110 GIORNI PRIMA DI NATALE

Ora di pranzo

Sto raccontando una bugia a mio marito.

«Te l’ho detto, vado a fare la spesa, il frigo è quasi vuoto.»

Il suo tono scettico rimbomba incorporeo dentro l’abitacolo. Mi chiama da Londra. «La spesa a St Just? St Just-in-Penwith?»

«Perché no?»

Scoppia a ridere. «Tesoro, lo sai come si dice, vero? I gabbiani a St Just volano a testa in giù perché non c’è niente su cui valga la pena di cacare.»

Io faccio una breve risatina, ma insisto nella mia bugia. Non voglio dirgli come stanno le cose, non ancora. Non prima di sapere.

«Com’è il tempo laggiù?»

Mi guardo attorno mentre l’auto percorre la strada costiera. Lo striminzito campanile di St Just è una sagoma grigia contro un orizzonte grigio. «Credo che stia per piovere. È anche un po’ freddino.»

Lui sospira. «Eh sì, mi sa che l’estate è proprio finita. Ma ce la siamo goduta, vero?» La sua pausa è sincera. Speranzosa. «Adesso va tutto bene, sta andando meglio con Jamie, che ne dici?»

«Sì», rispondo. Di nuovo una bugia, e questa forse è ancora più grossa. Di sicuro le cose non vanno meglio, penso sempre al riccio che ho ucciso. Non ne ho parlato con nessuno. Dopo l’incidente ho ripulito la macchina e nascosto in fretta e furia il corpo dell’animale. Ho lavato via le tracce di sangue dalle mani e cercato di cancellare l’episodio dalla mia testa. D’istinto avrei chiamato subito David e gli avrei raccontato tutto. Ma un attimo dopo mi sono detta che era meglio tenerlo per me. Se anche fossi riuscita a non dare troppa importanza all’accaduto – oh, pensa che buffo, tuo figlio ha sognato questo e poi è successo davvero! –, David avrebbe potuto pensare che io sia convinta che Jamie abbia il potere di predire il futuro, che sia un chiaroveggente, come dice la leggenda dei Kerthen. Sì, le mie parole mi avrebbero fatto passare per pazza. E io non devo passare per pazza. Perché non sono pazza.

Non credo nella maniera più assoluta che Jamie abbia qualche potere. L’episodio è stato semplicemente un’incredibile coincidenza; del resto capita in continuazione che su queste stradine tortuose muoiano degli animali, lepri, volpi, fagiani e ricci. Non è la prima volta che vedo un riccio morto, e mi fanno sempre molta pena. In qualche modo, i ricci sembrano più forti degli altri animali, più selvatici, più corazzati. Adoro che nella penisola di Penwith se ne trovino così tanti, ma purtroppo vengono investiti spesso su questi sentierini bui. In quell’episodio nel Ladies Wood in un giorno di pioggia le ansie di Jamie si erano semplicemente fuse con un banale incidente. Eppure non riesco a togliermelo dalla testa. Forse sarà per via del modo in cui tenevo il suo corpicino tra le mani. Come se fosse un bambino morto.

«Rachel?»

«Sì, scusa, sto guidando.»

«Va tutto bene, tesoro?»

«Sì, sto bene. Devo trovare parcheggio. Adesso è meglio che ti lasci.»

Mi saluta e mi dà appuntamento a più tardi, su Skype. Io mi guardo attorno alla ricerca di un posto dove lasciare l’auto. Non ci vuole molto. Qui non si fa mai fatica a parcheggiare. Lontana, sempre colpita dal maltempo, l’«ultima città dell’Inghilterra», uno degli ultimi posti in Cornovaglia dove si parla ancora cornico, St Just-in-Penwith anche nei giorni più belli ha un perenne senso di vuoto e malinconia, svuotata dalle miniere e dai minatori, ma non dai ricordi. Ed è anche la città più vicina con il negozio che sto cercando, la più vicina a Carnhallow, e questo negozio mi serve adesso.

Non faccio in tempo ad aprire lo sportello che sento tutta l’umidità di cui come sempre è impregnata l’aria. Da un momento all’altro rischia di piovere, quelle goccioline sottilissime della Cornovaglia, quasi nebulizzate, a metà fra l’acquerugiola e la nebbia. Una specie di trattamento da spa, ma gelido.

