Per oltre cinque anni ho tenacemente rifiutato di salire a bordo di un aereo, facendo turni da camionista per raggiungere in due giorni di automobile luoghi in cui sarei potuto arrivare con tre ore di DC-9, mettendo a dura prova la pazienza di mia moglie e vergognandomi, sulle prime, per poi iniziare a farmi quasi un vanto di questa mia eccentricità, come se rimanere a tutti i costi coi piedi per terra nel Ventunesimo secolo fosse très chic. E così ho preso a negare filosoficamente che il viaggio sia un passatempo piacevole (tanto, ormai, è tutto uguale da tutte le parti). Fino a quando, sul Roma-Oslo delle 12:22, con Astrid addormentata sulla mia spalla praticamente già in fase di decollo, non ho deciso che il mondo continuerà a girare anche senza di me e che quindi è bene girarlo fino a quando se ne fa parte.
«Da quanto tempo non voli?»
Astrid conosce le procedure di imbarco su un aereo neanche fosse un’hostess. Ha imboccato il finger come il corridoio di casa sua, ha pescato una copia dell’“Herald” dal carrello ed è entrata nell’abitacolo col suo passo militare, non curandosi minimamente del mio stato d’animo. Ci mancava solo che abbracciasse il pilota. Terza fila.
«Vuoi il finestrino?»
«No, grazie.»
«Allora, da quanto è che non…»
«Cinque anni.»
«Cinque anni?»
«Sì.»
«E prima volavi tranquillo?»
«Più o meno.»
Be’, più meno che più, a dire la verità: non ho mai avuto l’istinto da Top Gun. Ma volavo spesso. Anch’io come tutti i frequent flyers ho le mie piccole storie dell’orrore da raccontare: vuoti d’aria sull’Atlantico, un quasi ammaraggio in laguna a Venezia, pochi ma interminabili minuti d’inferno nella carlinga di un bimotore sbattuto come un giocattolo da un dio capriccioso nel mezzo di uno di quegli uragani che nel Golfo del Messico ribattezzano – forse per esorcizzarli – con nomi inoffensivi tipo Andrew o Katrina… Eppure non è stato uno di questi shock a farmi decidere che sarebbe stato meglio restringere la cartina geografica delle mie spedizioni alle dimensioni di un francobollo. L’ultimo volo, prima della decisione di smettere, è stato un tranquillo Madrid-Roma. Ed ecco che mi ritrovo a ingrossare le fila di chi a un giretto su un Boeing preferirebbe finire arrosto nel Toro di Bronzo secondo una ingegnosa e dolorosissima tortura medievale.
«Perché non prendi più l’aereo?»
«Bella domanda» le ho risposto.
Ma non lo era nemmeno troppo, francamente. Ho passato tanto tempo a farmela senza trovare una risposta che fosse diversa dal semplice: “Perché ne ho il terrore!”. Nessuna indagine compiuta all’interno delle sinapsi del mio cervello e sulle lamine del mio fegato mi ha fornito un indizio supplementare; e quanto al cuore, be’, ogni volta che lo aprivo per darci una sbirciatina lo trovavo ricolmo d’amore, d’un rosso così acceso che faceva… paura. Ecco, mi sono detto nel momento stesso in cui sono salito sulla Mercedes di Astrid diretto verso il mio incubo peggiore, non sarà mica che tutto questo amore (per me stesso, mia moglie, mia figlia, mia madre, mia sorella, il mio albergo perduto) mi fa, appunto, un po’ paura? La questione – credo – non è se amare o non amare, ma come farlo. Riesco oscuramente a capire che il problema dell’aereo (ma non solo quello) è collegato a quest’incertezza.
«Be’, ma ora che hai perso tutto…»
«Sei di una rara sensibilità, Astrid, ti ringrazio.»
«Ma se non fai che ripeterlo tu in continuazione!»
«È una fobia che ha a che fare con la mia mania di avere sempre tutto sotto controllo, credo.»
«E non hai cercato aiuto?»
«Psicoterapia? Provata. Dopo sei mesi mi sono fatto pure ipnotizzare.»
«Cabin crew, ready for take-off…»
«Ecco, ci siamo. Si parte. Come ti senti?»
«Ho il terrore di scoprire che non ho più paura. Vorrebbe dire che non me ne frega più un cazzo.»
In effetti, mentre l’aereo si allineava alla striscia centrale della pista, abbassava i flap e portava i motori al massimo, ero perfettamente calmo, e la cosa m’insospettiva. Com’era possibile che di fronte a una cosa come PRENDERE UN AEREO, un gesto cui non arrivavo nemmeno con l’immaginazione (mi vedevo al massimo al check-in prima di risvegliarmi zuppo di sudore), il sismografo delle mie emozioni non segnasse più alcuna traccia?
Prima, dalle grandi finestre del gate, avevo scrutato nel cielo grigio topo certe nuvole viaggiare alla velocità di palle da bowling, sospinte da venti di tipo indiano; eppure non avevo provato niente. E ora che le ruote sotto di noi si staccavano da terra e la prora si alzava, ogni nefasto presagio, ogni sintomo maligno, tutta l’angoscia, la vergogna e lo schifo di me… dove erano finiti? Stavo volando ed era bellissimo!
Sorvolammo per un breve tratto il Tirreno. Astrid era già partita. S’era sbilanciata verso di me e ora potevo annusarle i capelli senza che lei potesse obiettare. L’ovale azzurro, fuori dall’oblò, si trasformò in tutto ciò che in futuro avrei potuto finalmente vedere coi miei occhi. Il mondo era di nuovo la mia ostrica!
Neppure per un istante pensai che avevamo appena sorvolato l’albergo. Eppure era laggiù, in mezzo a un promontorio bruciacchiato.
