Triplo diavolo

Non c'era da sorprendersi se, a quella particolare cena dei Vedovi Neri, la conversazione andasse incentrandosi sull'argomento dell' uomo-che-si-è-fatto-da-sé.

Dopo tutto, Mario Gonzalo, anfitrione della serata, aveva invitato, quale suo ospite, il ben noto, e ora "pensionato", proprietario di una catena di librerie, Benjamin Manfred. Ed era altrettanto noto che Manfred, da adolescente, oltre mezzo secolo prima, aveva consegnato giornali a domicilio ed era figlio di poveri ma onesti genitori, molto onesti e molto, molto poveri.

E adesso era, se non esattamente un Getty o un Onassis, in una assai confortevole situazione economica. E, con quattro figli e uno stuolo di nipoti, tutti irreggimentati nella conduzione di un settore o dell'altro della catena, egli poteva definirsi il fondatore di una dinastia.

Visto che Manfred aveva telefonato per dire, con molto rincrescimento, che avrebbe tardato un poco, ma che senz'altro sarebbe arrivato prima che la cena fosse iniziata, la pre-fase del cocktail stava avendo luogo in sua assenza, e la conversazione poteva svolgersi liberamente senza l'inibizione dovuta alla presenza materiale di colui che era l'argomento da discutere.

Né era sorprendente che il più tonante dei pontificatori fosse Emmanuel Rubin.

«Non esiste più» asserì enfaticamente Rubin «un essere, uomo o donna che sia, che sia possibile qualificare un self-made man!» E quando Rubin parlava in preda alla passione, non c'era altra scelta se non quella di ascoltarlo.

Se il suo metro e sessanta di statura lo faceva il più basso dei Vedovi Neri, la voce era senza dubbio la più stentorea. Come se non bastasse, l'aggressività della sua rada barbetta grigia e il lampeggiare degli occhi, ingranditi da un paio di lenti poderose e minacciose, lo rendevano tipo da non sottovalutare.

«Ben Manfred è uno che si è fatto da sé» oppose Gonzalo, a ogni buon conto.

«Può anche darsi,» ammise Rubin, poco disposto a fare eccezioni di sorta a qualsiasi generalizzazione avesse introdotto «ma si fece da sé negli anni Venti e Trenta. Io sto parlando di adesso, dell'America post seconda guerra mondiale, che è prospera e assistenziale. Puoi sempre restare a galla negli studi, evitando la disoccupazione, ottenendo prestiti di qualche genere che ti aiutino a decollare. Certo, gliela fai, ma non da te stesso, mai con le tue sole risorse. C'è tutto un apparato governativo che ti dà una mano.»

«Forse c'è del vero in quello che dici, Manny» disse Geoffrey Avalon, con un certo distaccato divertimento. Col suo metro e ottantacinque, era il più alto dei Vedovi Neri. «Ciò non di meno, non considereresti te stesso uno che si è fatto da sé? Non mi risulta che tu abbia ereditato o sposato una donna ricca, e non ti vedo in alcun modo beneficiario di soccorsi governativi.»

«Be', niente ho ottenuto da altri, e ho sempre arrancato in salita, io»

riconobbe Rubin. «Però non puoi definirti "arrivato" finché non sei arrivato sul serio. Se non ho avuto un padre ricco, e non ho sposato una donna opulenta, non sono certo ricco, ora come ora. Posso concedermi alcune piacevolezze della vita, ma ricco non sono. Dobbiamo intenderci sul vero significato dell'uomo che si è fatto da sé. Non basta che non muoia di fame. Non basta che oggi stia meglio, finanziariamente, di quanto lo sia stato in partenza. L'uomo che si è fatto da sé è uno che parte da zero, senza i quattrini oltre quelli che consentano un livello di esistenza. E che poi, senza ottenere grosse fette assistenziali dall'esterno, riesce, lavorando duramente e valendosi d'un lucido acume affaristico o essendo dotato di enorme talento, a diventare milionario.»

«E il fattore fortuna?» brontolò Thomas Trumbull. «Metti che uno vinca il primo premio di una colossale lotteria ippica, o che abbia un colpo di fortuna alle corse dei cavalli o al casinò.»

«Sai benissimo che questo non vale» ribatté Rubin. «In tal modo, sei un uomo che è stato fatto dalla fortuna. Lo stesso vale se salvi la vita a un vecchio, sottraendolo alle zampe di un cavallo imbizzarrito, mentre scende da una carrozza, e il vecchio invoca su di te la benedizione del Cielo e ti regala un milione di dollari. E neanche mi riferisco a quella gente che diventa ricca grazie ad attività illegali. Al Capone, da una partenza da fermo, faceva sessanta milioni di dollari l'anno, prima d'aver compiuto sei lustri di vita, quando un dollaro valeva un dollaro e non ventidue cents come adesso. E manco pagava le tasse. Puoi chiamarlo uno che si era fatto da sé, ma non secondo la mia definizione.»

