Capitolo due

I virus sono «cattivi»?

La virologia è un campo immenso. Sono la specie biologica (non ho detto «vivente») di gran lunga più diffusa sulla Terra. Si stima che solo l’un per mille delle specie virali esistenti sia stato censito. In una goccia di acqua di mare ci sono milioni virus. I virus sono ovunque e non risparmiano alcun organismo. Anche noi ne siamo pieni, sebbene nella maggior parte dei casi i virus siano residenti, ma innocui. Ce ne sono perfino dentro i batteri che colonizzano il nostro corpo.

Come abbiamo visto nel capitolo precedente, il virus è un parassita e ha bisogno di un ospite per proliferare. La domanda che ci si pone è: ma se la maggior parte delle forme virali fa i propri comodi, approfittando delle cellule per riprodursi e diffondersi, perché alcuni virus invece uccidono gli organismi che invadono? La risposta potrebbe essere quella della favola della rana e dello scorpione.

Lo scorpione è sulla riva di un fiume che deve attraversare. Non sapendo nuotare e non vedendo nulla che potrebbe servirgli per traghettarlo all’altra sponda, si rivolge alla rana che si teneva alla dovuta distanza, ben conoscendo le inclinazioni pericolose dello scorpione, e le dice: «Mi porteresti sulla tua groppa dall’altra parte del fiume?» La rana risponde: «Fossi matta, appena mi avvicino, tu mi pungi. So bene come ti sei comportato in passato con gli animali che ti hanno fatto avvicinare». E lo scorpione: «Facciamo così. Tu vai nell’acqua, a una certa distanza dalla riva, e io faccio un salto e ti monto sul dorso. Quando arriviamo in prossimità della sponda, ti fermi prima di approdare e io salto di nuovo sulla terraferma. In questo modo, non ti potrò pungere. Se lo facessi quando siamo in acqua, morirei con te, perché non galleggio, né so nuotare». La rana riflette a lungo, ma non vede quale possa mai essere l’insidia nella proposta dello scorpione e, sebbene con riluttanza, decide di aiutarlo. Entra in acqua, si allontana in modo che lo scorpione sia costretto a saltare per raggiungerla e, quando lo sente saldo in groppa, comincia a nuotare, prima contratta dal timore, poi via via sempre più sciolta. Ma arrivati a metà del fiume lo scorpione la punge. La rana, ancora più incredula che addolorata, gli chiede: «Perché lo hai fatto? Io morirò, ma morirai anche tu con me». E lo scorpione, con le sue ultime parole, le risponde: «Lo so, mi dispiace tanto, ma non ho saputo resistere. È la mia natura...»

È questo il motivo per cui alcuni virus uccidono l’ospite? Perché la loro natura è riprodursi il più possibile, a ogni costo, anche a quello di tirare il collo alla gallina dalle uova d’oro, sperando che qualche copia riesca a infettare un altro organismo prima della morte dell’ospite, o magari anche dopo?

Attribuire una inclinazione naturale al virus può essere fuorviante. Il virus è un pacchetto di materiale genetico racchiuso in una scatola di proteine. Il pacchetto incartato sotto l’albero di Natale può mai avere una sua predisposizione naturale, fosse anche solo di tipo istintivo? Certamente no, ma i regali di Natale non sono sottoposti alle ferree regole dell’evoluzione darwiniana, mentre i virus sì. Hanno voluto partecipare al Grande Circo della Vita, sebbene forse non ne avessero il pieno titolo? E allora neanche loro possono essere esentati dal pagare il dazio. Tutti i comportamenti adattativi che favoriscono l’affermazione di una specie sono premiati. Tutti i comportamenti che confliggono, o anche solo ostacolano, l’adeguamento all’ambiente e la diffusione dei geni vengono sanzionati senza misericordia, cioè la sentenza inappellabile è l’estinzione.

E allora, i virus che si comportano come lo scorpione con la rana da cui dipende la sua sopravvivenza, come si giustificano?

Non c’è una teoria universalmente accreditata e riconosciuta. Forse la risposta è che non è il virus a decidere di comportarsi così, ma è la biochimica che lo governa a scatenare dei processi incontrollati. Come il materiale radioattivo in un reattore nucleare: finché è tenuto a cuccia da sistemi di controllo, lavora disciplinatamente come il pio bove, producendo calore ma, quando viene lasciato in balìa di se stesso, comincia a fare il pandemonio fino a diventare Chernobyl. Alcuni virus, che agiscono senza contrasto efficace da parte del sistema immunitario, perché l’organismo non li conosce e gli occorre tempo per identificarli e produrre gli anticorpi specifici, innescano una «reazione a catena biochimica». La reazione progredisce inarrestabile, finché la cellula infettata non esplode e, in ultimo, l’intero organismo ospite muore.