Quando il comandante dei vigili del fuoco s’era tolto il guanto alla moschettiera e mi aveva dato da stringere la sua rossa mano sudata, io avevo già capito che la mia luna di miele con questo mondo stava per finire. La tuta ignifuga arancione, chiusa sugli scarponi con il velcro, più che a un pompiere lo faceva assomigliare a un astronauta; un raggio di sole era rimbalzato sulla banda fluorescente che gli fasciava il braccio, accecandomi, proprio mentre Eleonora e Sofia salivano su una delle navette allestite dal Comando provinciale. Né l’una né l’altra avevano guardato per un solo istante verso di me. Aveva già imparato, quella piccola impertinente di mia figlia, come si spacca in due il cuore di un uomo?
«Per prima cosa» mi stava spiegando il comandante mentre il minivan spariva dietro il cancello, «quando giungiamo sul posto osserviamo attentamente le caratteristiche del fumo.»
Dove state andando? Vi chiedo perdono!
«A lei il fumo può sembrare tutto uguale…»
«No, capisco.»
«Invece non è così. Si devono osservare le dimensioni della nuvola di fumo, la forma, l’altezza, il colore, la direzione verso cui procede. E qui entra in gioco il vento; e quando c’è di mezzo il vento…»
Avevo iniziato a spazientirmi: «Nel nostro caso, comandante, lei…».
«Nel nostro caso» mi aveva interrotto senza guardarmi. Non mi guardava mai, aveva sempre il naso in su, per controllare la scena, «nel nostro caso, vede di che colore è il fumo?»
«Mi sembra che dia sul rossiccio.»
«Precisamente.»
«E cosa sta a indicare?»
«Indica la combustione di cespugli e zone boschive.»
«Questo lo sapevamo già.»
Quello che non sapevo ancora era che l’albergo avrebbe dovuto restare chiuso, compromettendo l’intera stagione; che Eleonora si sarebbe trasferita da sua madre (la campionessa mondiale di stitichezza); che io avrei passato giorni da licantropo nella dépendance, usando la copertina del cd di Blonde on Blonde per raccogliere le briciole di fumo; e che, mentre il mio simpaticissimo assicuratore – uno con la Harley-Davidson e la mania per i crudi di pesce – compiva i suoi giri di perlustrazione alla ricerca di un buon motivo per non risarcirmi (lo avrebbe trovato, oh sì: potete scommetterci), il caro zio Leone si sarebbe mangiato le mie azioni dell’albergo come un abile giocatore di Monopoli.
E tutto questo era dipeso da una cicca di sigaretta mal spenta! Comico, no? Non avevo ancora capito che, contrariamente a quanto calcoleremmo in base alle poche nozioni di statistica che utilizziamo quando parliamo del Caso, la moneta lanciata in aria ha una probabilità di cadere su una faccia e nessuna di cadere sull’altra. Il Caso non esiste.
«Mmm…»
«Sei sveglia?»
«Sì.»
Non appena si accorge di essersi addormentata sulla mia spalla, Astrid si raddrizza come un punch-ball. Qualche giorno fa mi ha confessato che odia essere toccata.
«Tipica freddezza scandinava…»
«No. Semplice principio di economia. Odio i contatti inutili. Quelli che mentre ti parlano ti mettono una mano sulla spalla. Se voglio essere toccata, ti dico io dove e come.»
Mentre mangiamo un sandwich con insalata, pomodoro e formaggio e beviamo succo di mela («Tutto qui il menu della SAS?» domando io. «Si vede che è un po’ che non viaggi…»), Astrid mi parla un po’ di sua sorella Kari, da cui andremo a stare: «È un maschiaccio, ma ha un cuore d’oro. La gente spesso non la prende in simpatia perché dice sempre quello che pensa».
«Mi ricorda qualcuno…»
«Ma io sono molto più diplomatica!»
«Stiamo freschi.»
Kari, che ha tre anni meno di Astrid, ha fatto tutte le scuole in Italia e, per la gioia della mamma – Miss Tromsø 1966 – si è iscritta alla Universitetet di Oslo: Information Technology and Informatic… Ora fa la programmatrice di computer. Ho un ricordo fugace di lei dodicenne: cicciottella e lentigginosa, praticamente muta.
«Questa è musica!»
Astrid accenna un ballo portando avanti le sue desiderabilissime scapole e mi porge uno dei suoi auricolari. Me lo metto, felice di quella nuova promiscuità: Alicia Keys.
«Ti piace?»
Annuisco a occhi chiusi. Mai sopportata, Alicia Keys. Troppo zuccherosa per i miei gusti. Ma che volete! Non è piacevole arrendersi all’easy listening quando a puntartelo contro è una bionda con un metro e mezzo di gambe?
Mi piace Alicia Keys? E chi lo sa? Chi sa più niente. Questi prossimi giorni, per esempio: rimarrò folgorato dalle foreste sterminate, dai fiordi indimenticabili e dai sensazionali ghiacciai che faranno da sfondo a una sana divagazione erotica con la mia salvatrice? (È inutile che ci giri intorno: l’idea è sempre stata lì da qualche parte…) Oppure mi suiciderò come un lemming dall’alto di una scogliera?
Tre giorni dopo l’incendio, c’è stata la visita dell’assicurazione ed è saltato fuori che l’impianto elettrico nella zona del bar non era a norma.
«Mai sentito in vita mia che una polizza escluda il diritto al risarcimento se l’impianto elettrico non è a norma» mi ha detto Tognozzi, il mio avvocato.
«Invece è quello che sostengono loro» gli ho risposto con un filo di voce al telefono. «Dicono che i danni nella zona del bar sono dipesi da fenomeno elettrico, che è uno di quelli che l’assicurazione non copre.»
Tognozzi s’è fatto una bella risata: «Non copre ’sto cazzo!» ha detto. «Lo vedremo.»
Ma io ho capito come va a finire. Se mi va bene, i soldi li vedo quando sui resti dell’albergo ci sono già passate le ruspe.
