23

Shubharambh Bagh, aprile

Eliza si trovava al palazzo di Jay, che, da quando era arrivato sul posto, aveva lavorato duramente, nascosto dietro un’enorme scrivania nel suo studio dalle sette del mattino fino a tarda notte. Diversi documenti e svariate pile di lettere erano sparsi tutt’attorno, e il principe stava passando al setaccio tutti i progetti, giunti ormai al secondo stadio, quello riguardante la deviazione del fiume, per cui ancora non aveva ricevuto i permessi. Era come se gli inglesi lo stessero prevaricando. Riceveva molte visite: mendicanti dai villaggi, inglesi benestanti e anche ricchi mercanti indiani provenienti dagli altri Stati principeschi e dall’India britannica. Trattava tutti con gentilezza ed Eliza riconobbe in lui una determinazione che non aveva mai notato prima e che glielo fece amare ancora di più. Non voleva intromettersi, ma era lieta di aiutarlo con i documenti, e a volte lo sorprendeva a guardarla con occhi ardenti, che dicevano più di mille parole. Poi, quando si accorgeva che lei l’aveva notato, abbassava lo sguardo. Ogni volta che gli passava dei documenti e lui accidentalmente sfiorava la sua mano, Eliza sentiva una scossa. Desiderava che la baciasse di nuovo e avrebbe potuto giurare che il desiderio fosse reciproco, specie quando la guardava negli occhi e le sorrideva, in modo lento e seducente. Ogni giorno che passava era una tortura ed Eliza temette che Jay si fosse pentito di quello che era successo tra loro. Repressi i suoi desideri, Eliza si accontentava del piacere di stargli vicino, nell’attesa di qualcosa di più.

Una sera, col fresco, quando le campane del tempio presero a suonare, uscirono per andare a guardare i lavori. La cinse con un braccio, tenendola stretta a sé mentre osservavano gli scavi, e lei seppe che il momento era giunto. La fece girare verso di sé e la baciò dolcemente.

«Volevo farlo di nuovo», le disse, mentre si allontanava un po’ e si posava una mano sul cuore. «Sono felice che tu sia qui. Spero di avere più tempo, adesso».

«Va bene così».

«No, non va bene. Meriti di più».

La abbracciò e fece correre le dita tra i suoi capelli. «Mi dispiace se sono poco attento. A volte mi sembra che sia tutto nelle mani degli dèi».

«Ma tu non preghi, vero?», gli chiese lei, prendendogli una mano e portandosela alle labbra. Gli baciò le dita e poi la lasciò andare.

«Lascio che siano le donne a pregare. La forza della nostra società è sempre stata nel nostro coraggio e nella nostra resilienza».

«E le tue credenze? Il karma, per esempio?».

Camminarono un po’, a braccetto.

«Il karma svolge un ruolo determinante nella vita di ogni essere vivente. Crediamo che non siamo nati una sola volta, ma che siamo qui da sempre. Nei testi sacri il dio Krishna afferma: non c’è stato un tempo in cui io non sono stato qui, e non ci sarà un tempo in cui io non sarò qui!».

«Credo di aver capito».

«Ma il karma ha un passato e un futuro. Possiamo influenzare gli avvenimenti; adesso è giunto il tempo di cambiare le cose, in India», disse Jay.

«Tu stai aiutando a cambiarle».

«Non mi sto riferendo solo al miglioramento delle vite degli agricoltori e dei contadini, ma anche all’atteggiamento nei confronti degli inglesi. Persino nei nostri palazzi, nei nostri haveli, siamo separati dagli europei nostri ospiti. Si prendono le poltrone migliori e i posti più in vista a tavola, mentre noi restiamo relegati negli angoli. Si tratta di un gioco al rialzo, ma hai idea di come ci si senta a giocarlo?».

Si era fermato, non camminava più, e il suo sguardo penetrante la scosse. Voleva che Jay la baciasse ancora, ma sentiva la sua energia traboccante, il bisogno impellente che aveva di parlare.

«Deve essere molto umiliante», disse alla fine.

«Siamo come burattini nelle mani dei governanti inglesi. Siamo solo una piccola parte di quel grande teatro che è l’Impero britannico. Gli inglesi hanno accettato la nostra richiesta di ottenere lo status di dominio, nel 1929, ma ciò non ha fatto altro che sollevare la questione spinosa dei pari diritti tra indù e musulmani, quindi non ci sono stati progressi in proposito».

«Cosa deve accadere?»

«Abbiamo bisogno di libertà, a prescindere dalle differenze religiose. In effetti, abbiamo davvero bisogno che gli inglesi si ritirino, irrevocabilmente, completamente; solo allora potremo davvero essere giudicati in base alle nostre azioni».

