10.
Solo verso mezzanotte Ermanno ed Elisa Ismani, stanchi, presero commiato dagli Strobele e, sotto l'acquazzone, raggiunsero la vil etta dove avrebbero abitato. Li accompagnarono a piedi gli Endriade che abitavano ancora più in là. La Giustina era già andata a dormire, ma trovarono tutto preparato.
Nonostante lo strapazzo del viaggio, Ismani non aveva sonno. A eccitarlo erano forse la stranezza del posto, la gente nuova, l'impazienza di sapere, l'aria rarefatta del a montagna. Ma invece di sentirsi contrariato e nervoso, si trovava in una vivace e lieta disposizione di spirito, cosa in lui piuttosto rara.
Aveva voglia di camminare, di scherzare, di ridere.
«Ma anche tu, Elisa, mi sembri al egra, stasera.»
«E' un fatto. Sarà l'altitudine. Mi sento quasi una ragazzina.» La vil a, arredata in stile rustico, era accogliente e pulitissima. Si sarebbe detto quasi che prima di loro nessuno fosse venuto ad abitarci. Per quanto curiosasse intorno, Ismani non trovò un oggetto, un segno che potesse riferirsi al a permanenza di Aloisi.
Perfino i libri che riempivano uno scaffale non denotavano una personalità. C'erano testi scientifici in varie lingue, relativi soprattutto al 'elettrofisica, ma sembravano capitati là per caso, mescolati com'erano a libri gial i, a romanzi d'amore, a opere storiche e biografiche, c'era perfino un manuale di cucina. Certo quel a non pareva la biblioteca di un genio.
In quanto al e cose più personali di Aloisi, tutto era stato portato via: non un soprammobile, una fotografia, una scatola di sigarette, un foglio di carta, uno spil o che potesse ricordare lo scomparso. Salito infine in camera da letto, Ismani, che al buio completo non riusciva a dormire, per prima cosa andò a control are le finestre. Le imposte, come aveva previsto, erano ermeticamente sprangate. Ne aprì una.
Rimase stupefatto. Nel giro di pochi minuti, sfogatosi il temporale, il cielo si era completamente aperto e ora una limpidissima luna il uminava il mondo.
«Vieni a vedere, Elisa!»
Restarono immobili a guardare. Dinanzi a loro, risplendente di quel a magica luce, si stendeva l'altipiano: una prateria tutta a dossi e val oncel i con qualche nera macchia d'abeti. Ma, a una distanza di cinquecento metri circa, biancheggiava fra gli alberi una costruzione bassa e irregolare, a rientranze e sporgenze, che da lontano non si capiva se fosse un semplice muro di cinta oppure un vero e proprio edificio.
«Eccolo là il grande mistero», disse Elisa, «non mi sembra gran che impressionante.»
«Andiamo a vedere?»
«A quest'ora?»
«Ma non vedi che stupenda notte?»
«L'erba sarà ancora tutta bagnata. Con quel e scarpe ti prenderai un raffreddore, garantito.»
«Invece, se vuoi sapere, tengono l'acqua benissimo.»
«Be', mettiti almeno il soprabito.»
Uscirono nel a favolosa luce. Lavata l'aria dal a tempesta, anche le cose lontane diventavano nitidissime.
Avanzando essi al 'aperto, l'orizzonte si al argava. Di là dei vasti prati apparve una barriera di foreste, e dietro ancora una giogaia candida di rupi. Tutto era quieto, silenzioso, bel issimo e pieno di mistero. Si avvicinarono al a bianca costruzione. Da quanto era possibile capire sembrava una lunga casamatta, che seguiva gli scoscendimenti e del a quale non si scorgeva il termine. Ne derivava un complesso di piatti edifici apparentemente quasi uguali ma disposti uno più in alto e uno più in basso, a seconda del a pendenza del terreno, con effetto pittoresco. Fra l'uno e l'altro - a quanto si poteva intravedere nel a luce del a luna sempre vaga ed elusiva anche se intensa - non c'erano però varchi di sorta. Essi formavano insomma una barriera ininterrotta, simile a certe antiche fortificazioni militari. Giunti ai piedi del muro, in quel punto il uminato in pieno dal a luna, guardarono in su. Sarà stato alto sette-otto metri, liscio e uniforme, senza una finestra, un balcone, un lucernario. Non si trattava dunque di abitazioni e neppure di luoghi dove potesse verosimilmente lavorare l'uomo. Bensì di involucri lunari contenenti cose inanimate come per esempio macchine, che non abbisognavano d'aria e di luce; oppure, appunto, di uno speciale fortilizio. Ma la ridotta, o lunga casamatta, o serie di padiglioni o come diavolo si poteva chiamare, non aveva la fisionomia atona e morta che può avere, per esempio, una cabina di trasformazione e neppure l'ermetica apatia che è propria del e tombe (così chiuse e concentrate in se stesse, indifferenti al a vita intorno).
Ermanno ed Elisa Ismani, dopo un poco, notarono che nel muro si aprivano, qua e là, vari orifizi sfuggiti a un primo esame: rotondi, quadrati o a sottile feritoia, riparati da sottili reticel e. Alcuni d'essi, più rari, di forma circolare, erano muniti di cristal i convessi, sporgenti, simili a lenti, paragonabili a pupil e; e vi scintil ava il riflesso del a luna.
