108 109

a Suggestioni » ribatteva con il tono che avevo usato io, dentro di mej poco prima.

Osservavo le sue dita accarezzare la base del reliquiario.

Capiva che mi piacevano e provavo il desiderio di toccarle; mi prendeva le mani. Mi tranquillizzava con frasi che avrei ascoltato e letto altrove, in futuro:

« A volte si diventa cosl calmi, qui, che si ha un po paura.

Devi abituartici… Quando diventi molto sereno, la tua realtà sembra dividersi in due parti uguali, come la notte e il giorno.

E tu, nel mezzo, sei sul filo di un rasoio. »

Allinizio, ritenevo suffìciente una dose di ironia per sma scherare, non le suggestioni che mi soggiogavano, ma il credo naturale di Eurte, provandone lowietà. Confessavo di pro posito episodi, atti paradossali e mai commessi, per indurla alle spiegazioni ingegnose, e non meno paradossali, che lei trovava a ogni caso.

Non esisteva nulla che non giustificasse.

La sua intelligenza si batteva con la mia che ne usciva, se non sconfitta, sconcertata dalla prontezza con cui, in ciò che accade e può accadere, lei trovava il filo logico che lega le minime creature ai massimi sistemi. I suoi giochi di prestigio consistevano in questo smontare i grandi congegni con una rapidità prodigiosa di cui non si afferrava il trucco, fino a verità elementari, ma che dietro il paravento si trasforma vano in intuizioni seducenti. Come quando mi convinceva che, se luomo non è mai solo, non lo si deve alla provvidenza, dato che luniverso nasce respira e muore come il corpo, il corpo come il gelso, il gelso come il resto che non si vede, eppure cè.

Per Eurte, la vita non poteva paragonarsi a una salda fortezza e nemmeno al contrario, al sogno. Non è afferra bile né inafferrabile: niente di ciò che inventa. Non ha alcun margine_e confine, è lei stessa il confine che delimita la sua vertiginosa capacità di mutarsi e manifestarsi ora qui, ora altrove. Concetti che si traducevano in un “tutto è possibile; perché tutto vuole esserlo”.

In effetti, sarebbe stato facile avere la meglio con lironia e il cinismo. Però non mi riusciva. Più esattamente, non avevo voglia di riuscirci. Avrei potuto confessarle di aver ucciso un uomo ed Eurte avrebbe continuato ad ascoltarmi con uguale indulgenza. Sapeva che erano finzioni; se mi lascia va finire, era perché mi rendessi conto che anche nel gioco delle menzogne si insinua una verità.

Venivo sedotto dai ricordi che mi avevano oppresso, e me ne stupivo. Nei segni che Eurte mi decifrava, leggevo le mie debolezze, ma acquistandone fiducia. Il corpo non aveva più paura, lo sentivo incondizionatamente mio. E se ogni cosa mi era sembrata impossibile da dimenticare, ora imparavo a dimenticarmi, quando lo desiderav¢.

Le esprimevo ammirazione per il potere del suo linguaggio che, comunicando con chiunque, umile barcaro o uomo di pensiero, sapeva servirsi delle parole che ciascuno usa.

« Suggestioni, anche queste » diceva alzando le spalle. a Po veri tmcchi. » Poi mi sollecitava: « Racconta ».

E io imparavo a raccontare.

Eurte sapeva animarmi alle mie storie. Pretendeva il mas simo.

« Vieni » mi diceva.

Non le chiedevo dove. Lasciavo che mi facesse strada. An che quelle ricc~gnizioni di luoghi ignoti servivano alla mia curiosità: a farla crescere, nutrendola di sorprese, come una forza corporale che, per la sua pienezza, ha bisogno di essere addestrata.

A volte, albeggiava.

Nei tramagli che i barcari lasciavano appesi ad asciugare, da albero ad albero, i pesci rimasti impigliati e i residui delle piante acquatiche mandavano iridescenze contro il buio che ancora stagnava sulle marcite. Dagli attrezzi di lavoro abban donati qua e là, riconoscevo i mestieri della mia gente, che la notte aveva interrotto. Immaginavo che lumanità fosse scomparsa dalla terra e che il sole che vedevo spuntare fosse di dopo la fine del mondo.

Poi, una luce che non potrei immaginare se non laves si contemplata coi miei occhi. Ed ecco che spaziavo in una dimensione in cui nessuna curiosità, prima della mia, era mai penetrata. Superavamo le argille e le montagne di detriti che ricordavano le fasi glaciali. Miriadi di canne ci mozzavano il respiro, che poi ci dilatava i polmoni quando, di colpo, intor no a noi si aprivano sconfinati orizzonti.

Bisogna diventare ciò dinnanzi a cui ci si prosterna, affer mava Eurte. E nellignoto di quei luoghi stava il segreto della potenza e della maestosità. Là, davvero, il silenzio parlava.

La cosiddetta personalità crollava. Nel senso che luomo inte riore doveva farsi avanti, altrimenti veniva sconfitto, zittito per sempre. Non era possibile alcun compromesso. Prima di incontrare Eurte, la natura era per me un qualcosa a parte; soltanto con lei, ne ho capito il significato e il linguaggio.

« Anche una menzogna di Po » sosteneva « non è una co mune menzogna. ~ un favoleggiare. ~

Ma capitava che si udissero dei fischi lunghi, modulati.

Un giorno, notai bagliori da barche tirate in secca e appa rentemente senza nessuno. A pochi metri da noi, le pallottole sollevarono creste di sabbia. Pensai che fossero cacciatori, ma in cielo non cera lombra di un volo.

« I boiòli! » gridò Eurte.

Mi trascinò dentro una grotta e lì aspettammo che gli spari avessero fine. I puritani di Isola Schiavi venivano chia mati boiòli, che sono i recipienti igienici delle celle. Agivano da vigilanti del fiume: confidenti e sicari che la polizia aizza va contro i frodatori e le done gabjane, le prostitute dei bar cari. I proiettili scheggiavano i massi dellimboccatura, men tre il caldo si faceva soffocante, nuvole di mosconi ci assali vano e ogni sorta di insetti si insinuavano nei vestiti. Eurte sosteneva che nei greti fluviali come nei deserti dellesisten za, i boiòli sono gli insetti del mondo. E muoiono da insetti: sulle stesse feci che prima li nutrono e li inebriano.

Un altro giorno si vide lairone cinerino spiccare il volo, felice e libero, dalla vegetazione galleggiante. Stese le ali nel cielo blu elettrico. Una nube di falchi lo circondò immediata mente. Prima lo aggirarono, per fargli capire che non gli rico noscevano il diritto di occupare il loro spazio, poi diedero battaglia. Lairone venne attaccato da ogni parte. Piombò sulle pietre. Con un ultimo tentativo di sollevarsi, battendo le ali.

Eurte fissò lassalto allairone e la sua agonia. Disse: a Capiterà anche a me. »

Suggestionandomi con inesauribili fantasie, e la sua sen sualità dichiarata e segreta, Eurte mi provava come la curio sità, che ci spingeva anche ad affrontare pericoli, fosse, della sfera dei desideri, la manifestazione più nobile; solo i boiòli potevano degradarla a luogo comune, scambiandola per uno dei tanti mezzi della loro volgarità.

Mentre il desiderio è sempre volontà di ottenere qualcosal tro, essa non si propone che se stessa. ~ unenergia che, di volta in volta, è luce, calore, moto. Lintera architettura del luniverso mi spiegava è governata da questa energia che ne realizza la capacità di contenere. Le esprimevo il dubbio che si trattasse invece di simulazione: un cercare il mare e vederlo senza averlo trovato, come i miraggi che, durante le nostre esplorazioni, facevano fluttuare acque azzurre dove non cerano che aride distese.

« E conoscenza » ribatteva. « ~ amore. »

Lo diceva a me e a se stessa.

a Amore maschio e amore femmina. ~> Soltanto più tardi ho avuto modo di chiarirmi landroginia a cui Eurte alludeva. Il sesso maschile, fecondante e indut tore, esprime la curiosità che penetra, indaga, lascia il suo seme. Mentre il sesso femminile, ovulante e gestante, espri me la curiosità che, penetrata dai misteri della vita, ne ela bora cognizioni nuove, che poi generano il pensiero e la coscienza.

Stavamo sdraiati sulle ghiaie di Forte Urbano. Nudi a pren dere il sole e a gettarci nelle pozze di acqua gelida. Sapevo che tutto sarebbe rimasto irripetibile e che quella beatitudine che ci avvolgeva come il filo della corrente tra i massi, non lavrei mai dimenticata. Eurte fissava il cielo, poi girava la testa, mi cercava accanto a sé, rammentandosi di qualcosa da cui la sua mente si era distratta.

Tendeva il braccio e mi diceva: « Vieni ».

Col tono di quando mi faceva strada.

E io mi trovavo di fronte al sesso di Eurte.

Mi sembrava incredibile che fossero esistiti giorni in cui ave vo scambiato gli spaventapasseri per una veste appesa al ramo.

E mi ero appostato. Passando le ore ad aspettare che, da oltre la siepe, salisse quellorgasmo che paragonavano al vento dei burroni.

Mentre non udivo che il vento nel fogliame.

Cera un albero, alle rive di Malcantone, dove si raccontava che ricomparisse la Bastardella. Nella residenza di Gugliel mo Du Tillot, marchese di Felino, aveva incantato Mozart fanciullo e il padre Leopold, cantando note e passaggi che i testimoni dellavvenimento avevanc~ definito di unestensio ne incredibile. lndossava gli abiti di scena e, sotto lalbero, ritrovava miracolosamente la voce perduta.

Arrivai con Eurte al Malcantone e, nel controluce, non vidi che pochi rami neri, senza una foglia. Eppure, dal loro stare contro lorizzonte, veniva come un insieme di se~ni che il pennello di un pittore avesse tracciato verso limpossibile.

Lo dominavano nuvole viola.

Una bicicletta stava appoggiata al tronco, coperta di rug gine. Dicevano che chi laveva lasciata, molto tempo prima, non aveva avuto rispetto per la leggenda dellalbero, e questo si era vendicato, facendolo scomparire dalla faccia della terra.

Era successo durante lultima guerra, quando i disertori si erano rifugiati in massa nei greti, creando uno Stato della narchia.

Da allora, nessuno aveva osato togliere la bicidetta.

« Lo chiameremo lalbero della curiosità » disse Eurte.

« Perché? »

« Perché il Bio, come Dio, ha il suo albero delle tenta zioni. Del male e del bene. Anche se questo non è certo il paradiso terrestre. »

Mi scrutò:

« E perché noi non andremo oltre. »

Mi faceva capire che lalbero di Malcantone era un sipario calato per sempre sulle nostre avventure. Eurte abbracciò il tronco. Esso divideva lo spazio dove la curiosità può indaga re, dallaltro che ci sfugge. Al di là, forse, esistevano davvero i serpenti attorcigliati al collo delle tigri, i leoni che saltano sulle zebre e le foglie tropicali che vedeva Ligabue. Certo non si distingueva se la luce dellorizzonte salisse da acqua o da terra. E non si vedevano né barche né case.

Per tornare, prendemmo la Bettol¡na.

«Con la Bettolina si arriva a Cremonan: la vecchia inse gna, dipinta con la vernice rossa, non era scomparsa. Il bat tello aveva smesso di caricare ghiaia e sabbia; ora caricava petrolio grezzo alle Sacche. Cera ancora un capitano, comun que, e un equipaggio che si concedeva servizi ufficiosi: come raccogliere le anime perse degli operai che rientravano dalle cave e segnalavano i loro gruppi in attesa con una bandiera bianca.

Ci sedemmo di fronte, su due panche. Si fece sera. Dalla Bet~olina uscì il raggio del faro, illuminando gli stabilimenti industriali che si erano moltiplicati lungo le rive, i villaggi superstiti dei pescatori. Quando si alzò il vento, misi la mia giacca sulle spalle di Eurte. Cercavo di distinguerne il volto, che nel buio si vedeva appena; capivo che stava abbandonan dosi a una stanchezza insolita.

« ~ come quando ti accorgi che il tetto sta sprofondando »

disse. « Bisogna cambiare casa. Se continuassi a stare qui, comincerei a vedere anchio i morti venir su dalle crepe del Po. »

Le chiesi dove avesse intenzione di andare.

« In ogni posto della terra. Purché esista, in uomini e don ne, almeno un segno che valga la curiosità. ~

Le opposi che molto sarebbero mancati, a quella gente~ il continuo gioco di prestigio della.sua persona, il suo saper vedere e giudicare, le sue parole.

Riprese a ironizzare sulle parole.

« Dài e dài, si stancano da sole, prima ancora che tu ti stanchi di loro. Bisogna trovare il silenzio da qualche altra parte. Troppo difficile, ormai, parlare della vita e della morte. »

Si aggiustò sulla panca.

« Limportante è trovare una posizione che non faccia sen tire il dolore. Io ho cercato di aiutarti a trovarla. Non so se ci sono riuscita. »

La mano che le spuntava dalla giacca, si fece bianca quando sul fiume si alzò la luna.

« Lalbero di Malcantone… » concluse « Se un giorno vor rai raccontare di noi due in una riga, potrai scrivere sempli cemente: siamo stati meravigliosi con nulla, come quellal bero. »

Pochi giorni ddpo~ la baracca dei pavoni andò a fuoco.

Di Eurte, nessuna traccia.

La gente diceva che, ad appiccare lincendio, erano stati i boiòli. Ma io sapevo che, in questo caso, i puritani non cen travano. Eurte stessa, ne ero certo, aveva incendiato la barac ca prima di fuggire.

Spinti dal vento, gli sterpi volavano come code di fuoco contro la costruzione. Unorda di topi corse a tuffarsi nel lacqua. Un pavone nato da poco girava intorno, malfermo, e il terrore lo spingeva a cercare la madre. Ai margini del re cinto divorato dalle fiamme, una pace soprannaturale.

I pavoni erano attratti dalla baracca ridotta a un gldbo di luce bianca e nera. In cima ai loro colli eretti, gli occhi sem bravano di vetro anchesso infuocato.

Capitolo sesto

Mi ha telefonato in piena notte.

Ero riuscito a prendere sonno dopo uno slalom tra i casi della mia vita e di un paio di vite altrui.

« Lasciala in pace! Capito? »

Era la voce del mediatore. Da tempo non la udivo, quella voce a sega elettrica.

Sono rimasto zitto.

« Hai capito?! »

Credevo che cose del genere accadessero solo nei film sur

~aut, come li chiamo: cari ai cinefili di Massenzio, dove la genialità del colpo a sorpresa consiste nel banalizzarlo volu tamente. Ma i mediatori, anche quelli che ci figuriamo luci ferini, sono di una prevedibilità micidiale. ~ la nostra mistica dellinferno che si ostina a farla passare per un prisma di astuzie sopraffine, in cui si nasconde chissà quale congegno dellimponderabile. Invece, non è che prevedibilità.

Perciò finiscono ammazzati o arrestati senza fantasia.

Un buon Curioso è sempre un attore e sa, allistante, raggi rare il raggiro. Specie col tono di voce. Ho pensato al tono di Joan Fontaine quando, ne Il sospetto di Hitchcock, Cary Grant le porta splendente nella notte come il Graal il famoso bicchiere di latte che si presume awelenato.

« Ha sbagliato » ho risposto.

Il mediatore non ha detto «mi scusin. Ha riattaccato con un tonfo.

Subito, il telefono ha suonato di nuovo. Lho lasciato squil lare a lungo. Ora avrei usato, allinverso, il tono di Cary Grant quando deposita il bicchiere.

Era sempre il mediatore. E sempre con voce dassalto, ha ripetuto: « Lascia stare Marianne. Capito? ».

« Se no? »

« Se no, ti faccio spaccare le ossa. »

Devessere un massenziente.

« Come vanno le tue mediazioni? » gli ho chiesto. « Il giallo appalti. Il nero cambiale. Il viola speculazione. Il rosso Al Capone. Il verde scadenze. Il bianco gestione Ior… Come stai, a colori? Intrecci. Liane. Tarzan miliardari. Cite ban carie. »

Si è sforzato di cordializzare.

« Tu, piuttosto. »

« Sono perseguitato da un boiòlo. Per il resto, bene. »

« Cosè, un boiòlo? »

a Un insetto. Un insetto del mondo. »

« Ti sei fatto vedere? »

« Sl. Tranne che dal boiòlo… »

« Roba che passa. »

a Speriamo. »

~ tornato allattacco.

« Capito, di Marianne?… Allora? »

« Dipende » ho cominciato a recitare.

« Dipende da che? »

« Da quando… »

Ironie da mediatore.

« Da quando o da quanto? » ha puntuaiizzato. « Te lo chiedo perché so benissimo che è questo, che ti aspetti da me. Ti serve. Ti diverte. Anche tu sei prevedibile. »

Scherzava per essere serio. Non mi ha lasciato rispondere.

« Quanto, eh?… E bravo lintellettuale! Il puro! »

Eravamo sul suo terreno. Si rilassava.

Anche questa faccenda del quanto crediamo che acca da soltanto nei hlm sursaut; e alla svelta, per esigenze di ritmo. Ci diciamo sempre: cose che capitano nei ~lm sursaut.

Poi inciampiamo in morti ammazzati sotto la nostra buca delle lettere, e non ci diciamo mai: hlm sursaut che capitano nelle cose. Provare per credere. Io lo stavo provando. E capi vo che certa realtà è proprio stupida, come i mediatori, anche con le mani insanguinate. Attrezzati per le tragedie mitiche, di cui parla Marianne, siamo nudi di fronte alla faciloneria della tragedia. ~ questa, la tragedia.

« Sei a secco, eh? » ha ridacchiato il mediatore. a Capisco sempre chi è a secco. »

« Lo so. »

Mi ha rincuorato: « Limportante è non essere a secco nellaltro modo, eh, bestia? ».

« Quale modo? ~

« Secco nel modo di morto! »

Il mediatore vive di battute ripugnanti, specie quando profferisce minacce. Ha ripreso: « Quanto! ».

« Ci devo pensare. »

« Allora vediamoci alla mia banca. »

« Quale, delle tue mille? »

Me lha detto. E mi ha precisato anche: « Domani. Da persone perbene ».

«~Sarà di~icile. »

« Alludi a me? » si è inalberato.

« No. A me. In questi tre anni, sai, sono diventato una vera carogna. »

« Bravo » ha esclamato: « Fai passi avanti. Tre anni fa eri un imbecille ». Si è corretto: « Non so se più imbecille o più vigliacco. Decidi tu ».

Non ho deciso.

« Alle undici. Domani. Ti sta bene? »

« Per me, anche a mezzanotte. Tanto, non ho niente da fare. »

12

Mi ha ricordato, amichevole: « A mezzanotte, in banca, ci vanno i ladri ».

« Appunto. »

Ha chiuso.

Lindomani, alle undici, sono andato alla sua banca. Lho visto aggirarsi oltre la vetrata. Guardava lorologio. Lho la sciato a quel solo gesto da persona perbene, di cui sia capace: guardare lorologio. Il tempo lo turba. Specie la fine del tempo. Me ne sono andato contento che, di nuovo, facesse freddo.

~ tornato linverno.

Avevo appuntamento con Marianne.

Non le ho detto niente del mediatore.