Eliza restò immobile. «Lo capisco. Sul serio».

La guardò con occhi tristi. «Veramente? Detesto dover andare da persone come Clifford Salter, col cappello in mano. So che gli inglesi stanno già cedendo il potere, ma non è sufficiente. Vogliamo vedere il giorno in cui gli indiani governeranno da soli il loro Paese libero».

«Arriverà, Jay, è necessario che arrivi, persino io me ne rendo conto».

Jay posò il palmo della mano sulla guancia di Eliza. «Sono felice che tu capisca. Ero solito presenziare alla Camera dei Principi, sperando di poter fare la differenza; ho anche ricoperto un ruolo importante agli incontri di Delhi. Dal 1920, siamo rappresentati dalla Camera».

«Allora perché te ne sei allontanato?»

«Soprattutto perché sono rimasto deluso dalla mancanza di parità tra noi e gli inglesi. A prescindere da quello che facciamo, ci è proibito pubblicizzare le nostre riunioni e veniamo minacciati. La Camera dei Principi ha le mani legate».

Jay l’aveva invitata a rimanere solo qualche giorno e lei non voleva approfittare della sua ospitalità, perciò più tardi, mentre la luce sfumava e il cielo era ancora tutto rosato, gli chiese se per caso non fosse tempo che lei ripartisse.

Lui la guardò stupito. «Vuoi andartene?».

Eliza distolse lo sguardo, poi scosse la testa, ma le parole le rimasero impigliate in gola.

«Resta, devo dirti altre cose. Hai visto tutti gli uomini che vanno e vengono?»

«Sì, certo».

«Ho chiesto in prestito i soldi ai mercanti e ho ampliato il progetto».

Eliza rise. «E io che credevo che stessi cercando un modo per tagliare i costi».

«All’inizio era così, ma poi ho preso spunto da Bikaner, che ha intrapreso ben nove progetti di irrigazione, oltre alle linee ferroviarie e agli ospedali. Assumerò tutti gli abitanti che posso. Una parte di questi uomini inizierà domani e continuerà gli scavi. Altri lavoreranno alle sponde e poi scaveranno canali di irrigazione fino ai villaggi».

Di fronte a quell’entusiasmo incrollabile, Eliza avvertì un tale senso di speranza che si chiese se il suo cuore non stesse per scoppiare.

«Naturalmente Bikaner ha costruito il canale Ganga che porta l’acqua dal Punjab. Qui siamo troppo lontani dal Punjab, ma c’è pur sempre quel piccolo fiume non lontano dalle mie terre. Abbiamo solamente bisogno dell’autorizzazione a deviarlo».

«Hai già definito i dettagli con l’investitore di cui mi ha parlato Clifford?»

«Certamente. Credo che creeremo cinquanta nuovi insediamenti entro cinque anni, e che il lavoro non solo ripagherà il loro prestito, ma fornirà anche un reddito fisso».

Eliza era contenta, anche se non aveva ancora rivelato a Jay del cappio che le era stato tanto efficacemente preparato. «Bene», disse invece. «Mancano meno di quattro mesi alle piogge».

«Già».

«Mi chiedo come stia Indi».

«È tornata al suo villaggio».

Eliza ne fu sorpresa. «Per sempre?»

«No. Sua nonna è gravemente ammalata, perciò Indi è tornata da lei per accudirla. Il Thakur baderà a lei e comunque ci sarà sempre un posto per Indi alla reggia».

«Ma per fare cosa? Per cadere preda di un uomo come Chatur? Ha bisogno di farsi una vita, di un marito, di una famiglia tutta sua».

«Proprio tu parli di famiglia».

«Cosa vuoi dire?»

«Hai lasciato sola tua madre. L’hai detto tu stessa».

«Non potevo aiutarla. Ho tentato. Se fossi rimasta con lei, avrei rovinato anche la mia vita. È un’alcolizzata».

Jay abbassò lo sguardo per un momento, poi tornò a guardarla. «Da queste parti crediamo che sia dovere dei figli prendersi cura dei genitori».

Eliza si irrigidì. «A prescindere da tutto?».

Lui annuì. «Ti preoccupa?».

Eliza rimase in silenzio e non rispose.

Jay non aveva idea di come fosse Anna Fraser, né di come fosse vedere sua madre suicidarsi lentamente.

«Ci ho provato e ho fallito», fu tutto ciò che riuscì a dire.

Lui le porse le mani. «Non ti sto giudicando».

«A me sembra di sì». Offesa e sconvolta, si rifiutò di prendergli le mani.

«Dài, Eliza. Stavo solo dicendo che qui è diverso».