La farmacia è in fondo alla strada principale, dove all’angolo sorge la chiesa medievale. La piazza centrale è circondata dalle facciate ottocentesche degli edifici e dai grandi pub vittoriani, memori di un ricco passato di fortuna mineraria, quando avventurieri e azionisti celebravano la scoperta dell’ennesimo filone di rame, quando i capi minatori mezzo ubriachi portavano le loro donne al bar a bere il gin con la melassa.

Attraverso la strada sentendomi osservata, chissà perché. Spingo il battente e la porta si apre con un cigolio da vecchio maniero.

La ragazza al bancone mi lancia un’occhiata. È giovane. Pallidissima.

Mi avvicino a passo lento nell’aria profumata del negozio e la ragazza continua a guardarmi, ma i suoi occhi sono caldi e amichevoli. Mi rendo conto con una certa sorpresa che ha quasi la mia età: passo così tanto tempo da sola, oppure con David, che ogni tanto mi dimentico di essere così giovane. Solo trent’anni.

Il mandala tatuato sul suo collo mi suggerisce che forse possiede un lato artistico, musicale, ed è il genere di persona con cui potrei tranquillamente fare amicizia a Shoreditch. Magari lavora qui solo per guadagnare qualcosa e finanziare la sua carriera artistica. In ogni caso, ha un’aria simpatica e alternativa. Vorrei fare una battuta, riderci su e diventare sua amica. Sì, a Londra sarebbe andata così.

Non so perché, ma qui faccio ancora fatica a trovare degli amici. Nelle ultime settimane e mesi, la Cornovaglia, o Carnhallow, oppure i Kerthen, mi hanno come ammutolita. O magari è per via di Jamie: quel ragazzino assorbe tutte le mie emozioni, anche se comunichiamo appena.

Sugli scaffali non vedo quello che mi serve, perciò dovrò trovare il coraggio di chiederglielo di persona. Con un nodo di ansia in gola, mi avvicino al bancone.

«Avete dei... ehm... test di gravidanza?»

La ragazza mi fissa. Forse intuisce quanto ci tengo dal tono spezzato della mia voce. Una gravidanza sarebbe la mia via di fuga dall’angoscia e dal crescente senso di inutilità: diventerò madre e conoscerò altre neomamme. Avrò un mio ruolo e un vero lavoro e qualcosa di straordinario da donare a David e Jamie. Dimenticherò tutte le mie ansie. E renderò felice mio marito: so benissimo che David non vede l’ora che io resti incinta.

Ho cinque giorni di ritardo, a quanto ho visto stamattina, guardando confusa e speranzosa la data sul calendario.

La ragazza aggrotta la fronte.

«Non ce ne sono sugli scaffali?»

«Da quello che ho visto, no.»

«Be’... allora non so se ne sono rimasti. Vado a controllare.»

Scompare nel retro. Guardandomi attorno, vedo contro la parete la pubblicità di un medicinale per bambini. Il poster mostra una madre con un neonato angelico, perfetto e di una bellezza sovrumana. La madre ha un sorriso radioso come un credente il giorno del giudizio. Poiché un bambino è nato per noi.

«Ecco», esclama la ragazza. «Ne avevo un po’ in magazzino, devo essermi scordata di metterli sullo scaffale. Mi scusi!»

Io torno con i piedi per terra. «Grazie mille, fantastico. Posso averne due?»

La ragazza mi sorride. Due, per essere sicura di aspettare un bambino. Prendo i miei due test e torno fuori, nella pioggerellina sottile e nel vento. Gli altri clienti sotto i loro cappucci anonimi si girano seguendo i miei passi, quasi fossero tutti lì ad aspettarmi. “Guardatela, come si muove furtiva.”

Sono incinta? È quello che ho desiderato, sperato, voluto da così tanto, per far funzionare le cose. Il mio cuore gioisce all’idea. Un bimbo, una bimba, non importa. E un fratellino per Jamie. Questo rimetterebbe tutto a posto. Vi porto la buona novella.