«Con te il problema è, Manny,» intervenne Roger Halsted «che vuoi restringere il termine alle persone che approvi moralmennte. Andrew Carnegie si era fatto da sé, e fu un grande filantropo dopo che ebbe guadagnato i suoi milioni, e, a quanto ne so, non fu mai messo in prigione.

Comunque, scommetto che, nella sua ascesa, fu coinvolto in affari censurabili e riuscì a farne far le spese ai poveri diavoli, quando necessario.»

Rubin rispose: «Parlo di comportamento a termini di legge, nulla di più. Non mi aspetto che gli uomini siano dei santi».

Con aria per nulla convincente quanto a innocenza, Gonzalo chiese: «E per quanto riguarda, Manny, il tuo amico Isaac Asimov?».

Naturalmente, Rubin abboccò subito all'amo. «Mio amico? Solo perché, di quando in quando, gli presto qualche dollaro per aiutarlo a pagare l'affitto, soldi che mai mi aspetto di rivedere, va in giro a dire a chiunque che è mio amico.»

«Dai, Manny! Chi vuoi che creda alle tue calunnie? Asimov è ben fornito. E, secondo la sua autobiografia, è partito dal nulla. Lavorava nella pasticceria paterna, e consegnava anche i giornali a domicilio. È un uomo che si è fatto da sé.»

«Ma davvero?» rimbeccò Rubin. «Be', se è uno che si è fatto da sé, tutto quello che posso dire è che è un incensatore del proprio creatore.»

Inutile dire quanto ancora Rubin sarebbe andato avanti nell'improvvisare variazioni sul tema, ma fu in quel momento che Benjamin Manfred fece il suo ingresso, e la conversazione cessò di colpo, mentre Gonzalo si incaricava di fare le presentazioni.

Manfred era di media statura, molto magro, con un faccia segnata ma simpatica. Radi capelli bianchi, appariva vestito sobriamente e un po'

démodé. Indossava un panciotto, per esempio, dal quale, contrariamente a quello che ci si sarebbe potuto aspettare, non si arcuava da taschino a taschino una catena d'orologio. L'orologio lo aveva al polso, ma di modello tanto antiquato da avere la corona per la carica.

L'invitato affrontò il giro delle presentazioni con un cordiale, piacevole sorriso, e, stringendo la mano a Rubin, disse: «Sono molto lieto di conoscerla, Mr. Rubin. Ho letto i suoi gialli con vero piacere».

«La ringrazio, signore» ricambiò Rubin, tentando virilmente di apparire modesto.

«Nei miei negozi, posso sempre fare affidamento sulle buone vendite dei suoi libri. Quasi quasi, lei pareggia Asimov.»

E Manfred si girò per salutare James Drake, mentre Rubin si colorì lentamente d'un furioso rossore, e gli altri cinque Vedovi Neri ebbero il loro buon da fare per reprimere il disperato impulso di scoppiare a ridere.

Henry, l'onnipresente e inarrivabile cameriere dei Vedovi Neri, dopo aver provveduto affinché il vecchio signore fosse fornito di un generoso dry martini, annunciò che la cena era in tavola.

Drake spense il mozzicone della sigaretta e rimirò la piccola piramide di caviale sul suo piatto. Uno sguardo quanto mai ghiotta-mente pregustante. Si servì delle accompagnatorie a corredo, che Henry stava servendo, e, dopo una breve esitazione, attinse due porzioni di cipolla trita.

Sussurrò poi a Gonzalo: «Com'è che ti puoi permettere di offrirci del caviale, Mario?».

Mario gli sussurrò, di ritorno: «Il vecchio Manfred mi paga mica male un ritratto che gli sto facendo. È così che l'ho conosciuto, e potrei anche insegnargli qualcosa di molto piacevole della vita, con i suoi soldi».

«È consolante sapere che c'è gente che vuole essere ritratta da un pittore.»

«Alcune persone hanno ancora buon gusto» asserì Gonzalo.

Drake sogghignò: «Ti spiacerebbe ripeterlo a voce alta, perché Manny possa sentire?».

«No, grazie» si schermì Gonzalo. «L'anfitrione sono io, stasera, e sono responsabile del decoro della tavolata.»

La tavolata, così come risultava, era perfettamente contegnosa. Rubin appariva per il momento sotto tono, e aveva lasciato passare almeno una dozzina d'occasioni di illustrare a Manfred quanto il commercio librario fosse disdicevole, contribuendo all'indigenza di giovani autori meritevoli.

Se erano più tranquilli per l'assenza di bellicosità di Rubin, i Vedovi Neri non lesinavano sonori e reiterati elogi alle portate che si susseguivano in tavola, il brodo di tartaruga, l'oca arrosto con puré di patate alla crema e cavolo rosolato, e Alaska al forno, forse un tantino privi di tatto nel manifestare chiara sorpresa che una cena finanziata da Gonzalo potesse raggiungere tali vette luculliane.

Gonzalo sopportava tali commenti con allegra indifferenza e, quando fu il momento di suscitare melodiosi tintinnii picchiettando il bicchiere con il cucchiaio, fece anche un nobile tentativo per infrangere il malumore di Rubin.

