109 GIORNI PRIMA DI NATALE

Mattina

Dev’essere il supermarket con la vista più bella di tutta la Gran Bretagna. Il nuovo Sainsbury’s, affacciato su Mount’s Bay. Alla mia destra, si apre l’affollata Penzance, con la sua torre campanaria e il porticciolo strapieno di barche. Alla mia sinistra, la costa che digrada dolcemente, scomparendo verso il Lizard. E di fronte a me si erge l’isola tidale di St Michael’s Mount, circondata da ampie e luccicanti distese di sabbia e coronata dal suo castello medievale, un po’ comico ma sempre romantico.

Al primo piano c’è una caffetteria affacciata direttamente sulla baia. Quando vengo qui, ordino sempre un cappuccino con latte scremato, quindi supero i pensionati con la dentiera che sbocconcellano le loro paste e vado a sedermi fuori, ai tavolini di metallo, anche quando fa freddo, come oggi. Freddo ma soleggiato, con le nuvole che si addensano in lontananza verso ovest, come un pettegolezzo.

Stamattina lascio raffreddare il caffè sul tavolino perché non faccio che parlare al telefono. All’altro capo c’è David. Che mi ascolta, pazientemente. Mi sto sforzando di non alzare la voce. Di non farmi notare dai pensionati. “Oooh, guardatela un po’, è la donna che ha sposato David Kerthen...”

«Allora, te lo chiedo di nuovo: si può sapere perché non me l’hai detto? Del corpo?»

«Ne abbiamo già parlato.»

«Lo so, ma fai conto che io sia un’idiota. Ho bisogno di sentirmelo ripetere parecchie volte per capire. Dimmelo ancora in poche parole, David. Perché?» So che è difficile per lui, ma lo è sicuramente di più per me.

Mi risponde. «Come ti ho già detto, perché non è il genere di argomento che prediligo durante gli incontri romantici, va bene? “Oh, cara, mia moglie è morta, ma il suo corpo è intrappolato dentro una miniera, ti va un altro drink?”»

Resto in silenzio.

Forse David non ha tutti i torti, ma non posso fare a meno di sentirmi ancora arrabbiata. O forse indispettita. Ormai questa immagine mentale mi è entrata in testa, e non riesco più a liberarmene. L’idea raccapricciante di un corpo conservato nell’acqua gelida della miniera. Bocca e occhi spalancati, sospeso nella trasparenza priva di luce, intento a fissare il silenzio dei corridoi allagati, sotto le rocce di Morvellan.

David non ha nessuna voglia di parlare. Riesco a percepire la sua impazienza trattenuta, insieme al suo urgente bisogno di calmarmi. È un marito, certo, ma è anche pieno di impegni e non vede l’ora di tornare al lavoro. Ma io ho ancora delle domande da porgli.

«Avevi paura che non mi sarei più voluta trasferire qui, a Carnhallow, se avessi saputo che non l’avevano trovata?»

Una pausa di silenzio. «No, no davvero.»

«No davvero?»

«Be’, forse un po’, magari avevo una leggera riluttanza. È una cosa su cui non mi piace rimuginare. Non voglio pensarci più, voglio che noi siamo noi e basta. Io ti amo, Rachel, e spero e credo che anche tu mi ami. Non volevo che le tragedie del passato influissero sul nostro futuro.»

Per la prima volta stamattina, sento una punta di comprensione per lui. Forse sto esagerando un po’. In fin dei conti, ha perso una moglie e ha un figlio ancora in lutto. Cos’avrei fatto io al posto suo?

«Per certi versi ti capisco», gli dico. «E ti amo, David, lo sai che ti amo, ne sono certa. Ma...»

«Senti, resta in linea, tesoro, scusa tanto ma a questa telefonata devo assolutamente rispondere.»

Proprio quando sto cominciando ad accettare tutta questa situazione, l’agitazione riprende il sopravvento. David mi ha messo in attesa. Per la seconda volta stamattina.

