L’albergo, dietro l’ultima curva, è già alle viste. Qua e là non appare più circondato dal verde intenso e profumato dei pini e dei lecci, ma da quelli che sembrano i resti di un sigaro in un portacenere. Penso a mia nonna Kitty e alla sua passione per la botanica, che aveva qualcosa di druidico; e sono felice che le sia stato risparmiato tutto questo. Mia madre, invece, in qualche modo si è meritata le fiamme. La parete da cui si aprono le sue finestre, il bel muro rosa ornato dai glicini, è affumicato. Come mai i miei sentimenti nei suoi confronti sono così carichi d’odio? Di fronte a lei, tra poco starò come Steve McQueen nella Grande fuga, quando veniva riportato al campo tedesco dopo l’ennesimo tentativo di evasione.

Non tornerà mai più come prima questo posto. Restano i ricordi, il rimpianto dei bei tempi andati. Meglio di niente; come diceva il poeta: più triste di quel che accade è quel che mai è accaduto.

I tafani inseguono l’auto e quando mi fermo al parcheggio mi ronzano attorno fino a che non capiscono che non sono un cavallo. Ci sono solo tre auto. Una è quella di Empio. L’altra è la 600 decappottabile del 1960 che è stata risistemata tre anni fa per i clienti. Souvenir degli ultimi scampoli d’âge d’or. Tutte le persiane al secondo piano, tranne una, sono chiuse.

Entro e alla reception non c’è nessuno. Ma ciabattante, compare subito Giusy, strillando: «Dottore, dottore!». Più che altro invoca. «Mi scusi il déshabillé.» Mi viene dietro sulla terrazza e, cercando di assumere un tono meno concitato, annuncia: «Sua madre è di sopra».

A parte l’isolato grido di un gabbiano, fuori si sente solo il fruscio delle foglie. Il libeccio ha gonfiato il mare, regalando un orizzonte di nuvole dalle forme fantasiose, da cui sprizzano freddi i raggi del sole. Hanno tolto l’acqua dalla piscina. Gli ombrelloni sono incappucciati. Qualche foglia accartocciata rotola sul cotto. Mi giro per vedere l’hotel: non c’è nulla di allineato, di simmetrico; per progettarlo sembra che non siano state utilizzate né la riga né la squadra. Ah, quanto lo amo questo posto! Tutto sommato, non se la passa male. Il corpo principale è stato quasi del tutto risparmiato dalle fiamme. Ma il cuore di chi lo possiede è lo stesso in pezzi.

Giusy pare accorgersene e aggrotta le folte sopracciglia. Nella luce del mattino appare l’ombra di baffi sopra il labbro perennemente corrucciato. «Desidera qualcosa? Un caffè?»

«L’ho già preso in paese. Dov’è Broni?»

«È al campo da tennis. C’è da tirar giù un pezzo di rete di recinzione per far passare l’escavatore.»

In qualità di capo giardiniere, da venticinque anni Broni combatte la sua quotidiana battaglia per impedire che la natura regredisca allo stato selvatico e divori l’hotel. I suoi nemici sono gli infestanti, le talpe, i tassi, i funghi, le radici; soprattutto i cinghiali – bestie con cui ingaggia una guerra psicologica che lo vede molto spesso soccombere. Ora che la natura – temibile nemica – s’è ridotta in cenere, Broni si ritrova nella situazione di quei secondini dopo che hanno scarcerato l’ultimo prigioniero. E si dà da fare come può, facendo tutti i lavori, per cercare di giustificare ancora la sua presenza sul libro paga dei D’Alverno. Non sa ancora che quel libro, insieme a tutto l’albergo, è ormai di un tandem – Squarzina e Monte dei Paschi Siena – che lo schiaccerà come uno degli insetti a cui ha dato la caccia per anni.

Rientro. Si sente solo il rumore dei miei passi. I tappeti sono stati avvolti in grandi rotoli e addossati alle pareti. Su un divano, rovesciato, c’è un casco giallo, uno di quelli da anti-infortunistica. È facile ricordare queste stanze quando erano piene di gente, di musica, di profumi; quando su quel divano ci si dava al backgammon e al gin tonic mentre il sole morente riversava più luce. Ma è ormai scoppiata la bolla in cui i D’Alverno si sono a lungo accomodati per resistere indenni al fluire del tempo.