Ora che guardavano meglio, si accorsero pure che oltre il ciglio superiore del muro sporgeva una nera selva di piccole antenne, schermi a filigrana, reti concave come quel e del radar, tubi sottili anche, con in cima una sorta di berretto che li faceva somigliare a dei minuscoli comignoli, e perfino dei curiosi ciuffi che ricordavano i piumini per la polvere. Erano opache, di colore azzurro e perciò a una prima occhiata, soprattutto di notte, non era facile distinguerle. Immobili, guardavano, nel grande silenzio del a notte. Ma silenzio non era.
«Senti?», domandò Ermanno Ismani.
«Sì, sì, mi pareva.»
Di là del bianco muro, infatti, ad ascoltare attentamente, veniva una specie di brusio, vasto e profondo eppure appena percettibile, simile al 'impalpabile rumore che fanno le formiche quando si rompe la cupola del a loro casa e gli insetti sgorgano dal e crepe a centinaia correndo sul e macerie come pazzi. Un ticchettio lievissimo, nel a cui flebile trama si distinguevano di quando in quando piccoli suoni irregolari, frusci lontani, scatti, gorgogliare sommesso di liquidi, ritmici sospiri, così lievi ch'era quasi impossibile dire se fossero veri o invece non provenissero dal sangue che talora rimbomba nel e tempie. Una specie di vita ferveva dunque nel chiuso del a segreta rocca, apparentemente addormentata. Del resto, tutte quel e piccole e multiformi antenne emergenti dal ciglio non erano perfettamente ferme. Osservandole a lungo si notavano minime oscillazioni, pareva, un travaglio senza posa.
«Che roba è?», chiese a bassa voce Elisa Ismani. Il marito le fece cenno di tacere. Gli era parso che ai piedi del muro, a una cinquantina di metri, qualcosa si muovesse. E al ora, richiamata da una oscura associazione di idee, gli riecheggiò al a memoria la grottesca minaccia pronunciata da Endriade: «Diventiamo i padroni del mondo».
In quel momento preciso vide Endriade. Dal sovrastante pendio erboso lo scienziato scendeva a lenti passi, come assorto, rasente al muro di cinta, parlando ad alta voce, apparentemente con se stesso. Infatti, accanto a lui, non si vedeva anima viva. Con in testa un cappel o a larghe tese, il uminato in pieno dal a luna, era goffo e romantico. Tale la pace meravigliosa del a notte che, nonostante la distanza e quel vago brusio, gli Ismani udirono qualche sua parola. «Si può, si può», diceva Endriade. «Ma non è questo che ci deve...» Poi videro una cosa strana. Endriade si fermò, rivolto al muro e per un istante Ismani pensò che volesse fare la pipì. Invece continuò a parlare, toccando il muro stesso lievemente con una specie di grosso bastone; sembrava un padre che catechizzasse il figlio. Qualche parola si percepiva, ma abbastanza per afferrare il senso. Tre quattro volte ripeté: «Non capisco, non capisco».
A Ismani parve sconveniente stare là a osservarlo ed ascoltarlo senza che lui sapesse. Per rivelare la sua presenza tossicchiò. Come se l'avesse colto una frustata, Endriade fece uno scarto, e annaspando si ritrasse in una concavità del a parete. «Chi è là? Chi è là?», gridava con voce di spavento. E, tenendosi riparato dal o spigolo, puntava contro Ismani quel suo grosso bastone: che al a luce del a luna luccicò, e Ismani si accorse che era un fucile. «Ma, professore, sono io, Ismani... Ero uscito con mia moglie a fare quattro passi...»
La canna del mitra si abbassò. Endriade venne incontro. Era ispido e molto imbarazzato. Cercò, ingenuamente, di dare qualche spiegazione. «Io faccio un giro, sapete, tutte le sere prima di coricarmi faccio un giro di ispezione. Eh eh», ridacchiò, «armato, si capisce, questo bel coso me l'ha procurato il maggiore Mirti. E' americano. D'alta precisione.»
«E mai cattivi incontri?»
«Grazie a Dio finora no. Io giro, guardo, penso... parlo...», fece una pausa come se stesse saggiando il terreno su cui procedere, «parlo... faccio progetti. Ma voi, però, mi avete fatto una bel a paura, voi...», e rise.
Poi fece cenno al a casamatta.
«Di questo poi, eh eh, parleremo domani. Vi farò entrare, vedrete come è fatto dentro. Meglio di giorno. La notte... oh la notte qui fra le montagne non è raccomandabile...»
«Per il freddo?», fece Ismani.
«Per il freddo e tante altre cose...»
Endriade li accompagnò fino al a vil etta. Fermi sul a soglia, gli Ismani lo videro al ontanarsi per il prato, figura un po' grottesca e straordinariamente viva.
«Ermanno», disse la moglie, «con chi parlava quel o là?»
«Ma con nessuno. Parlava da solo. C'è tanta gente che parla da sola.»
«C'era qualcuno. Giurerei che c'era qualcuno.»
«Lo avremmo visto se ci fosse stato.»
«Io so che qualcuno c'era. L'ho sentito parlare.»
«Parlare? Io non ho sentito niente.»
«Una voce un po' strana, questo sì. Probabilmente tu non ci hai badato.»
«Hai sognato, cara la mia Elisa.»