Lei girò sui tacchi e si allontanò. Un minuto dopo, lui l’aveva già raggiunta e abbracciata da dietro.

«Eliza. Eliza».

La fece girare e le posò le labbra sul collo.

Eliza fremette, sussultando al tocco della sua mano sulla spalla, senza fiato; socchiuse le labbra pronta a rispondere a un bacio che sembrava da sempre il loro destino. Poi, mentre tornavano lentamente al palazzo, mano nella mano, Eliza bandì ogni dubbio dalla propria mente. Jay le aveva ceduto le sue stanze e, quando arrivarono alla dari khana, dove il grande tappeto era coperto di cuscini, le ordinò di rimanere immobile, mentre lui la svestiva. La spogliò pian piano, baciandole le braccia, il ventre, e denudandola con estrema lentezza. Anche se Eliza provava un desiderio feroce di sdraiarsi sui cuscini assieme a lui, comprese chiaramente cosa stesse facendo.

Quando alla fine fu completamente nuda davanti a lui, Jay le baciò i seni. Poi si allontanò. «Come ti senti?»

«Folle. Insicura. Terrorizzata».

«Bene», replicò lui.

A quel punto, Eliza adagiò la schiena sul tappeto coperto di cuscini. La sera era ormai scesa e nella stanza non c’era quasi più luce. Desiderosa di vedere il suo viso, avrebbe voluto accendere la lampada. Ma ormai Jay era sopra di lei e i loro corpi si stavano cercando.

Eliza dimenticò la lampada. Lui si fermò per un istante e le sfiorò il viso esplorandolo con le dita. «Riesco ancora a vedere i tuoi begli occhi», le disse, «anche nell’oscurità».

Eliza ansimò, quando le dita di Jay scivolarono dentro di lei. E poi fecero l’amore, in un modo che lei non aveva mai ritenuto possibile: la comunione tra le loro anime era talmente forte da toglierle il respiro. Eliza provò a parlare senza riuscirci, e poi, quando tutto finì, si trovarono sdraiati sul letto, madidi di sudore, con le gambe intrecciate. Eliza aveva perso la capacità di formulare un pensiero coerente. Voleva quell’uomo, ecco tutto. Lo voleva con tutta se stessa, più di quanto avesse mai desiderato qualcosa o qualcuno, e non l’avrebbe mai lasciato andare.

«La mia bella inglese», stava dicendo lui, disegnando il profilo del suo viso. «Hai ancora dubbi?».

Eliza rise. «Vuoi davvero saperlo?»

«Vuoi che accenda la luce?»

«Non ancora», rispose Eliza. «Voglio sentire il tuo corpo accanto al mio».

Jay sembrò riflettere, poi parlò. «Sei coraggiosa, ragazza mia. Non sono certo di essere al tuo livello».

«Non essere sciocco, certo che lo sei. E io non sono affatto coraggiosa».

Prima di addormentarsi, Eliza rimase sdraiata, completamente immobile, ad ascoltare il suo respiro e il silenzio della notte nel deserto.

Quando Eliza si svegliò, Jay era ancora al suo fianco. Lo guardò, addormentato, e il suo cuore traboccò di piacere mentre lo osservava dormire. Ammirò le sue lunghe ciglia, la sua pelle liscia e brunita, non era cambiato per nulla. Ogni cosa in lui, e in lei, sembrava sempre la stessa, eppure erano entrambi diversi.

Gli carezzò la guancia, piano, non per svegliarlo, ma solo per apprezzarne la morbidezza. Gli si avvicinò e gli baciò il lobo dell’orecchio. Lui fremette. Eliza gli fece correre la punta delle dita sul collo, e poi sul petto e sul ventre. Lui gemette. La mano di Eliza scese e il sesso di lui si inturgidì, quando lo afferrò. Non l’aveva mai fatto a Oliver, ma ora lo desiderava, perciò mosse dolcemente la mano. Jay gemette ancora di più e a lei piacque la sensazione di potergli dare piacere. Forse le sedici arti femminili servivano a qualcosa, pensò Eliza con un sorriso ironico.

All’improvviso Jay la sollevò e se la mise sopra.

«Cosa mi stai facendo?», le chiese.

«Non si capisce?»

«E chi avrebbe mai detto che dietro alla signorina inglese tanto riservata, si nascondesse una donna vogliosa e impertinente?»

«E chi lo sapeva che non eri né un ufficiale né un gentiluomo!».