Quello stesso pomeriggio, ho preso la macchina e ho guidato fino in paese. Un paesino come tanti altri, col suo piccolo cimitero, la sua chiesa di un barocco da costiera, il palazzo comunale in stile fascista, la Coop, il bar centrale, il porticciolo coi cabinati dei romani (scarpe da barca, polo Ralph Lauren e pullover sulle spalle, come ai bei tempi in cui Azzurra faceva sognare l’Italia); il ristorante di pesce, buono ma un po’ troppo caro; la pizzeria per le famiglie e il giornalaio che espone la prima pagina del “Vernacoliere”; l’ex negozio di dischi di proprietà dell’anarchico che nel ’74 è andato a sentire gli Stormy Six al Festival di Re Nudo e che ha dovuto trasformare il suo esercizio prima in un noleggio di VHS, poi di DVD e ora in un centro assistenza della Apple… D’inverno è un posto che si svuota completamente e risaltano maggiormente tutti i semialienati a cui tocca rimanere; perché ci vivono – trecentosessantacinque giorni all’anno! Non ho idea di come facciano.
I bambini del paese fanno tenerezza. Me li immagino cresciuti, diventati come i loro padri: pescatori di vongole, panettieri, noleggiatori di barchini – abbrutiti, volgari, spesso pazzi… I più sinistri s’incontrano vicino al pronto soccorso: sono quasi sempre degli alcolizzati che il vento di mare ha reso malinconici, e ogni tanto violenti.
Era proprio al pronto soccorso che ero diretto: Galatea Duffo era ricoverata lì. Mi era stato riferito dal padre che aveva perso molto sangue e che per ricucire la ferita al fianco erano stati necessari trentotto punti di sutura. Sapevo che il mio era un atto di cortesia dovuta, che sarebbe stato giudicato ipocrita. Ma cosa avrei potuto fare se non indossare una faccia contrita e affacciarmi per un “ciao” da cui poteva dipendere l’istruzione o meno di una causa legale nei miei confronti?
C’era poi il fatto che quella ragazzina aveva qualcosa, una sorta di incandescenza, che mi ricordava qualcuno. Mi ricordava mia cugina Francesca.
Quando mi sono avvicinato al suo letto e lei mi ha riconosciuto, mi ha sorriso felice di vedermi. Per i cinque minuti che abbiamo chiacchierato, sembrava volesse fare di tutto per mettermi a mio agio; mi è sembrato che volesse farmi capire che per lei io non avevo colpe.
Ne avevo? C’era stato un incendio, un albero s’era abbattuto sul bar, un ramo aveva preso Galatea con sé e l’aveva sbattuta contro un gancio arrugginito… Un pura casualità. Act of God – come dicono gli assicuratori.
Ha tirato fuori di nuovo il nome di quella pittrice francese che le piace tanto; mi ha detto: «L’anno prossimo, quando torno, vedrai come sarò migliorata coi ritratti» (ed è stato il momento in cui, incrociando gli occhi di sua madre, ho avuto la conferma che non ci sarà un anno prossimo, per loro, all’hotel). E mi ha fatto promettere che avrei ricominciato a disegnare.
«Sì» le ho detto. «Te lo prometto.»
«E quale sarà il tuo primo soggetto?» mi ha chiesto.
«C’è un posto proprio dietro l’albergo. Ci si arriva per un sentiero che mia nonna Kitty… sai, quella che mi ha insegnato a disegnare: te l’avevo detto, no? Insomma, mia nonna chiamava quel sentiero il viale delle farfalle brune.»
«Vuoi disegnare quelle?»
«No. Non quelle. Sai cosa diceva mia madre? “Saranno pure farfalle” diceva, “ma succhiano sempre letame”.»
Galatea si è messa a ridere. Ma ha dovuto smettere subito, perché ridere le faceva male alla ferita. Quando ride è talmente bella che vorrei saperle fare il ritratto.
Le ho spiegato che le farfalle piacevano soltanto a mia nonna: leggeva voracemente riviste di entomologia; me la ricordo che partiva a caccia di funghi tutta sola sotto una pioggerellina sottile.
«No. Io vorrei disegnare l’Eden. Lo chiamavamo così, da bambini. È una specie di vallecola tra due montagne: uno spiazzo erboso e un boschetto incantato tra l’albergo e la fattoria. Sai, quello è il posto della mia infanzia. Tante cose sono successe lì.»
«E l’incendio l’ha bruciato?» mi ha chiesto, corrugando la fronte. Sembrava sinceramente preoccupata.
«Non lo so. Non ho controllato.»
«Come mai?»
«Ho paura di scoprire che è ridotto in cenere.»
Arriva il momento in cui non puoi più illuderti che il futuro ti darà quello che credi di meritare. È l’ora in cui devi fare i conti con la tua mediocrità.
Mentre, dopo essere uscito dal pronto soccorso, guidavo verso la casa del mare di mia suocera, con il solo obiettivo di convincere mia moglie a non sprofondarmi nell’abisso di una separazione che – lo sapevamo entrambi – mi avrebbe annichilito (già immaginavo un futuro di lavanderie e cibi precotti, di squallidi approcci con milf rimorchiate su facebook e weekend da passare con una figlia sempre più sconosciuta e ostile), continuavo a domandarmi: ma è tutta qui, la vita? Possibile che l’insieme di ciò che in oltre quarant’anni ho visto, assaporato, sentito, letto, toccato, amato e immaginato – il modo unico di decomporsi delle mie cellule… insomma tutto quello che mi distingue dagli altri – mi abbia portato fino a questo punto della strada, un punto che è con tutta evidenza un vicolo cieco? Hai davanti la mappa di un intero mondo da esplorare; prendi un’uscita invece di un’altra, giri a destra invece che a sinistra, tiri dritto invece di svoltare e ti ritrovi in strade sempre meno illuminate, con l’erbaccia che si mangia il guard-rail, l’asfalto pieno di rattoppi, ai lati il nero profilo di capannoni abbandonati, gocciolanti di pioggia… e capisci che è troppo tardi per tornare indietro.
Erano passati tre giorni dall’incendio. I danni erano stati consistenti: distrutti il bar e il campo da tennis, un ammasso di lamiere il parcheggio sotterraneo, ridotto a un deserto fumigante il verde tutt’intorno all’albergo. I clienti avevano fatto i bagagli e una lugubre serie di minivan li aveva presi in carico per portarli chi alla stazione chi al più vicino aeroporto: a tutti loro – lo sapevo – stavo dicendo addio.