Apro una parentesi a proposito della risposta immunitaria. Per fronteggiare un virus, come d’altronde per i microrganismi patogeni, l’organismo ha varie linee di difesa. La prima è nel sistema respiratorio stesso. Quando inspiriamo l’aria, questa contiene particelle di polvere e germi. Questo materiale solido incontra sulla superficie delle vie respiratorie delle secrezioni appiccicose, che funzionano come carta moschicida. Le particelle vengono quindi inglobate in questo fluido viscoso e, grazie a speciali cellule dotate di appendici mobili che si muovono di concerto formando una specie di nastro trasportatore, sono trasferite nello stomaco. Lì vengono distrutte dai succhi gastrici. Possiamo immaginare questa prima linea di difesa come un fossato con dei trabocchetti che il nemico deve superare.

La seconda linea di difesa è rappresentata dal sistema immunitario innato. Tale sistema attacca ogni invasore in maniera indiscriminata e quindi è definito «aspecifico». È come un lancio di granate di sbarramento dei difensori contro gli invasori (germi) che hanno superato il fossato. Le granate non sono però precise. Mietono vittime, ma non riescono necessariamente a eliminare gli avversari. Allora entrano in gioco i cecchini, la terza linea di difesa, che sono cellule specializzate in grado di identificare il tipo di invasore con cui hanno a che fare. I cecchini producono dei droni chiamati anticorpi, capaci di riconoscere e agganciarsi agli avversari. I droni servono sia a disattivare le armi degli avversari a cui si agganciano, sia a segnalare la loro presenza ai cecchini, che li possono quindi colpire.

Anche quando il virus è debellato, gli anticorpi restano per un certo tempo (a volte per tutta la vita) in circolazione nell’organismo, per intervenire ed eliminare prontamente quello stesso germe, se si dovesse ripresentare.

Può accadere che l’invasore riesca a eludere tutte le difese dell’organismo e a proliferare fino a distruggerne le strutture vitali. A qual punto dovrebbe soccombere anche il virus. A ogni modo, prima che la catastrofe avvenga, il virus può aver avuto modo di trasferirsi in un nuovo ospite, sottraendosi alla sorte dello scorpione. Come Galactus, nell’universo Marvel, che vaga di galassia in galassia prosciugando le risorse vitali dei mondi, alla costante ricerca di nuovi pianeti da spolpare, nel vano tentativo di saziare una fame inestinguibile.

Il virus che distrugge la sua incubatrice compie perciò sì un errore, ma spesso non fatale ed è questo il motivo per cui è stato prosciolto dal tribunale della selezione darwiniana.

La maggior parte dei virus che ci colonizzano però sono innocui, solo in casi estremi o in circostanze particolari diventano aggressivi o patogeni. La malattia virale è l’eccezione, non la regola.

L’impero romano d’Occidente è caduto per una serie di cause concomitanti, su cui gli storici ancora dibattono. Una universalmente riconosciuta è rappresentata dalle invasioni barbariche. Ma i cosiddetti barbari, cioè quelli che parlavano male latino perché non era la loro madrelingua e quindi sembravano «balbettare», erano sempre stati all’interno dell’impero. O perché ne erano entrati a far parte a seguito delle conquiste, come i Galli con Cesare, o i Daci con Traiano, o perché chiedevano asilo all’interno dei confini imperiali. La dinamica della presenza «barbarica» all’interno dell’impero ha alcune somiglianze con quella della presenza virale all’interno del corpo umano. I barbari che si stanziavano pacificamente, dopo un eventuale periodo di adattamento, erano assimilati e non comportavano pericoli per la salute della società romana. Altri popoli barbari, invece, misero a repentaglio l’incolumità dello Stato, come i Cimbri e i Teutoni, prima delle campagne militari di Caio Mario. Altri ancora, infine, come gli Unni e i Goti, portarono al completo collasso della struttura imperiale. Certo, bisogna considerare che l’impero era un corpo già debilitato, ma è proprio in questi casi che le invasioni, anche virali, sono più disastrose.