Le loro giornate al palazzo cambiarono da quel momento in poi. Giorno dopo giorno si dedicavano al lavoro e all’amore; consumavano i loro pasti e facevano l’amore; camminavano e facevano l’amore. A volte trascorrevano l’intera giornata ad amarsi. Lì al palazzo, il resto del mondo non esisteva più. C’erano i lavori in corso, i progetti e Jay. Eliza non aveva mai conosciuto una gioia simile. Si alzava felice e andava a dormire col sorriso. Perché nessuno le aveva mai parlato dell’esistenza di qualcosa di simile? Questo pensiero la spinse a chiedersi che tipo di relazione avessero avuto i suoi genitori. Sicuramente una volta sperimentata quella gioia, anche solo una volta, si doveva amare la vita per sempre.

Quando Eliza e Jay non parlavano dell’acqua o del passato, leggevano e si scambiavano opinioni sui libri. Jay non aveva mai letto gli scrittori russi, perciò lei gli consigliò Guerra e pace e anche Le memorie di un cacciatore di Turgenev. Lei gli confessò di adorare Thomas Hardy e Henry James, ma di non sopportare Dickens. Il poeta più amato da Jay era John Donne, che anche a lei piaceva molto, ma la poetessa preferita di Eliza era Emily Dickinson, di cui lui non aveva mai letto niente. Le chiese se avesse mai letto Tagore, e quando lei scosse la testa, Jay si offrì di prestarle un suo libro. Amavano anche i film. Parlarono di cibo e dei loro posti preferiti. A Jay piacevano le piazze di Londra. Aveva un amico che viveva a Orme Square. Eliza rise e gli disse di non avere amici tanto altolocati. Jay le comunicò che non le avrebbe raccontato nessuna delle sue avventure adolescenziali ed Eliza gli rispose che non avrebbe voluto saperne niente in ogni caso.

Jay non le disse mai di amarla, e nemmeno Eliza lo fece.

Tuttavia Eliza sapeva che la loro unione andava ben oltre l’attrazione sessuale, i libri o i film. Per la prima volta in vita sua era convinta dell’esistenza di una connessione tra le anime, che fosse possibile incontrare un’altra persona a livello spirituale. Con alcune di quelle persone si poteva parlare solo per un’ora o due; con altre si poteva restare amici per sempre. Quel pensiero le fece comprendere che l’India la stava cambiando. Prima, Eliza non aveva mai nemmeno pensato all’anima. Le relazioni per lei erano solo complicazioni, possibilmente da evitare, non un processo profondo di apertura vicendevole. Lo spazio tra loro esisteva, ma si dissolveva facilmente; era come vivere senza pareti, o confini, non sapeva dire dove finisse lui e iniziasse lei. Quanto più la loro intimità diventava profonda, tanto più in Eliza si faceva strada la consapevolezza che senza quegli occhi splendenti a guardarla, durante l’amore, la sua vita si sarebbe spezzata, come costretta a separarsi da una parte di sé.

Una sera, quando finalmente si sentì abbastanza al sicuro da permettere a Jay di accedere alla zona più oscura della sua anima, il dolore per la morte di suo padre la colse di nuovo, e qualcosa di molto simile al panico le afferrò la bocca dello stomaco. Tutti i suoi tentativi di dominarsi fallirono e seppe che l’unica cosa da fare era lasciarsi sopraffare da quella sensazione. Sarebbe sopravvissuta o ne sarebbe stata schiacciata. Il dolore aumentava a ondate, opprimendole il petto e togliendole il respiro. La sua mente annegava nel dolore, si consumava, e infine Eliza si abbandonò alle esigenze primordiali. Jay la tenne stretta mentre piangeva sconsolata. Sembrava che non avesse mai davvero pianto per suo padre, prima, e che la presenza di Jay gliel’avesse infine reso possibile.

Jay le asciugò le lacrime con le dita, la allontanò un poco e la guardò. «L’unica cosa che può guarire un simile dolore è piangere, in modo da lasciar cadere le lacrime che non possono più essere trattenute. Devi essere devastata dall’amore per riuscire a farlo».

«E noi siamo devastati?», gli chiese.

Jay sorrise. «Ancora no».

«Hai esperienza in proposito?».

Lui scosse la testa. «Ma forse lo impareremo insieme».

Quando Jay aveva bisogno di convincere gli abitanti del villaggio che la diga avrebbe portato benefici a tutti, lui ed Eliza uscivano in groppa al suo cavallo e, sebbene all’inizio la gente fosse esitante, dopo qualche visita sorrideva ogni volta che li vedevano arrivare. La grave siccità aveva comportato l’impossibilità di coltivare i campi per due anni e il bestiame era morto. Eliza non sapeva come fossero riusciti a sopravvivere, ma poi per caso sentì che Jay concedeva piccoli prestiti agli agricoltori, dunque non poté fare a meno di pensare che sarebbe stato un sovrano meraviglioso. Di certo non se ne sarebbe rimasto chiuso a casa a ingozzarsi di dolcetti turchi. Era forte, sano, e più lo conosceva, più si rendeva conto di esserne profondamente innamorata. Aveva relegato l’avvertimento di Laxmi in un angolo della mente. Finché Anish fosse rimasto in vita, non avrebbe pensato al futuro.