Al quale disse: «Manny, qui l'uomo dei libri sei tu, e, come tutti riconosciamo, il migliore della tua categoria, nessuno escluso. Non vorresti fare gli onori di casa, assumendo il ruolo di inquisitore nei confronti di Mr. Manfred?».

Rubin grugnì sonoramente, e rispose con la sua normale carica di scontrosità: «Lo potrei senz'altro. Dubito che qualsiasi altro di voi abbia la cultura sufficiente per farlo».

Rivolto a Manfred, iniziò con la domanda di rito: «Mr. Manfred, quale giustificazione dà lei alla sua esistenza?».

Manfred non parve sorpreso dalla domanda. Rispose: «Se c'è una persona che non dovrebbe aver difficoltà nel giustificare la propria esistenza, è quella la cui attività sia di fornire libri alla comunità. I libri, signori miei, incorporano e offrono la collettiva saggezza dell'umanità, la conglobata conoscenza dei pensatori di tutto il mondo, dispensano divertimento e sensazioni così come creati dall'immaginazione di individui di brillante levatura. I libri contengono humour, bellezza, spirito, emozioni e sensazioni, pensiero e, in sostanza, tutto della vita. La vita senza libri è vuota».

Halsted bofonchiò: «Oggigiorno, ci sono cinema e TV».

Manfred sentì e replicò, con un sorriso: «Anch'io guardo la televisione.

A volte mi capita di andare al cinema. Solo perché apprezzo un pasto come quello testé servitoci, non significa che io non possa mangiare, di quando in quando, un hot dog. Ma non confondo le due cose. Per quanto attraenti e ben costruiti possano apparire, film e televisione sono fast food per la mente, diletto per gli incolti, una parentesi diversiva per chi momentaneamente non abbia voglia di nulla di meglio».

«Purtroppo,» commentò Avalon, con aria grave «è Hollywood dove stanno i soldi.»

«Sì,» rispose Manfred «ma questo che significa? Senza dubbio, una catena di fast food fa più soldi di un ristorante a quattro stelle, ma questo non trasforma un hamburger in un'anatra di Pechino.»

«Comunque,» disse Rubin «visto che stiamo parlando di soldi, lei si considera un self-made man?»

Manfred sollevò le sopracciglia. «Non è una definizione alquanto vecchio stile?»

«Esattamente» concordò Rubin, con un fremito di entusiasmo. «Proprio quello che sostenevo mentre si beveva il cocktail. E mia opinione che al giorno d'oggi è impossibile per chiunque ritenersi un uomo che si sia fatto da sé. C'è troppa routine assistenziale da parte dello Stato.»

Manfred sussultò d'un riso silenzioso. «Prima del New Deal non era così. Il governo a quei tempi era un arbitro strettamente morale e neutrale.

Se una grande ditta aveva una controversia con un suo modesto dipendente, compito del governo era di accertare che le due parti avessero solo l'aiuto che potevano permettersi. Cosa poteva essere più equo di tanto? Naturalmente, il ricco aveva sempre la meglio, ma questo era solo una coincidenza, e se il povero diavolo non la capiva, il governo spediva la Guardia Nazionale a chiarirgli le idee. Grandi giorni, quelli.»

«Tuttavia, il punto è che lei, da giovane, era povero, o no?»

«Molto povero. I miei genitori arrivarono negli Stati Uniti dalla Germania nel 1907, e mi portarono con loro. Avevo tre anni, allora.

Mio padre lavorava in una sartoria e, tanto per cominciare, guadagnava cinque dollari la settimana. Ero figlio unico, ma vi lascio immaginare come migliorarono le condizioni finanziarie della famiglia quando in seguito arrivarono tre figlie, una dopo l'altra. Lui era socialista, e neanche lo nascondeva, e appena ebbe la cittadinanza votò per Eugene V. Debs. Il che fece ritenere a certe persone, le cui vedute sulla libertà di parola erano strettamente limitate alla libertà della loro parola, che egli dovesse essere deportato.

«Mia madre contribuiva al bilancio familiare lavorando part-time, fra un parto e l'altro. Dall'età di nove anni, andai a consegnare giornali domicilio, prima della scuola, e feci altri strani lavori, più o meno saltuari, dopo l'orario di scuola. Non so per qual miracolo, mio padre riuscì a raggranellare quel tanto di liquidi per pagare la prima rata di una piccola sartoria in proprio, e io lavorai con lui, sempre dopo la scuola. Quando ebbi sedici anni, non dovendo più seguire altri studi, lavorai in bottega a tempo pieno. Le superiori non le finii mai.»

Rubin puntualizzò: «Lei non ha affatto l'aria e il modo di esprimersi di un uomo privo di cultura a un certo livello».

«Dipende da quello che lei definisce cultura. Se vogliamo riferirci al tipo di cultura che si acquista automaticamente sui libri, allora sono una persona colta, grazie al vecchio Mr. Lineweaver.»

«Questo Mr. Lineweaver le regalò dei libri?»