Adesso, però, non m’importava. Adesso, dopo settantadue ore di ottundimento passate nella dépendance provando a schivare le telefonate di poliziotti, vigili, fornitori e maestranze, contavo soltanto i minuti che rimanevano prima di riabbracciare la mia bambina (poco, poco, sempre meno; ma perché ogni minuto in meno mi sembrava un minuto in più? Perché non riesco a pensare a mia figlia, quando non l’ho con me, se non come irraggiungibile? Perché tutta quella cosa che chiamiamo amore talvolta è così insopportabile anche se si presenta nelle sue forme più rassicuranti? Perché certe sensazioni, che sembrano così banali e innocue come animali impagliati, in realtà sono belve pronte a saltarti alla gola appena ti distrai un attimo? E come mai non ci sentiamo mai a casa?).
«Tu credi in Dio, Astrid?»
«In Dio nel senso dell’Inferno e del Paradiso?»
«Ci credi?»
«Nel Paradiso? Oddio, no!»
«Perché?»
«Be’, non lo so… Ma poi, anche se esistesse, sarebbe triste, no?»
«Triste?»
«Sì. Non ci sarebbe niente più in là. Sarebbe comunque la fine, l’ultima stazione. Un bel cul de sac.»
La casa di Guendalina Rovatelli, la mia ostile suocera, spuntava tra i pini, cento metri più in basso dei resti di una città etrusca, su un promontorio roccioso a schiena di cammello. Un cancello verde con un cartello su ogni battente – ATTENTI AL CANE e ATTENZIONE! AREA SOTTOPOSTA A VIDEOSORVEGLIANZA – mi dava il benvenuto. Ho fermato l’auto e pigiato il campanello, sapendo che Rolf, il pastore tedesco di mio suocero, era morto poche settimane prima e che la telecamera che mi stava puntando non era mai stata collegata ad alcun cavo.
«Chi è?»
«Sono io, Jacopo» ho risposto, lasciando spazio a un prevedibile silenzio. «Posso vedere Eleonora?»
«Non credo sia una buona idea.»
«Penso che dovrebbe essere tua figlia a decidere.»
«È lei che mi ha ordinato di non aprirti. È piuttosto imbarazzante…»
Imbarazzante? Che gigantesca testa di cazzo. «Guendalina» le dico con un tono che dovrebbe essere suadente ma che assomiglia a quello di Jack Torrance quando dice a sua moglie: «Wendy, tesoro, luce della mia vita…» prima di avventarsi su di lei a colpi d’ascia. «Guendalina, sono disperato…»
«Lo so. Lo so.»
«Ho bisogno di parlarle.»
«Certo, capisco. Ma credo che tu le debba dare ancora un po’ di tempo.»
«Ma tempo per cosa? Ti ha spiegato cosa è successo?»
«Non mettetemi in mezzo, vi prego. Sono cose vostre.»
«Hai ragione. Ma come faccio a spiegare se non vuole nemmeno starmi a sentire?»
«Che cosa c’è?» È la voce di Eleonora. Ed è uno schiaffo. Il cancello davanti a me non si aprirà mai, adesso lo so. Mi toccherà intraprendere al citofono una di quelle nostre litigate retoriche, dove troppo spesso vengono tirati in ballo i “sentimenti” («hai ferito i miei sentimenti!»). E dovrò stare qui a sentire cose del tipo: «Io e te non abbiamo mai creato un mondo» (uno dei classici del Rovatelli-style).
«Eleonora…» dico. «Sono quattro giorni… Vorrei parlarti.»
«Parla.»
«Fammi entrare.»
«No.»
«Perché no?»
«Perché non voglio vederti. Anzi, non voglio neanche sentirti.»
Doveva essere lassù, dietro quella finestra con le imposte socchiuse. Le punte del cancello a forma di lancia, tra le quali intravedevo il primo piano della casa, erano tutte scrostate.
Cosa sono venuto a dirle? Adesso non mi è più tanto chiaro. Se il motivo della scenata di Eleonora e del suo prolungato silenzio dipendeva dal fatto che non ero corso da lei e Sofia quando era divampato l’incendio… be’, allora era una follia. L’albergo era nel caos, una cliente s’era ferita in modo grave, io ero un po’ come il capitano di una nave che affonda: e il capitano non abbandona mai la nave. Ma mettiamo pure il caso che io accetti il punto di vista di Eleonora (se è davvero il suo). Sì, è vero, l’ho dimenticata. Ho dimenticato mia moglie e mia figlia mentre divampavano le fiamme. Non succede a tutti almeno una volta nella vita? Non avete mai visto la faccia di una madre che al parcheggio di un supermercato si ricorda di avere lasciato il proprio bambino sul carrello della spesa? Cosa provoca quella smorfia di panico se non l’orrore e l’amore? L’altro giorno in televisione ho sentito che in Brasile un tizio in autostrada s’è fermato a fare benzina mentre la moglie ne ha approfittato per andare alla toilette. Solo duecento chilometri dopo essere ripartito l’uomo si è accorto di avere lasciato la moglie all’autogrill. Duecento chilometri dopo. Vuol dire che non l’amava?
«Ele, l’incendio…»
«L’incendio non c’entra.»
«Ah, no?»
«No. E lo sai.»
«Cosa dovrei sapere?»
Silenzio.
«Mi dici cosa dovrei sapere? Un uomo ha tutto il diritto…»
«Non gridare.»
«Io non grido. Ma mi stai esasperando. Non sono giorni facili per me. L’albergo… è un inferno, non dormo da non so quando. Non ti ci mettere pure tu, ti prego. Dimmi cosa succede. Avrò pure il diritto a una spiegazione.»
Il bzzz del citofono. Il cancello che si apre. Lei che dice: «Entra».
Intontito dalla sorpresa, faccio appena due passi dentro il giardino che la vedo venirmi incontro, trafelata. E penso, chissà perché: “È fatta, si sistemerà tutto”. Ha l’aria di non dormire da un bel po’. Indossa un pareo sopra un bikini viola, è scalza e – per una volta – senza un filo di trucco. È sempre più vicina e riesco a capire che ha gli occhi gonfi di pianto. Faccio per abbracciarla ma lei si ferma di colpo, si pianta come un somaro sull’erba per non essere raggiunta dalle mie mani. «Scusa» dice, «non è colpa tua. Ma è come se questa cosa mi avesse improvvisamente aperto gli occhi…»
«Quale cosa?»