Ci siamo trovati davanti alla facciata di San Luigi dei Fran cesi e, alzando gli occhi, mi è apparsa la salamandra che porta in testa una corona: stemma di Francesco I, il libertino re di Francia. Si trova a proprio agio tra le fiamme e, a sua volta, ne butta dalla bocca. Farò la salamandra, col mediatore.

certo. Ma che potere di fuoco avrà la mia bocca?

Ci sono altri luoghi di Roma che propiziano le lezioni a Marianne. E io la porto a scoprirli. La storia di questa città ha più strampalato spirito di quel che si pensi. In Santa Maria dAracoeli, un frate ebbe lidea di unire le corde delle due campane con un lungo panchetto di legno. Al momento di suonar festa, i religiosi si sedevano comodamente e face vano laltalena, mentre le campane si sbizzarrivano.

Ci diverte che Roma nasconda, qua e là, qualche nostra idea balzana.

Possiamo parlare sedendoci sul panchetto. Immaginando uno scampanio che non esiste. Oppure penetriamo nel cor tile barocco di Santa Maria in Campo Marzio, pressoché sco nosciuto, dove una curiosa iscrizione, che sormontava un lava toio pubblico, esorta le donne a lavare le loro coscienze al trettanto bene quanto i panni. Oltre che suggerimenti, ne vengono consolazioni. Passando ieri per Via della Lungara, ho indicato a Marianne il punto dove, secoli fa, cera un po tente che donava cento uova fresche a chiunque riuscisse a condurgli un matto da rinchiudere.

Un giorno, chissà, porterò al mediatore cento uova e me stesso. Oppure sarà lui a precedermi altrove, con una delle sue mosse. ~ noto che in Piazza in Lucina; nel 1690, venne bruciato un simulacro di Diogene, con la sua botte, per met tere sullavviso quanti si proponevano di sfidare i vampiri romaneschi.

Staremo a vedere.

Intanto, faccio da guida a Marianne. Anche alla Porta Furba, inserita da Sisto V in quello che venne battezato Acquedotto dellAcqua Felice.

Cose cosi.

Marianne torna spesso sul mio racconto di Eurte.

Vuol sapere del Po. E di mia madre. Non lho mai con dotta lassù. E, anche di mia madre, non le ho mai parlato.

Un altro mito da cui disincantare la montagna.

Ora gliene parlo.

a Mia madre non lho mai chiamata col suo nome, che è Gina. Ma sempre Moretta. »

Tra tutti gli uccelli del fiume, le morette sono le più simili a lei, quando oziano sulle acque, e le loro svogliatezze di alzarsi in volo durano a lungo, anche un giorno intero. In questo modo, mi pareva inoltre di distanziarla da me.

« Ma in quel Moretta » obietta Marianne « cè dellaffetto. »

a Forse. ~

Marianne mi chiede cosa la rendesse infelice. Le rispondo che Moretta, più esattamente, era e rimane un parassita di quella pianta maligna che ci cresce alle spalle, allargando su di noi i suoi rami secchi: la non voglia di vivere. Aspettava che passassero i giorni. Li contava. Uno di meno, già un passo avanti.

Tutto cominciò in una circostanza precisa. Era lottobre del 39. Ci alzammo allalba e prendemmo il treno per trasfe rirci da Parma a Motteggiana. Qui, mia madre aveva una casa che le avevano lasciato i genitori; una boaria dallara spaziosa e un orto di cui magnificava i frutti. Lappartamento di Parma costava troppo. E in città era sola. Vivere a Po le piaceva.

« Era la sola ragione? »

a No » ammetto. « Allora lo credevo. Perché lei me lo dava a intendere. »

« Quale fu la vera ragione? »

« A Motteggiana abitava mio padre. Là si erano conosciuti e io ero stato concepito. Mio padre non aveva mai voluto sposare Moretta. Meglio cosi. ~ un uomo spregevole. »

« Pensi che tua madre volesse avvicinarsi a tuo padre per convincerlo a sposarla? »

« Aveva in animo di provocarlo. Con qualunque mezzo.

Fino a portarlo allesasperazione. »

« Per quale scopo? »

« Perché la uccidesse. »

Marianne mi ~ssa in un certo modo.

« Non è una menzogna » le dico. « Moretta era così delusa che desiderava con tutta se stessa di essere messa in un sacco e buttata ai gabbiani. Come si uccide a Po. »

Mi aveva sempre parlato dellorto di Motteggiana, da cui sl vedevano le piane azzurre della Ghirardina e di Quaran tore. Era contenta di parlare con me solo quando saltava fuori lorto. Allora, mi faceva sedere vicino. Anche mentre il treno ci portava, mi assicurava che ogni cosa vi cresceva più grande che altrove, dalle ciliegie alle cipolle ai pomodori.

Si poteva vivere del suo raccolto, senza preoccuparsi. Molti insistevano per comprarglielo. Ma Moretta rifiutava le of ferte vantaggiose. Vi nascevano erbe che conosceva soltanto lei e, a suo dire, rendevano trasognati.

Un sorriso sfiora le labbra di Marianne.

a Tu hai mai visto quellorto? »

Non mi fu possibile vederlo. Quando arrivammo a Villa Saviola, i soldati ci fecero scendere. Il fiume aveva superato i segnali di guardia e, in molti punti, i livelli massimi. Ben presto, le strade si coprirono di carri e le famiglie, raggmp pate alla sommità delle masserizie, guardavano i sacchi di sabbia esplodere sugli argini, i barconi trascinare a riva il bestiame affogato, e corpi umani che sbattevano sui con trafforti.

Fu la prima piena che vidi. La prima volta che mi trovai di fronte a una forma cosl totale di annientamento.

Moretta non ascoltava né ordini, né consigli. Anche se apparentemente lucida, capivo che, dentro di sé, era come impazzita. Sapevo riconoscere quando la pazzia attraversava la sua testa, magari mentre sorrideva; gli occhi, in genere troppo sottomessi, acquistavano una luce crudele… Decise di andare avanti a ogni COstO. Cercò un barcaro che avesse il coraggio di affrontare la piena. Nessuno le dava retta. Ma offriva i suoi risparmi, una buona somma. Ne trovò uno, più pazzo di lei, che accettò. Si caricò sul barcone me e i bagagli.

Io non avevo paura dei colpi di testa di Moretta. Solo delle sue sottomissioni.

Il barcone si inoltrò nella marea fangosa, che si trasfor mava in un cimitero di imbarcazioni. Con il crescere delle acque, anche noi avevamo limpressione di toccare il cielo nero, tra nubi di pesci morti, vele sradicate. Avvistammo infi ne la boaria di Motteggiana. Appena in tempo per scorgere lultimo brandello dellorto divorato dalle ondate.

I rami degli alberi prodigiosi furono spinti con violenza inaudita contro il nostro scafo, e Moretta tendeva la mano per toccarli, prima che scomparissero. Li distingueva uno per uno, e diceva che que]lo era il melo sotto il quale aveva gio cato da bambina, e quello il ciliegio preferito da sua madre, e quel groviglio di pali foglie e fiori giallicci, la siepe dalloro dove la Guardia Regia a cavallo aveva vigilato suo padre anarchico.

Il barcaro era terrorizzato e non faceva che ripetere: tor niamo indietro.

Moretta stava a prora, miracolosamente ritta. Era diven tata di fango dalla testa ai piedi, per le ondate che la investi vano. Diffidava con voce imperiosa il barcaro dal rientrare allattracco.

La corrente trascinava, tuttintorno, mobili, buoi affogati con le corna che spuntavano come i rami, e gente che, per salvarsi, safferrava ai bordi del barcone. Lei impose al bar caro di colpire quelle mani col remo. Ripeteva: colpisci! Luo mo obbedì. La pazzia di Moretta faceva crescere, ora, la sua pazzia. Ci avevano avvertito che era uno di cui non fidarsi, che aveva ammazzato e incendiato, e se anche fossimo arri vati a destinazione, ci avrebbe derubato di ogni cosa. Batteva sulle mani così selvaggiamente che il remo si spezzò. Quei disgraziati si reggevano alla superficie per un tratto, poi veni vano ingoiati dai vortici.

« Tua madre non provava nessun sentimento? » mi chiede Marianne.

« Fissava in direzione della sua boaria.Ma non credo nem meno che fosse nostalgia per quel luogo prediletto. »

Ammirava lApocalisse che sembrava cancellare il cielo e la terra. Felice che il mondo scomparisse sotto i suoi occhi, essendone lunica testimone imperturbabile. Si augurava lo capivo di venire travolta anche lei.

Poi non so cosa accadde realmente. Ebbi limpressione di addormentarmi e di fare un sogno. Gli aironi tornavano a volare. Un prete andava sugli argini agitando una campanella.

Mentre le acque riacquistavano una calma dorata e le allo dole chiamavano da tutte le direzioni, segnalando gli alberi che erano sopravvissuti.

Quando riaprii gli occhi, proprio questo stava accadendo.

Abbiamo vissuto alla boaria. Spesso veniva a trovarci il Pajàss ad Po: lAngelo Colombi, di Villa Saviola. Il comico che faceva ridere nelle piazze e nei teatri poveri. Lui e Mo retta erano amici fìn da ragazzi. Mia madre lo mandava a chiamare quando linfelicità lassaliva e, dopo certi p;anti, il Pajàss spuntava per gli argini sulla carrozzella col tettuccio bianco. Entrava in casa, chiuso nellimpermeabile, reggendo una piccola borsa di cuoio. Non sembrava un comico, ma un medico che venisse per una visita, con aria sbrigativa e pro fessionale. Moretta si faceva premurosa e continuava a ripe termi che il Colombi era una celebrità… Andavano a chiu dersi in una stanza.

Mia madre non lavevo mai vista ridere; ora, invece, si alzavano le sue risate squillanti. Cosa le procurasse tanta ilarità, restava un mistero. Cercavo di ascoltare alla porta chiusa. Il comico parlava sommessamente e col tono del confessore.

Poi se ne andava con la stessa fretta impersonale con cui era venuto. Gli scoprivo il volto più contratto, come se la visita avesse dato un responso funesto. Sulle guance di Moret ta, cera un segno di lacrime, forse di riso e forse no. Si sede va e spiava la carrozzella farsi lontana col tettuccio bianco, già ~impiangendo il comico triste.

« Eppure » mi fa osservare M rianne « tua madre sapeva disperarsi alle crudeltà della Iris e assistere con amore un partigiano ferito. »

Non cera contraddizione. Abbandonata a sé, Moretta era una. Quando la gente le dimostrava fiducia e amicizia, e la coinvolgeva nella vita comune, diventava unaltra. Per quan to piena di rancore, non aspettava che di arrossire di gratitu dine. Allora nasceva, in lei, quella che a Po si chiama la festa della servitù.

Marianne è curiosa delle mie prime volte con le donne.

« Fu a Ghiare » le dico.

Era un paese di af~latori di falci. Un grande olmo, dalla cupola verdescura, dominava la piazza. Gli af~ilatori sedevano in circolo, a gambe larghe, conficcando il battifalci in verti cale fra le ginocchia, vi appoggiavano la lama e la lavoravano col martello tondo. Il picchiettìo si diffondeva per la cam pagna.

Quando passavamo in corriera per la statale, Moretta mi indicava quel luccicare di falci, come se lorizzonte mandasse misteriosi segnali. Mi diceva che, laggiù, vivevano le done gabjane, impestate dalla sifilide e dallo scolo. Esse divora vano i barcari.

Per Moretta, tutte le donne erano infami.

Prima di addormentarmi, fantasticavo su due cose che mi impaurivano: salire sulla Bugatti di Anfuso, un socio di mio padre che correva i Grandi Premi e faceva i record anche sulle alzaie, lasciandosi dietro nuvole di polvere e sassi che schizzavano come proiettili; e appunto andare con le gabjane di Ghiare.

Mi tornava in mente anche una volta che, in un pioppeto, mi ero imbattuto in un tedesco ucciso che giaceva nella posi zione del feto, coi calzoni calati fino ai ginocchi e macchie di sperma sulle cosce. Il seme sopravviveva alluomo che lave va sparso e fissava, con occhi vitrei, il punto dove fuggiva una ragazza discinta, che impugnava il suo fucile. Doveva essere morto da pochi istanti. Le mosche giravano sulle mac chie di sperma.

Una sera dissi a Moretta:

« Vado a Ghiare. »

Ci ritornai spesso.

Mia madre abbassava la testa e stringeva i pugni. Era il suo modo, cocciuto, di opporsi e insieme arrendersi alle situa zioni contro cui non poteva nulla. Mi faceva capire di star lontano da quel maledetto paese e da “quei corpi pieni di vermi”, come era solita ripetere. Prima che superassi la porta, la sua mano mi afferrava il polso. Mi liberavo dalla stretta e pedalavo verso Ghiare per provare a me stesso che le paure con cui Moretta mi ossessionava non erano che i soliti fanta smi della sua mente.

Dopo aver risuonato per tutto il giorno, il paese sembrava rifarsi con un silenzio profondo. Falci ovunque, in lunghe file contro i muri; a mazzi incrociati, come fucili, nel mezzo delle are; appoggiate ai balconi, con laspetto di becchi di cormorano; immerse nei bacili colmi dacqua e abbandonate nei forni spenti, dove venivano passate al fuoco. La luna le faceva risplendere.

Mi aggiravo per le stradine, immaginandomi in un regno della Morte che, deposti i ferri del mestiere, soprassedesse momentaneamente al suo volare sulla terra. Dalle persiane accostate, udivo mssare i falciatori, la tosse che scuoteva i vecchi, il piangere dei bambini, le grandi pendole che batte vano nelle cucine.

Ma, delle gabjane, non vedevo traccia. Eppure dicevano che ce ne fossero di ogni età, anche bambine.

Una notte, mi accorsi che si era fatto molto tardi. Raggiunsi la bicicletta e montai in sella quando, da una delle ultime finestre del paese, scese un grido di donna. Un orgasmo. Aspet tai. Nel grigio dellalba, uscì un uomo. Si strinse nellimper meabile e mi vide. Lesse nei miei occhi che anchio avrei voluto salire, senza trovarne il coraggio.

Allora venne verso di me e levò le mani che teneva affon date nelle tasche. Le grandi palme si avvicinarono al mio viso, mentre intuivo la sua intenzione. Metà complice, metà sarcastico, voleva che le annusassi. Lo fissai senza abbassare la testa, rifiutando quella complicità virile. Ma non cera volgarità, nel gesto. Era unofferta di iniziazione. Poi salt~

sulla bicicletta e si allontanò pedalando con energia sotto i pioppi.

Mi decisi ed entrai nella casa. Un corridoio mi inoltrò tra porte chiuse. Dalla sola semiaperta, la voce della donna, av vertita dai miei passi, mi invitava. La gabjana era a letto, con la schiena appoggiata a due cuscini. La lampada sul comodi n,o, attraverso la seta della vestaglia che lavvolgeva, manda va su di lei una luce mista a ombre, e la fisionomia ne veniva alterata. Non avrei potuto dire se fosse giovane oppure no.

Un riflesso ne imbiancava i capelli, dava risalto alle sporgen ze della fronte; la parte oscura accentuava il gonfiore delle labbra.

Teneva le braccia sulla coperta. Sul braccio destro, le mac chie di un eczema. Mi avvicinai con paura, attrazione, ripu gnanza, unirragionevole riconoscenza.

La notte tornavo a Ghiare e, il giorno dopo, tremavo. Mi chiudevo in bagno e non facevo che guardarmi il pene.

Moretta cominciò ad aspettarmi sveglia.

« Vieni » mi diceva. Ora, con una dolcezza che non le cono scevo.

Era lei, a portarmi in bagno. Ad aprirmi i calzoni e a con trollarmi. Mi lavava accuratamente con acqua e sapone, poi mi cospargeva con una soluzione contenuta in una bottigliet ta, che mi bruciava. La lasciavo fare. Mi accorgevo che, al limprovviso, si dimenticava di me. Continuava a muovere le mani, ma il lavacro riguardava soltanto la sua mente, che avrebbe voluto liberare dagli ossessionanti pensieri.

…mio padre lasciava la motocicletta rossa davanti a casa nostra, per farci capire che era nei pressi, ma non si sarebbe degnato di entrare nemmeno per un saluto. Io uscivo, toccavo il sedile che conservava la fossa del suo corpo, e rovesciavo a terra la motocicletta.

Poi aspettavo che lui ricomparisse. E col mio silenzio, la mia mancanza di paura, lo sfidavo a punirmi per ciò che avevo fatto. Mi scrutava con rancore, quindi sollevava la motoci cletta e scompariva in una nuvola di polvere.

Mariar.ne vuol sapere ancora di Moretta e mio padre.

Lui gridava:

« Le donne sono cimici! Cimici e fachiri!… Ingoiano tutto e non rendono che figli! »

Raccomandavo a Moretta di stare ferma.

« Sparisci, cimice! »

La casa di Motteggiana era quieta nelle notti destate, con le finestre aperte. Finché non arrivava mio padre che ferma va la motocicletta davanti al cancello. Lo vedevo alzare il braccio e agitare la torcia a vento.

Moretta dormiva nel letto di fianco al mio. Non mi dava retta. Si affacciava. Stava al balconcino di ferro, senza repli care, né fare un gesto. Tornava la donna a prora, durante la piena. Quellimmagine impassibile scaricava la furia di mio padre. Come se calasse una pugnalata, ficcava la tor`cia nel supporto del manubrio, avviava il motore con un colpo del fallone e ripartiva nel buio con uno strepito.

Moretta si stendeva di nuovo. Fissava il soffitto e diceva, con malinconia:

« Buonanotte, povero merlo.

Ma chi era, il merlo?

Agli inizi della guerra, mio padre era un capobastone, re putato intrigante e imbelle. Il suo incarico alla Bonifica ma scherava manovre coi traffici clandestini della Liggera, specie col contrabbando da Borgoforte a Sustinente a Melara. Che fossimo tornati a vivere a un chilometro dalla boaria dove si era insediato dopo il matrimonio con Margherita Tanzi più giovane di Moretta, una di Villa Saviola, che possedeva biol che privilegiate lo aveva sconvolto. Temeva Moretta; I suoi imprevedibili disegni.

Lei gli compariva nei luoghi e nei momenti più impensati.

Se si metteva con gli amici squadristi al bar di Borgoforte, eccola che veniva a sedersi a un tavolo vicino, e lentamente sorbiva la sua bibita o mangiava il suo gelato. Se andava a messa la domenica, Moretta si sistemava nella stessa fila, spesso accanto alla Margherita Tanzi, fissandone i capelli ù corvini e il grande seno. Mio padre prendeva ad asciugarsi la fronte col fazzoletto.

Anche negli spiazzi dove la Liggera caricava le barche di frodo, e tutto era selva e palude, con lampade gialle che ri schiaravano gli attracchi, o sugli argini spazzati dal vento o affogati nelle nebbie, dove i carabinieri e le guardie finan ziere non trovavano i passaggi, ecco là Moretta seduta sui piccoli moli di cemento, che fissava la scena con aria assente.

Si sollevava la veste e teneva le gambe nude nellacqua.

Mio padre diceva ai complici:

« Adesso vado e lammazzo. »

Ma gli altri replicavano:

~ Fallo dove vuoi. Non qui, che siamo di frodo. Bada al carico, piuttosto. »

A mio padre singrossavano le vene del collo.