«Uno soltanto, in verità. Però, mi portò a interessarmi dei libri. In realtà, devo a lui quasi tutto quello che posseggo oggi. Non sarei potuto decollare senza di lui, quindi, forse non sono un uomo che si è fatto da sé. E tuttavia, egli non mi diede nulla. Dovetti arrivarci... da solo, e così, forse, sono un uomo che si è fatto da sé. Sinceramente, sono incerto al riguardo.»

Drake disse: «Lei mi sta confondendo le idee, Mr. Manfred. A che cosa dovette arrivare da solo? A risolvere un qualche mistero, un enigma tipo puzzle?».

«In un certo senso.»

«È un episodio ben noto della sua vita?»

Manfred rispose: «Ve ne fu un accenno nei giornali di allora, ma è stato tanto tempo fa ed è caduto nel dimenticatoio. Però, a volte, mi domando quanto leale fosse l'intera faccenda. Approfittai della situazione? Fui accusato di indebita influenza e Dio sa di che altro. Ma la spuntai».

Rubin non mollò la preda. «Dolente, Mr. Manfred, ma devo chiederle di raccontarci la storia in ogni particolare. Ogni sua parola rimarrà del tutto riservata.»

«Così mi ha assicurato Mr. Gonzalo, signore,» confermò Manfred «e vi do pieno credito.» Ma i suoi occhi indugiarono un attimo su Henry, il quale, con la sua solita aria di rispettosa attenzione, se ne stava presso la credenza.

Trumbull colse l'occhiata, e precisò: «Il nostro cameriere, che si chiama Henry, è socio del club».

«In tal caso,» disse Manfred «vi racconterò la storia. Se poi risulterà noiosa, la colpa non è mia, visto che mi sollecitate.»

«Aspetti un attimo!» intervenne Gonzalo vivamente. «Se c'è qualche tipo di puzzle o di mistero di base, immagino che lei lo abbia risolto, a suo tempo. Esatto?»

«Oh, sì. Non c'è alcun mistero che attenda la soluzione.» Manfred ebbe un gesto della mano, come a cancellare l'eventualità. «Niente puzzle.»

«Allora,» raccomandò Gonzalo «quando ci racconta la storia su Mr. Lineweaver, non ci dia la risposta al quiz che lei aveva già risolto. Lasci a noi di scoprirla.»

Manfred ridacchiò «Non ci riuscirete. Non sarà quella esatta.»

«Bene,» disse Rubin «vada avanti a narrarci la vicenda, e noi cercheremo di non interromperla.»

«La storia» attaccò Manfred «ha inizio che non avevo ancora quindici anni, subito dopo la guerra, la prima guerra mondiale. Era sabato, niente scuola, ma io avevo ancora da consegnare giornali, e l'ultima tappa del giro era una vecchia casa signorile. Lasciavo il giornale in una piccola nicchia di fianco alla porta d'ingresso, e, una volta la settimana, suonavo il campanello. Veniva fuori un domestico, mi dava i soldi per i giornali, unendo un quarto di dollaro come mancia. La tariffa settimanale di quelle consegne a domicilio era generalmente di dieci cents, quindi quella particolare casa era da me gradita in modo specifico.

«Essendo sabato il giorno di mancia, suonai il campanello, e per la prima volta venne ad aprire il vecchio Mr. Lineweaver in persona. Forse perché si trovava per caso a passare nell'atrio nel momento in cui il campanello aveva suonato. Era sulla settantina, e lo presi per uno dei domestici, non lo avevo mai visto in precedenza.

«Era una giornata di gennaio del 1919 e faceva un freddo barbino, e io non ero certo vestito in modo consono. Indossavo l'unica giacca che possedevo, ed era anche leggerina. Mani e faccia le avevo blu e stavo tremando.

Per me non era una sofferenza insolita, in quanto a consegnare i giornali in giornate fredde ci avevo fatto il callo. Le cose stavano così. Che ci potevo fare?

«Mr. Lineweaver, però, ne fu turbato. Mi disse: "Vieni dentro, ragazzo. Ti pagherò dove fa caldo". La sua aria autorevole mi fece capire che era il padrone di casa, e mi venne un po' di fifa.

«Poi, una volta pagatimi i giornali della settimana, mi diede un dollaro di mancia. Mai avevo sentito che esistessero mance da un dollaro. E dopo, mi portò nella sua biblioteca, una vasta stanza con scaffali pieni di libri, dal pavimento al soffitto, su ogni parete, e in più una balconata, anche quella piena di libri. Il vecchio signore mi fece portare da un domestico una tazza di cioccolata calda, e mi trattenne per quasi un'ora, facendomi domande.

«Ce la misi tutta per dimostrarmi più che educato, ma alla fine gli dissi che dovevo tornare a casa, altrimenti i miei genitori avrebbero pensato che mi fosse successo qualcosa. Né potevo telefonar loro, perché, nel 1919, pochissimi erano quelli che avevano il telefono.