A volte partivano per brevi escursioni, soli, a parte uno dei fedeli servi di Jay, e si sistemavano in piccole tende, accanto al fuoco. Durante il viaggio di ritorno da una di queste escursioni, si erano accampati e Jay stava già raccogliendo la legna per il falò. Poco oltre le loro tende, c’erano alcuni alberi bassi e tozzi, con un nugolo di uccellini verdi che svolazzavano tra i rami e, lontano, le sabbie del deserto erano appena visibili. Quando Jay tornò con un fascio di legname sotto braccio, Eliza lo vide concentrarsi sull’accensione del fuoco e non riuscì a trattenere un sorriso. La sera era scesa, ma non era ancora buio, il fuoco era acceso e le fiamme danzavano sul viso di Jay mentre lei lo guardava.

«Cosa c’è?»

«Ero curiosa di sapere qualcosa di tuo padre. Mi hai detto così poco di lui».

«Era un gigante. Un riformatore, non come suo padre prima di lui, che quasi ci ha fatto perdere il regno. Mi piacerebbe essere come mio padre e, con il tuo aiuto, credo che ci riuscirò».

«Con il mio aiuto?»

«Siamo una bella squadra, non credi?».

Eliza sorrise. «Lo spero».

«Non parliamo invece del mio nonno paterno! Gli inglesi lo accusarono di malgoverno e si fece una brutta reputazione, era crudele e corrotto».

«Che aveva fatto?»

«Una delle sue mogli si era suicidata in maniera orribile, ma la verità era che l’aveva fatta uccidere lui. Se non fosse morto all’improvviso, sarebbe stato certamente deposto dagli inglesi e avremmo perso il reame. Fortunatamente mio padre era un uomo rispettabile e divenne un riformatore. Aveva militato nell’esercito inglese e sapeva colmare i divari tra le nostre culture con grazia e semplicità. Me lo ricordo, vestito di seta e broccato, e con una lunga piuma sul turbante».

«Gli assomigli?»

«Un po’. Aveva una magnifica scorta che lo seguiva ovunque andasse e, quando avevamo ospiti nobili, arrivavano su carrozze d’argento trainate da tori».

«Non era libero come te?»

«I tempi sono cambiati; tra l’altro io ho studiato in Inghilterra».

«Mi piaci di più nelle tue vesti selvagge».

«Eppure, proprio come me, mio padre amava lo sport e ha migliorato il nostro status sposando mia madre, che proviene da una grande famiglia reale. È così che si fa da queste parti, da sempre. Il matrimonio qui è un affare tra famiglie, non tra due individui. C’è in gioco l’intera reputazione della famiglia». Jay tacque e fissò il fuoco, perso nei suoi pensieri.

Aveva glissato sulla questione del fidanzamento; tuttavia, anche se non si era ancora impegnato, non significava che non l’avrebbe fatto, prima o poi.

«Posso farti una domanda?», gli chiese Eliza.

«Ti ascolto».

«Che mi dici del tuo matrimonio combinato?», riuscì a domandargli alla fine.

Lui si girò a guardarla ed Eliza gli vide una tale tristezza negli occhi che ne fu ferita.

«Tra noi è tutto nuovo. Non pensiamoci adesso».

Sebbene Eliza fosse contenta di non dover approfondire l’argomento, non riuscì tuttavia a smettere di pensarci.

«Parlami di tua madre», le chiese lui.

Eliza sospirò. «Mia madre da anni ha problemi di alcolismo. Credo che la morte di mio padre l’abbia distrutta. Era una donna orgogliosa ma debole, e non avevamo soldi. Ha dovuto vivere della carità di James Langton. Diceva che era mio zio, ma in realtà non eravamo parenti. Lo conobbe prima di sposare mio padre e poi, quando tornammo in Inghilterra, divenne il suo l’amante».

«Dev’essere stato difficile anche per te».

«Avevo solo lei. Nessun altro parente. Perlomeno, nessun parente che avesse voglia di vederci. Amavo mio padre, mentre i rapporti con mia madre sono sempre stati difficili. Mi ha spedito una lettera in cui ha scritto cose terribili su di lui, accusandolo di averci ridotto in miseria a causa del gioco d’azzardo e di aver mantenuto un’amante per anni».

«Forse c’è qualche vantaggio ad avere più di una moglie». Jay si fermò per studiare l’espressione di Eliza. «Non serve nessuna amante».

