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Gennaio 1931

Eliza si dedicò completamente all’unica cosa che sapeva fare, da quando la vita l’aveva sconvolta. Impegnata a lavorare, dimenticò le accuse di sua madre. Prima dell’alba, quando una tenue nebbia azzurra velava la città sottostante, prima ancora che le campane del tempio iniziassero a suonare, esplorò la reggia, alla ricerca di soggetti insoliti per i suoi scatti, di dettagli d’architettura, di piccoli angoli con decorazioni eleganti e dettagliate, o di forti contrasti d’ombra e luce. Erano momenti strani, sublimi, eppure inesorabilmente solitari.

Scese in città, naturalmente accompagnata, e cercò di catturare immagini di artigiani all’opera; immortalò anche un musicista intento a suonare uno strumento che sembrava ricavato da una noce di cocco.

Tornata al palazzo, trovò ad attenderla una buona notizia: Clifford le aveva fatto recapitare un messaggio in cui le spiegava che aveva mosso le sue pedine e che Jay poteva procedere con il progetto idrico. Appresa la novità, scattò foto alla servitù col cuore più leggero. Sembravano tutti ben disposti nei suoi confronti e le concubine, che avevano lunghe e luminose sciarpe rosa e arancioni sulle gonne e tuniche smeraldine, la invitarono a passare del tempo con loro. Iniziavano a fidarsi di lei e, tra una chiacchiera e una risata, le permisero di scattare le fotografie spontanee e rilassate che desiderava. Quando più tardi le sviluppò, le donne esclamarono eccitate indicandosi tra loro nelle immagini e si offrirono di iniziarla alle sedici arti femminili. Non sapendo bene di cosa si trattasse, Eliza all’inizio rifiutò, ma dato che insistevano, non ebbe scelta. La condussero in un’enorme stanza al piano terra, con le pareti e il pavimento ricoperti di piastrelle rosa pallido. Le finestre, schermate dalle grate jali attraverso le quali il sole filtrava disegnando motivi geometrici sul pavimento, sembravano più decorative che restrittive. Più luminose e meno oscure. Quando le ancelle portarono enormi bacili di acqua bollente e li versarono in un profondo ghangal di rame, una sorta di vasca, si sentì curiosa e felice.

Si sedette su una panca di legno, e le concubine le lavarono i capelli con latte di cocco e le fecero il bagno nell’acqua profumata di gelsomino. Eliza si vergognava molto per il fatto di essere completamente nuda davanti a loro, in presenza di tutti quegli occhi che la osservavano e di tutte quelle mani che toccavano la sua pelle pallida, perciò i suoi erano sorrisi imbarazzati. Le donne fecero commenti sul suo seno e sulle sue cosce, ma pian piano lei si rilassò e, quando si arrese, divenne più languida. Mentre le asciugavano i capelli e le massaggiavano il corpo con un olio profumato alla rosa, le raccontarono le loro storie. Una delle concubine le disse di essere la terza figlia femmina di una famiglia indigente, nata in una terra lontana e arida, senza fratelli maschi. «Hai delle sorelle allora?», le chiese Eliza. «Ho sempre desiderato avere una sorella».

Ma la ragazza scosse il capo e cominciò a raschiare i piedi di Eliza con qualcosa di affilato. «Le hanno prese i lupi, io invece sono stata condotta qui».

«Da bambina?»

«I miei genitori non potevano permettersi di mantenermi. A cosa serve una figlia femmina?».

Poi la ragazza spalmò sui piedi di Eliza una specie di burro, cantando dolcemente.

Un’altra fanciulla le fece notare che avrebbe dovuto indossare più gioielli, oppure l’avrebbero scambiata per una vedova. Eliza protestò, ma le consigliarono comunque di far visita al gioielliere il prima possibile e comprare ammennicoli in abbondanza. Lei rise, ma prese nota. Tutte le volte che stava con loro, le donne finivano con l’accarezzarsi fra loro, ridere e farsi scherzi che non capiva, ma in quella specie di delirio caotico si divertiva, quasi riuscisse a comprendere qualcosa di più di quella terra dalle tradizioni tanto diverse.

Una delle donne aveva preparato quello che chiamavano kaajal. Si trattava della pasta scura con cui si ornavano gli occhi, e la ragazza volle mostrarle come si applicava. Quando ebbe finito, Eliza si guardò allo specchio e rimase stupefatta dall’intensità drammatica che il cosmetico donava ai suoi occhi. Sembravano più verdi, più chiari, e, quando sorrise ammirando il risultato, la donna gliene regalò un po’, riponendolo in una scatolina d’argento, assieme al bastoncino di legno per stenderlo.

Era alla reggia da metà novembre, e aveva trascorso un Natale tranquillo a casa di Dottie. Adesso che la notte faceva più freddo, aveva chiesto un paio di coperte supplementari. Le avevano dato un razai, una trapunta imbottita di cotone che odorava di muschio e doveva aiutare a mantenere il calore del corpo. Inoltre, come tutti gli abitanti della reggia, Eliza aveva preso ad avvolgersi in un ampio scialle di cachemire già dalla mattina presto, e se lo toglieva solamente quando la giornata si faceva più calda. Credeva ancora di essere seguita, sebbene non vedesse mai nessuno ogni volta che si fermava a guardare. Il palazzo sembrava avvolto nel mistero. A volte le pareva che stesse per accadere qualcosa di terribile e la brutta sensazione di essere sotto osservazione la rendeva tesa e nervosa. Altre volte sentiva suoni provenire da chissà dove.