«Quando rincasai, i miei genitori rimasero molto colpiti, specie per la mancia di un dollaro, somma che mio padre prelevò e mise da parte. Non era crudeltà da parte sua. Esisteva semplicemente la regola di una "cassaforte" comune per ogni introito dei componenti della famiglia, e nessuno di noi poteva attingervi per proprio conto né tenersi un'aliquota qualsiasi.

Il mio argent de poche settimanale era zero virgola zero.

«Il sabato successivo, il vecchio Mr. Lineweaver era lì ad aspettare che arrivassi. Il freddo era forse un po' meno feroce della settimana precedente, ma di nuovo fui invitato a entrare per una tazza di cacao bollente.

Quando il padron di casa volle mettermi in mano un altro dollaro, io, in ossequio alle raccomandazioni paterne, dissi che era troppo, e che un quarto di dollaro era sufficiente. Dissi: "Mio padre, temo, ha imparato dalla vita a diffidare di un'inspiegabile generosità". Mr. Lineweaver si mise a ridere e precisò di non avere spiccioli e che dovevo accettare il dollaro.

«Ritengo avesse notato le occhiate di curiosità che stavo dando ai libri, perché mi domandò se a casa ne avessi. Risposi che mio padre ne possedeva un paio, scritti però in tedesco. Mi chiese se andavo a scuola, e, naturalmente, risposi di sì, ma che presto avrei compiuto sedici anni, e avrei smesso gli studi. Lui volle sapere allora se andavo alla biblioteca pubblica. Qualche volta, sì, ma tra la consegna dei giornali e il lavoro in bottega con mio padre, le occasioni non erano molte.

«"Ti piacerebbe guardare e consultare questi libri?" mi chiese, indicando le pareti della biblioteca.

«"Potrei sporcarli, Mr. Lineweaver" risposi guardingo, guardandomi le mani, nere, ovviamente, d'inchiostro di stampa dei giornali.

«"Sai che facciamo?" mi disse allora. "Il sabato, quando non hai scuola e la sartoria è chiusa, tu vieni qui, dopo che hai finito di consegnare i giornali, ti lavi le mani e rimani in biblioteca fin quando vuoi, e ti leggi i libri che vuoi. Ti piacerebbe?"

«"Oh, sì!" esclamai.

«"Bene. Allora riferisci ai tuoi genitori che passerai qui quelle ore."

«Così fu e, per dieci anni, andai in quella casa, puntualmente ogni sabato, tranne che fossi malato o che lui fosse via. Alla fine, col passar degli anni, ci andavo tutti i sabati al pomeriggio, e anche qualche sera dei fine settimana.

«C'era in quella biblioteca una vastissima varietà di scelta, specie nella narrativa inglese. Leggevo Thackeray e Trollope, affrontai Tristram Shandy. Ricordo che rimasi affascinato da Diecimila in un anno di Warren.

Era un misto di humour e di incredibile politica reazionaria. L'antieroe era Tittlebat Titmouse, e c'era un patentato malvagio dal nome di Oily Gammon. Appresi, poi, dalle mie letture, che gammon era una parola slang, equivalente al nostro attuale termine gergale di "ballista".

«Lessi Pope, Byron, Shelley, Keats, Tennyson, Coleridge, Wordsworth e Browning non mi piacevano, chissà perché. Naturalmente, c'era un sacco di Shakespeare. Né mi attirava particolarmente la saggistica, ma ricordo che mi cimentai con l'Origine delle specie di Darwin, senza cavarne un gran che. C'era un libro nuovo, Profili di storia di H.G. Wells, che mi affascinava. Lessi anche qualche autore americano. Mark Twain e Hawthorne, ma non riuscii a sopportare Moby Dick. E lessi un po' di Walter Scott. Tutto quanto nell'arco di anni, beninteso.»

A questo punto, Trumbull si agitò sulla sedia, e disse: «Mr. Manfred, deduco che questo Mr. Lineweaver fosse un uomo ricco».

«Molto ben piazzato, certo.»

«Aveva figli?»

«Due maschi, adulti. E una figlia, pure adulta.»

«Nipoti?»

«Parecchi.»

«Perché, allora, fece di lei un surrogato di figlio?»

Manfred rifletté. «Non lo so. La casa era vuota, nessun familiare, solo i domestici. Lui era vedovo. Figli e nipoti andavano di rado a fargli visita. Era solo con se stesso, suppongo, e gli piaceva avere un giovane per casa, di quando in quando. Ho l'impressione che mi giudicasse intelligente, e sicuramente era felice della mia passione per i libri. Ogni tanto, veniva a sedersi vicino a me a parlare di libri, a chiedermi cosa pensavo di questo e di quel volume, a suggerirmene di nuovi che potessi leggere.»

«Somme in denaro, gliene dette mai?» domandò Trumbull.

«Soltanto quel dollaro settimanale, che mi dava immancabilmente ogni sabato. Alla fine, smisi di consegnare giornali a domicilio, ma lui questo non lo sapeva. Il suo giornale, però, andai avanti a recapitarglielo ogni giorno. Lo compravo e glielo portavo.»