Lei sapeva che la stava prendendo in giro, più o meno, ma non poté evitare di rifilargli una rispostaccia. «Peccato che non funzioni mai anche al contrario. Nessuno si ferma mai a pensare che anche noi donne gradiremmo avere più di un marito».

Jay si appiccicò in volto un’espressione seria e rispose ostentando un tono esageratamente offeso. «Questa è una cosa profondamente sconveniente da dire, madame. Quale donna onesta vorrebbe due uomini quando ne ha già uno? Un uomo: molte donne. Questo è corretto».

Avrebbe dovuto fingersi infastidita, invece scoppiò a ridere. «Oh, smettila, idiota!».

«Stai dando dell’idiota al raja? Esiste solo una punizione per te. Vieni qui!».

«E se mi rifiuto?»

«Ti terrò legata al letto per molte lune».

«Prima devi prendermi!». Si alzò in piedi e corse nell’oscurità oltre il fuoco. Poi si nascose dietro a un cespuglio spinoso cercando di respirare piano mentre lo teneva d’occhio. Lo sentiva muoversi, ma non riusciva a vedere quasi niente. Le stelle, polvere d’argento nel cielo, erano l’unica fonte di luce. Udì lontano il lamento triste di uno sciacallo, poi sentì una puntura sulla gamba e lanciò un grido.

Non sapendo bene dove si trovasse precisamente, Jay poté soltanto correre seguendo la direzione della sua voce. «Tutto bene? Non dovresti allontanarti dal fuoco, di notte. In agguato ci sono creature di ogni genere».

«Credo di essere stata morsa, ma non mi ha fatto molto male».

«Hai gridato».

«Per la sorpresa, tutto qui».

«Ma ti ha fatto male?»

«A essere sincera è stato solo un pizzico, forse una formica?».

Jay la circondò con un braccio.

«Sicura che non fosse un serpente?»

«Non ne ho idea. Era troppo buio».

«Un morso di serpente ti farebbe male. Penso che dobbiamo fare i bagagli e tornare indietro, in ogni caso».

«È troppo buio. Veramente, sto bene. Voglio solo andare a dormire».

Si misero a dormire subito dopo ma, passata circa un’ora, Eliza si svegliò con i crampi allo stomaco. Si sedette sul letto e si ripiegò su se stessa, cercando di non svegliare Jay e ascoltando il silenzio terribile che silenzioso non era. Trascorse il resto della fredda notte del deserto rabbrividendo accanto a Jay, vicina a lui quanto bastava per non disturbarlo. Aveva la nausea e voleva muoversi ma, troppo nervosa per lasciare la tenda, rimase lì a tremare nel letto improvvisato fino alla prima pallida luce dell’alba. Quando Jay si svegliò, le diede una rapida occhiata e impallidì.

«Dimmi cosa senti».

«Mi sento male. Ho mal di pancia. Forse ho mangiato qualcosa?».

Ma lui la guardò talmente serio che Eliza si preoccupò.

«Voglio controllare di nuovo quel morso».

La notte precedente aveva cercato di trovarlo alla luce di una lampada a olio, ma non era riuscito a vedere niente ed era sembrato piuttosto sollevato.

«Davvero?».

Lei gli mostrò la caviglia.

«Non credo che sia il morso di un serpente. Ma la zona tutt’intorno si è arrossata e gonfiata».

«Cosa pensi che sia?».

Lui scosse la testa. «Non ne sono sicuro. Altri sintomi?»

«Mi fa male il petto».

«Provi dolore quando respiri?»

«Un po’».

Jay aprì un lembo della tenda e chiamò il suo servo, poi parlò a bassa voce e troppo rapidamente perché Eliza potesse capire.

«Cosa gli hai detto?», gli chiese quando tornò da lei.

«L’ho mandato a chiamare la nonna di Indi. Ci vorrà un’ora, forse due, ma nessuno è più competente di lei. Ha preso la mia moto, che è più veloce del suo cammello».

«Credi che sia grave?». Eliza cercò di sorridere, ma non ci riuscì.

Jay le prese le mani tra le sue, le strofinò per scaldarle, ma non le rispose.

«Credevo che la nonna di Indi fosse ammalata».

«Dobbiamo sperare che stia abbastanza bene per venire qui».

«E come tornerà a casa sua? Come torneremo a casa noi?»

«Non vorrei farti spostare, e di certo non a cavallo di un cammello o in moto. Non voglio che tu ti preoccupi di niente e non voglio che soffra troppo il caldo, ma è ancora molto presto, fa freddo. Dovresti bere. Riesci a bere un po’ d’acqua?».