« Io ti farò impiccare per i piedi! » le gridava. « Dio asi dént! »

Moretta aveva gambe molto belle, e con la sua anima di sbieco, da una parte, dentro il solicello di lanca, diffondeva una grazia di cui era consapevole. Perciò lAnfuso faceva notare a mio padre:

« Hai fatto male, Attilio. Forse era una donna più giusta della Tanzi. Perché è più fine e intelligente. E ha le gambe belle. »

Allora, lira di mio padre si rivoltava contro lAnfuso, che però era una montagna e con una sola mano avrebbe potuto 132

spaccargli il collo; squadrista temerario, pieno di record come lo era da pilota. Mio padre lo afferrava per la giacca, ma lAn fuso gli ripeteva sorridendo:

~< Quello che dico, se vuoi lo scrivo e lo sottoscrivo. E tu sai che posso farlo. »

In mio padre spuntava il vigliacco. Si sapeva che lAnfuso, da Motteggiana a Melara, non ne aveva salvata una, donne sia di amici che di nemici, ed era certa anche quella diceria con la Margherita Tanzi, che avevano visto più volte al Bo scone Rosso in sua compagnia, e per di più alla spavalda, ossia col grammofono nella pioppaia che mandava ai quattro venti Caminito, perché lidea di Anfuso era che meno ti na scondi meno ti vedono, o più fingono di non vederti.

Mio padre diceva conciliante:

« i~; stupido davvero litigare fra noi! »

E se si metteva alla testa dei parcellanti che andavano di corte in corte, al tempo della vendemmia, a raccogliere lo maggio del vino che i contadini dovevano ai taglieggiatori, Moretta sbucava come per caso attraverso lo strame che le insanguinava i piedi. E poi, seduta sulla nuda terra, guardava quegli uomini bere dagli otri del loro ladrocinio, mentre i con tadini, impotenti, stringevano pertiche e forconi.

Mio padre si ubriacava più di tutti, per far credere a Moretta che non gli importava niente, e alla fine andava di traverso dentro i solchi, e orinava sotto il cielo, chinando la testa come se gli costasse fatica. Nei fumi dellaratura, il fan tasma di Moretta lo seguiva passo passo; allora mio padre, con gli occhi annebbiati e lo stomaco in gola, la provocava:

« Vieni qua, che te lo do unaltra volta. Cosl di figli saranno due. E questo che piscerai, sarà il mostro che ti porti nel cuore. »

Moretta obbediva tranquilla e col suo muoversi da farfalla.

Gli si fermava così vicino da sentirgli il fiato, pronta a ciò che diceva; ma mio padre stava semple con la testa allingiù, e non si capiva se, sul sesso che gli pendeva morto dai cal zoni, i suoi fossero accessi di riso o singhiozzi di rabbia. Lei aspettava con la sua calma daldilà, finché lui non si chiudeva i calzoni e se ne andava sbandando, perché non cera un albe ro a cui appoggiarsi.

Per mesi, dovunque andasse, Moretta lo raggiunse o lo precedette. A volte lafferrava e la schiaf~eggiava, anche da vanti alla gente:

a Dimmi cosa vuoi! Se woi dei soldi, io te li do. Non hai che da chiedermi la cifra! »

Moretta non apriva bocca nemmeno in quei momenti. E se le faceva male era contenta. Lo capiva anche mio padre. Un giorno la picchiò tanto che se gli amici non glielavessero tolta di mano, lavrebbe uccisa. Vennero ad avvertirmi di andarla a riprendere ai ghiaioni di Bocca di Ganda, raccon tandomi che si era lasciata aggredire senza resistenze, anzi con un sorriso sulle labbra. Era notte, e mi lasciarono solo tra le fratte. Io mi aggiravo chiamando « Moretta! Moret ta! », ma non provavo disperazione. Non provavo nulla. Mi portavo il suo stesso vuoto, e mi dicevo che se anche lavessi trovata morta sarebbe stato naturale; me la sarei caricata sulle spalle, e forse era una salvezza di Dio.

Stava rintanata nel buio tra le rane, ed era viva. Aveva soltanto un braccio spezzato. Tornammo a casa attraversando i greti. Le reggevo il braccio rotto, dalla manica àrrotolata, e nelloscurità non galleggiava che il biancore di quellarto che mi dava la sensazione di restarmi in mano da un momento allaltro.

Mi si strinse la gola e le dissi: « Fermati… ».

Ora sembrava a me di crepare sotto lo stellato dagosto.

che non concedeva una bava, a cui ripetevo anchio “Dio asi dént”, pensando che bastava una spinta: dammi una sola spinta, cane di un Dio o di un Bio, e per me sarà finalmente pace. Invece mi sprofondava in quel buco di cesso del mon do, e mi teneva le mani al collo, senza averne abbastanza.

Girai appena la testa, non mi curai neanche di piegarmi.

Il ricordo che ne ho è che vomitavo con grande stanchezza della testa verso la spalla, fermo, perché ogni altro gesto mi sarebbe costato uno sforzo impossibile.

Moretta mi fissava senza vedermi.

Conservava negli occhi lo sguardo che rivolgeva a mio padre. Le ci voleva tempo per perderlo. Vedeva mio padre in me, lasciandomi quel braccio da reggere come un cane la zampa; la scheggia dellosso aveva lacerato la pelle.

Poi, riprendemmo ad andare. Solo quando le appoggiai il moncone sul tavolo della cucina, riuscl a distinguermi e mi prestò attenzione. Mi disse: « Non devi avere paura. Non è niente ».

Mio padre la denunciò ripetutamente ai carabinieri. Ma questi gli fecero notare che la legge non poteva impedire a una donna di muoversi dove voleva, tanto più che non prof feriva ingiurie e non arrecava molestie. Era sola, discreta e zitta. Così mio padre dovette rassegnarsi a Moretta e alle sue apparizioni, come a un pensiero fisso. Non si fermò più, di notte, sotto casa nostra. Mentre, dandosi per vinto, confidava alla Margherita Tanzi: « Questa persecuzione non avrà mai fine. Quando la vedo, mi prende il panico dellaldilà. Quasi lavessi uccisa e mi comparisse da morta. Anche in sogno, è lo stesso ».

Abbracciava la Tanzi e la pregava: a Fai qualcosa tu ».

Ma la Tanzi si guardava dallintervenire. Le faceva como do che mio padre si rinfacciasse da solo le sue miserie; era un modo per praticare impunemente le proprie con lAnfuso e gli altri; e poi per Moretta provava uninconfessata grati tudine, da quando mia madre, nel suo spiare, laveva scoper ta in macchina con uno, e in quel caso non ne aveva appro fittato: si era limitata a passar via sfiorando lautomobile, gettando uno sguardo atono tra le gambe della donna. E quan do la Tanzi era andata a chiederle il favore, lei aveva risposto che non cerano favori né da chiedere né da fare, perché lei non aveva visto niente.

E forse diceva la verità. Ciò che registrava, in quei mo menti, la sua mente lo ricordava soltanto quando tornava a

«vedere”, per il resto lo rimuoveva.

Venne un inverno di neve molto alta. Mio padre passava in moto, imbacuccato, e non avvistava Moretta. Non cera traccia di donne sulla distesa immacolata e, dietro la sciarpa indurita dalla brina, egli tirava un sospiro di sollievo. Per qualche mese la neve avrebbe tenuto lontana Moretta pen sava ma fece lerrore di credere più alla superstizione che non alla realtà degli alberi scheletriti nel gelo. Era di una tale felicità che fischiettava nella sciarpa che gli sbatteva sul naso, e si disse:

«Adesso faccio un voto e vado a portare due fiori ai miei poveri morti. Ogni giorno che non la vedrò, saranno bei fiori di carta in uno di questi cimiteri con le tombe sotto la neve. ”

Sfilavano il cimitero di Govérnolo. Quelli di San Benedetto Po e Portiolo.

~Vado” si ripeteva. “Così i miei morti saranno contenti.”

Scelse il cimitero della Tedolda. Prima di entrare dove stava sepolto suo padre, sotto il nevischio della sua libertà, il centauro che aveva corso una volta la MilanoTaranto, si concesse qualche svolazzo acrobatico sul ghiaccio, trovandosi imbattibile.

Esultava: « Questa sì, che è pace! ».

Irruppe tra le tombe tracciando una scia che a nessun altro sarebbe riuscita. Lasciata la moto, avanzò coi fiori stretti con tro il giubbotto di pelle nera. Sugli occhiali, la neve creava figure acquose. Perciò, allinizio, pensò: non può essere, è uno scherzo degli occhiali, come faceva a sapere che mi sarei fermato qui alla Tedolda, da mio padre, e proprio stamatti na? Ma, sollevati gli occhiali sulla fronte, Moretta era sempre là che camminava adagio sotto i portici, a tratti battendo i piedi, per scrollarsi la neve.

Allora mio padre si lasciò andare su una tomba. E senza chiedersi perché, affondò le braccia. Gettava via neve su neve, e quando trovò il marmo gli sembrò di poter scavare anche quello con le unghie. Ormai vedeva con gli occhi della mat tana, gli stessi di Moretta. Il marmo gli pareva un cedevole terriccio appena gettato sulla cassa, dove credeva di potersi sotterrare una volta per tutte.

E Moretta lo a«ostò. In piedi dalla parte opposta della tomba, lo guardava, con la sua serenità, scavare e scavare. Fin ché mio padre non ebbe le dita che colavano sangue. Se le scmtò come se non fossero sue, riconoscendo:

« Neanche i morti mi vogliono. »

Si sollevò, dimenticandosi della motocicletta. Più non ca piva da che parte stesse il cancello. Affondava nella neve ora a destra, ora a sinistra. E Moretta ferma mentre lui le girava intorno col suo peso da nulla, sospesa sulla coltre dentro il cappotto col collo di pelliccia.

Cosl si arrivò alle notti di guerra. Non appena scendeva il buio, vedevo Moretta infilarsi la gatta sotto il braccio e impugnare la vecchia lucerna. Usciva di casa dicendomi:

« Torno ». Andava a sedersi davanti alla casa di mio padre e della Margherita Tanzi. Passavano aerei da ricognizione e loscuramento era completo; credo che dallalto, per tutto il Po, fosse avvistabile solo la lucerna accesa che lei, immobile su una panchina, teneva tra sé e la casa, e intorno alla quale la gatta singroppava con la coda dritta.

Le bombe cadevano qua e là. Come un giorno aveva scru

~ato la piena, Moretta fissava intensamente quella luce augu randole, con tutta se stessa, il potere di ridurre la distanza degli scoppi, fino a centrare il bersaglio. Ma forse perché il segnale si manteneva così regolare e umile, gli aerei punta vano oltre. Arrivava lalba e Moretta, rassegnata, si ripren deva la lucerna e la gatta, tornando per ll paese e facendo conto sulla notte successiva.

Mi appariva con la luce nella mano sinistra, la gatta addor mentata sul petto, nellaria già azzurra tra le case. Si stendeva nel letto a«anto al mio, gli occhi aperti al soffitto.

Capitolo settimo

Il mediatore sposò Marianne in Santa Croce in Gerusalemme.

Le ho ricordato quel giorno.

« Che ironia » le ho detto.

« Ironia? » si è sorpresa Marianne.

« Io stavo tra la folla degli invitati. »

« Lo sapevo. »

« Mi piace, essere un perfetto intmso. »

« Sapevo anche questo. E allora? »

Me lo chiede col tono di una bambina a cui si conta una fola. Proficuo atteggiamento psicologico, per i miei fini.

« Allora, ho alzato gli occhi ed eccolo là: larguto segno che parteggiava per me. Contro di voi. »

a Sei in luna… » ha sorriso Marianne. Ma con una punta di sospetto, oltre che di curiosità di sapere.

~ vero. Ero in luna, ieri. Io sono spesso in luna, di matti na presto. In un Caffè riscaldato bene e col profumo di pa sticceria e il freddo, fuori, che gela i vetri. Ma era una luna felice.

Le ho dato una spiegazione in carattere con le nostre esplo razlonn

a Devi sapere, Marianne, che la chiesa di Santa Croce in Gerusalemme fu costruita da Costantino. Per il desiderio di ospitarvi le reliquie che sua madre Elena aveva portato dai luoghi santi di Palestina. »

« E allora? »

« Nella cappella destinata a SantElena, sotto il pavimen to, cè la terra che essa prese sul Calvario. Nella cappella del le reliquie, sono conservati: tre pezzi del legno della Croce un chiodo, due spine della corona e il braccio trasversale della croce del buon ladrone, San Disma. »

Sono venuto al punto.

« E poi, un dito di San Tommaso. Quello stesso che il diffidente apostolo affondò nel costato di Gesù. »

« Te lo stai inventando. »

« Affatto. Vi sposavate sotto la simbologia perfetta delle nostre tre realtà. Il mediatore aveva il suo pezzo del buon ladrone, tu la polvere del tuo calvario con me, io il mio emble ma. Quel dito… La vita ne combina, di questi scherzi. E al sarcasmo di Roma, non si scappa. »

« Te lo stai inventando » ha ripetuto.

Mi è toccato portarla in Santa Croce in Gerusalemme Anche lei, era come San Tommaso. Lo sguardo di Marianne si è puntato sulla custodia dove risplende uno zaf~iro: al cen tro, quella sorta di artiglio, lucido e nero. Sullunghia, un orlo color ruggine, che potrebbe essere il sangue divino.

« Eccolo lassù. Lo vedi?… Mentre tu e il n~ediatore anda vate a testa bassa, due treni che correvano verso il cozzo ine vitabile, io fissavo lemblema massimo della curiosità. Nella penombra accarezzata da questo stesso soie cupo e dal gioioso annuncio della cantorla. »

Ci sono momenti in cui riesco a incantare Marianne, la sciandola sospesa, senza che ancora sappia decidersi se sia verità o un mio gioco di prestigio. Momenti magici, direi, delle nostre lezioni. Ma, per ottenerli, devo essere in stato di grazia. Il che non è di tutti i giorni.

« Lo capisci, ora? Che ironia, davvero, sposarsi davanti a me e avendo puntato contro lindice_la cui amputazione deve procurare serio imbarazzo, al mio Santo Patrono, nelle sue strette di mano paradisiache. Io mi ci sono incantato e ho immaginato un racconto. Potrebbe intitolarsi Il dito di San Tommaso. »

Non le ho aggiunto che il racconto è rimasto una delle tante idee che, quando mi siedo al tavolo, alzano bandiera bianca di fronte ai matitoni: segni variopinti dellinutilità.

« E che dice, quel racconto? »

« Ricalca, allinverso, Il Naso di Gogol. Un personaggio, che potremmo chiamare Homunculus dato che, come in Faust, la sua realtà è una fiala in cui si vivono sogni di impos sibile bellezza apre gli occhi un mattino facendo uninquie tante scoperta. A differenza dellassessore collegiale Kovalev, che si sveglia senza naso, si trova con qualcosa che, fino alla notte prima, non aveva: il dito, appunto, di San Tommaso.

Una piccola proboscide scura tra le dita rosee. Sulle prime, pensa che il segmento terminale sia suo e sinterroga ansio samente sulle cause che possono averlo annerito. Ma per quanto frughi nella memoria, non riesce a ricordare dove e quando se lo sia schiacciato. Anzi, è sicuro di non esserselo schiacciato affatto. Si tormenta. Si rassegna… »

« E allora? »

« Presto, il dito fa sentire la sua autonoma autorità. Spri giona una forza arcana che si propaga al cervello e agli arti, funzionando come lago di una bussola. Qualunque cosa fac cia il povero Homunculus, lago calamitato indica sempre la stessa direzione: il Nord Magnetico della curiosità. ~ come

;l coniglio di Alice. Lippogrifo di Astolfo… Homunculus viene trascinato in regioni boscose simili a quelle in cui Rabe lais simbatte dentro la bocca di Pantagruel; di fronte ai mulini a vento di Don Chisciotte. La magica energia lo intro duce, al pari di Casanova, nei corpi di donne belle e bmtte, lo spinge a cavalcare su innevate montagne che nessuno ha mai concepito e descritto… Finché le avventure, diciamo il sogno del personaggio, non sfumano nel reale e San Tomma so non viene a riprendersi il dito, che resta nero e un po 140 141

arricciato anche nella sua mano radiosa. Per Homunculus, tut to toma a scorrere nello squallore del quotidiano. ~

Marianne si divertiva. Nelle navate dove non risuonavano che le nostre voci. Come di due ragazzi.

Ho concluso:

« Ad un tratto, mi sono trovato nella chiesa vuota. Perso nelle mie fantasticherie, non mi ero accorto che voi sposi ve neravate andati. Era rimasto solo il sagrestano, che si aggi rava spegnendo candele intorno allaltare bardato a festa.

Zeppo di mazzi di fiori. »

Parliamo anche del rapporto di Marianne col mediatore e delle avventure, o disavventure, di quando si viveva insieme.

Non cerchiamo bilanci o significati particolari. Ne parliamo semplicemente: in libertà e con larguzia che sto cercando di insegnarle.

« Cerano mattine che mi appostavo a Piazzale degli Archi vi. E ti vedevo uscire, tenendo per mano Simone. »

Marianne sorride:

«Lo so.»

Il bambino aveva già due anni. Ma mi sembrava ieri quan do lei mi aveva telefonato per lultima volta, comunicandomi di essere diventata madre e usando la sua soddisfazione con tro di me: aCosl, la partita è chiusa. Dora in poi, ti proibi sco di cercarmi o di chiamarmi al telefono. Non voglio più nemmeno sapere che esisti”.

« ~ successo » riconosce.

Non aggiunge altro. Mi fa piacere che, nella sua voce, non ci sia alcun tono di rammarico. Soltanto la serenità con cui prende coscienza delle cose. Lho detto: sta facendo progres si con una rapidità che mi sorprende. _

La vedevo uscire, dunque, e portarsi il bambino nei giardi netti di Piazzale degli Archivi. Le andavo dietro con non poche dimcoltà. Erano i tempi in cui il mediatore temeva se questri: per sé e diciamo i suoi cari. Due gorilla cammi navano luno avanti, laltro seguendo la coppia. Perciò, io dovevo regolare il mio pedinamento sui passi di tutti quanti.

Ancora convenivo che la vita è un pasticcio di impruvìs: i mulinelli del Po. Mica vero che, sempre, ti tirano per i piedi.

Spesso sono carambole e ti trovi per aria. Dipende, dicono.

Da che? Dallairone rosso che chiama le correnti. E lairone rosso, da che dipende? Dalie correnti che lo chiamano. Punti di vista. Il mio, lo nascondevo dietro il giornale, fingendo di concentrarmi nelle pagine, secondo il manuale del pedinatore, e come nei hlm sursaut, di cui la realtà è parafrasi. Chi avreb be detto che quellinvestigatore strampalato si era lasciato investigare da Marianne, con il rigore deprecherebbe il me diatore che ignorando il giusto mezzo, ti lascia in mezzo a un vespaio?