La tensione è troppo alta. Non riesco neanche ad aspettare di arrivare a casa. Devo saperlo adesso. Smonto di nuovo dall’auto e mi dirigo in uno dei tanti bei vecchi pub del posto, il Commercial Hotel.

Come c’era da aspettarsi, il pub è mezzo vuoto, solo un giovane in fondo al bancone di legno laccato, che fissa una pinta di Guinness. Mi rivolge lo sguardo per un breve istante, poi torna a fissare il suo bicchiere.

Entro nel bagno delle signore. Prendo il test, mi siedo sul wc e faccio pipì.

E poi arriva l’attesa. Sto sinceramente cercando di non pregare. Non devo sperarci troppo. Oh, le mie speranze, le mie brillanti speranze...

Conto il tempo, conto il tempo, devo contare i secondi prima di poter chiamare mio marito e dargli la meravigliosa notizia, la novità che cambierà tutto, la novità che ci renderà davvero felici, una vera famiglia.

Chiudo gli occhi, passano gli ultimi secondi e guardo giù. Una linea significa non incinta, due linee significano incinta. Ho bisogno di avere due linee. Dammi due linee blu, ti prego.

Guardo lo stick.

Una linea.

La tristezza colpisce duro. Perché mai ci speravo così tanto? Che sciocca sono stata. In fondo, ci proviamo solo da qualche mese. Le probabilità erano poche.

Vale la pena di provare con il secondo test? Ho già la mia risposta. Una linea. Non incinta. Prendine atto e vai avanti...

Eppure... chi lo sa?

Aspetto, contando ancora quegli stupidi secondi, e guardo di nuovo lo stick.

Una linea. Che fa a pezzi tutti i miei sogni.

Scaglio violentemente i due test nella spazzatura, mi fermo prima di uscire dal bagno, mi giro verso lo specchio e mi rivolgo un’intensa occhiata di rimprovero. Guardo fisso il mio viso chiarissimo con le lentiggini, i miei capelli rossi, guardo Rachel Daly. Devo ridarmi un tono, mettere da parte l’autocommiserazione e ritenermi fortunata. Ho un marito ricco e sexy, ho un bel figliastro, vivo in una casa magnifica che adoro con tutto il cuore.

Eppure è una casa in cui non ho nessuna voglia di tornare, non ancora. Non con tutti quei metri quadri di silenzio. Non quando mi sento così malinconica. E cerco di non pensare al riccio. Quella coincidenza così incredibile. Il sangue sulle mie mani. Di nuovo.

Vagando per il locale, do un’occhiata alle bottiglie di alcolici: birre locali, Doom Bar, St Austell Breweries. Ma a me la birra non piace. Invece chiedo alla barista annoiata una coca e rum. In fondo, perché no? Dopotutto non sono mica incinta.

«Ecco qua, tesoro.»

Prendo il bicchiere e mi siedo a un tavolo. Il giovanotto ha ancora gli occhi fissi sulla sua Guinness, neanche fosse una ballerina di lap dance.

Infilo una mano nella borsa e prendo il mio libro, un volume piuttosto corposo sulle miniere di stagno, pescato nella biblioteca di David. L’entusiasmo con cui David mi parla della vita dei minatori mi ha incuriosito. In fondo, è un altro modo per comprendere la mia nuova famiglia, i Kerthen, ricchi proprietari di miniere.

Il volume è molto vecchio ed è stampato in un carattere vittoriano troppo fitto e difficile da leggere, ma è pieno di curiose, commoventi e talvolta perfino sinistre scene di vita quotidiana.

L’autore ha visitato le miniere della Cornovaglia occidentale negli anni Quaranta dell’Ottocento, al picco della produzione, e ha visto la ricchezza e l’energia, ma anche l’orrore. Parla di sofferenza e di mutilazione: i tanti invalidi incontrati nei villaggi, uomini con facce perennemente bruciate dalle esplosioni; uomini senza dita, mani o braccia per colpa della polvere da sparo; uomini ciechi o menomati portati in giro per gli umili villaggi della Cornovaglia da ragazzi, che si guadagnavano da vivere vendendo tè porta a porta.