«Il giorno dell’incendio, tu che arrivi, la tua faccia, Jacopo. Le tue scuse… Ma, ti ripeto, non è colpa tua.»
«Ma non è colpa tua di che?»
Adesso è così vicina che non riesco più a vederle il blu attorno alle pupille e sento il suo alito, che sa di melone. Non vuole che qualcuno dentro casa ci senta. Non è più arrabbiata; anzi, dalla piega della bocca sembra quasi che voglia sorridermi mentre mi dice: «Non è colpa tua se non ti amo più».
«Scusa. Non credo di avere capito bene.»
«Io non ti amo più.»
Questa volta, più che sentirla, gliela leggo sulle labbra la frase decisiva. Ma mi è arrivata chiara e forte. Incomprensibile, inaccettabile. Però è stata pronunciata. Non si può più tornare indietro.
Astrid mi aveva detto: «Non sarà Dio a tenere in aria questo trabiccolo, mio caro. A quello ci pensano i motori».
«Non dicevo per questo.»
«E allora perché?»
«No, niente.»
«No, niente. Signore e signori, vi presento l’uomo del “no, niente”. Mister Laconic! Cosa è successo? Da ragazzino parlavi a macchinetta, per non dire di tutte le cazzate che scrivevi…»
Aveva sorriso ancora. Avrei voluto deporre una goccia d’acqua nel cuoricino tra la punta del suo naso e il labbro, e bere. Ma subito mi è venuta in mente la bocca di Eleonora, e l’aereo è diventato una prigione. Cazzo! “Se stesse ancora con me…” ho pensato. Se stesse ancora con me, farei tutte quelle cose… come comprarle dei fiori o regalarle braccialetti e collane: ho sempre creduto che, come me, trovasse squallide certe cose. Magari non è così. Magari ha sempre aspettato un mazzo di rose che non è arrivato mai. Mio suocero ogni sabato mattina si presenta a casa con un bouquet incellofanato; e mia suocera va in sollucchero e solleva il piedino – a settant’anni strasuonati – come in un film di Frank Capra. Una creatura tutta bocca, la madre di Eleonora; un mostro sottomarino con tre file di denti come tanti coltelli. Ci sono state occasioni in cui ho pensato che avrei preferito stare con la mia!
Cionondimeno, quando rifiutato e solo sono tornato indietro con la brutta sensazione che tutte le mie paure si fossero strette assieme per venirmi addosso, ho passato ore interminabili a strafarmi di hashish e pillole e a guardare la televisione come se non ci fosse un domani.
Quando l’ho raccontato ad Astrid, in fase di atterraggio, mi ha guardato con quel suo mezzo sorriso, come a dirmi: “Non buttarla sul melodrammatico”. Poi, mentre l’aereo posava le ruote sull’asfalto dell’aeroporto di Oslo-Gardermoen, mi ha dato una carezza, come si fa coi bambini, e ha detto: «Et voilà!». L’avrei baciata per quello.
Åsta, il villaggio dove abita Kari, si trova a sette chilometri da Rena, un paesino che sorge lindo e sbrilluccicante come una costruzione Lego nel punto in cui l’omonimo fiume confluisce nel Glomma. Siamo nel profondo di una valle, in mezzo a una foresta, protetta – si fa per dire – da montagne di cento verdi diversi che sbattono contro il cielo più azzurro che io abbia mai visto. Fino all’avvento di Anders Breivik, l’unico avvenimento di una qualche rilevanza, qui, è ricordato ancora oggi come “l’incidente di Åsta”. È stata Astrid a raccontarmi che una decina d’anni fa un treno proveniente da Trondheim s’è scontrato con il locale da Hamar.
«Venti morti. La peggiore tragedia ferroviaria della storia norvegese» ha commentato Kari (mi è sembrato con una punta d’orgoglio…).
Eccoci qui, tutti e tre, attorno a un tavolo. Kari si è seduta davanti a me e a sua sorella, e ha iniziato a fissarmi coi suoi occhi viola; come se invece di un pranzo mi stesse offrendo un interrogatorio. S’è bevuta una dietro l’altra due lattine di Coca-Cola tirando su con la cannuccia: la cosa mi ha fatto rabbrividire perché mi ha ricordato le ultime settimane di mio padre, al quale la paralisi di Bell per via del suo secondo ictus aveva storpiato la bocca.
«Così, tu sei quello col tumore al cervello» mi ha chiesto senza accennare minimamente a un sorriso. Avrei preferito che mi dicesse: quindi, tu sei il famoso coglione…
Astrid mi aveva avvertito: «Non ti preoccupare dei suoi modi un po’ spicci». Figuriamoci! E chi si preoccupa… Per quanto me ne frega. Devo dire, anzi, che Kari mi piace: perde facilmente la pazienza, come me; e ha una visione cinica del mondo che rende in qualche modo affascinante la sua evidente stronzaggine. Dice di odiare gli uomini – «tutti gli uomini» fa, puntandomi contro gli ultravioletti. Racconta di avere vissuto in Italia fino ai ventott’anni. Poi è arrivata qui.
«Bene» dico.
«Sì» ribadisce lei. Come a dire: prova a dire il contrario.
Io non ci penso nemmeno. «Vieni domani sera?» le domando.
«Dove?»
«Al concerto.»
«Di Springsteen?»
«Perché, ce ne sono altri?» dico, ridendo.
Lei non ride. Dichiara, dopo l’ennesimo sorso di Coca, di detestare Springsteen: «Odio la retorica del cantautore con la camicia di flanella» dice.
Trattengo un rantolo, e le chiedo dei suoi gusti.
«Ascolto i Cure.»
«I Cure. Bene. Piacciono anche a me. E oltre ai Cure?»
«No. Io ascolto solo i Cure.»