Perfettamente in ordine, indifferenti al caos e al tramonto di un’epoca, stanno i libri sugli scaffali del salone. Coffee-books, tascabili inglesi, libri in francese nell’edizione Nelson: Dumas, Chateaubriand, Julie ou la Nouvelle Héloïse, Le Lys dans la vallée… Con due dita ne accarezzo le costole; sfilo un Bel-Ami tutto orecchie e avrei voglia di sprofondare sul divano e leggere fino ad addormentarmi.

Ma bisogna salire. Deve compiersi la cerimonia dell’omaggio. Il rito del “Ma ti vedo sciupato”, del “Cosa sono queste scarpe? Perché non hai messo i mocassini? Ti stanno così bene i mocassini!”, del “Sono esausta”, del “Se non fosse per tua sorella, mi toccherebbe chiacchierare col canarino”…

Faccio un gran respiro, chino la testa ed entro.

La trovo nell’anticamera, adibita a salotto, che si versa il tè in vestaglia. Non appena mi vede, posa la teiera e cinguetta un «Amore!» slanciando in avanti tutti i suoi monili – per abbracciare, o meglio, per essere abbracciata. E mi infligge quel suo sguardo (mia madre ha la debolezza di credere che quel suo certo sguardo, con le palpebre leggermente socchiuse, abbia sugli altri un effetto straordinario).

Se si dovesse descrivere la suite da cui quella donna governa la famiglia D’Alverno, bisognerebbe farlo come se si trattasse della sala da pranzo di Miss Avisham in Grandi speranze, con la tavola rimasta imbandita per il non consumato pranzo di nozze e la torta come un nido putrefatto di ragni. Una confusa nuvola di piume gialle si agita dentro una gabbietta.

«Come si chiama l’uccellino?»

«Oh, è solo un uccellino, caro; non ha un nome specifico.»

«Come stai?»

«Spossata» sussurra, mettendosi a sedere sul suo trono di vimini. È tipico: quando non c’è alcun motivo perché sia stanca, recita la parte di quella che sta per stramazzare; se invece le dici che dovrebbe riposarsi, «Sono infaticabile» dice con un che di minaccioso. Pretende che le venga riconosciuto che è impossibile stancarla.

«Qui dentro fa troppo caldo. Perché non accendi l’aria condizionata?»

«Lo sai che la odio» risponde, e prende a farsi aria con uno dei piccoli ventagli che tiene nascosti nelle sue cento tasche. «Mi mancano i clienti» si lamenta. «Mi mancano tutti quegli orribili vecchi con le gambe a merlo! Addirittura, mi manca Eleonora…»

«Anche a me.»

«Non era giusta» sibila con tono risentito. «Te l’ho sempre detto. Troppo fredda e presuntuosa. E poi si trucca come una puttana. Il suo sogno non è mai stato quello di sposarti, ma quello di divorziare da te.»

Sai che affare, vorrei risponderle. Ma, provvidenziale, le squilla il telefono. E va in scena uno dei proverbiali dialoghi con uno dei suoi omini. Si tratta dell’omino delle tende, stavolta: discutono su come rifare una certa sovraccoperta come se si trattasse del Vello d’Oro.

Attorno ad Ada c’è tutto un sistema di persone – gioiellieri, farmacisti, merciai – che lei chiama indistintamente omini (l’omino che sistema le aiuole, quell’altro – strabico e cattivo – che le ridipinge incessantemente le pareti della suite) e che lei tratta come bambole che prendono vita solo tra le sue mani. Con queste persone Ada è capace di trattare sul prezzo con una ferocia e una determinazione che annienterebbero anche il più furbo mercante del suq di Marrakech; salvo poi far loro dei regali a Natale, che hanno spesso acceso l’invidia filiale.

Ma mia madre è così. Ha ereditato dalla sua famiglia una vena di leggera follia, l’ipertiroidismo e una dentatura forte come quella di un cavallo.

Quando, però, incidentalmente nomino Francesca (le ho appena detto di avere incrociato Leone a Roma) tutta la naïveté di Ada Eliani vedova D’Alverno scompare. La sua espressione si indurisce. La bocca si chiude.

«Non ne parliamo mai…» le dico.

«Di cosa?» fa lei, evitando di guardarmi.

«Di Francesca. Di come è morta.»

«Si è suicidata. È passato tanto tempo. Grazie a Dio.»

«Le volevo molto bene.»

«Le volevamo bene tutti.»

«Era bella.»

«Sì.»

«E poi…»

«E poi è morta, povera cara. Una cosa bruttissima. Ma è stato tanti anni fa, e non ci serve recuperare altre cose brutte dal passato, no?»

«Hai ragione.»

