19.
Nel buio, frustato dal a nera pioggia, Endriade a tutta voce chiama.
«Laura, Laura!»
Qualcuno, o qualcosa, gli risponde. E' una specie di rantolo, ch'esce a fiotti da ignoti pertugi tutt'intorno.
Ondeggia, sale, diventa urlo, scivola, si dissolve in gemito, tace, riprende filiforme, esplode, gorgoglia, tossisce, mugola, tace ancora, poi un getto martel ante, secco, qualcosa che fa pensare a una risata. Tace, riaffiora estenuato in un lungo periodare di lamenti.
«Manunta, lei capisce?
«Sì.»
«Che dice?»
«Dice che... dice che...»
«Che cosa dice?»
«Dice che vuol essere di carne. E non di pietra.»
«Laura?»
«Sì, Laura. Dice che oggi ha visto una donna, e l'ha sentita.»
«Come sentita?»
«Non so. Era la signora Strobele che faceva il bagno. Era nuda. E Laura, qui, l'ha vista.»
«E poi?»
«E poi parla del a carne. Dice che è dolce, soffice, più morbida del e piume degli uccel i.»
«Siete dei pazzi», fa Elisa Ismani. «Non lo potevate immaginare?»
La voce di Endriade si leva tempestosa:
«Laura, Laura. Tu sei più bel a. Quel a carne che dici sarà marcita e tu sarai ancora giovane.»
Gli risponde un suono mai udito. Lungo, simile a un urlo, con un tremito profondo.
«Dio, Dio», invoca Endriade. «Adesso piange!» E' infatti una cosa terribile a udirsi. Simile in tutto al dolore di noi uomini ma ingigantito in proporzione al a potenza mentale del a macchina.
«Saprò resistere?», si domanda Elisa Ismani.
Endriade sì, resiste.
«Laura», grida, «quietati. Domani il sole tornerà. Gli uccel ini canteranno di nuovo. Verranno a tenerti compagnia. Tu sei bel a, Laura. Sei la donna più perfetta e adorabile che sia mai esistita.» Un ululo prorompe, quasi beffardo, che si scioglie in brandel i.
«Che cosa dice?», chiede Elisa.
«»Uccel ini maledetti»», tradusse Manunta.
La voce del Numero Uno fa due tre bizzarri svolazzi, come un cigolio arpeggiante. Poi si muta in un fitto ticchettio in sordina. A questo punto, per un fenomeno inesplicabile, Elisa comincia a capire. Gli inarticolati suoni diventano anche per lei pensiero espresso. Con una intensità e una precisione ignota al a parola umana. «Laura, Laura», tenta Endriade, «gli uomini di tutto il mondo verranno ad ammirarti. Tutti parleranno di te. Sarai l'essere più potente del a terra. A milioni saranno intorno ad adorarti. La gloria, la gloria, capisci?»
Risponde un ondeggiamento lamentoso.
«Dice: «Maledetta la gloria»», traduce a bassa voce Manunta.
«Sì sì», fa Elisa, «adesso capisco anch'io.»
L'evidenza plastica del e emissioni è tale che non le frasi, perché frasi non sono, ma le idee si presentano nel buio come dei blocchi di cristal o.
Elisa ascolta inorridita. Ciò che Endriade temeva, e che sembrava pazzesca fantasia, si sta avverando. La identificazione del a macchina per Laura è stata portata troppo in là. Evocati da chissà quali abissi, i ricordi di colei che è morta, si sono insinuati nel 'automa? E le rivelano l'infelicità?
«Portami via», invoca la informe voce, «la città, la città, perché non la vedo? Dov'è la mia casa? Muovermi, perché non posso muovermi ? Perché non posso toccarmi? Dove sono le mie mani? Dov'è la mia bocca?
Aiuto, chi mi ha inchiodato qui? Dormivo, così quieta. Chi mi ha svegliato? Perché mi avete svegliato?
Ho freddo. Dove sono le mie pel icce? Ne avevo tre. Quel a di castoro, datemi almeno quel a di castoro.
Rispondete. Liberatemi.»
Questo a Elisa pare di capire. E Manunta non fiata. Ogni tanto lampeggia ancora a settentrione e al ora si vede Endriade, figura fantomatica, che si sporge sul 'abisso.
«Laura, Laura, domani farò quel o che vuoi. Adesso calmati, tesoro, è tardi, cerca di dormire.»
Ma la voce del 'automa non dà pace:
«Le gambe. Le gambe mie dove sono? Erano bel e. Gli uomini, per la strada, si voltavano a guardarle. Io non capisco più, io non sono più la stessa. Cosa è successo? Mi hanno legata. Mi hanno imprigionata. Il sangue. Come mai non sento battere il sangue nel e vene? Morta? Sono morta? Ho nel a testa tante cose, tanti numeri, un'infinità di spaventosi numeri, toglietemi questi orrendi numeri dal a testa che mi fanno impazzire! La testa. Dove sono i miei capel i? Lasciate almeno che possa muovere le labbra. In fotografia le mie labbra riuscivano così bene. Labbra voluttuose, avevo. Me lo dicevano tutti. Oh quel a schifosa donna che mi si è appoggiata addosso stamattina. Aveva due bei seni, però. Quasi bel i come i miei. I miei? Ah il corpo, io non me lo sento più. Mi par di essere di pietra, lunga e dura, mi hanno messo una camicia di ferro, oh lasciatemi tornare a casa!» «Laura, ti supplico», geme Endriade, «cerca di dormire! Quietati! Non lamentarti più così.»
Manunta si chinò verso Elisa Ismani: «E' una pazzia, non si può andare avanti così. Io vado a disinnescare la corrente». «Si può fermare?»
«Fermare completamente no. Ma ridurre l'erogazione d'energia. Per lo meno si calmerà, quel a disgraziata.»