Ero certo che saremmo invecchiati insieme. Non nel senso retorico. Intendo che, data la salute di cui gode Marianne, comè in genere delle dalmate cresciute a mare e sole, non avevo dubbi che mi avrebbe sotterrato. Mani nelle mani, occhi negli occhi, lei magari pensava allAlberoni, allinna moramento e amore, e io a dirmi: queste mani, questi occhi, soddisferanno, in Marianne, la curiosità estrema che provo per me. Mi toccheranno e mi scruteranno da morto.

Come sarò, da morto?

Io non lo saprò mai. Lei, sì.

« Perché sorridi? » mi chiede Marianne. Mentre, zitto, ri percorro i tragitti dellinvestigatore.

<~ Riflettevo… »

« Su che? »

« Sugli impruvìs. E sul fatto che cè chi muore prima e chi dopo. In America, per esempio, pare che le donne muoiano dopo. »

« Mi piace che tu abbia imparato a sorridere. »

Frase tipica, e un po atroce. Non solo delle dalmate.

Quegli anni con Marianne, erano uguali ai giorni che aspet tavo Eurte con la compagnia di uno spaventapasseri lacerato dai gabbiani. Una pagina scritta per essere smentita dalla successiva. Fitta di alterchi e allegrie. Piegata a orecchio nel gran libro. E il gran libro archiviato.

Intanto mi rendevo conto che solo Mussolini, dittatore esibizionista e schizoide, poteva aver concepito lEUR. Essa è laltro occhio della tirannide. Quello che si compiace non di oceaniche folle, ma di diradare lumanità con uninquisi zione atmosferica che non ammette nascondigli di sorta, né riservatezze urbane. I contorni ne sono le orbite che accer chiano il vuoto. Le geometrie delle prospettive, lo sguardo che ci scruta ISno alle ossa. E le luci, le ombre, più taglienti che nette, sezionano gli esseri in quel caso Marianne, Simo ne, i gorilla come nature morte dentro il quadro.

Pedinare, da quelle parti, era un controsenso naturale.

Ma io amo il controsenso. E lo facevo. Pur sentendomi inquisito nei pensieri, specie nei dubbi. Non perdevo una mossa, tuttavia. Di nessuno.

a E come mi vedevi? » chiede Marianne.

« Come mi avevi decto tu, troncando con me. Soddisfatta.

Esprimevi soddisfazione col portamento, i gesti e le parole che rivolgevi a Simone, i rari saluti che scambiavi nel piaz zale. Ti chiamavo la donna dal mare senza vento. Con le nostre tempeste che avevano lasciato a riva un sacco di pesci morti. »

« Soddisfazione… » medita Marianne « Che sentimento è? »

a Qualcuno ha scritto che è di qualità inferiore. Incom patibile con la felicità. Però, con una sua arroganza. »

a Un sentimento EUR » ironizza.

ff Brava. Vedi che ci arrivi? »

a Dunque, destinato a finire. »

a Una volta che il tuo entusiasmo per il nuovo ruolo che ti eri imposta, di cui eri convinta, si fosse dissolto. E tu aves si raggiunto il punto di saturazione.»

a …moralismo. Ipocrisia altmi ben congegnata. Solide abi tudini borghesi di cui lamentavo la mancanza con te. » In terrompe lelenco: « Stavo affogando, di nuovo, in un bic chier dacqua ».

a In un certo senso. Ma era un bicchiere. Non il Po. ~

a Il mio vizio di cambiare. Bmciarmi i ponti alle spalle… »

a No, Marianne. Il tuo vizio consiste, o consisteva, nel costruirtene di nuovi. Percorribili in linee rette. Bisogna anzi tutto imparare ad amare, prima di distruggere completamen te. Di arrivare al nulla. »

« Amare, chi? »

a Se stessi, tanto per cominciare. »

a Non è una contraddizione? »

« Affatto. »

Il discorso si fa complesso. Torno al punto.

« Benché apparissi sola, negli spazi dellEUR, non dovevi più fare i conti con la solitudine che ti procuravo io. Coi miei viaggi, il mio eccessivo dedicarmi al lavoro, anche lisolarmi al tavolo, quando la fantasia funzionava, e allora funzionava sempre. Specie con le mie curiosità… »

Mi interrompe:

« Perché mi escludevi e… »

La interrompo a mia vo]ta:

a Non ripeterti. Fatto è che, in Piazzale degli Archivi, ti vedevo soddisfatta degli inganni che io ti avevo evitato.

« E se quegli inganni avessero messo radici? »

« Norl g~i inganni del mediatore. La soddisfazione che ti poteva venire da lui, non era, essa stessa, che una mediazio ne. Un passaggio o una sosta. Perciò non avevo mosso un dito per ostacolarti nel tuo, chiamiamolo così, esperimento. »

Marianne mi fissa. Di nuovo, senza intenzione di rimpr~

vero. Non ha recriminazioni da fare: né con me, né con se stessa. Questo va bene. Daltra parte, ogni esperimento com porta, oltre che i suoi rischi, qualche decisione crudele.

« Non avevi firmato nessuna condanna a morte, Marianne.

Il mediatore, piuttosto. Con i suoi inganni, non avrebbe mai retto alla lucidità che, al momento dovuto, ti ha sempre im pedito di chiudere gli occhi. »

Marianne si lascia prendere da sconforti. Che, tuttavia, si fanno più rari.

« Gente come il mediatore » dice « non firma mai niente.

Specie le condanne a morte. A meno che non siano altrui. E

rinasce dalle ceneri. Non saremo certo né tu, né io… »

« Sarà la ragione, Marianne. Anche la nostra, perché no?

Essa conosce i meccanismi distruttivi dei mediatori, perciò può distmggerli. Specie con la beffa, che essi non conoscono.

I mediatori si scardinano e dichiarano bancarotta quando si sentono derubati. Battuti, ~ioè, nella propria arroganza di de mbare insuperabilmente. »

« E di cosa lo deruberai? »

a Tu, lo deruberai. Lo stai già facendo. Di te stessa. »

« Per arrivare dove? »

« A quella che io credo, da sempre, la tua lingua madre.

Tu imparavi lingue nuove, e ti piaceva parlarle. Ma esse non ti avrebbero mai defraudato della tua lingua madre, anche se la portavi in te oscuramente silenziosa e inconfessata. Teme vi che potesse superare la tua capacità di espressione. La par lerai. Ti stai esercitando. E non ti farà più paura. »

Non le spiego che questa lingua è la curiosità. ~ dal mo mento che mi ha fissato in automobile, che lo sa.

« Vedi, Marianne, io ero sicuro che il mediatore non sa rebbe mai riuscito a imprigionarti nel suo schema. Un altro, forse, se ti avesse soddisfatta con rettitudine. Un uomo one sto. Quello, lavrei temuto. »

Marianne riprende il mio racconto interrotto.

a Quando ti chiudevi nella cabina telefonica… »

« Già. Tu ti sedevi sulla panchina. I gorilla, su quella di fronte. Io scmtavo i gorilla. I gorilla scrutavano te, con uno sguardo più concupiscente che protettivo. Tu scrutavi il bam bino che ti girava intorno con unafflizio~e ubbidiente. Anche i giardinetti erano per lo più deserti, e non aveva altri bam bini con cui giocare. Un bambino EUR. »

« Me ne accorgevo. »

« Sicura? La soddisfazione ti accecava. »

Piazzale degli Archivi, con la sua luce liquida, sembrava archiviare anche me in uno stagno remoto dalla soddisfazio ne di Marianne. Tanto più che, come dice lei, io mi chiudevo dentro una cabina telefonica, dove non arrivava quasi mai nessuno. A quei pochi che saffacciavano, facevo notare la targhetta rossa del “guasto”, e 11 per lì giravano sui tacchi.

Poi ci ripensavano e si voltavano come si guarda un pazzo, senza capire perché allora io me ne stessi col ricevitore appeso allorecchio, a sfogliare guide lacerate dai vandali. Nelle cu stodie, non erano rimaste che poche, sudice pagine. Gli unici numeri che avessero un senso, erano tracciati a penna e ac compagnati da osceni inviti firmati Fiorella, Lilli, Wanda.

Baci impressi con rossetto fiammante.

Quei numeri, presumo di travestiti, ormai li conoscevo a memoria.

Simone si spingeva fino alla cabina e batteva contro il vetro.

Arrivava uno dei due gorilla che se lo portava via: il bambino trotterellava sogguardando il rigonfio della pistola sotto la giacca delluomo. Se ciò non accadeva, ero in imbarazzo. Gli facevo segno di andarsene, gli giravo le spalle. Ma non ser viva. Lui prendeva, a sua volta, ad aggirare la cabina e me lo ritrovavo di fronte, col suo alfabeto da sordomuto che trac ciava con le mani grassocce, unaria furba. Non mi restava che lasciarlo fare, finché non si allontanava, puntandosi lin dice sulla fronte, per farmi capire anche lui che ero picchiato.

Però eravamo diventati amici. Quando mi capitava di arri vare in ritardo alla cabina, era là che si guardava intorno e mi cercava.

…ci sediamo spesso anche nelle panchine di Piazzale degli Archivi. I gorilla non ci sono più. Ma cè Simone.

Mi chiedo: come ho fatto, quando ero in tempo, a non capire che Marianne è conformata, psicologicamente e anato micamente, per essere madre? Basta vedere con che natura lezza si proietta in Simone, trovando le parole giuste, i gesti appropriati. Mai troppo autoritaria, né troppo cedevole. Li dentificazione, tra i due, ha un suo incanto.

Ecco il mio solo errore. Senza attenuanti.

« Perché metterti incinta mi ossessionava? Come, del resto, mi ha sempre ossessionato con le altre… »

« Non ti sei ancora dato una risposta? ~

Allora mi assaliva con le solite accuse che, in casi del gene re, una donna rovescia sul partner:

ff Tu non vuoi un figlio perché lo consideri una palla al piede e ne temi le responsabilità. Per il tuo egoismo e la tua ambizione, ammazzeresti tua madre. ~> Povera Moretta. Marianne non sapeva nulla, di lei. Erano, sì, gli anni in cui facevo del mio meglio perché gli altri grati ficassero quello che ritenevo il mio sincero valore, toglien domi da unincomprensione in cui mi vedevo seduto come sulla panca di una stazione da cui non partivano che tradotte, e i pochi treni che arrivavano erano in un imperdonabile ritardo.

Ma le cose stavano ben diversamente.

Lottavo contro un senso astrale di delusione. Non per rag giungere gloriosi risultati. Farglielo capire, era inutile. Peg gio ancora, spiegarle le ossessioni di cui ero io a soffrire per primo.

« Oggi ~> le confesso « le ingraviderei tutte. Bianche, nere e gialle. Cospargerei la terra del mio sperma e lo immagino sfarfallare come i petali dei peschi quando fioriscono a Kyoto: una mia bianca, immensa primavera spermatica. Sogno belle pance gonfie e abitate, in allegria, dai miei geni. »

Pur di liberarmi da questa nuova ossessione di morire da pianta secca, senza neanche unarrugginita bicicletta appog giata al tronco. Come lalbero del Malcantone.

Ma niente da fare. Più insemino, meno ingravido. Sterilità da inconscio, concludono gli endocrinologi. Se linconscio si oppone alla paternità, per motivi nevrotici, non cè testoste rone che tenga. Il mio desiderio di procreare, non meno ma niacale del terrore opposto, sarebbe appunto una ritorsione del mio complesso genetico. Per aver negato la maternità a Marianne e, anche per questa ragione, averla perduta.

Troppo schematico, secondo me. Ma è indubbio che, nella vita, ho sempre sbagliato i tempi di entrata e uscita. Che atto re maldestro!

Marianne ignora i miei retroscena:

« Perché non lo fai? ~> mi chiede.

« Con chi? ~>

« Con una delle tue donne. Una giusta. Se ce lhai. ~>

« Usi lo stesso tono di quando, non appena accennavo alle mle ossessioni, reagivi: «Storie. Fai un figlio e vedrai che ti passano”. »

Arrivava il menarca, e già la parola mi spingeva a salu tare un Agamennone che ritornasse trionfalmente in patria.

Respiravo. Lavevo scampata ancora una volta.

« Tu mi puoi aiutare, Marianne » le dicevo. « Ma non così. Con meno intransigenza. »

a Più ti si dà corda, peggio è. Ma quella corda, ricordati, un giorno o laltro finirà per strozzarti. »

Me ne ricordavo, nella cabina di Piazzale degli Archivi.

Mi sentivo impiccato al cordone del telefono. Dovevo aprire la porta, tuffare fuori la testa e prendere aria a pieni polmoni.

« Lasciami respirare, Simone » lo pregavo. a Fai il bravo. »

Ormai, che dovrei spiegare a Marianne? Che il mio sper ma, allanalisi di laboratorio, risulta come le acque del Po?

Microrganismi, leucociti, densità e omogeneizzazione scarse, aspetto torbido, viscosità diminuita, detrito salino amorfo.

Esattamente come il Po, che non sof~re soltanto dei mali del linquinamento. Ce ne sono altri. Le ruspe e i loro scavi sel vaggi. Le cariche esplosive. Per cui il letto del fiume cala a vista docchio. La qualità dellacqua peggiora. Il Delta faci lita la risalita salina nei terreni coltivati. Affermano che il computer, presto, governerà il fiume. Ma il computer non può governare i miei testicoli.

Mi trovo a dire:

« Il Po sta finendo la sua corsa. Come lairone rosso. »

È Marianne:

« Da quanto tempo non vedi tua madre? »

« Da tre anni. Ma il tempo, per lei, è unaltra cosa. Potrei arrivare là, in questo momento, e vedere la luce che illumina la mia cena. Mi direbbe: siediti, è pronto. Quasi fossi appena uscito di casa. »

Una volta mi sono seduto, dopo una lunga assenza. Ab biamo cenato. Poi, le ho detto: vorrei sapere come andò quel giorno o qu~lla notte. Me lo chiedo da sempre. Moretta non mi ha chiesto, a sua volta: di che parli? Di che giorno? Di che notte? Ci siamo sempre capiti così. Da unocchiata. Mi ha risposto, invece: « Portami ai ghiaioni di Bocca di Ganda. Cè anche una bella melonara, adesso. E mangeremo languria ».

Lho portata ai ghiaioni di Bocca di Ganda.

Un buio fondo, oltre le luci della melonara. I cani abbaia vano. Ci siamo fermati davanti a una conca erbosa, rimasta 11, intatta. Ancora, due amanti potrebbero distendersi e farci lamore. Tra i cani, le pietre. E cè un argine da cui resta possibile arrivare con una motocicletta rossa.

Moretta è penetrata nella conca. Ha mosso un po il piede destro in un punto. Mi ha spiegato, semplicemente, che è successo di prima notte. Nel pomeriggio, era ca~uto un acquaz zone. Ma aveva smesso presto. Così, lerba si era asciugata.

Lappuntamento aveva avuto luogo e mio padre era arrivato sulla motocicletta rossa.

I piovaschi, sono degli impruvìs. Come i mulinelli.

Questione di ore. E io, adesso, non sarei a Piazzale degli Archivi.

Il mio non voler figli è stato una delle cause della rottura con Marianne.

Il resto, come ho detto, lo hanno fatto le mie curiosità.

Non le ho mai nascoste o negate. Specie con Marianne.

Perché mentirle su pratiche della conoscenza che conferma vano, secondo me, la stabilità di un rapporto che poteva be nissimo concedermele? Un giorno, Simone farà le sue prime scoperte e proverà il desiderio di comunicarle; ebbene, ci~

non tenderà agguati al legame con la madre, ma ne sarà parte indispensabile.

Era di nuovo lintransigenza di Marianne, a o~uscare il quadro. Per lei, le mie curiosità erano atti impuri, niental tro. E il suo concetto di impuro andava, dalla sessualità, al lidea stessa della vita. Gli alibi di un ipocrita, ingordigie carnali. t

« Forse neanche te ne rendi conto » cominciava. a Arrivo a concederti questo: che tu non ne sia cosciente. Ma le cose non cambiano. Hai una doppia faccia, una seconda esistenza, sotterranea, che ti imprigiona nellambiguità. Me ne escludi.

E non lo sopporto. >~

Diventava sentenziosa:

« Perché non sai rinunciare a niente? La tua vita è zeppa di figure minori, realtà secondarie. Ogni figura in cui ti im batti, assume subito un significato, per poi rivelarsi, invaria bilmente, limpersonificazione dellinconsistenza. Una vita da cui spazzar via una quantità di scorie. »

Mi colpiva una frase: « La tua retina sembra una calami ta ». Esatto. Senonché, di questa calamita, avevamo concezio ni opposte. Per lei, restava la pietra dellinganno ottico. Per me, un occhio capace, oltre che di sorprese, dei poteri che Eurte mi aveva insegnato.

« Senza la curiosità, la fantasia è spenta, infelice » le ripe tevo, riascoltando le lontane parole trascinate nei greti. « E

come potrei lavorare, senza fantasia? Sei tu, che ci inventi gli alberi maligni. »

~ « Vorresti dominare il mondo sentimentale e sessuale di tutti. E non ti accorgi che ne sei dominato. Che quel mondo non ha sentimenti. »

Tornava al disincantare la montagna.

« I tuoi sono fantasmi mitici che si vanificano a vicenda.

E ti lasciano nel tuo dilemma. »

« Quale dilemma? » chiedevo col mal di testa.

Parodiava un Amleto sarcastico:

« Scontrarsi col mondo o ritirarsi da esso?… »

E poi:

« Basta cosl. Non parliamone più. »

Parole, invece, fino alla nausea. Notti in bianco. Nervi che si logoravano. Le dispute scoppiavano senza nemmeno più una ragione plausibile.

« Mi sono sempre sforzata di restare fedele ai miei prin cipi. »

Cercavo di spiegarle quali deviazioni, in certo senso diso neste, imbocchi lonestà quando simpadronisce della mente come un vizio. Le facevo notare: « Princìpi che hai cambiato quando ti andava… Princìpi periodici! ».

« Può darsi. Ma, contrariamente a te, non ho mai ferito nessuno. »

Era vero. Mai unipocrisia, una reticenza. Non mi aveva mai tradito. Di pari passo con lonestà, il suo essermi fedele era unaltra macchina bellica costruita per resistere alla sfida dei desideri altrui.

In pratica, la paura di perdermi e di fallire nel ruolo le sasperava con sospetti irragionevoli; da quando aveva stabili to di essere moglie, Marianne non sapeva distinguere, nelle ombre, le insidie dalle innocue suggestioni. Mi inteneriva il suo dibattersi dove vivere non è geometria, ma zona franca di inverosimiglianze e scena in cui gli attori devono anche improwisare senza copione. Dal suo sguardo infelice e tutta via determinato, capivo che la causa non ero solo io, ma piut tosto lincapacità di provare sentimenti diversi da quelli che si era imposti.

Riprendeva: « In casa di mio padre regnava disciplina.

Mio padre aveva la nevrosi dellordine e del mantenimento delle situazioni. E lo faceva valere col pugno di ferro. Era uno specialista dellintimidazione ».

Esitava:

« Ma anche tu, a tuo modo, lo sei. Mentre io volevo un marito che mi desse pace. La soddisfazione delle cose nor mali. Delle abitudini, anche. »

Non le chiedevo che intendesse per cose normali.

« Trovatelo, questuomo, se esiste. »

« Lo dici senza crederci. Sai perfettamente che potrei avere quanti uomini voglio. Ma io non faccio prove. Come fai tu.

