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Zarah Leander, la misteriosa.
Fu il fenomeno divistico più clamoroso del Terzo Reich.
Con questa attrice nata a Karlstad, in Svezia, lUFA tentò di colmare il vuoto lasciato dalla Dietrich, quando si trasferi negli Stati Uniti. Il suo profilo ricordava sia Marlene che la Garbo. Ma solo la sua voce di contralto, dai toni rochi, rim piazzò degnamente quella dellAngelo Axzurro. Osteggiata da Goebbels (il quale considerava una prova di incapacità che il nazismo non avesse creato una Garbo veramente tedesca) e protetta da Goering, Zarah venne considerata l”interprete più aderente dello spirito germanico».
Una delle sue canzoni, Io so che una volta accadrà un mi racolo, resta leggendaria.
La incontrai ad Amburgo, dove recitava allo Haus Vater land. Mi disse per prima cosa che lei, la star più pagata dalla Filmwelt, si rifiutò sempre di prendere la cittadinanza tede sca. Mi raccontò molti aneddoti. Sugli anni di unaltra sua canzone famosa: La Habanera. E su quando lOKW, il Coman do Supremo della Wermacht, dopo la proiezione di Un gran de amore, si ritenne moralmente insultato dal fatto che la protagonista, interpretata da Zarah, avesse indotto un eroico aviatore a passare una notte con lei.
Mi mostrò una nota di Goebbels:
«LOKW insiste che un tenente dellaviazione non do vrebbe trascorrere una notte nel letto di una celebre can tante. Ho avuto una conversazione telefonica con Goering che, al contrario, sostiene che un tenente dellaviazione che non sfruttasse una situazione del genere, non sarebbe un te nente daviazione. Goering prende in giro la sensibilità del lOKW. Tutto questo porta acqua almio mulino perché lOKW mi crea un sacco di difficoltà nel mio lavoro cinema tografico. Nella circostanza, potremo riferirci a Goering come al massimo esperto di Aeronautlca e non ~ovremo temere ostacoli di carattere giuridico.”
Fu Zarah a portarmi, una notte, davanti a un bar dAm burgo. Mi pregò di fermare a una certa distanza. Aspettam mo. Entrò un uomo e lei mi disse che si chiamava Horst. Era ancora agile e forte, col viso ben modellato. Attraversò il bar semivuoto.
Fissandolo, Zarah citò: « “Chiediamo che ogni ariano eroi co debba unirsi soltanto con una ragazza ariana bionda, fisica mente senza pecche, provvista di occhi azzurri, pelle bianco rosea, soprattutto vergine” ».
Non capivo.
Zarah mi indicò una donna che si agglrava tra i tavoli e poi raggiunse la cassa, portando il denaro di un cliente. Mi invitò a guardarla con attenzione:
« Si chiama Luise. E sulla sua scheda fu scritto: “Il sog getto è sedicenne, provvisto di capelli biondi, occhi azzurri.
Sanità assoluta”. Sottolineato in rosso: vergine. »
« Continuo a non capire. »
« Horst e Luise si prestarono agli esperimenti nazisti per la razza superiore. Il motto era: raggiungere luomo perfetto.
Horst fu uno dei campioni ariani che si sottoposero di pro pria volontà alla copula programmata per ottenere il figlio di Dio. Mentre Luise, figlia di un presunto traditore del regime, scampò in questo modo a ben altre prove: liniezione di ma laria o le camere di decompressione o la sterilizzazione. »
Horst aveva appoggiato i gomiti al banco. Beveva assorto.
Un uomo si avvicinò alla cassa.
« ~ il marito di Luise » mi informò Zarah.
Con i gomiti ugualmente sul banco, Luise scorreva un gior nale, a non più di mezzo metro da Horst.
« Il regolamento impediva ai due eletti di conoscere la re ciproca identità. Luise è stata per tre mesi la “collaboratrice”
li Horst in una villa di campagna che aveva molte stanze e 226 227
ciascuna ospitava una coppia perfetta. Ebbero un figlio. Se ne ignora la fine. »
I profili di Horst e di Luise quasi coincidevano nella pro spettiva illuminata del bar. Come certe teste di regnanti in una moneta. Ci fu un momento in cui lei si distrasse dal gior nale e scrutò il volto delluomo. Dando limpressione di rico noscerlo. Horst abbassò di scatto il bicchiere che teneva alle labbra, affinché i suoi lineamenti apparissero nella luce piena.