In alcuni posti, dice l’autore, un minatore su cinque moriva di morte violenta. Ogni tanto capitava persino che si uccidessero a vicenda, in qualche rissa tra ubriachi. La violenza da abuso alcolico dei «selvaggi delle miniere di stagno» era leggendaria. Verso la metà del Novecento si diceva che nella Cornovaglia occidentale, se c’era un gruppo di tre case, due erano birrerie.

Eppure l’autore ha visto anche una bellezza intensa e vibrante: le barche che transitavano di notte lungo la costa e poi ancoravano per ammirare Pendeen e Botallack e Morvellan che rifulgevano senza sosta sulle scogliere, l’alzarsi e abbassarsi dei bracci delle pompe a vapore, i tamburi rotanti dei motori a trazione animale, le urla degli addetti alla bocca del pozzo, il bagliore dalle porte della caldaia, il fragore delle macine. E le luci che brillavano alle finestre delle grandi torrette a tre piani, a metà della scogliera. E poi, più stupefacenti di qualsiasi altra cosa, i potenti fuochi delle fonderie illuminate da fontane di metallo fuso, che si innalzavano fino a quindici piedi prima di ricadere nel bacino, come giganteschi geyser di mercurio.

E adesso, incredibilmente, è tutto finito. Dopo quattromila anni. Gli uomini non lavorano più mezzi nudi nel caldo atroce in fondo a un tunnel sottomarino; non scendono più per centinaia di metri attaccati a una corda, come scimmie, immersi nella puzza di zolfo; i ragazzini di otto anni non sono più spediti nei pozzi per produrre la metà dello stagno e del rame mondiale e molti milioni di profitto. Tutto ciò che resta sono quelle rovine sulle coste, quei ruderi nella brughiera e nei boschi. Scorrier, South Crofty, Wheal Rose, Treskerby, Hallenbeagle, Wheal Busy, Wheal Seymour, Creegbrawse, Hallamanning, Poldise, Ding Dong, Godolphin e Providence.

Tutto finito.

Sollevo lo sguardo dal libro, sperando di vedere un viso, di scambiare un sorriso con la ragazza del bar. Ma adesso mi accorgo che il pub si è svuotato. Il cliente se n’è andato, anche la barista è scomparsa. Sono completamente sola. È come se non esistesse nessun altro al mondo.

Pomeriggio

Al mio rientro la casa è silenziosa. La casa è sempre silenziosa. Il grande portone d’ingresso si apre e ad accogliermi c’è il silenzio più assoluto, l’odore della cera d’api e la lunga e imponente Sala Nuova.

Qualcosa mi si struscia contro le gambe, facendomi sobbalzare. È Geneviève, la gattina grigia di Nina, che si infila tra le mie caviglie.

Quando Nina è morta, David l’ha regalata alla madre perché a lui non piacciono i gatti, ma ogni tanto Geneviève si intrufola qui da noi.

Mi inginocchio e le do una grattatina dietro le orecchie, sentendole le ossa del cranio. Il suo pelo ha il colore della foschia sul mare d’inverno.

«Ciao, Geneviève; renditi utile, acchiappa qualche topo!»

La gatta mi fa le fusa e mi guarda furbetta con i suoi occhi verdi. Poi all’improvviso corre verso la Sala Vecchia.

Cala di nuovo il silenzio.

Dove sono gli altri?

Juliet dev’essere nel suo appartamento, ma Jamie dove sarà? Mi dirigo a destra, verso la cucina, dove scopro tracce di vita umana: è Cassie, intenta a svuotare la lavastoviglie mentre ascolta k-pop sull’iPod. Cassie è giovane e sempre molto affabile. È thailandese, ha trentadue anni e vive con la famiglia ormai da dieci. Noi due non abbiamo grandi rapporti, in parte perché il suo inglese è ancora piuttosto stentato, in parte perché non so bene come comportarmi con lei. Facendo parte io per prima delle classi subalterne, non so come trattare i «domestici», e perciò mi sento in imbarazzo. Meglio tenermi lontana.

Ma adesso sento il bisogno di un contatto umano.

Cassie non si è accorta della mia presenza: indossa le cuffiette e canticchia sovrappensiero.