Aspetto il giorno che, guardandoti, vedrò in te un estraneo.

Mi conosci: quel giorno verrà. Allora, non sarò più una mo glie, ma lamante di un altro, una mantenuta, o chissà che. »

Si concedeva ironie: « Vedi? Anchio ho una curiosità: che trasformazioni subirà il mio sentimento amoroso? Fenomeni di arresto, regressione, anomalia? Diventerà narcisismo, omo sessualità, sadismo?… ».

« Questo non è Freud, Marianne. ~ Alberoni. Tutti, anche il Divino Marchese, Santa Caterina e il suo leccare piaghe, il Céline delle Bagatelles, lantipaterno Swift che consigliava di mangiare i bambini, ma non lAlberoni! »

I pensatori cari a Marianne. Avvolgendo in carta i loro pensieri, alcuni non si accorgono che il pacco che ne risulta è spesso dinamitardo in mano a certe lettrici. Intanto, dentro di me, sullaria libatoria delIa Traviata, mandavo le parole del mio Rabelais, che passava il tempo a mettersi in situa zioni disperate. Io mi sono sempre vergognato come un ladro a dire a una donna: ti amo. La frase, intendo. Avevo amici invece bravissimi, che sapevano anche correre in piedi sul sellino della bicicletta o cantare, spensierati, quellAida e Tra viata che solo i miei pensieri canticchiano.

Ma le utopie sono altri impruvìs.

« Luomo del nostro tempo, Marianne, in una donna non rispetta che i fallimenti che eg,i stesso provoca. Misura la grandezza femminile per ciò che non riesce ad essere. Li deale maschile è la vostra mediocrità. Che, si, fa vivere in pace. Ma tu non potrai mai vivere in pace, perché non sei mediocre. »

Se avesse perduto me, quali rischi avrebbe corso il suo dogmatismo in un mattatoio che distrugge le qualità la cui grazia è un insulto al miserabi,e furore? Quanti dei conti che pagavo, sarebbero rimasti a lei, una volta che non le fossi più stato alle spalle, a pararle colpi?

Sciocchezze, anche queste. Ma le utopie sono impruvìs che tirano per i piedi.

« Io non ho paura della solitudine » protestava. « Tu, sl. »

Quando la stanchezza dei nervi portava alla stanchezza delle parole, ecco la volgarità. Marianne se ne serviva, ma attribuendola a me. Lo sapevo e la prevenivo.

« Io non vado a puttane. Le puttane, come le intendi tu, sono una delle tue gerarchie asburgiche. » Alzavo la voce:

« Puteus, pozzo! Ci siamo dentro fino al collo, anche io e te Non te ne accorgi?… De ces vieilles putains la funèbre galtéi Stiamo perdendo anche la funebre gaiezza ~>.

Baudelaire non serviva. Lo immaginavo alle prese coi miei stessi suspiria de profundis, vagheggiando maestri di conso lazione, come De Quincey: “Robinson può alla fine lasciare la sua isola; una nave può approdare a una spiaggia, per quanto ignota, e portarsi via lesiliato solitario. Ma quale uomo può uscire dallinferno di una convivenza che tutto avrebbe per essere perfetta, tranne la comprensione? “.

« Tu sei pazzo! »

« Bene, se questo pazzo si insinua nella vita di una dannata donna, e dico dannata perché non vi accorgete, voi donne, di odiarvi a morte, è per capire un modo di essere. Magari senza neanche piacere. Con tristezza. O il terrore con cui ascolto te, in certi momenti. Persino con disprezzo. »

« Se le disprezzi, perché non le lasci perdere? Io non fre quento gente che disprezzo. »

« Come posso essere curioso di un albero » continuavo:

« Di una luce. Prendiamo una luce a una finestra. Io guardo quella finestra illuminata, ed ecco che la vedo diversa dalle altre, provo il bisogno irresistibile di conoscere che vita può svolgersi dentro la camera sconosciuta. Il rammarico, assur do lo riconosco, che quel mistero mi sfugga. »

« Lunico vantaggio degli alberi, è che poi non mi osses sionano con telefonate… Le stupide con cui ti perdi. Sillu dono e poi seccano me. »

Ci provavo. Rinunciavo alle mie curiosità, chiudendomi in casa per giorni. Ma finivo per soffocarci, come nella cabina di Piazzale degli Archivi. Scompariva limpagabile piacere del lubiquità: di perdermi nellimprevisto di vite diverse, per lo più oscure e tempestose, subito rientrando nella solarità di Marianne. Confrontare, sulla mia pelle, il doppio della realtà.

Le pareti si facevano quelle della casa del Greco. E da esse prendeva corpo la Dama dellerr~ellino; con gli occhi e le labbra atteggiati al sarcasmo e alla sensualità, si apriva un varco a fil di lama. Allora scappavo, a cercare le mie api selvatiche, come diceva Eurte.

Dopo, non cerano parole ad attendermi. Il bisogno di mas sacro che, nei confiitti storici, si abbatte sugli innocenti, pas sava dalle parole agli oggetti. Facendosi concretamente demo litorio, lalterco sanciva unimpossibilità di vedute comuni.

Come pua essere venuto in mente a Eraclito che «la guerra è madre delle cose”?

Avevamo arredato lappartamento con molta cura. Esprimeva le nostre opposte mentalità e si sarebbe potuto tracciare un ideale confine tra il territorio che portava i colori di Marian ne e laltro con le mie più modeste bandiere. Sua era la zona biedermeier: molti i mobili e gli oggetti del trentennio che andò dal Congresso di Vienna ai moti del 48, ispirato al personaggio Biedermeier, appunto uscito dalla fantasia dei due maliziosi scrittori Eichrodt e Kussmaul. Il bravuomo che fa della casa il ccntro del suo mondo di consuetudini pas sive, rese il più possibile confortevoli.

Leducazione ricevuta da Marianne, si espande tuttora ripeto, non ho toccato nulla di quanto le apparteneva dai due mobili di Josef Danhauser, lartigiano che sostituì il fag gio al mogano, e affermò il ciliegio, lacero, scoprendo la poe sia dei legni chiari; dalla servante e dal secrétaire, per non parlare delle tipiche viennesi in dirndl, il costume dal corpet to stretto e la gonna ampia, la cui ottusità conosce la buona fattura delle porcellane augarten.

I fiori intagliati o ricamati, le humiles_myricae, le silhouet tes nere su vasi e cuscini, sono in realtà fantasmi mascherati dalle suggestioni decorative. Capisco le ragioni ataviche che hanno lasciato, in donne come Marianne, una stanchezza alto borghese per le avventure di tipo napoleonico e uno stato dallarme per una rivoluzione già nellaria, ma da cui ci si di stoglieva con ingannevoli euforie: i balli alla Fanny Elssler, i fidanzamenti alla Kathi Frohlich, le note care ad Anna Strauss.

I miei gusti risaltavano invece dalle stanze meno battute e meno esposte al sole, paragonabili, in termini geografici, a una costa piena di insenature in una regione artica. Da esse, nessuna idea precisa dellabitabilità; vi erano confuse troppe civiltà, ciascuna con una patria e un tempo differenti. Fu con finato lontano dal soggiorno persino lo studiolo decorato con bambocci da ebanisti toscani. Anche per gli oggetti che por tavo dai miei viaggi, Marianne provava rancore: le ricorda vano lunghe solitudini.

Prediligo le porcellane a imitazione del Blanc de Chine; bruciaprofumi e ciotole mostrano figure incantate da cieli di smalto e limmagine buddistica di Kuan Yin esprime la cu riosità che spazia, fruga le nubi e la terra, stando del tutto immobile e praticando larte dellombelico.

Dopo la partenza di Marianne, ho ripescato dalle cantine le celestìe: le miniature che i trovatori di Po fabbricarono alla fine del Settecento. Si tratta di donnine nude che affondano la testa nel gomito con la grazia del daino, vergognose delle natiche enormi che sollevano in aria, e di altre creature che non si capisce se siano putti o nanetti, certo è che i loro sessi hanno incredibili forme. Un glande scoppia nei petali di un margheritone; una vagina ha un occhio al centro e un copri capo claunesco; due testicoli ridono con un ghigno da megere sotto lasta di un omino, mentre sullasta di un signore gras so siedono i figli e la moglie, come in una luminosa scena etmsca.

Non hanno niente da invidiare ai reperti della civiltà mi noica, crioforos della Dea Madre; i colori, leleganza, sono gli stessi delle “Signore azzurre», del «Principe dei fiordali si», dei delfini nel Megaron della Regina.

La distruzione aveva inizio.

Le porte sbattevano violentemente, facendo tremare le lampade ebraiche. Il Cavaliere con cavallo impennato, del barone Sorgenthal, simpennava ora a ragion veduta. I piatti ovali dei colli bassanesi, con spartiti e strumenti musicali avamposto delle mie forze in campo rispondevano a Marian

~e con una beffarda aria di mandole. Ne portano i segni: il più grande, è bendato allocchio perso in battaglia, come il Mare sciallo Neipperg.

Sul tavolo di cristallo del soggiorno, spazzato da libri gior nali e mucchi di posta, il meccanismo del piccolo automa svizzero, la scimmia che pulisce le scarpe, si rimetteva in moto; a ogni giro, la scimmietta scrollava le spalle e dava una sfregata alla scarpa. Il Buddha del periodo Hajan ri cordo di un mio viaggio particolarmente felice, e Marianne lo sapeva cadeva a terra confermando il canto del Ramaya na: “Sorridi pure, o saggio spirante~. Di lì a qualche giorno, la statua tornava, con le ferite suturate, dalla bottega dellami co restauratore, in Via dei Giubbonari. Dai cocci che gli por tavo nello scatolone, egli valutava il nostro correre verso la fine:

« Ormai ci siamo » diceva: « Crescono. Crescono ».

Svanivano stelle puntate, dallastrolabio in rame, con la stessa rassegnazione del mio sguardo; ma noi eravamo sem pre fermi e sospesi, su quelle ore impetuose, come il drome dario sullorologio a pendolo del primo Ottocento francese.

Il Commodo con gli attributi di Ercole mi lanciava un sog ghigno; io ritrovavo slancio verificando certi errori di valu tazione. Mi fu chiaro, ad esempio, che a Marianne non sta vano affatto a cuore le schiere biedermeier: le aveva disse minate con strategico autolesionismo, per specchiarsi nel pro prio passato, provandone una segreta ripugnanza non diver sa dalla mia.

Ricordo che quando scagliai una venditrice in dirndl, cen trando la porta dingresso, ebbe un lampo felice. Allora ne lanciai una seconda, una terza. In breve, le povere ragazze viennesi, dalle gote tonde e rosse, giacquero sulla moquette come dopo una decimazione, e anziché dallamico restaura tore, finirono nella spazzatura.

Laikuki, la daga giapponese, faceva balenare idee delit tuose. Le figure incaiche con arciballo, dipinte coi segni della pace eterna, ribadivano che la morte non è poi il peggiore dei mali. Il nascere del giorno ci dava brevi tregue e il sole che rimbalzava sullarpa diatonica in legno dorato, insinuava nel mio dormiveglia una nostalgia di musiche per sempre per dute. Le ostilità riprendevano e io mi chiedevo, di sopras salto, cosa le avesse di nuovo scatenate. Forse le baccanti dellarazzo Aubusson, che ricordavano a Marianne le forni catrici del puteus.

Andava in frantumi un bruciaprofumi a forma di cerbiatto dalle corna troppo lunghe e decisamente allusive. Nel vaso indio modellato invece a cranio umano, con sopra unanitra rossa e gialla, Marianne cercava di inculcare le idee che non entravano nella mia testa, col risultato che lei si ritrovava con lanitra stretta per il collo e io in ginocchio sul tappeto, a raccogliere i pezzi da mettere nello scatolone.

Largenteria di Strasburgo rovinava con un suono cupo anziché argentino, quasi che brocche e saliere brontolassero con unabitudine storica alle intemperanze padronali; quel lascito della madre di Marianne, infatti, ci era giunto con le ammaccature di altri alterchi austriaci: probabilmente, con cause dei nostri.

Le raccomandavo di non rompere gli specchi. Ma lei non è superstiziosa, così partiva la specchiera dove mi guardo quando mi sveglio da certi sogni, e sarà per le incrinature mal sistemate, le zone opache nella superficie riflettente, che non capisco mai se la mia espressione tenda allinsù, allottimi smo, o allingiù, verso labisso.

Non si permetteva atti iconoclastici Marianne è una cre dente saltuariamente praticante perciò le tappe di Cristo sulle pagine dellantifonario usate a paralumi, si salvavano in extremis e gli angeli portaceneri volavano di rado. Finché larmatura giapponese Yokohagidogusoku non sembrava gri dare basta dal buco a squarciagola della maschera, con la voce imperiosa del samurai, fra le ali dellelmo forgiate sulle sem bianze del mitico uccello HòHò, i copribraccia e i paramani tesi in un gesto di cessata sopportazione.

Riconosco che le cose hanno continuato a dimostrarmi una solidarietà sorprendente. Ora che sono solo, senza più bat taglie, continuano a parteggiare per me contro il vuoto.

…una forza che si nutriva, direi, proprio della nostra stan chezza, ci spingeva di fronte allultimo mobile il letto che non aveva altro stile che la comodità e non rappresentava altro mondo che il suo, sotto la testiera di pelle bianca incorniciata dottone. Si stendeva indifferente, sapendosi indistruttibile: anzi, col potere, falsamente pacifico, di dissolvere ogni resi dua volontà di reciproca distruzione.

I nostri alterchi avevano, come le foglie, questa capacità di mostrare un rovescio sp]endente e non lacerato dalle bur rasche. Finivano, spesso, in intese sessuali non meno violente e assolute, con le quali riuscivamo a praticare, nellarmonia dei corpi, la sincerità così difficile da armonizzare con le parole.

Devo convenire che le felicità sessuali provate con Ma rianne, non le ho conosciute con altre.

Si lasciava cadere accanto a me. Il suo volto riacquistava colore, e anche dal mio stomaco sallontanava quel mal di mare da naufraghi. Ne guardavo il corpo che una complessa storia di incroci genetici, p~oficua quanto distruttive si dimo stravano le tramandate educazioni, aveva ~atto sicuro di sé e, a differenza del suo animo, inattaccabile da competizioni e minacce. Somatizzava, in positivo, la maturità e la chiarezza mentale che altrimenti le sfuggivano.

Pensavo: come la bellezza fisica può essere morale! Nes suno cercava più di avere la meglio. Entrambi lavevamo.

Si lasciava penetrare di fianco, nella posizione dabbandono, vigoroso e puerile, che preferiva. Quale legame tra la dispo nibilità con Cui sapeva immettersi alla perfezione nel mio ritmo, di tempi e desideri, e lostilità appena consumata?

Ora pretendeva la mia vicinanza estrema, cadute le inibizioni che, nelle dispute, la raggelavano.

Alla fine, i contorni delle cose non distrutte si facevano puri. E non eravamo più sospesi su un tempo estraneo, come il dromedario di bronzo sullorologio primo Ottocento. Ma fusi con la piccola sveglia sul comodino.

Poi ~arianne andava alla finestra. La vedevo stirarsi come un gatto.

Diceva con dispiacere: « Questo tempo sta volando ».

Mi dichiarò esattamente:

« Ti vedo un estraneo. ~>

Io la vedevo, al contrario, più che mai familiare.

« Rispondimi. Reagisci. »

Non mi riusciva. Mi sembrava di aver ascoltato unassur dità che non mi riguardasse affatto.

« Quando cercavo di figurarmi questo momento » continuò

« me lo immaginavo doloroso. Perché non mi dà alcuna emo zione? ~>

Il suo sguardo era vuoto. Non cera bisogno, aa parte mla, di aggiungere nulla.

~< Come se questi anni non fossero mai esistiti. »

« Succede. »

« Vuoi dire che è possibile che tante realtà si cancellino cosl, senza lasciare traccia? »

Non lo credevo. Ma le risposi:

« ~ possibile. »

Mi afferrò un braccio:

« Aiutami a provare almeno unemozione. »

« A che può servire, ora? »

« Se non reagisci, significa che anche a te, in fondo, fa piacere che mi tolga di mezzo. »

Che lo pensasse pure. Lincapacità a provare emozioni, se la stava imponendo lei. Non rientrava nelle regole.

« Lo sapevi che, prima o poi, sarebbe accaduto. »

« No » le dissi sinceramente: « Non lo sapevo ».

« Ma ti avevo avvertito. Non puoi accusarmi di slealtà. »

Non laccusai di nulla. Non lavevo mai fatto.

« Non hai avuto nemmeno un presentimento? »

« Lho avuto. Un istante fa. »

Mi lasciò il braccio. Non ci saremmo più toccati.

Scrutò gli alberi. Sapevo cosa stava pensando. E anche a me venne da pensare, come unica reazione, che avevamo co nosciuto le nostre piccole fatalità sempre a cospetto di una natura invadente. Sembrava che soltanto lintimità atmosfe rica, che esprimeva il desiderio misterioso delle cose, solle citasse la nostra. Boschi, parchi, angoli disseminati nel verde, che Marianne, con una delle sue rare punte dironia, chiamava i giardini di Schni~zler. In questo autore, tra i suoi preferiti, torna limmagine degli chalets in colline dove, nella buona stagione, si va a mangiare sotto il pergolato. Ma il paesaggio, quasi arcadico, può rivelarsi unillusoria uscita di sicurezza.

Accade che simili luoghi, apparentemente senza drammi, in cui i destini si intrecciano e si disfano con pudore, ci facciano inciampare allimprovviso in cadaveri, senza che nessuno ab bia udito lo sparo.

Ecco allora, sotto i nostri occhi, lincarnazione funebre del motto di Hofmannsthal: “La profondità va nascosta. Dove?

Alla superficie”.

Me ne resi conto tra gli alberi del ristorante di Gaeta. Mi ci aveva portato lei e lungo la strada era stata bravissima a ingannarmi Non un segno di ciò che aveva in mente; anzi, un atteggiamento rassicurante. Né mi aveva insospettito lat tenzione remissiva, che avevo scambiato per complicità, con cui mi aveva ascoltato parlare dei nostri progetti o dei miei propositi di scrittore.

In genere, mi contrastava vivacemente.

Rispettai fino in fondo la banalità della situazione. Anche la banalità ha i suoi impruvìs. Le chiesi se avesse già sotto mano il prototipo dellutopia che aveva progettato per il suo cambiamento radicale. Mi rispose di no. Ma, da quel mo mento, avrebbe cominciato a cercarlo.

a Già » osservai senza più nemmeno sarcasmo « lo cerche rai con il tuo computer asburgico. »

a Esatto. E lo troverò. »

« Si può anche vivere soli, se è per questo. »

« Ho le idee chiare. Avere figli. Essere soddisfatta. »

« Come amante o mantenuta? » le ricordai. « Come man tenuta sposata o indipendente? Narcisismo, omosessualità, sadismo?… »

Avrebbe sposato il suo nuovo ruolo. Di questo, eravamo certi entrambi. La immaginai allontanarsi, con la lanterna di Diogene, dalla mia botte, e provai terrore per lei.