Ma Luise tornò a leggere il giornale.
« Quando Luise restò incinta, i due vennero separati. Luno non seppe più nulla dellaltra. ii stato Horst a rintracciarla.
Ma lei continua a non sapere chi è, nonostante venga spes so in questo bar, per vederla. Poi lui mi telefona. Mi parla, ossessivamente, di ciò che prova. »
Chiesi: « Horst sa che siamo qui, a guardarlo? ».
« No » mi rispose, dopo unesitazione.
Pensavo a tutto ciò che esisteva nel mezzo metro che divi deva i due: in realtà, una distanza cosmica, dove non sarebbe accaduto nulla, come sembrava non essere mai accaduto nulla.
Tra le loro fronti piegate, collocavo le tempestose immagini del fanatismo nazista, che Zarah mi andava evocando; le pia nificazioni sulla “creatura della perfezione assoluta” che quei due artigiani della procreazione fabbricarono accoppiandosi per tre mesi tra i fucili delle sentinelle a gllardia del Lager della felicità. Zarah mi parlava anche del suicidio di una ra gazza che non aveva retto allesperimento. Sul letto rimasero i fogli del suo testamento spirituale. Il cadavere venne cre mato in un rogo purificatore, davanti alle coppie inquadrate.
Il marito di Luise si sorprese vedendo che Horst tendeva la mano alla donna, con un sorriso. Luise guardò la mano, guardò il marito, ebbe di nuovo chissà un lampo nella sua oscurità inconsapevole. Ricambiò la stretta di Horst e anche lei sorrise.
Horst usci dal bar. Camminò nella strada lunga e diritta col suo passo da guerriero stanco.
Le chiamo le due donne dello sbadiglio: Lina la Bella Ote ro e Marlene Dietrich.
Conobbi Lina qualche anno prima della sua morte.
Sbadigliò mentre stava descrivendomi una recita di bene ficenza, a Roma, di cui non rammentava lanno, ma aveva precisi i dettagli: il Conte Boni de Castellane, che laccompa gnava, la presenza della Regina Margherita, dei Principi di Napoli e della Duchessa di Genova. Oltre agli applausi, che definì interminabili.
Girò appena la testa verso la Promenade des Anglais, sen za scusarsi, né preoccuparsi di portare la mano alle labbra.
Gli occhi le si illuminarono darguzia. Lasciò che la bocca mostrasse la sua cavità di un rosso vivo, per farmi capire che lo sbadiglio non veniva da una prostrazione delletà o da noia esistenziale, ma da un sonno che scendeva su di lei an cora con la golosità dei ventanni.
Lina saliva a dormire.
Laspettava un letto squallido, in una stanza che non ave va conosciuto nessuno degli amanti principeschi. Ma i gesti erano gli stessi con cui, canticchiando “Tengo dos lunares”, si preparava alle cene che vedevano dominare la sua fame im periosa. Lavidità del sonno riportava alla superficie i sintomi di quellappetito capace di far scomparire, velocemente, dieci sorbetti alla fragola.
Parlava di Colette. Mi chiedeva se conoscevo le pagine che aveva scritto su di lei.
« Diceva che ero puro ornamento. Ma si rallegrava al solo ascoltarmi. »
Lina trattava il proprio corpo, tra i più celebrati, con gratitudine. Incrociando lo specchio, per un riflesso delle an tiche passioni, ritrovava lo sguardo malizioso che, dove ora non cera che il vuoto, aveva spiato uomini famosi denu da~si come vermi era una sua espressione prima di pos sederla.
« A Colette ripetevo: ricordati che nella vita di un aman te, per quanto avaro, cè sempre un momento in cui allarga tutte quante le dita. E lei: il momento dellabbandono? No le insegnavo, quello in cui gli torci il polso. »
Si guardava intorno. Come se al mio posto, da una parte, sedesse la grande modista a cui chiedere consigli per inalbe rare le piume di struzzo. Aggiungeva: « Niente è stato più possibile, dal giorno che ho perso la limousine blu ». Descri veva la lim~usine, così alta che si inclinava mollemente a ogni curva.
Poi, la vedevo concentrarsi sul ventre. Quasi laspettasse il complicato lavoro di sguainare il busto, togliere le stecche lungo le anche e sciogliere gli infiniti laccetti e stringhe: quan do, di lei che sfiorava solo la maturità, già si diceva che di sdegnasse la vecchiaia. Restava, di quel tempo, il profilo te stardo di statua greca. Ad assisterla, non cera nemmeno più la dama di compagnia, Maria Mendoza, la spagnola dallaspet to di sauro inglese, eppure, appoggiando i vestiti qua e là, Lina aveva laria di aflfidarli a unaiutanre invisibile.