Eliza cercò di sollevare il capo, ma ricadde indietro sul cuscino.

«Mi fa male tutto».

Jay le mise un braccio attorno alle spalle.

«Appoggiati a me e sorseggia appena».

Con l’altra mano, Jay portò la tazza d’acqua alle sue labbra.

«Ho le vertigini», si lamentò lei e scivolò indietro sul letto, eppure era come se non riuscisse a stare ferma.

«Ancora un altro po’», insistette Jay, tenendole le braccia.

Eliza sapeva che Jay era rimasto con lei tutto il tempo, tranne quando era uscito a controllare se fosse arrivata la nonna di Indi. Anche se stava tanto male, era meravigliata di poter stare con lui in quel modo. Si sentiva strana, eppure era felice.

«Non hai risposto. Credi che sia grave?».

Jay sorrise. «Non sono un dottore, ma sono sicuro che non sia grave. Perciò rilassati e riposati».

Eliza tentò di mettersi seduta. «Mi sembra che giri tutto».

«Sarà stato tutto il gin che hai bevuto ieri notte».

«Io non ho…». In quel momento, però, la stanza le andò sottosopra. A Eliza sembrava di percorrere un tunnel buio a enorme velocità, e poi sentì Jay che la sosteneva mentre cadeva in avanti.

Poi più niente.

Quando rinvenne, Jay era accanto a lei sul letto.

Inizialmente, si accorse solo del palmo della sua mano che le accarezzava dolcemente i capelli, poi sentì il suo respiro, lento e regolare.

Per un momento quasi dimenticò di essere malata, si mise a sedere e diede di stomaco sul copriletto. Lui saltò su, afferrò la coperta, la tirò via, l’arrotolò e la gettò fuori dalla tenda. Poi tirò fuori da sotto il letto la pelle di un qualche animale.

«È tutto quel che ho, finché il giorno non sarà più caldo. Come ti senti?»

«Non ne sono sicura. E se do di nuovo di stomaco?»

«Speriamo di no, ma devi bere. Non voglio che ti disidrati».

Jay le toccò la pelle sulla fronte e sulla nuca. «Stai sudando molto».

«Mi fa male la testa».

«Speriamo che arrivi presto».

«Ma cosa può fare?»

«Sa tutto quel che c’è da sapere sul deserto e su quello che può farci».

«Sarà in grado di aiutarmi?»

«Non temere. Andrà tutto bene. Ora sdraiati di nuovo».

Anche se Jay aveva cercato di calmarla, Eliza percepì la preoccupazione nei suoi occhi. Respirò e si rimise supina.

Era vagamente consapevole del trascorrere del tempo: i minuti sembravano ore, però passavano in un lampo.

Di tanto in tanto Jay le chiedeva come stesse, mentre Eliza gli domandava cosa stesse pensando. Nessuno di loro, tuttavia, diceva la verità: lui sosteneva che sarebbe andato tutto bene, ma i suoi occhi rivelavano altro; lei affermava di sentirsi meglio nonostante non fosse così. In un momento di lucidità si ricordò di non aver parlato con Jay di cosa sarebbe successo dopo le piogge. Delirava, mormorava cose sulle piogge e Jay sembrava sempre più preoccupato; di tanto in tanto usciva e girava attorno alla tenda quando non era accanto a lei. Alla fine, Eliza udì il suono del rombo di una motocicletta e delle voci che parlavano. Poco dopo, entrò l’anziana signora, aiutandosi con un bastone. La prima cosa che fece fu osservare il morso.

«Due piccoli puntini rossi», disse in modo chiaro, per farsi capire da Eliza. «Vedova nera. Un ragno».

Jay ne fu visibilmente sollevato, ed emise un lungo sospiro. «Lo immaginavo».

«Hai fatto bene a tenerla ferma. Non vogliamo che il veleno le fluisca più velocemente nel sangue».

«Quindi non posso spostarla?»

«Non oggi, ma devi tenerla al fresco. Solo i bambini e gli anziani ne muoiono».

«Ma ha avuto una reazione grave?»

«Sì, proprio come te, ragazzo mio. Quando eri molto piccolo ti ho dato un rimedio a base di erbe, che, però, non ho qui con me oggi. Non sarà piacevole per lei, ma sopravvivrà».

Jay annuì.

«Falle aria col ventaglio, mettile panni bagnati sulla pelle – dietro al collo, sul petto, sul viso – e aggiungi un po’ di sale alla sua acqua».

«Strano che sia accaduto anche a lei», commentò lui, mentre accompagnava la donna fuori dalla tenda.

«Ami questa donna?», le sentì domandare Eliza, ma non riuscì a sentire la risposta di Jay.