Faccio un passo avanti e le sfioro la spalla. «Cassie.»

Lei trasalisce e per poco non le sfugge la tazza di mano. «Oh!» esclama, sfilandosi all’istante le cuffie. «Mi scusi, signora.»

«No, scusa tu, è stata colpa mia, ti ho messo paura.»

Il suo sorriso è dolce e sincero, e io lo ricambio.

«Mi chiedevo... ti andrebbe una tazza di tè?»

Mi guarda incuriosita, non riesce a capire. «Tè. Vuole che le preparo una tazza di tè?»

«No, in realtà mi chiedevo se... Be’, sì, mi chiedevo se io e te potevamo farci una chiacchierata... Insomma, un tè e due chiacchiere, da donna a donna, tanto per conoscerci meglio. Questa casa è così grande che ci si perde!»

«Due chiac...chiere?» Cassie è sempre più confusa, si vede benissimo, quasi preoccupata. «Mi deve parlare di un problema?»

«No, io...»

«Io ripreso Jamie tutto okay. È nel Salotto adesso. Ma... c’è problema? Ho fatto qualcosa?...»

«No, no, no... non è niente. È solo che... sì, pensavo che...»

È tutto inutile. Forse dovrei dirle la verità. Farla sedere davanti a un tè e snocciolare tutto. Confessare. Confessare che faccio una gran fatica a trovare il mio ruolo in famiglia. Che gli amici di David sono gentili ma restano i suoi amici: più grandi, più ricchi, completamente diversi da me. Che Juliet è adorabile, ma fragile e solitaria, e non posso continuare a imporle la mia presenza. Che non c’è nessun altro con cui parlare e devo aspettare il ritorno a casa di David per fare conversazione, oppure telefonare a Jessica a Londra e pregarla di concedermi qualche stralcio di gossip della mia vecchia vita. Potrei confidarmi con Cassie, ammettere che questo stato di isolamento totale sta cominciando a logorarmi.

Ma in realtà non posso dirle niente di tutto ciò, lo troverebbe troppo bizzarro. Così invece le faccio un gran sorriso e dico: «No, davvero, Cassie, va tutto benissimo, volevo solo assicurarmi che anche tu stia bene, tutto qui».

«Oh, sì!» ride, mostrandomi le cuffiette. «Io sto bene. Io felice, io okay. Ho nuova canzone, mi piace Awoo, la conosce? Di Lim Kim!» Ride ancora, poi si mette a canticchiare: «Mamaligosha, Mamaligotcha... alway mamaligosha! Mi aiuta a lavorare. Miss Nina, lei diceva che canto troppo, ma penso che mi scherzava. Miss Nina era molto divertente».

Si rimette le cuffie, sorride ancora, ma il suo sorriso è un po’ triste adesso, forse più affilato sugli angoli. Come se io fossi una specie di delusione in confronto a Nina, ma non me lo volesse dire per gentilezza.

Di nuovo, l’imbarazzo torna a farsi sentire. Cassie aspetta che me ne vada per riprendere le sue faccende. Io ricambio il suo sorriso incerto e lascio la cucina con aria sconfitta.

Non posso fare altro. La casa mi guarda sprezzante, quasi a volermi deridere. Perché non mi restauri un po’? Compra un tappeto. Renditi utile. Io resto ferma lì, nell’ingresso, come un’intrusa. Devo andare da Jamie, controllare come sta il mio figliastro.

Lo trovo quasi subito, è seduto sul divano nel Salotto Giallo. Non si gira quando apro la porta, non si muove di un millimetro. Ha ancora indosso la divisa scolastica ed è concentrato su un libro. Ha un’aria molto seria per la sua età. Una ciocca di capelli neri gli cade sulla fronte, una piuma nera sulla neve. La bellezza di questo ragazzo a tratti mette quasi tristezza, non so perché.

«Ciao, com’è andata a scuola?»

Sulle prime quasi non si muove, poi si volta verso di me e aggrotta la fronte, come se avesse sentito qualcosa di strano su di me, ma non l’avesse capito del tutto. Per il momento, almeno.

«Jamie?»