«Le dava da mangiare?»

«Il cacao in tazza. Quando ero lì all'ora di colazione, uno dei domestici mi portava un panino al prosciutto e un bicchiere di latte, o l'equivalente.»

«Le regalò qualche libro?»

Manfred ebbe un lento cenno di diniego. «Non finché fu in vita. Mai.

Né in regalo né in prestito. Potevo leggere quello che volevo, ma soltanto finché ero in biblioteca. E prima di entrare in quella sala, dovevo lavarmi le mani, e rimettere ogni libro, dopo averlo letto, al posto esatto in cui lo avevo trovato, prima di prenderne un altro.»

Avalon disse: «Dovrei arguire che i figli di Mr. Lineweaver non fossero entusiasti di lei».

«Credo proprio che non mi gradissero,» ammise Manfred «ma non li vidi una sola volta, mentre il vecchio era vivo. Una volta mi disse, con un divertito sogghigno: "Uno dei miei figli ha detto che devo tenerti d'occhio, diversamente finirai col rubarmi qualche libro". Devo essergli apparso inorridito all'insulto che, bene o male, toccava i miei genitori, il cui figlio disonesto sarebbe stato il risultato di una errata, ma consenziente, educazione.

Lui si mise a ridere e mi arruffò i capelli. "Sai, gli ho risposto che non sapeva quel che diceva."»

Rubin domandò: «Erano di valore i suoi libri?».

«Allora come allora, non mi venne mai in mente che lo fossero.

Ignoravo quello che i libri costassero, o che alcuni di loro potessero valere più di altri. Me ne resi conto, però, alla fine. Perché lui ne era orgoglioso, capite. Mi disse che li aveva comprati lui di persona, uno per uno. E che alcuni risultavano così vecchi che doveva averli comprati quando era un ragazzino, fu il mio commento.

«Si mise a ridere. "No," mi rispose "molti li ho acquistati di seconda mano in certe bottegucce. Erano già vecchi. Se segui questa prassi, ti capita di procurartene alcuni di indubbio valore e a prezzi stracciati. Triplo diavolo" disse. "Triplo diavolo."

«Pensai che si riferisse a se stesso, al suo fiuto nello scoprire quei tesori negletti. Naturalmente, ignoravo quali fossero specificamente quei libri preziosi.

«Col passar degli anni, mi venne un'ambizione: di possedere, un giorno, una libreria mia. Volevo circondarmi di libri e venderli finché non avessi messo insieme i soldi per metter su la mia biblioteca privata, una raccolta di libri, che non avrei dovuto vendere e che potessi tenere tutta per me, per leggere a mio piacere.

«Una volta confessai questo mio progetto a Mr. Lineweaver, quando mi interrogò su cosa intendessi fare in futuro. Gli dissi che avrei lavorato nella bottega da sarto di mio padre, e avrei risparmiato ogni centesimo finché non avessi avuto la somma per acquistare un negozio di libraio, o, magari, un negozio vuoto e poi comprare i libri.

«Lineweaver scosse la testa: "Ti ci vorrebbe tempo, Bennie. Il guaio è che ho figli miei cui pensare, anche se sono una manica di egoisti. Però, non c'è motivo per cui non possa aiutarti, in qualche modo ingegnoso e tale che i miei familiari non riescano a metterti i bastoni tra le ruote. Devi solo tenere a mente che possiedo un libro di enorme valore".

«Dissi: "Spero che questo libro sia ben nascosto, Mr. Lineweaver".

«"Nel miglior nascondiglio del mondo" mi rispose. "Ti ricordi del tuo Chesterton? Qual è il miglior posto per nasconderci un sassolino?"

«Ridacchiai. Le storie di Padre Brown erano una novità, a quei tempi, e mi piacevano moltissimo. "Sulla spiaggia..." dissi "e il posto migliore per nasconderci una foglia è la foresta."

«"Esattamente," confermò Mr. Lineweaver "e il mio libro è nascosto nella mia biblioteca."

«Mi guardai attorno, incuriosito. "Qual è?" chiesi, pentendomene immediatamente, perché lui poteva aver pensato che volessi prendermelo.

«Scosse la testa. "Non voglio dirtelo. Triplo diavolo! Triplo diavolo!"

Di nuovo, ebbi la sensazione che stesse riferendosi alla propria accortezza, rifiutando di svelare un suo segreto.

«Agli inizi del 1929, dieci anni quasi dal nostro primo incontro, il vecchio morì, e ricevetti l'invito degli avvocati di presenziare alla lettura del testamento. Il che mi rese attonito, ma mia madre fu al settimo cielo.

Sentiva che avrei ereditato un sacco di quattrini. Mio padre, invece, si accigliò, facendo presente che i soldi appartenevano alla famiglia del defunto, e che io sarei stato un ladro a portarglieli via. Era un uomo fatto così, mio padre.

«Ci andai, col mio abito migliore, e mi sentii assolutamente fuor di posto, imbarazzato e a disagio. Ero circondato da tutti i parenti, figli e nipoti, e i loro sguardi verso di me erano tutt'altro che amorevoli.