Pochi minuti dopo, Jay tornò da lei, sorridente.

«Allora oggi stiamo qui e, se ti sentirai meglio, ripartiremo domattina».

«E lei come sta?»

«Più magra e più fragile».

«Mi sento in colpa per averla fatta venire fin qui».

«Non preoccuparti, era lieta di venire. Ora bevi. Meglio evitare un colpo di calore».

Eliza annuì. Sentiva che la temperatura stava aumentando e sapeva che il caldo sarebbe potuto diventare soffocante.

«Mi sembra di avere un’ascia piantata nel cranio. Devo avere un aspetto orribile».

«Povera la mia inglese. L’ascia non ti giova, ma tu non potresti mai essere orribile».

«Non è questo che hai pensato di me quando mi hai vista la prima volta». Eliza non aveva la forza di ridere, ma lui sorrise. «Ora ascoltami. Prima delle piogge ti porterò a Udaipore per vedere l’arrivo dei monsoni. Pensa alla pioggia fresca che cade. Pensa al refrigerio. Ti aiuterà».

«Perché quei ragni sono chiamati vedove nere?»

«Perché sono nere e perché le femmine mangiano i mariti».

Eliza riuscì a sorridergli, stavolta, nonostante il dolore.

Due giorni dopo, tornati al palazzo di Jay, si stavano guardando negli occhi nella stanza di Eliza, senza parlare. Lei slacciò lentamente i bottoni della camicia di Jay, che chiuse gli occhi. Chi dei due dominava l’altro? Chi guidava il gioco? Chi dettava il passo? Eliza aveva creduto di volere che quel qualcuno fosse lui, eppure in qualche modo c’erano sempre più uguaglianza e parità, e la cosa le piaceva, amava sentire la sensazione di potere sulla punta delle dita.

«Sei certa di stare bene?», le chiese Jay.

Lei scoppiò a ridere.

«Cosa c’è da ridere?», esclamò Jay, aprendo gli occhi.

«Mi sento abbastanza bene».

I momenti passavano e loro penetravano sempre più l’uno nell’altra, o perlomeno a Eliza sembrava così. Le pareva di entrare in un mondo nuovo, diverso dai loro rispettivi mondi, dove non c’era spazio che per loro due. Un universo che, una volta creato, non poteva più essere cancellato, che sarebbe esistito anche quando loro se ne fossero andati. Eliza avrebbe voluto essere dentro di lui, alla ricerca di ciò che rendeva Jay tale.

Più tardi, dopo che ebbero fatto l’amore, con le gambe e le braccia aggrovigliate, Jay fece scorrere le dita lungo la spina dorsale di Eliza.

«Guardami», le disse. «Apri gli occhi».

Eliza dischiuse gli occhi, gli sorrise e prese la sua mano.

«Perché sorridi?», le chiese.

«Non so. Sono felice, credo».

Jay rise. «Adoro vederti sorridere e sentirti ridere».

«Sei tu a farmi ridere», gli fece notare lei.

«Non sono sicuro che sia una cosa positiva».

«Lo è. Moltissimo».

Jay la baciò ed Eliza lo guardò dritto negli occhi, accarezzandogli i capelli. Jay ebbe un fremito e la strinse a sé. A volte, Eliza aveva paura del futuro, ma poi, con lui vicino, non le importava più. Si girò dolcemente tra le sue braccia, con le labbra contro la sua guancia.

«Grazie», gli sussurrò.

«Di cosa?»

«Di essere te stesso, di essere qui, di…». Si fermò.

«Di…?»

«Di avermi fatto provare qualcosa che non avrei mai pensato di provare». Si allungò pigramente. «Vorrei che tutto questo potesse durare per sempre. Che potessimo rimanere per sempre così».

Jay non replicò, ma le accarezzò la parte interna della coscia.

«Anche se suppongo che prima o poi avremo fame», aggiunse Eliza.

«Io ho già fame. E tu?»

«Sì, ma non voglio muovermi. Mangiare mi sembra una cosa troppo materiale dopo tutto questo».

«Le cose materiali sono fondamentali, donna».

«Non quanto l’amore».

Jay fece una smorfia. «Mmmm. Fammi pensare. Cibo? O amore?».

Eliza gli diede un colpo tra le costole.

«Ohi», si lamentò Jay ridendo, la strinse e la abbracciò.

Eliza adorava i suoi abbracci, i suoi sorrisi, le sue risate, adorava persino quando la guardava in tralice. Esisteva qualcosa che non le piacesse di quell’uomo?

«Mi vuoi?», gli chiese, trovando all’improvviso il coraggio per chiederglielo. «Voglio dire, veramente?»

«Non è già abbastanza chiaro?».