancora. Io, sempre a proposito di tragedie, le ho raccontato di Francesca Squarzina. La storia horror della mia vita.

Era l’estate del 1978. A Cala Scacciadiavoli lasciavo passare malinconicamente i miei undici anni sotto un ombrellone e a ogni giro di vento mi arrivava il profumo della crema solare con cui si era unta l’ex moglie non più giovanissima di un facoltoso imprenditore brianzolo. I raggi ultravioletti benedicevano la sua pelle, succosa come la polpa di un mango; le esili braccia reggevano lo specchio solare, adagiato di taglio sul collo come una luccicante ghigliottina; gli occhialini di plastica blu – in regalo con l’ultimo numero di un settimanale – la rendevano cieca ai miei primi sguardi vagamente concupiscenti. Erano soprattutto le labbra rosso pomodoro, simili a una tumefazione, e i seni scoperti – enormi e pieni – ad attirare la mia attenzione. Mi sembrava che qualcosa fosse cambiato dall’agosto precedente: quelle labbra e quei seni si erano effettivamente gonfiati?

Trascorsi vari pomeriggi in contemplazione dell’abbronzatissima signora, nel tentativo di comprendere quella metamorfosi, fino a quando non riuscii a captare una conversazione tra l’oggetto dei miei studi e una sua amica. Parlavano di un certo dottor Pitanguy di Rio de Janeiro: «È quello che ha rifatto il naso alla Loren e le orecchie a Niki Lauda» sentii dire.

Quell’estate, mia cugina Francesca era una tredicenne ancora indecisa se indulgere o meno ai giochi infantili che tanto l’avevano divertita fino all’anno prima; soprattutto quelli che faceva con me e mia sorella Alex all’Eden. Il giorno prima dell’incidente, me la ricordo seduta sulla prora di un pattino sotto la prima pioggia di settembre, mentre assisteva a uno di quei furiosi combattimenti che chiamavamo partite di pallone; e riesco ancora a evocare il biancore delle unghie dei suoi piedi, l’abbronzatura, il fisico ossuto e muscoloso da danzatrice.

«Era dopo pranzo» dico ad Astrid. «Faceva ancora caldo. Giocavamo tra gli alberi; eravamo mia cugina, mia sorella e io. Il cielo era diventato nero e si vedevano i primi lampi; ma noi continuavamo a correre dietro a un pallone, sul prato, con mia sorella che provava a colpirlo così forte da farlo scomparire dietro il poggio coi papaveri. Poi, non mi ricordo bene… ma a un certo punto Francesca non c’era più. “Dov’è?” Mia sorella fa spallucce e continua a giocare. Poi, capisce che dobbiamo fare qualcosa. Con Alex l’abbiamo chiamata, l’abbiamo cercata, ma sembrava essere svanita.»

Racconto ad Astrid che siamo tornati all’albergo. Il padre di Francesca non c’era, trattenuto a Roma probabilmente da qualche rendez-vous puttanesco. È toccato a mio padre seguirci tra i campi, in mezzo al boschetto, e iniziare le ricerche. Niente. Allora, mio padre, con una svogliatezza che gli sarebbe stata a lungo rimproverata, prende l’auto e si mette a fare qualche giro di perlustrazione. Quel tratto di costa è movimentato da un susseguirsi di colli e dirupi, rocce nude e rada macchia mediterranea, erbacce e cespugli di ginestre tra i lastroni, rocce di granito e falesie a strapiombo; e in alto, dense foreste di lecci che si alternano ai pini. «Papà è arrivato fin sotto alla Punta dei Ricci, tra aie ingombre di elettrodomestici arrugginiti; mentre Alex e io ci divertivamo a battere i campi facendoci largo tra le erbacce con due canne. Ma alle sei del pomeriggio non c’era più niente da ridere, e lo capivamo benissimo anche noi. Nel frattempo era arrivata un’auto dei carabinieri e l’atmosfera s’era fatta pesante. C’era qualcosa nell’aria… La ritrovarono che stava già per fare buio, in mezzo al bosco. Aveva messo la gamba in una grossa buca, per sbaglio, e si era rotta una caviglia. Una frattura scomposta. Le faceva così male che era svenuta. Così mi ha raccontato mia madre. Mi ha detto che i carabinieri si sono trovati davanti a una specie di scimmietta tutta scarmigliata. Non so perché, ma da quell’incidente Francesca non si è più ripresa. È diventata un’altra persona. Ha smesso di lavarsi, poi di parlare. E un anno dopo… esattamente un anno dopo, si è impiccata. Come è possibile che una cosa del genere, un osso spezzato, le abbia incasinato il cervello in quel modo? La vita è così sottile che bastano uno spavento e una caviglia rotta a mandarla a puttane?»