Ripiega le dita dei suoi piedi nudi, ancora belli, con una mossa da geisha, e li fa scrocchiare.

«Timeo.»

«Timeo, cosa?»

«L’uccellino. Si chiama Timeo.»

«E come ti è venuto in mente?»

«È un dialogo di Platone, no? Cosa credi: non li leggi mica solo tu i libri.»

Prima di arrivare in albergo, mi sono fermato in paese dal mio spacciatore per comprare un po’ di hashish da fumare con Alex alla fattoria.

Da bambino mi piaceva arrivare qui da Roma per l’apertura dell’albergo a Pasqua, quando l’aria sapeva di terra bagnata e il bruco divorava le foglie giovani e gli uccelli iniziavano a costruire il loro nido. Amavo i profumi, gli odori, i colori, le persone che ritrovavo intatte: Livio, il giornalaio, col suo cappello a falde strette, e sua moglie vestita a fiori; Bruno, il pizzicagnolo milanista; Rolando, tutto bianco di farina; la fioraia coi suoi vasi alti e stretti; i due matti: quello che andava avanti e indietro per la panoramica in moto con un gatto attaccato alla schiena e la puttana-ciclista con le cosce scolpite… Tutta questa gente è invecchiata insieme a me e non me ne sono accorto.

Anche mia madre. La guardo mentre è alle prese con un’altra delle sue telefonate (stavolta si tratta dell’omino che le rifà la tinta dei capelli) e la sua improvvisa vecchiezza mi annienta. Come ho fatto a non accorgermi di tutte le grinze e le macchie che l’hanno trasformata nel brutto sogno di una giovane mamma? Succederà lo stesso anche con Alex, adesso? Cosa avrà fatto il tempo alla mia soda e floridissima sorella? L’ultima volta che l’ho vista, meno di un mese fa, era in splendida forma. Ma forse sono i miei occhi a essere cambiati.

Arrivo alla fattoria che non sono ancora le undici. Le mosche ronzano attorno all’abbeveratoio. Un albero alto e magro, dietro la rimessa, in controluce sembra un bastoncino color smeraldo di zucchero candito. Scavalco un annaffiatoio, un secchio e un paio di cesoie con le lame sporche d’erba, e busso. Nessuna risposta. Poi mi arriva il suono di un rastrello sulla ghiaia, faccio il giro e la vedo: a una decina di metri dal fattore che sta mettendo a posto il sentiero, ecco mia sorella. Fuori dalla stalla, sta strigliando un cavallo. «Su, fermo» gli dice, mentre le zampe del cavallo scivolano come se ballassero su un pezzo di sapone.

Alex. Non bella, ma fiera e slanciata, col volto sottile da cui gocciola il sudore. Vestita come una perfetta country-girl. Mi ha visto: appoggia una mano sulla schiena del cavallo, e con l’altra mi fa ciao, poi se la porta all’altezza della fronte per proteggersi dal sole. E grida: «Ehi!».

Sono a casa.

Nelle mani di mia sorella, la fattoria avita è diventata uno dei più grossi allevamenti della zona, e ci sono pure l’immancabile agriturismo e lo spaccio di cibi biologici. Alex si è specializzata: «In pratica faccio venire i tori» dice sempre ai nuovi venuti, tanto per metterli a loro agio… All’inizio tutti pensano di non aver capito bene. Lei allora spiega di essere una rotella necessaria nell’ingranaggio della fecondazione artificiale degli ovini e dei bovini.

Tre anni fa, la sua compagna, Elisa – una viticoltrice di Vittorio Veneto o qualcosa del genere – l’ha lasciata con un’email: ha scoperto Ventotene e da quel momento se ne va in giro con un tappetino da yoga in lana merinos arrotolato sullo zaino. La separazione brucia ancora ad Alex, che, tecnicamente (gliel’ho visto fare), si piazza davanti al toro con una mostruosa finta vagina di mucca in gomma, mette sotto un secchio e aspetta che l’animale produca. «Se non si eccita, mi tocca ficcare il braccio guantato nella vagina di una vacca e poi strofinarlo sul muso del maschio.»

«Ma come fai…»

«I tori costano, bello mio. Con questo metodo, da ogni provetta nascono fino a cento esemplari.»

Quanto a me, l’unico contatto con la natura che cercavo da bambino era quando tiravo sassate agli uccelli. Per fortuna quaggiù l’incendio non ha fatto alcun danno. Sarà così anche per l’Eden? Non oso chiedere. Seguo Alex intorno alla fattoria, entro dopo di lei e mi sistemo a cavalcioni su una sedia della cucina: ci sono i vasetti sui fornelli, con il profumo delle ciliegie che bollono nello zucchero. Dalla tasca tiro fuori il pezzo di fumo avvolto nella pellicola, lo tengo sollevato in bella vista tra l’indice e il pollice, e sorrido.