La fronte rimane aggrottata, ma se non altro si decide a rispondere. «Tutto bene, grazie.»

Poi torna a sprofondarsi nel libro, ignorandomi completamente. Io muovo le labbra per aggiungere qualcosa, ma mi accorgo di non aver niente da dirgli. Sto annaspando. Non so come aprire un dialogo, trovare punti in comune, creare un legame. Con nessuno. Non so come parlare a Cassie e non so cosa dire a Jamie. Se parlassi da sola sarebbe esattamente lo stesso.

Ferma accanto allo scaffale, mi sforzo di farmi venire in mente un argomento che potrebbe risvegliare il suo interesse, ma prima che io apra bocca, è Jamie a parlare.

«Perché?»

Ma in realtà non sta parlando con me. Sta fissando il dipinto appeso al muro di fronte al divano. È un grande quadro astratto, una colonna di rettangoli orizzontali, di colori confusi e palpitanti, blu su nero su verde.

Non mi piace particolarmente: è l’unico acquisto di Nina che non mi sento di approvare. Il cromatismo è bello e non ho dubbi che l’opera possa valere migliaia di sterline, ma è chiaro che i colori vogliono rappresentare la costa, qui, a Morvellan: i campi verdi, il cielo blu, e in mezzo gli edifici neri delle miniere. Ha un che di lugubre. Prima o poi lo devo togliere di lì. In fondo, questa è casa mia adesso.

Jamie sta ancora fissando il quadro, immobile. Poi ripete ancora a sé stesso, quasi fosse solo nella stanza: «Perché?».

Io mi avvicino. «Jamie, perché che cosa?»

Lui non mi guarda. Continua a parlare al vuoto. «Perché? Perché l’hai fatto?»

Sarà immerso in chissà quale sogno a occhi aperti? Una specie di sonnambulismo? In realtà, sembra perfettamente in sé. Persino in guardia. Ma concentrato su qualcosa che io non riesco a cogliere.

«Ah, ah, perché. La Sala Vecchia sarà piena di luci», esclama. Poi annuisce come se qualcuno o qualcosa avesse risposto alla sua domanda, si gira a guardarmi – in realtà non guarda me, ma leggermente sulla mia destra – e sorride: un lampo di felicità sorpresa. Sorride come se ci fosse una persona che gli piace in piedi accanto a me, e poi rituffa la testa nel suo libro. Di riflesso, guardo subito anch’io sulla mia destra, per vedere la persona che è riuscita a far sorridere Jamie.

Sto fissando il muro. Uno spazio vuoto.

Ovviamente non c’è nessuno. Siamo solo lui e io. Allora perché mi sono voltata?

Di punto in bianco, una parte di me vorrebbe scappare via, lontano da qui, montare in auto e guidare a tavoletta fino a Londra. Ma è una follia. Sono solo spaventata. Prima il riccio, e adesso questo. Metterebbe a dura prova l’equilibrio di chiunque. Ma io non ho nessuna intenzione di farmi spaventare da un ragazzino di otto anni, troppo sensibile e traumatizzato. Se uscissi dal Salotto adesso, sarebbe come ammettere la mia sconfitta.

No, devo rimanere dove sono. E se non possiamo parlare, vorrà dire che rimarremo seduti vicini in silenzio. È pur sempre qualcosa, no? Posso mettermi a leggere, come sta facendo lui. Matrigna e figliastro che leggono insieme, uno vicino all’altra.

Do un’occhiata agli scaffali. Jamie sfoglia il suo libro, volgendomi le spalle. Lo sento girare le pagine, sempre più veloce.

Vedo una sezione dei libri di Nina che non ho ancora letto: manuali voluminosi e autorevoli dedicati alla mobilia d’epoca, all’argenteria e ai ricami.

Tiro fuori un volume, La cura e il restauro dei mobili antichi, lo sfoglio e lo rimetto a posto, senza sapere di preciso cosa cerco. Poi ne prendo un altro, Arredi stile Reggenza. Una guida. Alla fine ne scelgo un terzo, il Catalogo del Victoria and Albert Museum dell’oggettistica inglese in legno, volume IV. Ma estraendo il libro dallo scaffale faccio cadere a terra qualcosa di completamente diverso.