Nessuno ci vide più insieme. Se ne andava, la sera, con amici che non conoscevo. Rincasava tardi; la udivo dirigersi nello studio, dove dormiva sul divano. Presi a informarmi.

Venivo a sapere che ogni uomo a cui si accompagnava, na scondeva qualche trappola di Cui mai si sarebbe accorta. Allo ra decisi che, a sua insaputa, avrei continuato ad essere, del suo dogmatismo, una deviazione ribelle, un vizio imperdo nabile.

Persa per persa, luomo non dellutopia, ma del male minore glielo avrei propiziato io. Era unimpresa in cui non serviva la sua intransigenza, ma la lunga esperienza del labi rinto che soltanto un grande curioso possiede.

Forse si trattò daltruismo, o forse dellopposto: del peg gior atto di egoismo che avessi mai commesso. Non me lo chiesi.

Capitolo ottavo

Presi a medit~re su quale sia luomo perfetto per garantire soddisfazione a quei familiari (moglie, figli) che oggi inten dano vivere in pace alla sua ombra, per quanto si può; dispo sti, a tal fine, a sacrificare la dignità della ribellione, il desi derio di mutare le cose, nonché le conquiste della dialettica.

Insomma, il nume tutelare di quanti, deposte le armi dellof fesa e della difesa, vogliano dedicarsi alle regole di buona convivenza che sopravvivono in una sanguinaria showsociety, di cui pur riconoscono le infamie.

Unavvertenza: al prototipo in questione competono fun zioni temporanee. Egli deve durare in carica qualche anno e saper provocare al momento dovuto specie nelle mogli mu tevoli quella repulsione tipicamente femminile che induce alla sua eliminazione, che può anche non essere fisica. Ci si aggiF , grosso modo, nei paraggi del Giano bifronte: rassi curante la faccia solare, ripugnante quella della luna. Ma con un tale dosaggio, tra lesplicito e locculto, da non far preci pitare lo sdegno, né creare assuefazione.

Dovevo tracciare lidentikit e, in seguito, trovare lassas sino assassinabile. Arduo compito. Su un cartone da disegno, abbozzai coi matitoni la testa, gli occhi, la bocca, le spalle, il petto, le mani, il sesso, le gambe, i piedi. Erano sagome che circondavano spazi bianchi, nei quali annotai spunti e considerazioni.

La testa.

Deve avere una fronte bombée, propria dei nuovi manda rini, ossia dei mediatori. Il contenuto, più o meno, si rivela il seguente. Anzitutto, una certa percentuale di Dio: faccia mo un trenta per cento. Un Dio considerato un happening del previsto e dellimprevisto. Disponibile al rabbino, al sa cerdote catto,lico, al buddista e al marxista pentito; ma con una prevalenza di realtà cattolica, cristianesimo demitizzato, con gli occhi aperti a,lleconomia de,llo spirito, da intendersi non come affare di coscienza, ma come coscienza de,llaffare.

I mediatori atei sono degli isolati. Lumanità dei potenti, tra i quali hanno il compito di mediare, teme per sé la morte che non teme di dare agli altri, perciò tra,~ica con le chiese.

Diciamo che i mediatori non sono fatti per Dio; ma Dio, se in giusta percentuale, per loro. Più è crocefisso, meglio è.

I mediatori possono anche equipararsi ai nuovi centurioni, che si giocano la tunica ai piedi della croce.

Aggiungiamo, dunque, un cinquanta per cento di sapienza affaristica. Assente, in essa, ogni sentimentalismo. Ha sem pre praticato, al suo interno, un rapporto adulto, quasi non avesse mai conosciuto le ingenuità dellinfanzia e de,lladole scenza; non conosce i,llusioni o vagheggiamenti della memo ria. Labitudine al falso caratteristica del prototipo è solo unestrema inte,lligenza del falso de,lle abitudini. Il mediatore sostiene che le più grandi invenzioni del Novecento sono il computer e il transistor, che hanno consentito lintelligenza artificiale.

Sue convinzioni, diciamo epicentriche: la lotta politica im pone abbracci economici; le banche sono il banco di prova lerotismo della banca è di natura superiore e conferma i motto «non grande che intoppi, non lungo che sfondi, ma duro che duri”.

Nessuna paura di perdere la propria identità, nemmeno di fronte ai carabinieri. Non piangere sulla propria sorte, farne piangere gli altri. Concetto che larte è una mosca cocchiera che non modifica un bel nulla del carrozzone da cui si fa p,or tare. Rovesciamento dellaltro motto limagination au pou voir in le pouvoir sur limagination. Fingere di alienarsi nel lavoro riuscendo, in realtà, a rendere alienati i sottoposti.

Giusta fede nella pena di morte, non nella morte come pena (i mediatori si ritengono immortali). Riconoscimento di una società permissiva, soprattutto delle loro azioni. Non agire in modo casuale, non dare libero corso agli impulsi, bensi sog giogarli a un fine superiore: se stessi.

Si aggiunga un venti per cento di cultura di base, tenden zialmente tecnica. Basta anche ragioniere. Forte istinto nozio nistico.

Bocca.

Il totem del mediatore. Lorgano deve essere naturalmente conformato per gli oracoli del manager, il quale dice cose che non tutti possono pronunciare. La grandiosa mutazione antro pologica manageriale comincia dalla cavità orale: concetti astratti per azioni concrete; oppure, concetti concreti per azioni astratte, che tendono a ingannare lavversario o a ca muffare limbroglio.

Il prototipo emette frasi senza nessi e connessi come “Neo pluralismo democratico”, o fintospregiudicate come “Ho provato a guardare quel Proust di cui parlano tanto, ma non ci trovo niente~; o del tutto ipocrite come “Ho la virtù di non avere virtù, il coraggio di essere banale”; o sincere, per quanto passate da boutades, come “La sincerità è un vizio, mai mettere lanima a nudo, si scoprirebbe che è uno sche letro ” .

Altre affermazioni (occasionali): “Il male del capitalismo è la compartimentazione, ossia la rottura dei vasi comunican ti, fino alle specializzazioni. Esse sono foibe. Un inferno di solitudini. Chi sa mediare, come una Penelope finanziaria, i settori separati, svolge opera morale”. Segue una serie di citazioni, da pensatori più o meno celebri, manipolate dal prototipo a proprio uso e consumo. Egli le pronuncia duran te le colazioni e le cene di lavoro. Un esempio, da Joseph Roth, senza tuttavia il sarcasmo delloriginale: «Signori, oggi mi sforzerò di dimostrare che la borghesia è immortale. Nem meno la più terrificante delle rivoluzioni, quella bolscevica, è riuscita a distruggerla. Anzi: si è creata una sua operante figura borghese”.

Occbi.

Sede della finzione. Si capovolge limperativo: a me gli occhi! No: gli occhi agli altri, affinché vedano come noi!

Sguardo fittizio da coprire con occhiali. Sa produrre negli interlocutori, a seconda dei casi, apatia o euforia: manifesta

~ioni, entrambe, della fuga interiore dalle profondità. Se vede un morto ammazzato per strada, ci si sofferma, purché la strada sia la sua. Nel prototipo, sono gli occhi che preten dono di avere intorno dei lacchè; i leccapiedi, infatti, non la vorano più sugli arti inferiori, servono per la ricezione di stimoli luminosi.

Spalle.

Da velista: forti, ma non troppo massicce. Spina dorsale dritta. Intelaiatura adatta a reggere passioni limitate, riscat tate dal sesso. Qui le pose, le vanità intellettuali diventano dinamiche, come nelle gambe. Spalle da Enea, che si portano il padre, la madre, i figli, specie le mogli e le amanti, purché non intralcino il passo.

Petto.

Nessuna disperazione sorda o senso del vuoto. Peli, si, purché non grigi. Malinconie, ma passeggere: canine, direi, per le quali basta buttare, al momento opportuno, un osso al cane. Nello stomaco, sta la concezione del mondo. E la maestria di mediarne il grado di commestibilità. Di solito, il prototipo soffre di gastrite, ma non lo dice, lo si capisce perché ingurgita furtivamente capsule piene di palline colo rate. Concetti: “Lanima? ~ leutanasia del buon senso pra tico”. Oppure: “Mente nevrosi, è noiosa perché pensa solo a se stessa, se no sarebbe anche divertente”.

Robuste inspirazioni ed espirazioni di sdegno morale.

Mani.

Sede, oltre che dello spirito adulatorio, dellipocrisia. Infi nite possibilità espressivogestuali. Reprimono lira restando suadenti. Esperte nella stretta che sancisce laffare, ne cono scono la tecnica a gassa damante, più nota nelle impiccagioni: non scrollatoria, come nei vecchi sensali, ma col palmo a lama, rassicurante e insieme un po minacciosa. Limportante è la sciare, nel contraente, almeno un dubbio che lesito possa an cora subire un voltafaccia.

Anche i gesti della sensualità e dellamore, inghiottiti dalla corsa del tempo manageriale, vengono estratti, alloccasione, come conigli dal cilindro. Abile di mani (carezze opportune, arditezze erotiche, pugno chiuso) il prototipo può far inten dere a una donna ciò che vuole. Daltra parte, non è raro che, di un assassino, una donna dica: però, ha delle belle mani.

Segmenti terminali la cui eleganza si nota specialmente quando vengono avvolti dalle manette della Finanza.

Gambe.

Sta qui il desiderio che il mondo sia di ghiaccio, secondo il concetto: il potere è degli uomini freddi. Altra massima: le di~coltà vanno affrontate con passo svelto; esse sono come i paesaggi, mutano di necessità strada facendo, e si incontra sempre un casolare in cui nascondersi.

Sesso.

Da mediatore democristiano. ~ la degenerazione della men tula, o “spiritello”, termine impiegato nel linguaggio satirico latino. Qui si relegano, lontano appunto dallo spirito, quei divieti che, grazie alla mediazione compiacente del timor di Dio, una volta violati diventano un propellente per erezioni ottimali. Queste traggono lussuria dalleccitante ipotesi del linferno, nonché dal senso del peccato mortale: da intender si, nel nostro caso, quale piccola morte, secondo la definizione che i saggi del brahmanesimo davano dellorgasmo gaudioso.

Dopo il fallo romano, grecoclassico, detto anche a goccia di putto, loblungo sasso di Cuzco, per non parlare dellindo europeo Bhel, la Storia ora conosce anche il pene da media tore democristiano, che si differenzia da ogni altro per lada gio popolare ache ci sia ciascun lo dice, come sia nessun lo sa”.

Il sesso del prototipo pratica il coito fecondante, ma ocu lato: di solito, gli basta un figlio.

Concetti: niente libertà sessuale, fuorché la propria. La prima si nega per principio; la seconda, specie con le mogli volubili, per prudenza. E ancora: la donna può competere con luomo solo perché ha il sesso, più o meno, alla sua stessa altezza. Ma non lo si dichiara esplicitamente. Si pre ferisce tradurre nellambiguo: la parità dei sessi è un metro naturale.

Piedi.

Fatti per calzare stivaletti. Calpestano ciò che non appare rilevante e utile, a volte qualche fastidioso escremento. Non si dimentichi che Piede è, in greco antico, il nome di Edipo (esattamente, piede gonfio). Illuminante lenigma della Sfin ge, che prospetta una creatura che cammina prima con quat tro piedi, poi con due, infine con tre. La tradizione intende il terzo piede come il bastone della vecchiaia. Innocente in terpretazione. Si tratta, in realtà, di ben altra cosa: bastone, sì, ma del mediatore.

Restavo a fissare lidentikit.

Cosparso di scritte come un fantoccio pubblicitario, sem brava ricambiarmi col mio stesso sarcasmo, e non riuscivo a immaginare nessuno che vi corrispondesse. Non avevo il dovuto distacco? Difficile averlo, daltra parte, ipotizzando individui di una civiltà diversa dalla nostra e verso i quali giocano il fascino del rifiuto e un rancore sia presente che futuro.

Quella mescolanza dl caratteristiche, nate dallironia dei matitoni, un po fanciulli, restava unutile parodia. Mi veni vano in mente nemici e amici, o semplici conoscenti. Ma cia scuno denunciava, accanto a indubbie ~virtù”, lassenza di malizie e accortezze che ritenevo indispensabili. Scoprivo che, se è vero che nessuno è perfetto, anche limperfezione ha i suoi limiti. Più di quanto non si creda. Faceva difetto, ai candidati, soprattutto lintelligenza dellipocrisia. Lipocrisia dilaga, ma è per lo più stupida, fragile, senza sentimento. Se non simula il sentimento, essa è strabica; non si sa mai dove cade.

Ancora una volta, mi prese di rimbalzo un impruvìs. Co minciarono ad arrivare mazzi di fiori. Prima con discrezione, poi con spavalderia. Erano accompagnati da biglietti che Marianne non si preoccupava di nascondere. Li lasciava in giro appunto perché li leggessi. E io trovavo sorprendenti riscontri tra le frasi scritte con calligrafia minuta e poco com prensibile, e il prototipo che stava sul mio tavolo di lavoro.

Non servono lunghi discorsi. Spesso, basta una frase, spe cie se è uno slogan per catturare la preda. A esprimere Mus solini, non fu tanto il balcone, quanto «Spezzeremo le reni alla Grecia».

Con quei mazzi costosi e giganteschi, il mediatore si inse diò in casa mia. E se allinizio si era trattato di rose o orchi dee, ora gli omaggi erano un florilegio di trasgressioni alla norma. Dove andava a scovarla, il mediatore, la specie rara di acantholimon, con le sue spighe stellate, che cresce nelle regioni desertiche? E langraecum tropicale? E la grandiflora del Turkestan e del Tibet? Spediva fiori da ogni continente: E ogni specie, appassendo nei vasi, sprigionava lodore della putrefazione cosmica.

Sembrava che il mondo intero corteggiasse Marianne co gliendo il meglio dei suoi giardini di Schnitzler.

Allineavo i biglietti accanto al prototipo, avendo la sensa zione che esso si articolasse in quelle propaggini, completan do spontaneamente lo schema che, da identikit, diventava autoritratto.

Il mediatore lo conoscevo. Era stato, ai suoi esordi, ammi nistratore delegato di una casa editrice che aveva pubblicato una mia raccolta di fole e cante padane. Compreso il Barba blù della Sacca del Canarln, la più bella ballata del Po. Stren na natalizia che, in realtà, aveva venduto pochissimo. Il che aveva indotto il mediatore a reputarmi un imbelle. Seppi al lora come leditoria sia una via di Damasco dove, chi abbia la malsana idea di esprimersi con la penna anziché col fucile, simbatte in apparizioni che, di divino, hanno solo limpron titudine.

Non posso negare, tuttavia, che, pur preso dai suoi voli da Tarzan fra le amministrazioni delegate, il mediatore si dimostrò nei miei confronti perlomeno cortese. Specie dopo aver scoperto, nelle occasioni uffficiali, che lo scrittore pro cedeva sempre qualche passo dietro una donna altamente rap presentativa quale Marianne, tenendosi allombra della sua bella figura.

Ora, le sue mediazioni erano cresciute a mazzi,tipo quelli che invadevano la casa, striscianti, ma soprattutto perenni come le helxine che ambiscono a essere coltivate in serre fredde e concimate a sterco duro o le ranuncolacee asiatiche che, pur prendendo linfa dal sottobosco, svettano annuncian do primavere feconde ai padroni di ville.

Tutte, ripeto, alla fine ammorbavano laria.

Il prototipo aveva un nome.

Le cose tornarono a intromettersi.

Mezzi non più di frantumazione, ma di comunicazioni indirette. Mi spiego. Marianne aveva deciso di non rivolger mi più la parola; ciò non toglie che certi dialoghi awenissero ugualmente. Senza che luno guardasse in faccia laltra. Lei parlava fissando lo specchio in cui fingeva di truccarsi o il gior nale che teneva aperto o la tazzina di caffè che stava bevendo.

Si rivolgeva alle cose come riflettendo tra sé a voce alta. Io mi comportavo di conseguenza. Evitare di guardarci ci faceva già sentire estranei.

La stupidità umana, dice Renan, è lunica che dia lidea dellinfinito. Infatti, ponendo le mie domande o soprattutto dando le mie risposte, interloquivo con una zona neutra del lesistenza che non aveva limiti di estensione. Cosl, ai due mobili biedermeier di Josef Danhauser, passando con noncu ranza il dito nella polvere, o al Buddha di Hajan, accarez zandogli la testa incerottata, o allarmatura del samurai, mettendogli lelmo per dritto, io spiegavo, forte delle mie informazioni, i segreti difetti, se non i motivi di ripugnanza, degli accompagnatori che si awicendavano al fianco di Ma rianne.

E per gli oggetti che, di nuovo, si prestavano alle stram berie di un rapporto, provavo un affetto crescente, il solo di cui fossi ancora capace.

Ma quando il mediatore soppiantò ogni altro, smisi di ser virmene, lasciando cadere domande e risposte. Mi chiusi nel silenzio. Ecco come propiziai la sua riuscita: semplicemente standomene zitto. Strano, ora era proprio lei, Marianne, a mettere in discussione il personaggio. Ma capivo che si trat tava di una finzione. Se avanzava dubbi, era per sottoporli alle mie verifiche e sapere, dalle mie fonti di notizie, se esi stessero ipoteche più preoccupanti.

Stando alle dicerie, il mediatore era un ladro di donne al trui. Affascinato, in particolare, dalle mogli di personaggi noti: ne aveva già collezionato quattro, con relazioni di varia durata, mbandone due a editori di un certo prestigio, una a un politico, la quarta a un confindustriale. Aveva fama, inoltre, di piacere molto alle donne, chissà perché. Forse per gli occhi di falco, rispondenti a quelli che avevo incastonato nel prototipo: sui suoi tratti facciali, mi facevano pensare ai pavoni di Eurte quando malcapitavano, in preda alla solitu dine, nei dossi argillosi.

Il mediatore li sfoderava levandosi gli occhiali con sedu cente tempismo.

Più probabile che le sue fortune femminili si dovessero allarte da prestigiatore con cui riusciva a infondere sicurez za; al suo farsi deposito viaggiante di angustie e desideri re pressi. Dico questo perché egli mi ticordava anche i tram ecuadoriani che, a Quito, avevo visto portare sul tetto una

“giardiniera” in cui, via via, le donne vuotavano le immon dizie dalle finestre; alla fine della corsa, il tram scaricava, in sieme ai passeggeri, le sozzure della città.

Uscite dal suo letto, infatti, le amanti se ne andavano al leggerite e non potevano che provarne gratitudine.

Confesso che luomo di cui si dice «piace alle donne” mi ha sempre procurato un sentimento contraddittorio, che se da una parte conosce la frustrazione, per la fatalità con cui uno nasce piacendo alle femmine e un altro dispiacendo a Dio, di contro mi fomenta una reazione di superiorità e di disprezzo. Mi succede come quando, a Po, mi mettevo a guar dare lairone pensando: beato lui che è nato per volare nei cieli; ma poi arrivavano i nuvoloni da Motteggiana, e lairo ne me lo trovavo uno straccetto grigio, che se ne stava a inzupparsi di pioggia, con le ali mosce, cercando riparo sotto la gronda della mia casa.

Allora, allungando le gambe verso il fuoco, mi dicevo: cosl impari, poiana!