Cinque minuti più tardi ci passiamo una canna sdraiati sul prato, lambiti dagli schizzi di un irrigatore. Se tutto fosse sempre così – esattamente così – ci metterei la firma.

Vorrei parlarle di Francesca. Del perché non la nominiamo mai. Ma ho paura di rovinare quella pace, e resto in silenzio.

«Lo so, lo sento» dice Alex. «È arrivato il momento di una delle nostre conversazioni serie.»

«Non adesso. C’è tempo.»

«Va bene.»

«Ho detto alla mamma che la passiamo a prendere a mezzogiorno e mezza.»

«Dove andiamo?»

«Alla Capannuccia. Ho prenotato per l’una.»

«Odio la spiaggia, Jacopo, lo sai.»

«È per far uscire la mamma dall’albergo. Sembra Tutankhamon al Museo egizio.»

«D’accordo.»

«Brava.»

«Senti un po’» dice lei dopo una bella boccata di fumo. «Posso farti due domande?»

Nell’annuire, faccio cadere un po’ di cenere sulla camicia. «Sì, ma voglio che tu mi dica la verità.»

«Come sempre.»

«Ecco, appunto. La verità, Jacopo.»

«Promesso.»

«L’albergo, riaprirà?»

«Non ne ho la più pallida idea. So solo che se riaprirà, sarà per merito di un nuovo proprietario. I D’Alverno hanno chiuso con l’hotel.»

«Ah.»

«Volevi la verità, no?»

«Be’, sì. Ma non così tanta!» Ride e fuma ancora. Come è simpatica, Alex! Perché non passo più tempo con lei? Potrei trasferirmi qui e aiutarla… Ma mi basta visualizzare un toro per cambiare idea.

«Seconda domanda.»

«Spara.»

«Come va con Eleonora?»

«Che vuol dire “come va”? Non va. Mi ha lasciato.»

«Sì, questo lo so.»

«E allora?»

«Volevo sapere se sei contento.»

«Di cosa?»

«Che ti abbia lasciato.»

Il cielo scurisce all’improvviso – una nuvola giallastra sfreccia davanti al sole – quando mi sento rispondere, solo per far piacere a mia sorella: «Credo di sì».

Alex è andata a cambiarsi. Mentre l’aspetto, mi avvicino con discrezione al recinto dei maiali. Ne ho sempre avuto paura; il loro grugno sudicio e mobile mi disgusta e al tempo stesso mi attrae. Ce n’è uno che sembra fissarmi coi suoi occhi piccoli, mentre trotterella verso una pera appena caduta da un albero in una pozzanghera nera.

«Ehi.»

Mai visto: mia sorella è vestita da donna! Lancio un fischio d’ammirazione mentre guardo con curiosità i lacci intrecciati sui suoi polpacci nudi. Il maiale, intanto, ha ingurgitato la pera e ora si rotola nel fango, beato.

Nostra madre si fa attendere per venti minuti. «Avevo capito all’una» si giustifica. Capisce sempre male. Lo fa apposta. Non sopporta l’idea che tutto possa andare liscio quando si ha a che fare con lei; è come se ti dicesse: “Mi vuoi? Devi pagare un prezzo”.

È straordinario che quando ci sediamo al tavolo, sulla palafitta della Capannuccia, siamo comunque una famiglia felice. Sotto di noi, la spiaggia è semideserta: il cielo nuvoloso ha scoraggiato anche gli ultimi vacanzieri.

«Piuttosto che stare una giornata intera su un lettino unta di crema solare mi farei passare sopra da un camion.»

«Lo sappiamo, Alex» dice nostra madre prendendole un braccio. «Ma ti prometto che non ci muoveremo da quassù.»

Se ci vedeste a tavola, tutti insieme, noi D’Alverno, notereste che non ci tocchiamo mai; invano vi aspettereste da noi tutta quella cerimonia famigliare di abbracci, buffetti, baci e mani nelle mani. Non ci sfioriamo nemmeno, come se avessimo paura di romperci. Ordiniamo vino bianco e acqua gassata. Mia madre fa i complimenti ad Alex per come si è vestita, mentre io mi concentro su un uomo mezzo addormentato su una sdraio: l’ombrellone cui appartiene è piuttosto un caravanserraglio costruito con sdraio, tavoli e lettini, zainetti, secchielli, passeggini, borse termiche, parei, ciabatte, tubetti di crema abbronzante, iPad, bimbi urlanti e materassini gonfiabili. Davanti c’è un mare scuro, chiuso a destra da un promontorio su cui svetta una torre smozzicata, una delle tante abitate da Puccini; all’àncora, al largo, le poche barche che non temono i raid della Guardia di Finanza. Per fortuna l’estate sta finendo.