Ho cercato di chiamarlo ieri sera, dopo aver scoperto la verità su Nina, ma la sua segretaria mi ha risposto pazientemente che era impegnato in qualche riunione fiume e ovviamente superimportante, almeno fino alle dieci di sera. Poi si è limitato a spegnere il cellulare senza degnarsi di rispondere alla mia sfilza di messaggi. Ogni tanto quando è stanco lo fa. E normalmente non me la prendo: guadagnerà bene, ma il suo orario di lavoro è una follia.

Invece ieri sera ci sono restata male, molto male. Tremavo di rabbia quando gli ho lasciato un messaggio in segreteria. «Rispondi. Al. Telefono.» Stamattina finalmente si è degnato di richiamarmi, e sta cercando di calmarmi da allora, come il direttore di un negozio con un cliente infuriato.

Mentre aspetto che torni in linea, osservo il panorama. Oggi sembra meno invitante.

Mio marito riprende la telefonata. «Ehi, scusa, è quel dannato tizio della Standard Chartered, hanno non so quale problema e non mi lasciava andare.»

«Grande, mi fa piacere che tu abbia gente più importante con cui parlare. E cose più importanti da fare.»

Il suo sospiro è sincero. «Tesoro, cosa posso dire? Ho fatto un gran casino, lo so che ho fatto un gran casino. Ma l’ho fatto per le ragioni migliori...»

«Sul serio?»

«Ma certo, non ho mai ingannato nessuno deliberatamente.»

Vorrei credergli, vorrei capirlo. In fondo, questo è l’uomo che amo. Eppure adesso ci sono dei segreti.

Lui prosegue, e il tono si fa più dolce: «A essere del tutto onesto, pensavo anche che tu lo sapessi già. La morte di Nina è andata su tutti i giornali».

«Ma io non leggo quei dannati giornali! I romanzi sì, ma i giornali mai!»

Sto quasi urlando. Adesso mi devo calmare. Vedo un’anziana con un dolce alla cannella sul piatto, che mi guarda da dietro la vetrata. Annuendo, come se sapesse cosa mi capita.

«Rachel?»

Abbasso la voce. «La gente della mia età non legge i giornali, David. Lo capisci, no? E io non avevo idea di chi fossi, finché non ti ho conosciuto alla galleria. Tu potevi anche appartenere alla più famosa famiglia della Cornovaglia, ma io sono di Plumstead, Sud-est di Londra. E leggo Snapchat. O Twitter.»

«Okay.» Sembra sinceramente mortificato. «Ti ripeto che mi dispiace di cuore. Se ci tieni a conoscere i dettagli più crudi, ormai dev’essere tutto in rete.»

Lo lascio aspettare, per un secondo. Poi: «Lo so. Mi sono stampata tutto stanotte. Le pagine sono qui, dentro la mia borsa».

Una pausa. «Davvero? E allora perché mi stai controinterrogando in questo modo?»

«Perché prima volevo ascoltare la tua spiegazione. Darti una possibilità. Sentire la tua versione dei fatti.»

Si concede un piccolo sorriso desolato. «Ebbene, ora che hai sentito la mia versione dei fatti, Rachel “Giustizia” Daly, posso lasciare il banco dei testimoni?»

David sta cercando di sedurmi. E una parte di me vorrebbe essere sedotta. So benissimo che sarò pronta a lasciar perdere, dopo che avrà risposto a un’ultima, importante domanda. «Perché c’è una tomba, David? Se non c’è nessun corpo, perché una tomba?»

La sua risposta è calma, il tono di voce triste. «Perché volevamo che Jamie chiudesse con il passato. Era così confuso, Rachel... Lo è ancora, a volte, come sappiamo bene. Sua madre non era solo morta, il suo corpo era scomparso, come volatilizzato. Lui era disorientato. Continuava a chiedere dove fosse andata la mamma, quando sarebbe tornata. Visto che comunque dovevamo celebrare un funerale, abbiamo pensato di prevedere anche una tomba. Un posto dove potesse andare a piangerla.»

«Ma...» Mi sento quasi morbosa, però devo assolutamente sapere. «Cosa c’è nella tomba?»

«Il cappotto. L’ultima cosa che ha indossato, quel cappotto sporco di sangue, recuperato dalla miniera. Leggiti il rapporto della polizia. E poi alcuni dei suoi oggetti preferiti, libri, gioielli. Insomma, hai capito.»