Era sorpresa di quanto le mancasse Jay, avrebbe voluto che fossero suoi i passi che sentiva nel corridoio, e non riusciva a liberarsi dalla sensazione che qualcosa non andasse per il verso giusto.

Una mattina presto sentì bussare alla sua porta, e quando aprì, un’ancella le fece cenno di seguirla. Inizialmente Eliza non si preoccupò, ma mentre si addentravano nelle viscere dell’edificio, le venne la pelle d’oca per la tensione. In un luogo tanto vasto, era difficile mantenere la giusta prospettiva; non solo questi corridoi sotterranei erano freddi, senza finestre, illuminati solo dalle lampade a olio, ma c’era qualcosa di veramente strano in essi.

L’ancella si fermò davanti a una porta di legno scuro, e con grande sorpresa di Eliza, fu il dewan, Chatur, ad aprirla e a farle cenno di entrare. Lei esitò, si girò per guardare la serva, ma le guardie improvvisamente apparvero dall’oscurità del corridoio e le impedirono la visuale. Non le piaceva, non si fidava di Chatur. Tutto in lui, dal portamento altezzoso alle labbra arricciate, esprimeva esplicito disprezzo.

Quando Eliza entrò nella stanza buia e soffocante, il sorriso dell’uomo era intimidatorio e privo di calore. «Questo progetto del catalogo fotografico significa molto per lei?», le chiese.

«Sì», replicò lei con il tono di voce più dignitoso che le riuscì.

«Peccato». Ecco un altro di quei sorrisi che non arrivavano mai agli occhi e le davano l’impressione di essere schernita. «Forse sa già che una vedova è considerata una donna colpevole. Riteniamo che sia disonorevole per una donna sopravvivere al proprio marito».

Giocava al gatto e al topo, e lei deglutì nervosamente. «Un’usanza assolutamente ridicola, a mia opinione».

Lui ignorò il commento. «Mi è stato fatto notare che lei è vedova, signora Cavendish. Questo tipo di notizie si diffondono presto, nel nostro piccolo mondo chiuso».

Il cuore di Eliza iniziò a galoppare, ma quando lei aprì la bocca per replicare, Chatur la interruppe.

«Come io lo sappia, non è affar suo».

«Non sono d’accordo».

«Be’, può darsi, ma il risultato è che una donna come lei non può assolutamente essere libera di muoversi qui dentro. Noi crediamo che il contatto con una vedova possa essere estremamente infausto e ben poche persone vorranno stare in sua compagnia. A tal fine io, o uno dei miei uomini, la accompagneremo sempre e supervisioneremo tutte le fotografie che intende scattare, compreso lo scrutinio delle lastre. Tutto ciò che io riterrò indecoroso verrà distrutto. È chiaro?».

Indignata, Eliza alzò la testa impettita. «Perfettamente chiaro, anche se credo che il governatore britannico possa avere qualcosa da ridire».

«Credo che il signor Salter in questo momento sia a Calcutta e starà via per qualche settimana».

«Be’, allora il principe Jay…».

«Non si faccia trarre in inganno. Il principe non ha alcun potere e farà ciò che dico io. È un ordine del maharajah».

«È stato lei a riferire al maharajah che sono vedova».

«Conosco i miei doveri. Noi qui crediamo nei doveri, e il primo dovere di una moglie è quello di tenere in vita suo marito». E fece una risatina. «È stato un gioco da ragazzi convincerlo».

Eliza si girò per andarsene, ma poi si voltò, perché era stanca di chiedersi se fosse tutto frutto della sua immaginazione, e gli chiese: «Perché mi fa seguire?».

Chatur sorrise. «Se lo sta immaginando. Nessuno l’ha seguita, ma, se anche fosse, non sarebbe meglio per lei lasciare ora la reggia, prima che, diciamo, possa accadere qualcosa di peggio? A lei, o a qualcun altro? Questi palazzi possono essere luoghi pericolosi».

Eliza replicò a tono a quella minaccia. «E perché mai dovrebbe accadere qualcosa?»

«È solo un modo di dire, signorina Fraser. Ma ha visto anche lei cos’è accaduto alla partita di polo». Chatur aprì le mani, con uno sguardo fintamente desolato, e scrollò le spalle.

E questo le diede la certezza che dietro la caduta di Jay ci fosse Chatur, quindi si sarebbe dovuta preoccupare non soltanto per se stessa, ma anche per Jayant. Benché avesse accusato il colpo, non poteva dare a Chatur il piacere di notare quanto fosse in apprensione, perciò fece del suo meglio per nascondere la paura. La minaccia velata era crudele, e i suoi movimenti sarebbero stati estremamente limitati, da quel momento in poi. Le cose non sarebbero potute andar peggio.

Avrebbe voluto che Jayant tornasse a casa e, adesso che Chatur era a conoscenza della verità, anche Laxmi doveva sapere tutto. Furiosa, nascondendo il suo stato d’animo, lottò per celare il dolore. Cosa avrebbe detto Laxmi? E lei, con Chatur sempre alle calcagna, quanto sarebbe stata al sicuro a palazzo? Con gli occhi lucidi e le mani sudate, disse a se stessa di non essere sciocca. Non le sarebbe accaduto niente di brutto. Quell’uomo, in fin dei conti, non era solamente un prepotente?