«A cosa brindiamo?» chiede mia madre sollevando il bicchiere.

A nessuno viene in mente nulla. Finché mia madre non se ne esce con una di quelle cose per cui, nonostante tutto, la adoro: «A tutti gli stabilimenti balneari che non abbiamo mai frequentato!» dice guardandosi attorno con schifo.

L’insalata di polpo è appena passabile, gli spaghetti con le telline (che sono riusciti a scuocere) sono stracarichi di prezzemolo; ma io – incredibile! – mi sto godendo il pranzo. Mia madre non mi irrita; mia sorella non mi ha ancora messo in imbarazzo; e il sole, liberato dallo schermo delle nuvole, accende la tovaglia bianca e illumina il bel naso di Alex.

All’improvviso, penso che mi piacerebbe che Astrid fosse lì.

È possibile che il mio matrimonio con Eleonora sia finito per una serie di errori di giudizio più che per una nostra precisa volontà. Sta di fatto che lei non c’è più, e se non hai una donna ti senti un mezz’uomo. Che vita è senza una donna? Io, ad esempio, quando la notte intravedevo la silhouette di Eleonora e sentivo il calore del suo corpo, ero fiero del fatto che lei – oggetto del desiderio di schiere di liceali e studenti di psicologia – avesse scelto proprio me per condividere il sonno. Dormire insieme a una donna: c’è qualcosa di più bello, di più necessario per non sentirsi soli?

Un ragazzo e una ragazza, entrambi biondi, si siedono al tavolo alla nostra destra. Chissà se si sono mai spartiti un letto, di notte. Avranno al massimo diciott’anni. Il ragazzo indossa un costume a fiori gialli e blu che gli arriva appena sopra il ginocchio; a un maschio della mia generazione quello stesso costume lambirebbe i polpacci: ma questi sono un’altra razza, sottili come un remo e con dei femori da dinosauro. La ragazzina sta ridendo per qualcosa che il suo amico deve averle detto sottovoce, e ora che la spio dietro le lenti dei miei occhiali da sole, vedo i suoi denti bianchi, appena un po’ all’infuori, e la punta delle spalle che va su e giù. Un giro di vento trasporta uno scampolo di conversazione:

«Ci sei stata a Formentera?»

«L’anno scorso. E m’è bastata. Calcola che sono tornata con la bronchite.»

Il ragazzo si toglie gli occhiali da sole per pulirli, poi si mette in bocca una delle due stanghette di metallo; lei posa la sua mano lunga e abbronzata sulla sua spalla e per qualche istante stanno così, fermi come un quadro. Poi si danno la mano, guardando dritto davanti a loro. E a me vengono in mente Leone Squarzina e la sua nuova fidanzata polacca: lo stesso gesto, ma capace di un effetto tutto diverso.

«Dicevo alla mamma che a Roma ho visto Leone.» Non so perché ho voluto tirare fuori l’argomento: ha subito l’effetto di appesantire l’atmosfera. «Quanti anni sono passati da quando Francesca è morta?» ho continuato. «Trentaquattro? Trentacinque?»

«Non lo so» ha detto Alex pulendosi la bocca col tovagliolo.

«Ci sto pensando spesso, ultimamente.»

«A me invece non piace pensarci.»

«Non ho detto che a me piace, Alex.»

«Ecco, allora lascia perdere.»

«Ma che atteggiamento è, scusa?» le domando cercando con lo sguardo la complicità di mia madre. Che tira fuori uno dei suoi tipici «Eh?», come se non sentisse mai quello che uno dice, come se fosse perennemente distratta.

Ed ecco che accade qualcosa che proprio non avevo previsto: Alex sembra molto nervosa; si alza e scompare all’interno del ristorante. Mia madre mi guarda con aria di rimprovero, poi fa qualche commento a caso sul mare.

«Lo sapevi che Leone si risposa con una polacca di cinquant’anni più giovane di lui?»

«Sì» dice, con aria indifferente. «Per l’albergo cambia qualcosa?»