Ha risposto alle mie domande in maniera candida e onesta. Mi appoggio allo schienale, sollevata e spaventata insieme. Un corpo. Sotto questa casa, nei tunnel che scendono profondi sotto il mare. Ma quanti altri corpi ci saranno già, quanti minatori affogati? Perché uno in più dovrebbe fare la differenza?

«Senti, David, so di essere stata piuttosto brutale con te, ma vedi... è stato uno shock, tutto qui.»

«Ti capisco perfettamente», mi rassicura. «Mi dispiace solo che tu l’abbia saputo in questo modo. A proposito, come sta Jamie?»

«Sta bene, credo; dopo quella scenata si è calmato. Stamattina sembrava tranquillo. Silenzioso, ma tranquillo. L’ho accompagnato a calcio, e Cassie lo va a riprendere.»

«Si sta abituando alla tua presenza, Rachel. Davvero. Ma come ti ho già detto, è ancora confuso. Senti, adesso devo proprio andare. Possiamo parlare ancora più tardi.»

Ci salutiamo, e io mi infilo il cellulare in tasca.

Un vento di mare da Marazion, mischiato con una punta di sale, mi scompiglia tutti i fogli mentre li estraggo dalla borsa e li sistemo sul tavolino. Le informazioni sono tantissime: ho cercato e stampato per più di un’ora.

Come ha detto David, la morte di Nina Kerthen aveva fatto notizia. Per un giorno o due era arrivata persino sui quotidiani nazionali. E aveva riempito la stampa locale per settimane. Eppure, a quanto pare, non c’era molto da dire.

Si ritiene che Nina Kerthen avesse bevuto la sera in questione. Non si sospetta un delitto efferato.

Delitto efferato. La definizione antiquata, riportata dal «Falmouth Packet», rievoca la macabra immagine di un’ombra scura avvolta in un lungo mantello. Un assassino veneziano, che afferra una bella donna e la lancia nel canale. Vedo un volto esangue guardarmi attraverso le acque grigiastre, velato dal liquido scuro, e poi più nulla.

Altre pagine agitate dal vento. Anche la mite brezza che spira da sud oggi è stata morsa da una punta di freddo. Alzo gli occhi dalle carte e mi guardo attorno. C’è un uomo solitario che cammina sulla sabbia umida oltre Long Rock. Procede senza meta, in tondo, come sperduto. Oppure in cerca di qualcosa che di sicuro non troverà mai. D’un tratto si gira e guarda dalla mia parte, quasi si sentisse osservato. Uno strano senso di panico mi pervade, una paura acuta e improvvisa.

Metto a tacere le mie ansie, brutti ricordi del passato. Torno alle pagine e riprendo a leggere. Ho bisogno di conoscere tutti questi dettagli, di fissarli nella mente.

L’idea iniziale di un presunto omicidio era molto appetitosa da un punto di vista giornalistico, e gli articoli sono disseminati di allusioni che insinuavano il dubbio nei lettori.

Le domande non vengono mai poste apertamente, però aleggiano chiaramente nell’aria: le didascalie non sono scritte, ma il significato è implicito. “Ehi, pensateci: David Kerthen non vi sembra un po’ troppo bello, un po’ troppo ricco, un uomo che vorreste odiare? Un potenziale killer della sua bella moglie?”

Quando questa ipotesi fu definitivamente scartata, i giornali nazionali mollarono la presa, mentre i giornalisti locali, dando prova di un disperato ottimismo, ripiegarono sull’ipotesi di un suicidio. Chi si metterebbe a fare una passeggiata vicino al pozzo di una miniera nel buio pesto? Perché correre un simile rischio, in una fredda serata poco dopo Natale?

Sfortunatamente per la stampa locale, il medico legale emise un verdetto che non lasciava adito a dubbi.

Sorseggio il mio caffè ormai freddo, mentre scorro per la terza volta il rapporto del coroner.

Era una limpida sera di luna piena, il 28 dicembre. Juliet Kerthen, la madre di David, aveva visto Nina scendere nella vallata e avvicinarsi alle scogliere, nei pressi della miniera, come faceva a volte per schiarirsi le idee. Aveva bevuto parecchio quella sera a cena, insieme al resto della famiglia.