Penso che anche loro si aspettassero che una bella fetta dei soldi sarebbe toccata a me.

«Ma non ebbero da preoccuparsi. A me veniva lasciato un libro, uno di numero, tra quelli della libreria. Qualsiasi libro a mia scelta. Una mia scelta libera, condizionata solo dalla quantità: un libro e soltanto uno.

Seppi tra me che mi aveva destinato quello raro e prezioso, di cui mi aveva parlato, ma del quale non mi aveva mai detto il titolo.

«Il lascito non soddisfece affatto i familiari. Avreste pensato che potevano rinunciare a un libro tra i forse diecimila lì esistenti, ma evidentemente dava loro noia il solo fatto che io fossi menzionato nel testamento.

L'avvocato mi disse che avrei potuto fare la mia scelta non appena il testamento fosse stato convalidato.

«Chiesi se potevo andare in biblioteca a esaminare i libri, in modo da avere un orientamento su detta scelta. L'avvocato parve trovare ragionevole la mia richiesta, cui si oppose subito la mia famiglia, la quale protestò che il testamento non diceva nulla circa una mia ispezione in biblioteca.

«"In biblioteca, lei c'è stato abbastanza spesso e abbastanza a lungo" mi disse il figlio maggiore. "Si limiti a fare la sua scelta qui, e potrà portarsi via il libro una volta omologato il testamento."

«Il che non parve piacere all'avvocato, il quale dichiarò che avrebbe fatto sigillare la porta della biblioteca sino all'omologazione, in modo che nessuno potesse accedervi. La decisione mi fece sentire meglio, in quanto avevo il sospetto che qualcuno della famiglia sapesse qual era il libro di valore e potesse quindi farlo sparire.

«Ci voleva tempo prima che il testamento venisse omologato, quindi rifiutai di effettuare la scelta, lì sui due piedi. Al che la famiglia protestò di nuovo, ma l'avvocato tenne duro. E il tempo lo passai riflettendo. Mi aveva mai detto il vecchio Mr. Lineweaver qualcosa che tendesse a intrigarmi e potesse costituire un indizio? Non mi veniva in mente nulla, tranne quel "triplo diavolo" con cui lui si autodesignava a significare la propria astuzia. E lo aveva detto solo quando si era parlato del libro di valore. Poteva la frase riferirsi a tal libro, e non a lui stesso?

«Avevo ventiquattro anni ormai, e non ero più l'ingenuo adolescente di due lustri prima. Grazie alle mie letture, disponevo di una vasta miscellanea di cognizioni e di addentellati, e quando venne il momento di precisare la mia scelta, non ebbi bisogno di entrare in biblioteca. Sparai il titolo del libro e spiegai con esattezza la sua dislocazione sugli scaffali, perché lo avevo letto, naturalmente, sebbene non mi fossi mai immaginato che fosse di valore.

Fu l'avvocato stesso che entrò, prese il libro e me lo consegnò. Ed era proprio quello giusto. Come libraio, adesso so perché fosse tanto prezioso, ma lasciamo perdere. Comunque sia l'avvocato, un brav'uomo, riuscì a farlo valutare e poi a venderlo a un'asta pubblica. Me ne derivarono settantamila dollari, una vera fortuna a quei tempi. Fosse messo all'incanto oggi, mi verrebbe in tasca un quarto di milione, ma di quei soldi ne avevo bisogno allora.

«La famiglia diede fuori di matto, naturalmente, ma non c'era niente che potesse fare. Mi trascinarono in tribunale, ma il fatto che non mi avessero concesso di entrare in biblioteca e di esaminare i libri non giocò certo a loro favore. Comunque, una volta finito il contenzioso in sede legale, comprai una libreria, la feci rendere durante la Depressione, quando i libri rappresentavano una forma di passatempo relativamente poco costosa, e pian piano arrivai al punto a cui sono ora... Quindi, sono o non sono un uomo che si è fatto da sé?»

Fu Rubin a rispondere. «A mio parere, qui non si tratta di fortuna. Lei doveva scegliere un libro tra diecimila in base a un piccolo e oscuro indizio, e ne fu capace. Questo lo chiamo intelletto e, quindi, quei soldi se li guadagnò. Per pura curiosità, qual era quel libro?»

«Ehi!» ammonì Gonzalo, irosamente.

Manfred puntualizzò: «Mr. Gonzalo mi ha pregato di non fornirvi la soluzione. Mi ha detto che avreste voluto arrivarci da soli».

La spirale di fumo della sigaretta di Drake alitò verso il soffitto.

Parlò con la sua voce leggermente rauca: «Uno su diecimila, in base a "triplo diavolo".

Mai vedemmo la biblioteca e lei la conosceva bene. Sapeva quali libri c'erano, e noi lo ignoriamo. Non direi sia molto equo in partenza!»

«Lo ammetto» rispose Manfred. «Quindi, ve lo dirò, se volete.»