Scrollo le spalle. Restiamo in silenzio. Poi anche mia madre si alza per andare alla toilette ed eccomi solo.

Tre amici hanno appena raggiunto i due ragazzini biondi al loro tavolo. Coi piedi ancora sporchi di sabbia e i costumi bagnati, si stringono ai loro zainetti da dove ogni trenta secondi squilla un telefono.

«C’è un BlackBerry che suona.»

È della ragazzina coi capelli castani e gli occhi celesti, dolcissimi; mentre fruga con una mano nel suo zaino e con l’altra aggiusta l’elastico del suo costume Calzedonia azzurro e marrone, spara un: «Ma che cazzo! È mamma».

«Parli del diavolo…» fa il ragazzo seduto accanto a lei; un riccetto nero nero, che porta al collo tre collanine etniche e che quando ride smette subito perché si vergogna della sua risata stridula.

La ragazzina rifiuta la telefonata della madre e s’accende una sigaretta, continuando un discorso: «Ero nervosissima, ho fatto una scena isterica. Mia madre, sconvolta, m’ha detto: “Vale, tranquillizzati!” e io: “Mamma, dammi cinque euro che mi devo comprare un pacchetto”. M’ha dato dieci euro e fumandomene una finalmente mi sono calmata».

«Lascialo perdere Tommy», le dice la ragazzina bionda. «Quello ti tromba e poi sparisce.»

«Ma guarda che io sto una favola» fa Vale, fulminando l’amica con lo sguardo.

«Anvedi questi!» Il riccetto, pericolosamente in bilico su due gambe della sedia di plastica, si è sporto verso un tavolo accanto al loro, pieno di avanzi lasciati da una coppia di signori tedeschi che sono scesi a passeggiare sulla battigia. «Ma che merde so’ a lascia’ tutta ’sta roba?»

Ora tutti i ragazzi piluccano dagli avanzi: due piatti di patatine fritte, un panino al tonno, uno con mozzarella e pomodoro. «’Sti stronzi l’avranno pagata trenta euro.»

La bravata li eccita: mangiano patatine fritte intinte nel ketchup e si danno delle pacche sulle spalle, ridono, pronunciano parole incomprensibili. Il sole scaglia i suoi raggi in direzione del gruppo, un’incandescente massa di vita uscita fuori – a occhio – nel 1995 dal grande grembo della Natura.

Un altro squillo: un iPhone.

«Di chi è?»

«È il tuo.»

Dal caos linguistico emerge la voce della ragazzina bionda, l’immagine della grazia: «Allora Genko gli fa: “Mamma, mi compri un pacco di cento preservativi, che mi bastano tutto il mese?”. E lei gli ha detto: “Ammazza, manco fossi uno sceicco con tre mogli… Ma che gli vuoi fare alla povera Giulia?”».

Tutti ridono. Poi scende il silenzio, di colpo: ognuno impugna il proprio telefono e prende a farsi i fatti propri.

Ada e Alex sono tornate. Io sono l’unico a ordinare un caffè.

«Ah, che bello il sole d’agosto!» dice mia madre chiudendo gli occhi e respirando forte. Ma il tentativo di sciogliere la tensione cade nel vuoto e restiamo tutti in silenzio. E io mi ritrovo a rimpiangere la volta che ho passato un intero pomeriggio – l’unico – a prelevare con la paletta piccoli vermicelli rossi dalle buche che Sofia, allora cinquenne, scavava senza tregua proprio sulla battigia davanti al ristorante, dove ora brillano i cadaveri delle meduse.

Intanto, nel caravanserraglio, la situazione sta degenerando: ceffoni, pianti, ultimatum («al tre ti gonfio») e sanguinose battaglie verbali che fanno sembrare gli scontri di Aleppo una futile commedia inscenata da una banda di giovani sovreccitati. L’unico a non partecipare a questo remake di Brutti, sporchi e cattivi è il nonno – un viso magro, stanco, giallastro – che trascina via il nipote sorreggendolo sotto le ascelle. Quando passa sotto il ristorante incrocia il mio sguardo e sembra chiedermi una solidarietà che non gli concedo.

«Tua sorella e io andiamo a fare una passeggiata sulla spiaggia» mi comunica mia madre.

«Alex in spiaggia? Ma ho detto qualcosa di grave?»

«Bevi il tuo caffè con calma e paga il conto» mi fulmina la sorella.

Il tavolo dei ragazzi s’è fatto silenzioso perché vicino a loro s’è seduto un gruppo di adulti, probabilmente amici dei loro genitori. Uno l’ho conosciuto: insegna a Economia e Commercio a Roma.