«Fantastico! Potrei avere un altro po’ di quell’ottimo vino norvegese?»
«È spagnolo» interviene Astrid, versandomi da bere del Sangre de Toro, uno dei semilavorati dell’uva più schifosi che abbia mai assaggiato in oltre trent’anni di felice rapporto col vino.
Sono già al secondo bicchiere ed è da poco passato mezzogiorno. Ovvio che mi giri la testa. Dopo lo stress del viaggio, poi… Poco prima che iniziasse la fase d’atterraggio, il comandante ci ha avvertito che avremmo incontrato una turbolenza. E l’abbiamo effettivamente incontrata; per meglio, dire, ci siamo andati a sbattere contro. È stato allora che Astrid mi ha preso la mano. Un gesto che sul momento non sono riuscito a godermi appieno (non me lo sono goduto per niente). Ma, adesso che siamo di nuovo coi piedi per terra e il mio spirito è alto – come dicono gli inglesi –, a ripensarci mi vengono in mente con violenza, con tenerezza, i miei quindici anni e tutto il mio amore di allora per lei.
Erano, quelli, gli anni in cui i ragazzini non avevano più alcun complesso a sentirsi permeabili alla vena intimista del cosiddetto “riflusso”; che, poi, per noi voleva solo dire fare l’amore invece di scopare (e si trattava solo di dirle, certe cose) e illanguidire nell’attesa di un bacio, cui sarebbe sicuramente seguita una tormentatissima rottura, per motivi sempre futili e incomprensibili. In quel periodo di scritte sul diario e pomiciate in esterni – preferibilmente davanti a un tramonto, come ci indicava insistentemente una musica pop non più vista come una forma di ottundimento delle coscienze – ci aggiravamo senza pace al volante di Boxer e Vespini nella Roma degli hamburger più milk-shake di piazza Barberini, delle partite a pallone all’ultimo sangue al Parco dei Daini e degli appuntamenti al bowling dell’Acqua Acetosa; la Roma delle sere d’estate a Massenzio e dei pomeriggi d’inverno passati ad ascoltare Last Night A DJ Saved My Life al centro della pista del MuchMore, dei ristoranti che servivano le pennette alla vodka e il trancio di pescespada in agrodolce, e dei raid da Piero il Fichissimo a comprare gli occhiali a specchio e un paio di 501.
Astrid – la mia Astrid sfarfallante – è rimasta incastrata per interi decenni in quell’âge d’or, sfiorata solo dal mio desiderio. Mi domando cosa ricorderà, lei, di quando nel salotto di casa sua, seduti per terra tra il divano e il tavolino basso di radica davanti al televisore, circondati dai “grandi” – tra cui lui, il mio dio, Paolo Cecchetti, col pacchetto di Marlboro infilato nel taschino della camicia – assistevamo alla finale di Wimbledon tra John McEnroe e Chris Lewis… L’istante in cui il suo ginocchio nudo (portava dei bermuda rosso fuoco) sbatté contro il mio (ero in calzoncini da calcio, pronto per una nuova rissa pallonara a Villa Borghese) dev’essere stato disarcionato quasi subito dal suo ippocampo, che immagino come un purosangue al galoppo nelle vaste praterie del Tempo; per me, invece, quella supersonica frazione di presente si è allungata fino a oggi conservando intatta la sua sconvolgente sensualità. E non è incredibile che sia durata così a lungo la sensazione di tradimento che provai quando McEnroe, liquidato il suo docile rivale neozelandese con un triplo 6-2, alzò la coppa d’oro dopo neanche un’ora di gioco, privandomi così della possibilità di godere ancora del piacere del contatto con la pelle tiepida di Astrid?
Comunque sia, sono qui che mi sciroppo una noiosa tiritera di Kari su Breivik e mi mostro interessato, ribatto persino, solo per fare colpo sulla sorella. È inutile che ci giri intorno: se alla partenza da Roma, Astrid rappresentava la mano che mi afferrava per i capelli mentre stavo con tutta evidenza andando giù (glù glù), adesso che siamo arrivati sani e salvi in terra scandinava mi sto domandando quanto il mio compiacere Kari e il suo meccanicistico sistema di idee da lentigginosa programmatrice di computer (della serie: la realtà è pura natura, non rischiarata da alcuna luce di idealità, in eterno e automatico moto) mi avvicini a un risultato che trent’anni fa non avrei potuto nemmeno sognare…
E mia moglie? E il dolore? Dove è andato a finire tutto quel dolore? Ora non ho tempo per rispondere: devo controribattere nel modo più arguto alla teoria di Kari sulla “chiusura del cerchio”.
«Breivik è un effetto diretto dell’11 settembre» dice Kari mangiucchiando i rimasugli di smalto color porpora sulle unghie.
«Ma sono passati dieci anni!»
«E dieci ne erano passati da quando Bush padre teorizzava il Nuovo Ordine Mondiale davanti al Congresso… Ricordi?»
Faccio sì con la testa, mentendo.
«Proprio mentre i suoi generali preparavano l’operazione Tempesta nel Deserto contro Saddam Hussein…» proclama lei con aria chissà perché soddisfatta. Evidentemente, le tornano certi conti. «Era l’11 settembre 1990. Ho controllato. Undici anni esatti prima che suo figlio venisse avvertito del casino a New York mentre leggeva la storia della capretta agli alunni di una scuola elementare di Sarasota.»
Secondo Kari, l’attentato alle Torri Gemelle e più in generale il terrorismo islamista sono il frutto avvelenato dei disastri americani in Medio Oriente; e l’eccidio di Utøya è la reazione… ancora una volta cieca, stupida e violenta… contro la paura dell’altro, del diverso. «Il nemico di Breivik è lo stesso del Patto Atlantico» dice col suo tono saccente.