Una rivista.

Sembra una rivista di gossip. Che ci fa qui, in mezzo ai libri di Nina?

Jamie è ancora immerso nella lettura. La sua capacità di concentrazione assoluta mi colpisce molto. Deve averla presa dal padre.

Seduta su una delle poltroncine ritappezzate di Nina, guardo meglio la rivista e la mia domanda trova risposta. Risale a otto anni fa, e in copertina c’è la foto di una coppia molto glamour, David e Nina.

Il cuore comincia a battermi forte. Leggo la didascalia.

Nina Kerthen, figlia maggiore del banchiere francese Sacha Valéry, mostra con orgoglio il figlio appena nato, al fianco del marito, il proprietario terriero della Cornovaglia David Kerthen.

Siamo andati a curiosare nella residenza storica della coppia.

Sfoglio le pagine in fretta e trovo l’articolo che mi interessa.

Il giornalista, in uno stile pomposamente celebrativo, decanta le lodi di David e Nina per il semplice fatto di essere ricchi e belli, aristocratici e fortunati. La parola «eleganza» ricorre praticamente in ogni paragrafo. Un enorme cumulo di sciocchezze.

Allora perché Nina aveva deciso di tenerlo? Di sicuro era una donna molto intelligente e non avrebbe mai letto una simile robaccia. Forse l’aveva tenuto per via delle foto, che in effetti sono molto belle, sicuramente scattate da un professionista. Ci sono degli esterni di Carnhallow in cui la casa luccica nel buio tra gli alberi come un reliquiario dorato in una cripta ombrosa.

Anche le foto di David e Nina sono notevoli, e su tutte se ne impone una in particolare. Mi soffermo a guardarla, mordicchiandomi i capelli, pensando, riflettendo.

Nina è seduta su una poltroncina di satin, in abiti estivi, in questa stessa stanza, il Salotto Giallo, con le gambe unite e il piccolo Jamie in braccio. È l’unica foto in cui compare anche il bambino, nonostante le promesse dei titoli di copertina.

Accanto a lei, David è alto, slanciato, in abito scuro, con un braccio protettivo posato attorno alle spalle nude e abbronzate della moglie.

La foto è misteriosamente perfetta, e all’istante vengo trafitta da un morso di gelosia. Le spalle di Nina sono così belle, e così prive del benché minimo difetto. Soffocando l’invidia, analizzo il resto del quadretto. Il bambino si vede appena, chissà perché. Che il piccolo stretto tra le braccia abbronzate della madre sia Jamie si può solo intuire. Ma si vede bene un pugnetto che emerge tra le fasce candide.

Se prima il cuore mi batteva forte, adesso corre addirittura al galoppo. Perché ho come l’impressione di aver trovato un indizio, forse anche un doloroso e importante indizio. Ma un indizio di che cosa? Perché mai dovrebbe esserci un indizio? Devo mettere da parte lo smarrimento e ritrovare la razionalità. Non c’è nessun mistero, nessuna ragione per sentirmi spaventata o gelosa. A tutto c’è una spiegazione. Jamie sta migliorando, anche se lentamente. Abbiamo passato una bella estate. Rimarrò incinta. Faremo amicizia. Saremo felici. Il riccio morto è stato solo una coincidenza.

«Che cosa stai leggendo?»

Jamie è in piedi accanto a me. Non l’avevo sentito muoversi.

«Oh», dico io, con un lampo di imbarazzo, nascondendo al volo il giornale tra due libri. «Solo una vecchia rivista, niente di importante. Hai finito il tuo libro? Ti andrebbe qualcosa da mangiare?»

Ha un’aria improvvisamente infelice. Avrà visto le foto sulla rivista? Sua madre? È stato molto sciocco da parte mia leggerla proprio qui, davanti a lui, il figlio in lutto. Non lo rifarò.

«Sai che ti dico? Riscaldo un po’ delle lasagne di ieri... Ti erano piaciute, no?»

Lui si stringe nelle spalle. Io continuo a farfugliare una parola dietro l’altra nel tentativo di imbastire una conversazione, per quanto in staccato. Desidero con tutto il cuore che diventiamo una famiglia.