Niente nel suo comportamento destava preoccupazione: l’area attorno agli edifici della miniera era perfetta per godersi una vista mozzafiato del mare che si infrangeva brutalmente sulle scogliere poco sotto. Soprattutto in una serata luminosa come quella.

Ma quando si erano accorti che Nina non tornava, avevano dato immediatamente l’allarme. Sulle prime avevano pensato che si fosse semplicemente persa lungo un sentiero, per colpa del buio. Ma con il protrarsi della sua assenza, tutti avevano cominciato a temere il peggio. Forse era caduta da una scogliera. Magari da Bosigran. O da Zawn Hanna, chissà. Nessuno immaginava che fosse caduta nel pozzo di Jerusalem: i rischi del posto li conosceva troppo bene per commettere una simile imprudenza. Ma poi, in mezzo a tutta quella confusione, Juliet si era fatta avanti e aveva proposto di cercare a Morvellan, dove era stata vista per l’ultima volta, mentre passeggiava nei pressi della miniera.

In più, aveva piovuto a dirotto nei giorni precedenti e gli edifici della miniera erano sprovvisti di tetto. E Nina indossava scarpe con il tacco.

La piccola squadra di soccorso formata da David e Cassie si era diretta al pozzo, dove avevano trovato la porta socchiusa. David aveva illuminato con la torcia il fondo del pozzo e scoperto una triste prova: il cappotto di Nina galleggiava nell’acqua scura. A questo punto non c’erano più dubbi: doveva essere inciampata e caduta dentro il pozzo, e magari cercando di salvarsi si era tolta di dosso l’ingombrante indumento. Ma purtroppo non c’era stato niente da fare e aveva perso la vita comunque. In quelle acque gelide c’era da rimanere assiderati, e a quel punto l’annegamento era inevitabile.

Il cappotto era stata la prima prova, e anche la più importante. Due giorni dopo, i sommozzatori avevano trovato delle tracce di sangue, dei frammenti di unghie sulla parete del pozzo, sopra l’acqua nera, e persino delle tracce di capelli. L’esame del DNA aveva dato un risultato compatibile con il profilo genetico di Nina Kerthen: non c’erano dubbi, si trattava del suo sangue, delle sue unghie e dei suoi capelli. Era la prova tangibile dei suoi disperati tentativi di arrampicarsi verso la bocca del pozzo, una prova che non poteva essere contraffatta o fabbricata ad arte.

Se a questa si aggiungeva la testimonianza oculare di Juliet Kerthen, non restavano più dubbi: il coroner emise il suo verdetto di morte accidentale. Nina Kerthen era un po’ brilla, la sua capacità di giudizio compromessa, e perciò doveva essere affogata nelle acque scure del pozzo di Jerusalem a Morvellan. Il suo corpo era sprofondato nel mare gelido e sarebbe andato perduto negli innumerevoli tunnel e anditi della miniera sottomarina, trascinato da chissà quante maree e correnti. Intrappolato sotto Carnhallow e Morvellan, per l’eternità.

Vengo scossa da un brivido profondo. Il vento che spira dalla baia si fa tagliente, misto a minuscole goccioline di pioggia. Devo sbrigare le mie commissioni e tornare subito a casa. Butto nel cestino il bicchiere vuoto di caffè e scendo al piano di sotto a fare la spesa. Tempo impiegato, diciassette minuti netti. Uno dei vantaggi di essere cresciuta in un quartiere povero, un retaggio della vecchia Rachel Daly, del Sud-est di Londra. Raramente mi faccio distrarre nei supermercati.

Imboccando la strada principale, rivolgo un’ultima occhiata a St Michael’s Mount, dove un raggio di sole autunnale colpisce in pieno il giardino subtropicale dei St Levan, una famiglia cinquecento anni più giovane dei Kerthen.

Poi le nubi si squarciano e il sole brilla su tutti noi. E finalmente capisco cosa devo fare: credo alle risposte di David, ma Jamie ha ancora bisogno di aiuto. Il mio figliastro mi mette in agitazione, e ho l’obbligo di capire il perché: devo leggere dentro di lui, devo decifrarlo, per poterlo comprendere. Forse David non ha bisogno di sapere altro. Ma io sì.