Arriva un tipo curioso, un ragazzo che dimostra un paio d’anni in più rispetto ai suoi amici. A colpirmi è il suo abbigliamento accuratamente démodé: espadrillas azzurre al posto delle ciabatte, boxer di tela blu invece del maxicostume da surfista, camicia Brooks Brothers col colletto liso, un paio di Ray-Ban e un mezzo Toscano in bocca. Gli altri ragazzi mostrano una certa deferenza nei confronti di questo piccolo dandy post-postmoderno, e le pupille delle ragazze succhiano avidamente gli ultimi raggi di sole per scintillare al cospetto del nuovo arrivato, che è alto, robusto e biondo, e indiscutibilmente bello; parla con voce profonda, senza alcun accento, e a un certo punto, aiutandosi coi pollici e gli indici a formare un’inquadratura, dice tenendo il mozzicone di sigaro tra i denti bianchissimi: «Sarebbe bello rovesciare questa scena (la battigia nera, la striscia del mare, l’orizzonte violetto e il cielo) sottosopra».

Una folata di vento muove i suoi lisci capelli biondi, glieli alza come una cresta e glieli manda all’indietro. È il momento in cui si accorge della presenza di una signora, al tavolo degli adulti; la moglie del professore universitario: si alza, va a salutarla e le fa il baciamano, sfiorando un anello di turchese col suo naso rosso, un po’ schiacciato.

Mentre parla col professore e sua moglie, noto che quando inizia una frase balbetta leggermente, o meglio, esordisce con un colpo di tosse, come una falsa partenza. Coi suoi amici non gli succede. Sta raccontando del suo primo anno d’università; fa Scienze politiche: «Dal punto di vista del job placement è meglio di Giurisprudenza o di Economia» spiega, «anche se il livello d’insegnamento è inferiore e ai professori manca un po’ di carisma».

La biondina, che finge di scrivere un sms, di nascosto se lo mangia con gli occhi… E come può farne a meno? Vedendo questo ragazzo, all’improvviso mi sembra di vedere il futuro, non solo il loro, ma il mio, quello di mia figlia: dietro le pose da uomo che ha visto tutto e l’affettazione un po’ ridicola c’è un’intelligenza che – probabilmente – non andrà sprecata.

Ma attento, ragazzo, che è un attimo fare la fine della promessa mancata.

Facendo gli scatoloni per abbandonare, scacciato, il fatidico tetto coniugale, ho ritrovato una lettera che avevo scritto a mio padre durante il periodo d’interregno tra il liceo e l’università:

Caro papà,

l’esame di maturità è stato per me una tremenda delusione. So che lo è stato anche per la mamma e per te, e la cosa mi fa soffrire, ma non quanto la sensazione di avere sprecato il mio tempo e gettato alle ortiche un’opportunità.

Il fatto che non sono stato bene (mal di gola, ecc.) proprio alla vigilia dell’orale (che ho dovuto affrontare sotto antibiotici), non giustifica il voto mediocre che i professori hanno ritenuto di darmi (il prof. Rigobello, che era il nostro membro interno, avrebbe dovuto battersi con la commissione in modo più energico per me, visti i risultati sempre ottimi che ho ottenuto nella sua materia durante tutto il triennio).

So che la mia richiesta (anno sabbatico – viaggio negli USA) non ti è piaciuta. Mi hai chiesto, usando toni forti, quand’è che diventerò responsabile. Ma io è proprio per questo che voglio tentare quest’esperienza, prima di rinchiudermi nello studio per altri quattro o cinque anni. Sento di aver bisogno di

Di cosa sentivo il bisogno? La lettera – una bozza, mai consegnata al suo destinatario – finisce così, monca.

Avevo ultimato il liceo saltando da un istituto all’altro: scuole private per scialacquatori di rette, che mi avevano insegnato solo che il mondo è bello e profuma di fiori appena tagliati se alle tue spalle c’è qualcuno che paga.

Eppure, al netto di tutta l’ipocrisia, la lettera voleva trasmettere un’esigenza autentica. Certo, l’obiettivo era quello di guadagnarsi qualche mese in più di deboscia – per usare l’espressione di papà – e farmi salire su un volo TWA alla volta della Terra Promessa (spiagge oceaniche, marijuana e un esercito di californiane in bikini); ma, anche a rileggermi dopo tutti quegli anni, riesco a percepire una specie di ansia che è comunque vitale.