Tra i seni, che Colette aveva ammirato sodi e rialzati in punta, non scendevano collane, né splendevano diamanti. In cisa da solchi rossastri che ricordavano i graffi dei gioielli che Lina si vantava di tenere durante gli amplessi, la pelle mo strava una superficie rugosa dove i capezzoli sembravano aver spremuto le mammelle, facendosi grandi e violacei.
Infine, le reni si drizzavano e il piede nudo, sollevando dal pavimento la sottoveste, riacquistava il sarcasmo temuto dai potenti, per il gesto rituale che precedeva il coito. Con tro le facce di re e zar in attesa, il piede scagliava allora la sottana di broccato, dalla gala lunga tre metri. Accompagnata da una risata. Ora, la sottoveste finiva contro lo specchio che non rifletteva che un corpo di vecchia.
Ma la risata era la stessa.
La Dietrich lavvicinai in un retropalco, nellintervallo di un concerto londinese. Lavevo vista perdersi tra le quinte e lavevo seguita, incuriosito.
Mi scorse e mi gridò:
« Vada via! »
Mi allontanai, continuando a spiarla. Rimasta sola, sbadi gliò. Si era nascosta per concedersi quello sbadiglio che cercò di nascondere anche a se stessa. Fu uno strappo nel viso, che aveva dellosceno. Mi parve che il suono rauco della sua voce trasformasse, in bestemmia alla vecchiaia, il ” Sono piena damore dalla testa ai piedi” di LolaLola. E non avrei più limenticato il trapasso, alla furtività funebre, dalla finzione di poco prima, sulla ribalta, dove Marlene si era fatta inon dare di luce, nel vestito a lustrini, per occultare le proprie ombre.
Quando penso alla vecchiaia femminile, mi ricordo anche di Nàiva: Neve. Per tutta la vita, fece la dona gabjana sulle rive del Po, dove suo padre laveva obbligata a battere fin da bambina, minacciandola, se no, di tagliarle le braccia. Per cui sarebbe stata una dona gabjana dalle ali mozze. E le put tane fiumarole, del gabbiano, hanno sia il destino di frugare tra i rifiuti delle barche, sia la consolazione di volare via, quando gli va.
A ogni gabjana si dava un soprannome. Il suo era Nàiva perché, arrivando linverno, lei, ferma ad aspettare come un salice, simbiancava alle nevicate, dentro le quali si rintanava, dicendo che più la neve ti cresce sulle spalle, meno il freddo lo senti.
Sostenevano che, con gli anni, ci aveva guadagnato; come succede agli alberi, che più invecchiano più diventano belli.
E gli uomini si meravigliavano: « Ma cosa le è mai capitato, a Nàiva, che adesso ha un che di speciale? ».
Con stupore e indignazione, le donne giovani venivano a sapere che i mariti e i fidanzati la frequentavano. Allora ag gredivano Nàiva lanciandole pietre. E io difendevo Nàiva, 230 ll 231
provando ripugnanza per quelle furie sugli argini che avreb bero voluto ammazzarla.
Le favolose…
MarieLaure de Noailles e le sue amiche «raccontatrici di donne “.
La casa di Parigi, dove lo scalone dingresso era dominato dai Goya, portava i segni dinastici con lo stesso stile di colei che labitava: la sua policromia, che affondava nella penombra, venandola di rossi e di azzurri, era specchio delle malizie che, in MarieLaure, a~ioravano in continuazione.
Dalle stanze praticate, un tempo, da cardinali e arcivescovi coinvolti nelle contese tra giansenisti e gesuiti, diplomatici avversi agli ugonotti, vedevo uscire le raccontatrici, di ogni età; il loro apparire ricordava le maestre di mondi meravi g,iosi per il bambino che puntava contro di sé un cannon cino doro tirato da una pulce e che sarebbe divenuto il Re Sole.
Percepivo, qua e là, il predominio del raso nero, i ricami dargento, un senso di ballo eseguito alla perfezione. Le rac contatrici avanzavano verso di me comese avessero appena lasciato le feste del Carosello delle Tuileries, gli scudieri mu niti di ali, i cavalli con la coda e la criniera coperte da ser penti intrecciati. Incarnavano Mademoiselle Lhéritier, la ni pote di Perrault, Madame de Murat, Mademoiselle de la For ce e Madame dAulnoy, favoleggianti sullalta società di Ver sai,les. E introducendomi in un aggiornato Cabinet des Fées, cercavano di convincermi che la Francia si manteneva il com pendio del mondo.