«No!» si oppose Gonzalo. «Dobbiamo avere una possibilità. Il libro doveva contenere la parola "diavolo" nel titolo. Potrebbe essere stato Il Diavolo e Daniel Webster, per esempio.»

«Quella è una novella di Stephen Vincent Benét,» precisò Manfred «e non fu pubblicata che nel 1937.»

Halsted disse: «L'immagine tradizionale del diavolo, con corna, zoccoli e coda, deriva, in realtà, dal dio greco dei boschi, Pan. Era un libro su Pan, o con la parola Pan nel titolo?»

«A essere sincero,» rispose Manfred «non me ne viene in mente neppure uno.»

Avalon offrì la sua ipotesi: «Ecate, la dea maga, è spesso ritenuta come tripla, vergine, matrona e vegliarda, perché era anche una dea della Luna, della quale le fasi sono tre: primo quarto, luna piena e ultimo quarto. Come dea maga potrebbe essere considerata triplo diavolo. Le memorie della Contea di Ecate furono edite troppo tardi per essere la nostra soluzione, ma non esiste nulla di antecedente con Ecate nel titolo?».

«Non che io sappia» rispose Manfred.

Il silenzio che seguì fu rotto da Rubin. «Semplicemente, non disponiamo di dati sufficienti. Penso che la storia sia interessante in sé e per sé, e che Mr. Manfred possa adesso darci la soluzione.»

Nuova opposizione di Gonzalo: «Henry non ha ancora avuto modo di dirci la sua. Henry... hai qualche idea di quale libro potesse essere?».

Henry sorrise. «Una possibile idea l'avrei.»

Anche Manfred sorrise: «Non credo sia quella giusta».

«Forse no» ammise Henry. «In ogni caso, la gente ha spesso timore di chiamare il diavolo per nome, per paura di evocarne la presenza, quindi ricorre a numerosi nomignoli o eufemismi. Assai spesso viene usato il diminutivo di un diffuso nome maschile che possa servire a tenerlo buono. "Vecchio Nick" è tra i più comuni.

Manfred si alzò a metà sulla sedia, ma Henry lo ignorò.

«Una volta che si tenga conto di questo, è semplice pensare a Nicholas Nickleby, che, tanto per dire, è Vecchio Nick due volte, e quindi "doppio diavolo".»

«Ma noi vogliamo un "triplo diavolo", Henry» osservò Gonzalo.

«Il diminutivo di Richard ci dà "Dickens", ben noto eufemismo per "diavolo", e l'autore di Nicholas Nickleby è, naturalmente Charles Dickens, ed ecco che abbiamo il "triplo diavolo". Ho ragione, Mr. Manfred?»

«Lei ha completamente ragione, Henry» riconobbe Manfred. «Temo che non fui tanto intelligente come ho ritenuto di essere in questi ultimi cinquantacinque anni. Lei ci è arrivato in un tempo molto minore del mio, e senza nemmeno aver visto la biblioteca.»

«No, Mr. Manfred» lo corresse Henry. «Il mio merito è di gran lunga inferiore al suo. Vede, lei stesso ha rivelato la soluzione nel suo resoconto dei fatti.»

«Quando?» volle sapere Manfred, rabbuiandosi. «Sono stato ben attento a non dire nulla che potesse costituire un indizio.»

«È vero, signore. Lei ha citato un gran numero di autori e non ha mai citato il più famoso romanziere inglese del XIX secolo, e, forse, di qualsiasi altro secolo, o addirittura, forse, di ogni lingua. Il fatto che lei avesse tralasciato tale nome, mi ha fatto subito pensare che ci fosse un particolare significato nel nome di Charles Dickens, e "triplo diavolo" non ha avuto più alcun mistero per me.»

 

(Titolo originale: Triple Devil - 1985)

 

Forse avrete notato che in questo racconto Isaac Asimov viene menzionato quale amico di Emmanuel Rubin, che coglie immediatamente l'occasione per insultare e calunniare il povero Asimov.

Una cosa del genere la inserisco in almeno uno di ogni decina di racconti, perché mi diverte, ma, naturalmente, è il povero Rubin che ne fa le spese, e non il sottoscritto.

Nella vita reale Rubin è l'incarnazione di Lester del Rey, il quale è, e lo è da quasi cinquant'anni, un ottimo amico mio.

Noi due litighiamo appassionatamente in pubblico (circostanza che mi ha dato l'idea di far comportare Rubin così come si comporta), ma, in realtà, siamo pronti a toglierci vicendevolmente la camicia, se necessario, tanto è l'affetto che ci lega. Lester è, di fatto, l'uomo più retto che abbia avuto la fortuna di conoscere, di assoluta lealtà, di totale affidabilità. Ma è affetto da idiosincrasie, come capita a me.

Lester nega ostinatamente che vi sia alcuna rassomiglianza tra sé e Rubin, sebbene io gli assicuri che sconosciuti spesso mi fermano per la strada e mi dicono: «Ehi, quel Rubin dei suoi racconti... è maledettamente uguale a Lester del Rey».