Quel ragazzino biondo… Sono stato come lui, un tempo. Questo ho pensato mentre lo osservavo. E non è terribile? Come si sopravvive a una cosa come questa? Rivedersi, nel passato, ancora al centro di infinite possibilità, e rimpiangere tutto, tutto quanto: la sfacciataggine, il tono muscolare… Tutto ciò che vive deve morire. È vero. Ma perché la vita, per la gran parte del tempo, è così amorfa? E perché arriva un momento in cui ce ne dobbiamo accorgere per forza?

Ci pensavo quando ho riaccompagnato mia madre in albergo, e poi mia sorella alla fattoria.

«Ti spiace se rimango un po’ qui con te?» ho chiesto ad Alex.

Lei ha fatto cenno che era okay e si è diretta verso il capanno degli attrezzi. È incredibile che Alex e io siamo fratello e sorella. Ma guardatela: sprizza energia da tutti i pori! Il corpo di suo fratello, invece, il mio corpo trascurato e supersfruttato, pare sbriciolarsi come una foglia secca. Eppure, Alex è sangue del mio sangue. Ed è proprio di questo argomento che io voglio parlare con lei, in queste quattro di pomeriggio ronzanti di mosconi.

«Dio ha la mano pesante con la nostra famiglia.»

«Dio?» esclama Alex. «Ma fammi il piacere!»

«Mi dispiace per prima…»

«Ti dispiace cosa?»

«Aver portato il discorso su Francesca. Ti disturba parlarne.»

«No, non mi disturba. È che non c’è niente da dire.»

«Pensate sempre a coprirmi. Quando so benissimo che è stata colpa mia.»

«E questa, poi… come t’è venuta in mente?» fa lei mentre con la mano guantata accarezza un pitosforo. Due zzzzz, un frullio d’ali, e le mosche si dileguano. «Eri un bambino, Jacopo! Eravamo tutti dei bambini. E poi Francesca è sempre stata strana.»

«No, non è vero. È andata fuori di testa dopo l’incidente.»

«Ma credi davvero che una gamba fratturata ti porti a sentire le voci degli uccelli e a cantare in greco? Che ti porti a impiccarti?»

«Ci penso spesso a quella storia. E non mi dire che non ci pensi anche tu.»

«Quasi mai. Perché dovrei?»

«Perché è un tuo dovere.»

«Ah, sì?»

«Precisamente. Tutto quello che deve fare una famiglia, quando le muore qualcuno… così giovane, poi… è ricordarla ogni istante. Bisognerebbe sacrificare la propria vita per tenere in vita il ricordo di chi non c’è più.»

Più tardi, da solo, nella dépendance, ho continuato a rimuginare sulla situazione: i miei insuccessi in campo lavorativo e il mio a dir poco confuso rapporto matrimoniale (è evidente che io non stia facendo nulla per provare a rimetterlo in sesto) fanno di me una figura ridicola.

Stravaccato sul divano, con la tv spenta, il portacenere sulla pancia e la sigaretta chiudo gli occhi e decido di visualizzare Eleonora, la sua pelle bruna, il nasino all’insù, e mi viene solo di immaginarla quando fa la faccia offesa: donna capace di bronci improvvisi e ostinati, regala raramente sorrisi anche quando è in buona.

Cinque minuti fa combattevo contro l’impulso di telefonarle. E ora (guarda un po’), spengo il mozzicone e faccio un altro numero. Quello di Astrid.

Sono giorni che ho voglia di sentirla e che combatto contro questo desiderio, che considero una debolezza. Ma perché mai, poi?

Suona libero, ma non risponde.

Meglio così. Non posso chiamarla il giorno stesso del suo rientro in Italia.

Potrei provare di nuovo con Eleonora. Ma mi sento in colpa. Cosa è successo, in un mese? Da moglie in carica è passata a opzione telefonica numero due?

Squilla il telefono.

«Pronto, Astrid?»

«Jacopo. Scusami, sono appena atterrata a Fiumicino.»

«Come è andata in Spagna?»

«Bene. Senti, posso richiamarti? Stanno uscendo le nostre valige.»

«Certo, scusa.»

«Non ti preoccupare. Sei all’hotel?»

«Sì.»

«Ti chiamo domani.»

Senza darle il tempo di riattaccare, così, per prendere tempo, mentre me la ricordo nuda, coi piedi tra ciuffi di stelle verdoline, le dico, senza averlo deciso prima: «Domani voglio andare a vedere cosa è rimasto dell’Eden».

E lei, senza alcuna esitazione, risponde: «Vengo con te».