«Poi chiacchieriamo un po’, ti va? Che ne dici di una bella vacanza l’anno prossimo? Ti piacerebbe? Siamo stati benissimo qui quest’estate, ma magari l’anno prossimo potremmo andare all’estero, che so, in Francia, no?»

E qui smetto di parlare.

Jamie è sempre più accigliato.

«Cosa c’è che non va, Jamie?»

Se ne sta fermo lì, accanto a me, a guardarmi, nella sua divisa bianca e nera, e riesco a leggere la profonda emozione celata nei suoi occhi, segno di tristezza, o forse anche peggio.

E poi mi risponde: «In realtà, Rachel, dovresti sapere una cosa».

«Cosa?»

«Sono già andato in Francia con la mamma. Quando ero piccolo.»

«Oh.» Mi alzo dalla poltroncina muovendomi un muto rimprovero, non so neanch’io per quale ragione. Come facevo a sapere dov’erano andati in vacanza? «Be’, non dev’essere per forza la Francia, no? Possiamo provare con la Spagna, il Portogallo, o magari...»

Lui scuote la testa, interrompendomi. «Forse finora è stata proprio lì, in Francia. Ma adesso sta per tornare.»

«Scusa?»

«La mamma! Riesco a sentirla.»

Evidentemente è turbato: il dolore tremendo sta tornando in superficie. Io gli rispondo nel modo più dolce possibile, cercando di trovare le parole giuste: «Jamie, non essere sciocco, la tua mamma non può tornare, perché... be’, tu sai benissimo dov’è, giusto? Se n’è andata. La tomba l’abbiamo vista tutti, no? A Zennor».

Il ragazzo mi fissa a lungo, gli occhi umidi, lo sguardo duro. Sembra in preda al panico. Vorrei abbracciarlo, calmarlo.

Jamie scrolla la testa, alzando la voce. «Ma lei non c’è. Non è lì dentro. Non è nella bara. Non lo sapevi?»

Uno squarcio nelle tenebre.

«Ma Jamie...»

«Non l’hanno mai fatto. Non hanno mai trovato il corpo.» Gli trema la voce. «Non è nella tomba. Non l’hanno mai trovata. Nessuno ha mai trovato la mamma. Chiedi a papà. Chiedilo a lui. Non è sepolta a Zennor!»

Senza darmi il tempo di rispondere, si precipita fuori dalla stanza. Sento i suoi passi lungo il corridoio, poi gli stessi passi leggeri lungo la Grande Scalinata. Verso la sua stanza, quasi certamente. E io resto qui da sola, nel mio bel Salotto Giallo. Da sola con l’idea intollerabile che Jamie mi ha instillato nella mente. Sul tavolino di noce in fondo alla sala trovo il mio portatile, lo apro e dopo un istante di esitazione prendo un respiro profondo e digito sul motore di ricerca: «morte Nina Kerthen».

È la prima volta che lo faccio, perché non mi era mai sembrato necessario. David mi aveva detto che Nina era morta. Mi aveva descritto il tragico incidente: Nina è caduta nel pozzo a Morvellan. Era stato orribile. Ero persino andata a vedere la tomba nel cimitero di Zennor, con il suo commovente epitaffio: QUESTA È LA LUCE DELLA MENTE.

La mia curiosità era finita lì. Non volevo sapere altro, era già tutto troppo triste. Volevo una nuova vita con il mio nuovo marito, senza macchie del passato.

Mi tremano le dita mentre scorro la pagina e clicco su un paio di link. Notizie locali. Opportunamente salvate nella cache.

Non si è trovato il corpo.

I sommozzatori stanno ancora cercando, ma non hanno ancora trovato niente.

Il corpo non è mai stato ritrovato.

Richiudo con violenza il portatile e rimango a fissare fuori dai vetri a piombo di Carnhallow il pomeriggio d’autunno verde-grigio, gli alberi neri del Ladies Wood, lo sguardo perso nel profondo delle tenebre.

Jamie ha ragione. Il corpo non è mai stato ritrovato.

Eppure a Zennor c’è la sua tomba. Con tanto di epitaffio.