Il raccontar di donne, viventi orealmente vissute sulla scena internazionale, era un mandar segnali ben al di là di que,1~e stanze: a una società femminile su cui avevano il po tere di imporre, oltre che il loro gusto, odi capricci e sim patie.
Il mio omonimo Boileau la pensava come labate Faydit: non gli piaceva la corte dei “Perrault e Perroquets», mentre io ne restavo affascinato; mai sarei riuscito a tagliar panni ai potenti con tanta raffinata crudeltà. Regine, Presidentesse, amanti di Capi di Stato o dei più grandi mediatori che la Storia avesse conosciuto, venivano messe a nudo, ma sempre col tono di annunciare incantesimi.
MarieLaure sopraggiungeva per ultima, magnificando la civiltà delle penombre secolari che la casa aveva conservato.
A differenza della luce e del buio diceva la penombra rifiuta i miraggi e gli spettri: è femmina. Solo una donna capisce la penombra e le sue metamorfosi, sa praticarle, an che nellamore; la sua presenza nel chiaroscuro è già un invi to. Lestasi di Santa Teresa del Bernini, è in realtà un sup plizio del fulgore.
« La luminosità bruna di Giovanni Bellini, nel Cristo be nedicente, persino nella Trasfigurazione, è stupenda. La stessa dellalba. »
Daltra parte, non avrei «incontrato» la Dama denermel lino nellatmosfera sfumata della casa di Toledo?
MarieLaure lanciava una drammatica profezia:
« LEuropa sta per suicidarsi nella paranoia della luce!
Essa racchiude langoscia della morte e del potere. Il terrore del caos. LEuropa a,za le luminarie sulla propria sete di mas sacro! » Mi fissava: « Anche per te verrà il giorno in cui su birai labbaglio della fine e cercherai, forse invano, salvezza in una penombra ».
Come penso alla verità delle sue parole, in questi giorni dei miei roghi in terrazza, delle “luminarie” che il mediatore mi accende intorno per accecarmi, e tutto sembra fuggire verso la luce di cui gli altri si inondano con lillusione di es sere vivi, come la Dietrich nel suo vestito a lustrini. Mentre mi tenta, in effetti, solo la penombra, oltre la grata del cuni 232 23
colo al Re Polacco, dove filtra un chiarore, anche quando è notte, che si ignora cosa sia e non rischiara a sufficienza luma nità silenziosa che vi si aggira.
Le raccontatrici mi si radunavano ai lati con laria solerte di dirsi: raccontiamo, prima che sia troppo tardi! Discrimi navano quella che definivano gargouille: il doccione dove, ne gli edifici gotici, scola lacqua, e che prende la forma di chi mera e di arpia. Ledificio gotico, nella metafora, era luomo Ia gargouille, la femmina che si presta ad esserne lappendice e lo scolatoio, destinata a mostruose follie.
Sembravano incalzarmi:
« Salvati dalle arpie! Dalle chimere! »
Quando le storie cessavano, le mie ospiti erano soddisfatte ed esauste: raccontare le donne è unarte difficile. Sosteneva no che, per praticarla bene, bisogna gettare sulla realtà lo sguardo del servo; esse lavevano imparata spiando la loro servitù. Le vedevo scomparire, una dopo laltra, nella penom bra. Anchio muovevo un ultimo sguardo del servo sulle stan ze dove le cose apparivano toccate da un misterioso riverbe ro, che Mallarmé colloca “sous un ciel antérieur”. Li si era detto con sarcasmo di Freud: «Come? Questuomo così pu ritano ha pubblicato tante opere ciniche sulla sessualità? Fi guratevi che non ha mai tradito la moglie». E molto si sapeva della vita di Proust.
« Proust… » mi sentlvo rispondere. « Abbiamo usurpato una sua frase sulla letteratura. Non solo i bei libri, ma anche le belle donne sono create come in una lingua sconosciuta.
Perciò, a ciascuna, ogni uomo dà il proprio senso, che spesso è un controsenso. »
Romy Schneider è stata la protagonista del mio primo film. Ho ritrovato il diario di quei mesi sul Po. Pagine scritte nellestate del 70.