Ma le donne son fatte come son fatte, dispongono di orga nigrammi stabiliti dove ci sono uomini che non possono es sere adibiti che alla normale amministrazione e altri prede stinati alle amministrazioni delegate. Sede naturale del me diatore era il settimo piano, persino nel kafkiano edificio del la femminilità.

La prova me la dava Marianne. Per quanto fingesse per plessità, e ne aveva motivo, in realtà era compiaciuta.

Mi limitai a risponderle, una sola volta: « ~ un airone libero e disponibile. Ha diritto a tutte le conquiste che vuole.

Ma, stando alle indiscrezioni, è assai discreto ».

Da quel momento ripeto silenzio.

Lo stile del silenzio è ammirevole. Lascia trapelare, a una donna, solo ciò che lei desidera. Per leggere nel mio silenzio, che non conosceva più né gelosie né sarcasmi (mi resi conto di quanto poco si impieghi per assuefarsi al suo neutro vele no), Marianne avrebbe dovuto avere il fiuto della tigre.

Quando divora il domatore, la si ritiene crudeltà. Sbagliato.

Succede che la b~lva decifri a tal punto il silenzio del suo compagno di schiavitù, da capire che, una sera, lui ce lha con se stesso, si detesta; ed essa, che è diventata ciò che lui vuole, il suo pensiero domato, credendo di fargli piacere lo sbrana.

Ma Marianne, ormai, si esibiva in altri circhi.

Cerano momenti che il mio silenzio si cambiava nel sen timento con cui Don Chisciotte, sulla Sierra Morena dove si è ritirato a far penitenza, concede libertà a Sancho, che ha chiesto di tornarsene a casa, affidandogli semplicemente una missiva per Dulcinea.

Che Marianne andasse pure. Io non avevo missive per il mediatore. E se mi ritiravo, era in bagno, a praticare quel sentimento su me stesso, come una masturbazione. Qualun que cosa fosse: pietas o follia.

Ero solo.

Poi mi richiudevo lanima in fretta avrebbe detto Eurte da masturbatore che si chiude i calzoni, e tornavo ad aggi rarmi per la casa, dove Marianne compariva sempre meno e i mazzi di fiori non avevano più scopo di arrivare.

Arrivò invece lEspace. E quello che chiamo ¡l giorno dellE

space.

Premetto: io non sono un animale marino e mi reggo ap pena a galla. Linfanzia non è affatto una tenera età; per certi aspetti, è di diamante. Un bambino sopporta awersità che un adulto nemmeno si sogna; ha una filosofia dellirrazionale, e dunque del proprio destino, fortissima. Direi che ha una filosofia per tutto, tranne che per i cataclismi. Essi esercitano il loro potere sul retroterra primordiale che, per altro verso, difende i primi passi nella vita.

Chi, da bambino, conosce il terrore di una piena, si tiene alla larga dallacqua.

Marianne non aveva conosciuto piene. E il mare era il suo elemento. Le avevo acquistato un piccolo appartamento a Punta Ala, dove andava spesso durante lanno e insieme pas savamo lagosto. Io me ne restavo a riva, lei, dopo avermi degnato di uno sguardo deluso, si tuffava in lunghe nuotate dove la vedevo scomparire. Oppure prendeva il largo su barche di amici. Inutile dire che rifuggo anche dalle barche e da ogni diporto nautico.

LEspace mi stava ora aspettando.

Oscillava al maestrale, con un occhio di sirena dipinto a pma, che mi sfidava ironico per quel tratto che ci separava e avrei dovuto affrontare sul gommone, reggendomi al ma rinaio. Stesse occhiate mi venivano daI proprietario, ossia il mediatore, ben piantato sui piedi e messo a nudo, salvo un minuscolo slip, nellintelaiatura che avevo pazientemente tracciato coi matitoni; nonché da Marianne che, al suo fianco, aveva già assunto un atteggiamento padronale.

Le vele si aprirono a sipario su quellultima rappresenta zione che stava per cominciare. Le ondate superavano il bor do, poi il bordo tornava alto, sollevando contro il sole la coppia, e lui ne approfittava per stringere Marianne, offren dole un sostegno che la sua esperienza marinaresca non avreb be richiesto.

Mi issarono con una certa dif~icoltà e lEspace, iniziando la navigazione con sbandate capricciose, ebbe le vele gonfie a sinistra. A bordo, nessuna cosa si spostava, tranne me La terza volta che limbarcazione calò sul fianco, per risalire con la poppa sopra la mia testa, si insinuò il mal di mare. Sol lievo mi veniva dagli spruzzi che mi sferzavano; ma, in breve, quei voli radenti, e a intervalli, si fecero impetuosi, lascian domi senza fiato.

« Vedi di non cascare in acqua ~ mi disse Marianne.

« Reggiti al parapetto » mi consigliò lui.

Mentre mi adoperavo per mettere in pratica il suo sugge rimento, il mediatore mi descriveva le bellezze del galleggian te. Mi spiegava, come se potesse minimamente interessarmi, che lEspace costava una fortuna e batteva ogni altra barca a vela, per proporzioni e lusso. Sentivo parlare di minitughe e armamenti a sloop. Ignoro tuttora cosa sia una minituga; cercavo soltanto di inchiodare il gomito oltre il parapetto.

Mi illustrò le finizioni, i legni e i tessuti pregiati.

a Chi possiede un Espace non deve lesinare su nulla. »

Ascoltavo dettagli di navigazione costiera e daltura, men tre scrutavo in un altro espace, non cabinato, la sola visione familiare che mi si offriva: gabbiani dove si addensava la nu volaglia.

Poi passò a chiedermi: « Scrivi sempre quelle fole e cante da dementi? ».

« Più che mai » risposi, ricevendo uno schiaffo biancastro.

Mi squadrò:

« Hai mai letto Rudolf Kassner? »

Ne ignoravo lesistenza. Per me, era come una minituga.

Ma domandai: « Un generale nazista? ».

« Un grande pensatore » affermò seccamente. « Mai let to il saggio di Luk cs su Kassner, Platonismo, poesia e le forme? »

« Mai » ribadii con soddisfazione. Lui doveva averlo letto nei digesti in cui i suoi collaboratori compendiano le cita zioni con cui nutrire le cene di lavoro.

Se ne meravigliò.

<~ Uno scrittore, certi autori, è tenuto a conoscerli. »

« Giusto » tentai di fargli capire. « Ma magari non in barca e nella tempesta. »

« Quale tempesta?! ~ un maestrale allegro! »

A me sembrava truce. Come quel Kassner, che non capivo cosa centrasse nel mio difficile momento.

« Ebbene, Kassner sostiene che è un errore imperdonabile estremizzare, come fai tu, gli elementi problematici delle situazioni… »

Che alludesse al mio abbraccio al parapetto?

« Per arrivare a cosa? A Dio? Nessuno è Dio. Siamo tutti dei Battista che annunciano nel deserto colui che deve veni re… Limportante è prevedere in tempo chi sarà. Riconoscer ne il potere, direi la venuta fatale. »

Ora, non vi erano dubbi: alludeva alla nostra vicenda.

Lo immaginai decapitato da una splendida Salomè.

Vedevo le sue labbra muoversi. Ma non udivo più nulla: contro i miei timpani, le ondate martellavano altri concetti.

Mi arrivò, in uno squarcio: « …Kassner sostiene che luomo moderno è un Amleto di cui non fu mai ucciso il padre! ».

Ricordo che provai il solo rimpianto di non averlo ucciso io, il padre di questo Amleto dei nostri giorni, a tempo de bito e prima che lo generasse.

Mi voltò le spalle e, da quel momento, mi ignorò. Dalla mia, stava il fatto che avevo accettato di salire a bordo ben cosciente di come la recita sarebbe finita; anzi, per favorime la fine. La coppia avrebbe trionfato su di me, senza alcuna dimcoltà. Ma questo lo sapevo io. Magra soddisfazione. E

intanto quel teatro, dal palcoscenico in bilico sullabisso, mi trasformava, ai miei stessi occhi in realtà ero il vero e unico spettatore nel buffone più ineffabile tra quanti, feriti a morte nel sentimento del possesso, non possono opporre alle offese che la voluttà della parodia.

Che intuizione, in Rigoletto! Far crescere, su un essere umano, le sembianze di ciò che egli è nel cuore, della sua arma infallibile: non il pugnale e neanche la lingua, la maledizione bensì la parodia della vita; perciò di ogni im broglio e deformazione che concepiscono coloro che non si credono buffoni.

Il bu~o, nel dramma, ha una dolcissima eco.

Ebbi persino il bene di una gobba, quando Marianne pen sò di insaccarmi in un giubbotto salvagente di un orrido color giallo, con il solito occhio di sirena stampato sul petto.

La differenza era che mentalmehte, e in mezzo agli schiocchi come spari, cantavo io, non il Duca, quellaria senza furore:

“Un dì, se ben rammentomi, O bella, tincontrai… ».

Il Duca argonauta stava a prua e ripeteva soddisfatto:

« ~ un maestrale allegro! »

Anche Marianne cessò di prestarmi attenzione. Li vedevo tramcare al velame. Scivolai dunque, nel vero senso della pa rola, sottocoperta, infilandomi in una delle cabine di cui il mediatore aveva magnificato la versione a bulbo. Mi guardai intorno per capire in cosa consistesse; forse era per via degli oblò che parevano scambiare anchessi, alle mie spalle, sguar di di dileggio con locchio di sirena che portavo sul petto.

Perlomeno, stavo al riparo. Un cagnetto si fermò sulla porta; annusò e scrutò e, dopo essersi sincerato che del marinaio non avevo nulla, prese a lamentarsi passando oltre. Non cre devo che anche i cani soffrissero il mal di mare.

Emersi due volte. Rendendomi conto, in entrambi i casi, di aver sbagliato i tempi di uscita. Mi apparve Marianne che, sui cuscini di poppa, prendeva il sole nuda: il mediatore fin geva di annodare cappi che mai si sarebbe avvolti al collo; in realtà, fissava il sesso di Marianne, sul quale la gamba destra, piegata, dondolava con noncuranza. Quando si accor sero di me, lel strinse le gambe, mcntre il mediatore non ab bassò lo sguardo, pur sapendo che gli stavo alle spalle.

Tornai di sotto. Le ondate di tempesta aderivano agli oblò senza più interruzione: nere, sfrangiate di viola. Quando ca pii che eravamo nella bocca del pescecane, mi sfilai il giub botto e uscii di nuovo. Fu anche peggio.

Avanzavo intenzionalmente dove il mare batteva in coper ta con colpi da mannaia; ma se la mia testa fosse rotolata ai loro piedi, non se ne sarebbero accorti. Si preoccupavano di condurre limbarcazione, dandosi cambi perfetti.

La mattina dopo, Marianne mi informò:

« Ho passato la notte nel suo letto. »

Rispettata la legge geometrica della sua sincerità, non ave va altro da aggiungere.

Da allora, io non perdo docchio il mediatore.

Conosco, di lui, vita e miracoli (ne conoscerò mai la mor te?). I suoi affari, le amanti che alterna con regolarità, il luogo dei suoi convegni amorosi che tiene segretissimi. Nella mia qualità di martire nel senso greco, non cristiano, di testimone faccio ciò che Marianne dovrebbe fare, so quello che lei dovrebbe sapere.

Ho eletto il mediatore tra i bersagli preferiti della mia curiosità.

~ qualcosa che non ha niente a che vedere coi pedinamenti a Piazzale degli Archivi. Si tratta di unimmedesimazione e obbedisce a regole differenti. E poiché non credo che la ven detta sia la forma più sicura di giustizia, le mie intenziQni non sono vendicative, bensì protettive, anche se con esattez za non potrei dire di chi o di cosa: se della sorte di Marianne, della mia, o del principio superiore secondo il quale lintelli genza, al contrario degli affetti, non dimentica.

Il mediatore non si è mai accorto di nulla. Non può. Ac corgersi del proprio destino è unarte particolare, una di quelle che non rientrano nel bagaglio manageriale.

~ bello essere lombra di qualcuno. Spesso, uniformo le mie giornate alle sue.

Non è infrequente che, la sera, esca in furtività con qual che donna. Un ristorante, verso Fregene, si chiama Manrico (strana impronta verdiana in quei sordi paraggi): va sempre

; piacevole anche applicare il metodo della curiosità alle donne che crede sua esclusiva. Qui si produce uno sdoppia mento e la mia curiosità si esibisce in virtuosismi: se, nei confronti del mediatore, io sono ciò che Marianne dovrebbe essere, nei confronti delle sue donne sono ciò che dovrebbe essere lui, so le cose che lui ignora.

Il mediatore si alterna tra microcosmo (LArgo schizofre nico) e macrocosmo (Il Mastino bancario). Nel weekend va in tenuta, scortato da due o tre automobili; a disintossicarsi, dice. Ma è capace di lavorare venti ore al giorno, con pause per potare gli alberi. Ha una passione speciale per gli alberi e vederlo in equilibrio sui rami, munito di sega elettrica, mi fa sempre ben sperare. Freddo e determinato sul lavoro, pia nifica tutto, anche le potature. Un aspetto del quale non si spoglia mai, nemmeno quando si diverte a fare il contadino, è di cercare un tornaconto in ogni circostanza. Classifica an che i rami, oltre che i casi della vita, con un più o un meno.

Potrei distruggerlo, avendo appreso le guerriglie che un uomo del genere combatte ai confini con la legge; specie il suo bisogno, quasi paranoico, di normalità esteriore, losses sione della vergogna sociale.

Ho un dossier sui suoi appalti. Un altro sui suoi gorilla, alcuni dei quali si chiamano Joachim o Egon: già guardaspal le di personaggi scomodi a cui fu chiusa la bocca dal retro.

Conosco certi piccoli errori, come dicono i Procuratori della Repubblica, che potrebbero costargli, in caso di fuga, lestra dizione. Come conosco il suo sorriso quando il governo de cide, poniamo, il prezzo che ha mediato lui per il gas algerino.

~ lo stesso del barcaro che, a Po, avvista lo Storione Reale.

Tengo il conto dei suoi debiti e dei suoi ricavi, assai meglio di un collegio sindacale, pur non avendo mai avuto propen sione per la matematica. Si fa di necessità virtù.

Si è reso necessario, di conseguenza, un altro catalogo che ho diviso in sezioni: i fatti (dicerie e verità), le accuse, i retro scena, fondi e poteri occulti e loro rapporti con lo sportello speciale per lemergenza, conti in banche intestati a diversi personaggi: i nomi che si sceglie il mediatore basterebbero a dimostrare lo squallore della sua fantasia.

Altre fanciullaggini dei matitoni. Io li lascio divertire.

Ma la sensazione che provo, essi la ignorano. ~ come quan do Louis Leaky, sulle orme del primo uomo che si alzò in piedi, scoprì il cranio vecchio di quasi due milioni di anni e, da allora, spedizioni internazionali setacciano lAfrica me ridionale e orientale. Con la differenza che, mentre in loro cresce oggi la certezza di conoscere i nostri antenati del ge nere Homo, in me questa certezza decresce. Gli scienziati si preoccupano, inoltre, del costante aumento del livello degli oceani, mentre io, che non credo nelleternità, ho ferma fidu cia che torneremo al clima dei dinosauri.

La sola maniera per capire come cambia il mondo è, in somma, appostare i mediaton. Una fortuna che capita a po chi. E mi riconosco un privilegiato.

A Motteggiana cera il Deodati che si metteva a un tavo lino del Caffè Centrale e diceva, a tutti e a nessuno: “Ne so delle belle, io! ” E avevano timoroso rispetto del Deodati.

Egli mancò in un punto. Attratto dalle vicende altrui, non badava alle proprie. Non poteva prevedere, perciò, che un giorno lavrebbero trovato affogato alla Sacca del Gabbianel lo, pur avendo con lacqua la stessa dimestichezza di Marian ne. Ma questa è unaltra faccenda.

Verrà il momento che metterò a frutto le mie informazioni.

Esse sono le note che scrivo sul mio pentagramma, mentre vado componendo quellopera buffa che è quasi completa.

So anche dove avverrà la gran prima e dispongo di insospet tabili violons du roy. Sperando di non doverla intitolare Il signor Bruschino, con finale però non giocoso. A meno, inten do, che qualcuno non mi faccia fare anzitempo la fine del Deodati.

Capitolo nono

« ~ unopera buffa! » gridavo nella notte.

Loro erano in quattro. E benché i banchi del mercato di Ponte Milvio abbiano nascondigli oscuri, riuscivo a distin guere lo stile ana Joachim da quello alla Egon.

« Succede sempre, nelle opere buffe! »

Il paradossale, anche della violenza, ha sempre gli schemi dove realismo tragico e comico si fondono. Infatti, dopo che lautomobile, sbucata dal buio, aveva bloccato la mia, avevo visto uscirne Haly, il capopirata, o il Gran Kaimakano, e ora vedevo al lavoro il terzetto Pappataci dellItaliana in Algeri.

Per mia fortuna, Marzio ignora sia Rossini che i film sur saut, ed era saltato fuori per primo. A testa bassa, senza pro blemi di stile. Cosl, se la stavano prendendo con lui, forse scambiandolo per me. Non tutti sanno distinguere nelle te nebre.

Non mi sono mosso dal posto di guida. Non mi sentivo un vile. Se qualcuno avesse aperto la portiera, avrei affron tato come si conviene, se non proprio laggressore, almeno la mia sorte. Il fatto è che ho sempre vagheggiato di schiaf feggiare qualche infame, ma la sola volta che ho messo in pratica il proposito, mi sono accorto che la determinazione della fantasia, passando allazione, si perdeva per ansiose ar terie: anziché un ceffone, ne è sortita una sorta di carezza.

Lepisodio col compagno della ragazza del sonno resta unec cezione.

A Marzio non sarebbero servite le mie carezze. Perciò so no rimasto lì. Cercavo di non guardare. Se appena gettavo unocchiata, mi sembrava, piuttosto che una rissa, un applau so osceno. Le grandi mani di Marzio sbattevano contro quelle degli avversari, i corpi contro le lamiere dei banchi.

Dopo, me lo sono caricato e gli ripetevo:

« Mi dispiace. Stavolta era per me. »

Gli ho spiegato, in poche parole, lo scopo della spedizione punitiva ordinata dal Mustafà, ossia dal mediatore.

Ma ho capito che Marzio era contento. Finalmente, poteva lasciarsi pulire il naso dal sangue per una ragione che, almeno lui, reputava nobile: la mia difesa. Ha abbandonato la testa guardando lontano unaltitudine trasognata. Piazza di Ponte Milvio era tornata deserta. E io maledivo Ponte Milvio, la notte, e tutti i maiali che, da quando sono nato, vorrebbero coprire di sterco la mia vita. Dovevo, tuttavia, farmi forza.

Non poteva ripetersi la scena del Commissariato: che fosse ancora Marzio a consolare me.

Lho portato a casa mia.

Quando ci viene, Marzio è rispettoso. Capisce al volo se ho voglia di starmene in silenzio, a comporre geometrie coi matitoni. Chiede il permesso di prendere dalla biblioteca quello che chiama il libro delle figure. Si tratta del grande album Le favole erotiche dellOriente, che mi ha regalato Sybille, illustrato dai rotoli della pittura nanga, dalle stampe ukiyoe del “mondo fluttuante” e dalle scuole naturalistiche di Osaka, Okyo e Kyoto. Egli si incanta sulla regina di Aoki Mokubei, che attende alle libagioni mentre ammira entusia sta il membro dellamante, il cui glande ha appena finito di incoronare; sulle coppie di amanti di Kyoto, legati da vagine come crepacci sanguinanti e falli nodosi come alberi. Il tutto spiato da una quantità di occhi attraverso le fessure dei pa raventi di bambù.