Io continuo ad ascoltarla; o, almeno, faccio finta. In realtà sto pensando a quelle due favole raccontate da Bush padre e Bush figlio e alla grande favola che sta nel mezzo, quegli anni Novanta che le riviste glamour, l’industria musicale e certi spin doctor provarono a farci passare come un ritorno alla purezza. Erano stati cacciati i Duran Duran ed erano tornate le chitarre elettriche, le zeppe, i pantaloni a zampa d’elefante e le contestazioni studentesche; in America trionfava Clinton, in Medio Oriente Arafat e Rabin si stringevano la mano, Reagan e la Thatcher erano andati in pensione. Regnava la pace, quasi ovunque, o meglio: nessuno si permetteva di scocciare più di tanto noi occidentali (sarà per questo che andò di moda l’etnico?). Street-fashion, grunge e vintage erano le tre nuove parole d’ordine con cui i couturiers rinnegavano gli eccessi dei miei amati e dorati anni Ottanta; i gioielli venivano prodotti di nuovo in dimensioni accettabili, le pellicce in acrilico omaggiavano l’avvento di un pernicioso ecologismo, fiorivano la medicina alternativa, il t’ai chi e la manualistica new age, divertente come assistere a una dimostrazione di un rappresentante della Folletto. Era passata di moda pure la Madonna coatta e rococò di Like a Virgin in favore di tipe molto più toste e la Generazione X aveva trovato il suo guru in Kurt Cobain, anche dopo che si era sparato per assurgere al pantheon dove sono assisi Jimi Hendrix e John Lennon. Aveva tutto per restarci a lungo: quel golfino verde mela su cui si posavano lunghi capelli giallo piscio; una moglie strafatta e camp; una certa facilità nello scrivere testi memorabili e splendide melodie sotto la scorza ruvida del grunge.
Chi l’avrebbe detto, in quell’inebriante stagione, che il rock sarebbe morto proprio con la fine dei Nirvana? Chi avrebbe mai potuto prevedere che nel 2011 l’indice Nasdaq non sarebbe riuscito a recuperare nemmeno la metà del suo massimo storico, quei mirabolanti 5.132 punti – l’Everest del benessere – toccati appena dieci anni prima?
Dov’ero io quando i ragazzotti di Wall Street provavano come ogni mattina ad afferrare la coda di una cometa chiamata New Economy e il primo Boeing 767 s’infilò nella Torre Nord del World Trade Center e Osama bin Laden, in fondo a una grotta, diventò la pasticca d’uranio che alimentava il motore di tutte le nostre paure? Sulla terrazza del mio albergo a discettare di stronzate con il magnate di non so che cazzo; potete scommetterci.
Gli anni Novanta erano trascorsi in un lampo – peraltro senza nessuna traccia di Astrid – e io avevo da poco chiesto a Eleonora di sposarmi per la gioia di mio padre, che se la mangiava con gli occhi e rideva a ogni sua battuta (a mia madre, invece, Eleonora non piaceva: ma sarebbe stata scontenta anche di un incrocio tra Grace Kelly, Soraya e madame Curie). Eccola che arriva sulla terrazza, Eleonora, con gli occhi sbarrati e il trucco ancora da lavori in corso e inizia a gridare: «Accendete la tv! Presto, presto!» come se quella sua richiesta, per il solo fatto d’essere concitata, avesse il potere di far materializzare un televisore tra i tavoli imbanditi per il breakfast.
Eleonora è bella – quel suo fisico slanciato, quegli occhi blu, quelle spalle nude! – ma si trucca troppo; è così da quando la conosco. All’inizio non mi dava fastidio, anzi: faceva parte del bagaglio eccitante. Ma adesso, a volte, trovo il suo make-up esagerato. «Viriamo sul volgare» direbbe mia madre.
E poi, la musica. La detesta. Non la capisce. È come se fosse sorda. Quando eravamo fidanzati, la mia passione per le chitarre elettriche veniva considerata un’eccentricità, come se collezionassi… che so, pugnali malesi; però la cosa la divertiva. Poi, col passare del tempo, soprattutto dalla nascita di Sofia, la musica – tutta la musica – è diventata rumore che le peggiora le sue terribili e frequentissime emicranie.
Vi ricordate? Steve Jobs presentò l’iPod un mese dopo l’attentato alle Twin Towers, inventando di fatto una nuova razza: quella degli ominidi con i fili bianchi degli auricolari che pencolano dalle orecchie. Sospetto che la coincidenza cronologica sia tutt’altro che fortuita; perlomeno significativa: è finito il tempo in cui da una finestra aperta, in strada, si potevano afferrare le note di una canzone. Gli anni Duemila sono quelli in cui anche la musica è diventata un vizio privato. Il mondo è più triste e più povero, le persone sono disposte a conoscersi solo se separate da uno schermo di computer e quei candidi auricolari non sono altro che una moderna corazza con cui proteggersi dall’assalto della realtà.
Per i più pessimisti, le novità tecnologiche (che rappresentano l’unica vera moda del ventunesimo secolo) lavorerebbero subdolamente per la disintegrazione di una benché minima forma di convivenza civile: ci forniscono tutto ciò di cui abbiamo bisogno a un semplice tocco di dita e non sarebbe quindi del tutto impossibile che la razza umana finisca per assomigliare a quella preconizzata da Asimov: uomini con arti sottili e molli come alghe e un enorme capoccione che possa contenere un cervello di quattro chili.
Non so se per quelle tipiche oscillazioni o contraccolpi del gusto presto ritorneremo a sbucciarci le ginocchia seguendo un pallone nei giardini pubblici o se invece continueremo a puntare sempre più decisi verso il cyber-spazio; se così fosse – se diventeremo sempre più virtuali – spero che lo faremo comunque chiassosamente, alla faccia di Eleonora. Nel rivedere, qualche tempo fa, le immagini di quei due aerei che si schiantano contro i grattacieli, ciò che mi ha più colpito è stata proprio l’assenza del suono, il silenzio, il potente risucchio del vuoto.
Anders Breivik dice di aver compiuto il suo sterminio per scongiurare la possibilità che altri Mohammed Atta lancino un aereo di linea a ottocento all’ora contro un grattacielo: “Ci sono momenti in cui è necessaria la crudeltà” ha scritto mentre si preparava alla recita più importante della sua vita. “Bisogna essere perfetti per andare in scena.”
A mezzogiorno del 22 luglio 2011 – un anno fa – ha messo la bomba e la sacca con le armi su un furgone e ha lasciato la fattoria dove da tre anni si era ritirato per scrivere una Dichiarazione europea d’indipendenza: il suo manifesto.
«Lo hai visto?» mi chiede Astrid. «Lo ha messo on-line prima della carneficina. Millecinquecento pagine. Diceva di essere un cavaliere templare, il flagello dell’Islam.»
«Un pazzo furioso.»
«Breivik pazzo? Ma se non ha mai perso il controllo! Tutto è andato secondo i suoi piani.»
«Non dico che senta le voci o abbia le visioni, però…»
«È un narcisista paranoico con un disperato bisogno di farsi notare. Lo vedrai domani.»
Ma no, io non voglio vederlo; non ce n’è alcun motivo. Cosa dovrebbe essere: un pezzo pregiato della mia collezione dell’orrore? Con tutto il rispetto, che di Breivik si preoccupino i norvegesi.
Ovviamente, non dico nulla ad Astrid di questo mio disagio. Come potrei? Il suo potere mi schiaccia, la sua determinazione è inscalfibile. Sto controllando se ci sono nuovi messaggi su WhatsApp (zero), ma riesco a darle una sbirciatina con la coda dell’occhio: le punte dei suoi capelli hanno un fremito, come se un allarme interno le inviasse una piccola scarica elettrica per avvertirla di ogni sguardo su di lei.
Mi racconta che Breivik ha guidato lungo la A6 fino a Oslo, ha parcheggiato il furgone sotto un edificio del governo, in pieno centro, e quando la bomba è esplosa uccidendo otto persone e ferendone altre duecento era già su un taxi che lo avrebbe portato a un piccolo molo sulle sponde del lago Tyrifjorden. Lì ha noleggiato una barca e ha raggiunto l’isola, travestito da poliziotto, armato fino ai denti. «Utøya è piccola, saranno dieci ettari; è tutta pineta con qualche radura dove sono stati costruiti gli edifici: c’è una scuola in disuso, una fattoria, un granaio, il bar. Nell’area per il campeggio quel giorno erano in seicento. Tutti ragazzi. Breivik ha attraccato al molo est ed è andato subito verso l’edificio principale, dove ha freddato la sua prima vittima; poi si è spostato verso il bar e ha aperto il fuoco. Ha continuato in cerca di altri bersagli. In un’ora e mezza ne ha uccisi sessantanove. Il più grande aveva vent’anni. Ho un’amica, Oda, con cui nel ’90 o nel ’91 – non mi ricordo – sono andata a un campo estivo che organizzavano sull’isola di Andøya, dove c’è una base di lancio di missili-sonda. Lo European Space Camp: ci facevano fare un sacco di esperimenti scientifici. Oda aveva diciotto anni, come me. Era la più brava: voleva diventare un’astrofisica. Quattro anni dopo ha sposato un dirigente del partito laburista, molto più grande di lei, e ha avuto subito un figlio, Alexander.»
Mi viene in mente mia sorella, che si chiama Alexandra – anche se per noi è da sempre solo Alex. È da una settimana che non rispondo alle sue telefonate. Solo sms: “Ora non posso, ti richiamo”. Ma non l’ho mai fatto. Perché? Perché non mi va di discuterci, credo. Fateci caso – è la tendenza dominante sui social media: discutiamo solo con le persone con cui siamo d’accordo. E io, con Alex non sono d’accordo, mai, praticamente su nulla. A dire il vero, non sembriamo neanche fratello e sorella. Io, perennemente con un bicchiere in mano, a non più di quindici metri da una piscina o dalla consolle di un dj; lei a giocare a Bonanza nella fattoria annessa all’albergo, che ha fatto diventare uno dei migliori allevamenti e spacci di cibo biologico della regione. Conoscete l’usanza inglese ai tempi di Giorgio III di accoppiare un rampollo della nobiltà con un figlio di contadini? Se il ricco combinava qualche casino, punivano il poveraccio; così – pensavano – il principino si metteva paura… Sì, figuriamoci! Andatelo a raccontare ad Alex: da buona sorella maggiore si prendeva lei tutti i rimproveri e le punizioni, e la cosa non mi provocava il minimo senso di colpa.
«Quel giorno Alexander era a Utøya» mi racconta Astrid. «Aveva appena sentito della bomba esplosa a Oslo ed è andato al punto di ristoro per saperne di più. Ha chiamato sua madre al telefono per tranquillizzarla, perché Oda lo credeva a Oslo; Alexander non le aveva detto che sarebbe andato sull’isola per passare un notte in tenda con la sua nuova ragazza. Le ha detto: “Sono a Utøya, mamma, siamo al sicuro qui”. Dieci minuti più tardi un proiettile gli ha trapassato la gola. Quando le unità speciali sono finalmente arrivate sull’isola respirava ancora. È morto su una delle barche che trasportavano i feriti sulla terraferma. Ho sognato tante volte Breivik nell’ultimo anno» dice Astrid, come se in qualche modo mi avesse letto nel pensiero. «Sono sempre con Oda al campeggio; siamo più piccole di quanto fossimo realmente quell’estate ad Andøya: ci siamo appena svegliate nella nostra tenda canadese blu e marrone, e lei già ritocca coi pennarelli il suo modellino del sistema solare. Sentiamo degli spari, guardiamo fuori da una fessura della tenda e lo vediamo: alto, biondo, con gli occhi freddi e un mitra a tracolla, che viene verso di noi.»
Mi spiega che il reportage che vuole fare su Anders Behring Breivik è l’unico modo che conosce per risarcire Oda della sua perdita. Ma c’è anche qualcosa di più. «La verità» mi dice «è che quello di Utøya è stato il peggior atto di terrorismo in Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale, ma è passato solo un anno e già mi sembra che vogliamo tutti rimuoverlo dalla nostra coscienza.»
«Il processo riaccenderà l’interesse» provo a dirle.
Lei scrolla le spalle e rimane in silenzio. Forse aspetta che io aggiunga qualcos’altro; ma non ho più niente da dire sulla faccenda.