Le visioni di quella vita gioiosa e senza complicazioni, dove scopre che i suoi vizi furono, in tempi remoti, abitudini quo tidiane di rispettabili signori, lo mettono in pace col mondo.

Sono le favole che nessuno gli ha mai raccontato e gli rac conto io, quando sono in vena di chiacchiere. Gli piacciono, in particolare, le storie della principessa Ukifune e dellim peratrice Shotoku, che dimorano in palazzi affollati di no biluomini e servi, e mentre la corte anima intorno i suoi in trighi, si fanno possedere dai monaci. Il monaco Dokyo risul ta uno sterminatore di belle regnanti, e stampe in azzurro e oro lo mostrano col membro a pannocchia sorretto da una corda awolta al collo.

Mi chiede notizie sulle leggende della copulazione animale, Juchiku koketsu ho, dove un anonimo Esopo dagli occhi a mandorla illustra i segreti della saggezza servendosi di ca valli, cervi e cani.

Lo informo su quegli imperi in cui la passione dei sensi, prima soffocata da una corazza di doveri morali, esplose incontrollata e sconvolse princìpi ritenuti inviolabili. Soffer mandomi sulle immagini del “mondo fluttuante» gli parlo, un po inventando, delle città senza notte, e senza aggressori e mediatori, che sorsero alla fine del Seicento negli agglome rati urbani di Edo, Kyoto, Osaka: rifugio per i gaudenti in cerca di facili amori, punto dincontro per scrittori e attori che vi si muovevano liberi, ripagandosi della noia quotidiana.

Li compiacevano prostitute di basso rango, ma anche corti giane raf~natissime. Mentre gliele descrivo, io stesso vengo preso in un sottile incanto:

« Le cortigiane amavano alla follia, incuranti dei pettego lezzi e delle convenzioni. Nelle notti di luna, tenevano accesi sulle porte dei lampioncini, per far capire di essere disponi bili. Quando fiorivano i ciliegi di Ono e i pini di Takasago mettevano i germogli, esse trattavano, con magica sapienza, le erbe amorose, e tutti si abbandonavano ai loro artifici. »

Marzio ha, davvero, lespressione di un bambino.

a Indossavano vesti maliziose, dalle maniche larghe e i risvolti rosa. Si dice che le loro sopracciglia gareggiassero con le falci lunari e le labbra ricordassero gli aceri purpurei di Takao. Inventavano tecniche del piacere, chiamate le rugia de delle foglie di bambù e, nei giorni di festa, si aggiravano per le strade agitando nellaria le pertiche degli uccellatori. »

~ Bisognerebbe, anche noi, andare lontano » conviene Mar zio, con uno sguardo allinfinito.

Ieri notte, dopo la rissa, questo sguardo era più triste del solito.

« Le donne!… ~ ha esclamato.

Capivo che alludeva a Marianne col mediatore.

« Marianne non centra nulla, te lassicuro. Anzi, è come se avessero aggredito anche lei. »

« Le donne centrano sempre. »

Per un po, non ha aggiunto parola. Sono momenti in cui lo induco a spiegarsi standomene ugualmente zitto.

Allora ha avuto una di quelle sortite che mi lasciano stu pefatto:

« Perché tu non gli hai mai fatto paura. Né a loro, né ai mediato~i. Sei sempre stato troppo gentile. »

Intuizioni che escono oracolari dal suo abituale mutismo, mentre scmto le sue sopracciglia cespugliose, inarcate, gli occhi puntati sulle mani che rivolta come mannaie.

« Fargli paura » ha ribadito.

Ha bloccato le mani tra le ginocchia. Ho immaginato il collo di una donna dentro quella morsa dacciaio. Ma poi mi è venuto da sorridere, pensando alla moglie e allo sciame di femmine in mezzo alle quali vive nel palazzone del Quadraro.

…mi porta là, dove si arriva, come lui stesso riconosce, sempre di sghimbescio, per strade che puntano a una destinazione che sembra la giusta e non lo è mai; bisogna svoltare, prendere traverse. La macchina gira ora a destra ora a sinistra, e io guido lanciandogli occhiate: Marzio sta rigido sul sedile di fianco, con laria persa nella serata chiassosa di passeri.

Accenna al proprio passato. Una vita di circonvallazioni, vie fuori mano, borgate cresciute addosso ai quartieri, per espanderli malamente verso desolati orizzonti.

« Di sghimbescio » ripete.

Si arriva a un capollnea. Due autobus fermi puntano il vuoto coi fari accesi e, dentro, il personale di servizio gioca a carte. Una pensilina senza unanima. Intorno, casette mezzo costruite: tutto appare sospeso a metà, tra scarpate e terra pieni dallaspetto di trincee, anneriti dal fuoco. Lumi brillano sulle marane piene di ranocchie, e sembrano cimiteri.

Cani abbaiano in grandi gabbie; non è un canile, perché le gabbie sono incustodite, le bestie magrissime e affamate, con la bava che cola dalle bocche. Marzio, come al solito, non mi dà spiegazioni.

Anche linterno del palazzone è di sghimbescio. Saliamo da una scala allaltra, fino allultimo piano, dove una porta non ha nome. Ci sediamo subito a tavola. Io, lui e una vecchia che presumo sua madre. Per un po, non appare nessuno. La madre mi scruta e capisco che persino i suoi pensieri devono essere invecchiati di sghimbescio, pensieri suburra, intorno a paludose rassegnazioni. Mi lancia sorrisi tra il losco e il furbo; poi, accennando a Marzio, esce in una frase ambigua:

« Se sta a allenà pè traversà fiume… ~> Come se il fiume evocato fosse lo Stige, questa profezia di morte emessa con un sogghigno di gengive nude, fa il pari con la squallida lampadina che ci rischiara nella stanza. La vecchia appoggia la testa sul braccio e si addormenta. Marzio non batte ciglio. Siede a capotavola, scrutando la porta da cui si aspetta larrivo di qualcuno. Sento pesare su di me lostilità di quel sonno da megera o sibilla, a lato del piatto, col gozzo che trema come gelatina.

La moglie scivola dietro di noi, senza che me ne accorga.

Regge un vassoio fumante. Marzio solleva prima il mio piat to, poi il suo, e lei vi lascia cadere le fettuccine. Serve anche la vecchia, in previsione che si svegli.

Ne ignoro il nome. Marzio evita le presentazioni. Comin ciamo a mangiare e la donna non se ne va: ci osserva non ca pisco se con odio o sottomissione, dallespressione del viso dovrei dedurre che si augura che il cibo ci vada di traverso, ma potrebbe trattarsi di una rozza facciata. Marzio inforca fettuccine senza degnarla, né pronunciare parola. Sono io a dire: « Buone ». Però lei resta di pietra, avvolta in una ve staglia aperta sulle gambe, i piedi nudi infilati in babbucce; le labbra che rosseggiano sotto unombra di baffi, si aprono e si chiudono: allinizio ho avuto limpressione che boccheg giasse, ora mi rendo conto che sono parole mute. Anziché articolarsi nel suono, si nutrono di un astioso silenzio, in ghiottite sul nascere dentro lo stomaco tra espanse mammelle.

Lorlo del mio piatto conserva le impronte delle sue dita.

Quando si decide a scomparire, ha movenze da cannivoro e, insieme, unaria da domatore.

Arrivano le altre. Attorniano la tavola tra il buio e la luce, nel cerchio della lampadina si protendono solo le mani con le unghie dipinte: ci sfilano di sotto i piatti, non appena ab biamo finito lultimo boccone, e ricaricano con altre pietanze.

chiaro che ci incalzano, puntando a una frettolosa conclu sione della cena. Cambiano le portate anche alla vecchia che russa.

Una ragazzona sui ventanni si aggira con un fare da gene ralessa, come dietro le mosse del nemico, trascinandosi una voce arrochita. Non si capisce cosa dica, e a chi, tranne che non siano imprecazioni, che allora si stagliano chiare in fondo al corridoio, dove deve stare la cucina. Chiunque sia, una figlia di Marzio o una cognata, ha la strafottenza della viziata di famiglia.

Il fritto di carciofi e la coda alla vaccinara vengono salu tati da un piovasco contro i vetri. La stanza si fa soffocante, la carne sudata delle donne emana goccioline color rame. Una apre la finestra, ma quando la pioggia è cessata; cè una luna che picchia su un paesaggio di prati abbandonati, pieni di monticelli.

Al dolce ciambelle e zinne di Frascati mi sbuca ac canto una bambinetta dagli occhi lustri. Mi stringe la mano, con un inchino, e torna via di corsa. Marzio la guarda fuggire con tenerezza, devessere certamente sua figlia.

Di là, si sente risuonare uno schiai~o. Poi, il rimprovero della generalessa: reputa sconveniente che la piccola mi sia venuta a salutare. Anche i gatti transitano di sghimbescio tra i nostri piedi. La porta dingresso sbatte. Un grido femminile.

Qualcuno rincasa con furore. Dai passi, si capisce che è un uomo. Un giovanotto passa per il corridoio scrollandosi di dosso la moglie di ~Iarzio, che vorrebbe abbracciarlo. Imma gino che non si sia fatto vivo da un pezzo e che ritorni da un mondo di rapine. Altra porta sbattuta: nella stanza attigua, i due confabulano ai~annosamente, scoppia un diverbio e si spegne, la moglie piange.

Finiamo di mangiare.

Marzio resta seduto davanti alle bottiglie di Rosso Bacca nale di Campagnano, coi suoi pensieri che i lumi lontani delle marane, un passaggio di treni, chissà dove, colmano di foschi propositi. Io mi alzo e perlustro la casa. Il corridoio, costel lato di porte chiuse, è lungo e ampio, ha qualcosa del viale dove~i cani si avventavano contro le sbarre arrugginite. Le donne sono scomparse, ma le sento che parlottano qua e là.

Non è romana, questa numerosa parentela uxoria, bensì me ridionale; di che origine, dif~icile dirlo. Tendo lorecchio e ho il dubbio che chiacchierino tra loro, fitto fitto, non per comunicarsi cose particolari, ma perché gli è rimasta nostalgia del dialetto della loro terra, qualunque essa sia, e scambiarsi inflessioni e timbri, da cui risalta uneCo della loro sorte, for se le rende meno sole.

Apro a caso una porta. Un ambiente buio ha il solo bian core intermittente degli occhi puntati su di me da bambini ammassati sui lettucci. Mi inoltro nel ristagno de loro lSati e quel battere disarmonico di palpebre sui globi che hanno la lucentezza dellinsonnia e della paura, mi ricorda un tucùl.

Me ne vado. Entro in unaltra porta. Mi trovo in un bagno piastrellato dove la luce lunare sbianca un ennesimo bambi no che siede sulla tazza fissando la parete, tra biancheria in tima femminile appesa a un filo che corre fino alla finestra.

Unanitra di gomma troneggia sotto una doccia che pare sec ca da tempo; un paio di calzoni spenzolano da un gancio, con mutande rovesciate lungo la cinta. Il mio sguardo è attirato da un pacco messo furtivamente in un angolo, macchiato di sangue, forse mestruazioni.

Continuo a introdurmi in camere e ad allontanarmene con un malessere crescente. Nellultima, una forma si rivolta sot to il lenzuolo che viene sollevato per coprire in fretta qual cuno; cè una lampada schermata, sul comodino, e prima che la ragazza la spenga con un movimento energico, faccio in tempo a scorgere che lei, girata sul fianco, con grosse natiche, mi dà le spalle, ed esse in effetti nascondono un uomo, di cui spunta una gamba piegata.

Arrivo al finestrone in fondo e guardo le nuvole che si alternano alla luna piena. La singolarità di Marzio, così se greta anche nella disperazione, nasce dunque da qui; egli ha imparato a essere un uomoisola entro una cintura di meduse, dove la costernazione esistenziale non è la conseguenza di una realtà funebre ma, al contrario, la sua attesa.

~ schiavo di queste meduse: schiave, a loro volta, di ciò che a Roma chiamano la pennica arruzzonita de le ombre.

Una torbida parentesi di sonno nella tragedia sempre pronta a esplodere: se ne sta acciambellata come il gatto sul davan zale, che dimprovviso singroppa e mi so~ia contro con ira.

La notte dellaggressione, lho finita a casa di Sybille.

Volevo parlargliene. Ma era furibonda. Ha cacciato via gli ospiti. Con malagrazia. Mai vista una Sybille cosl.

~ rimasta sola con me. Io non le ho detto della rissa. Lei non mi ha spiegato le sue ragioni. Si è spogliata e si è messa a letto. Mi sono aggirato e ho spento le luci. Stavo per an darmene.

« Resta a dormire con me » mi ha pregato.

« Ti fa piacere? »

« Cosa centra il piacere? »

~ Allora, perché? »

«Nonloso.»

Ho accontentato Sybille. Ci eravamo appena addormen tati, che ci siamo svegliati di soprassalto. Con nostra sorpre sa, stavamo facendo lamore. Una beffa del sonno. Prendendo coscienza della situazione, ci siamo detti:

« Scusa. »

Mancava poco perché facesse giorno.

Marianne, in genere, sorvolava sul mediatore.

Ero io che cercavo, non di provocarla, ma di stimolarla a un discorso. Lo facevo con una lucidità non animosa, spesso con pudore. Per rispetto di Marianne e anche mio. Cè una linea di confine, ormai, e lui sta oltre, leggibile; noi di qua, col piacere di leggere ben altro.

Quando se ne parlava, Marianne era come se esitasse a metter piede in una casa dove si sa che è morto qualcuno, più esattamente che vi è stato ammazzato. Negli occhi, un desiderio di salto, di volo: volare sulla casa, vederla a distan za. Ma poi finiva per abbassare la testa ed entrarci. Era come se la lasciassi su una porta buia. E le dessi la mano, prima di ascoltarne i passi allontanarsi nel labirinto. La sua scomparsa mi comunicava una sorta di rimorso.

Ma dopo la notte di Ponte Milvio, le cose sono cambiate.

Marianne lo ha saputo, è chiaro. Anche se non ne ha fatto cenno.

Sono accaduti due episodi sorprendenti.

Giorni fa, mi ha proposto di accompagnarla da quella che chiamo la mondinamondana.

« ~ assurdo » le ho detto. « Ma ti rendi conto? »

« Voglio che tu venga. »

Era irremovibile. Lho assecondata.

La mondinamondana è stata lultima amante del media tore. Prima di una burrascosa rottura. Almeno quattro donne, a Roma, hanno le sue stesse caratteristiche. E spesso capita che la confondano con le altre. Moglie, separata di fatto, di un industriale del nord: conte del regime. Perciò contessa.

Per Stekel: «Lorgasmo più intenso può prodursi soltanto se viene raggiunto lo scopo segreto dellindividuo”. Scopo della mondinamondana ~ la cattura di uomini che contano. Com pensazione del suo lato “mondino”: nasce, infatti, a Pole sine dello Schiavone, vecchia zona risicola; risaie oggi scom parse, ma che la videro, ragazza, alla monda e alla distruzio ne delle erbe infestanti.

Si racconta che cominciò battendo lungo il ponte di barche sul Po delle Tolle. Quarantotto chiatte!

Altra definizione sarebbe: la donna del scsto potere. Quel lo che desume, sessualmente, dai potenti. Salotto esclusivo.

Riviste femminili, anche francesi e americane, lhanno defini ta: gaia, comunicativa, molto spontanea, la Madame DAul noy dei pranzi. Artisti, grossi nomi romani e internazionali, spreco di Andy Warhol e Roger Peyrefitte, ma soprattutto conduttori di banche e politici.

Negli ultimi tempi, Marianne deve averla frequentata spes so. Le ho viste baciarsi sulle guance. Sono stato introdotto, con familiarità, nel salone da cui si ammira il Foro Romano.

In due ore ho appreso, sul mediatore, più di quanto non ab bia scoperto in tre anni. Il che dice tutto. La mondinamon dana era esasperata. Con unenergia combattiva nellinfor marci e nel formulare strategie vendicative. Il suo concetto è che bisogna af~dare la parola alle cose che accadono, le cose stesse hanno il diritto di parlare, e noi dobbiamo trovare nome e voce a questi fatti, spesso sconvolgenti. ~ enorme loscurità, la difficoltà a illuminarla, ma quel nome va trovato.

Per la mondinamondana il nome è uno: morte. Mi veniva in mente il Rinzairoku: “Se incontri il buddha, uccidilo. Se incontri i genitori, uccidili. Se incontri i parenti, uccidili.

Solo cos~ potrai ottenere la salvezza dellanima».

Ci intratteneva seduta sul letto in damasco rosso, sorm~

tato da una riproduzione del disegno di Leonardo: lAccop piamento. Sezione della verga. Marianne non perdeva una parola.

Poi la contessa se lè presa con me. Mi ha assalito dan domi dellinetto. Il mediatore, secondo lei, non si riduce a un trafugatore di capitali.

a i~ un assassino! » ripeteva. a E va eliminato. »

Ha un vero talento per lorrore. Descriveva le fosche tra me che si addensano alle spalle di uomini simili: a Essi pro sperano sulle carogne ». In campo femminile, sulle ex: ex mogli, ex amanti, ex confidenti, ex puttane. Ex donne, in somma: ruderi!

Mi ha persino ricordato che la moglie di Erode si chiama va Mariamne.

a Lo sapevi? » mi ha chiesto feroce.

Lo ignoravo. Non si finisce mai di imparare.

a ~ un segno del destino. Tienilo a mente. »

Non so a che scopo, ma le ho assicurato che cercherò di ricordarmelo.

Si è sentita male. Abbiamo suonato a diversi campanelli.

Il personale di servizio sembrava scomparso. Ci ha fatto cer care sedativi. Ma i contenitori, in bagno, erano vuoti. Ho trovato in compenso altri astucci che ben conosco. Hanno funzionato. Tanto che, a un certo punto, voleva denudarsi.

Perché guardassimo comè fatta una donna che ha praticato il ponte sul Po delle Tolle. Sono esperto in materia, le ho detto.

Siamo usciti che era buio. E il tempo era cambiato. Ven tate aspre, come di cenere.

Secondo episodio sorprendente.

Marianne mi ha introdotto nel forteto del mediatore: lAr go schizofrenico.

Lho seguita senza discutere. Mi faceva strada e non le ponevo domande. Distinto, mi pareva di leggere nelle sue intenzioni, oltre che nel suo desiderio di non dare risposte.

Abbiamo superato la cancellata e attraversato la distesa dei cani con le code che, via via, segnalavano lallarme.

Il parco è più vasto di quanto supponessi. Dagli alberi, veniva qualche verso duccello, in risposta al sordo brontolìo dei mastini che mi annusavano le scarpe. Ormai, non mi sor prendo più di nulla. Non batterei ciglio nemmeno se mi com parisse Marco Polo per inoltrarmi tra i miraggi della Tartaria.

« Vieni » mi ripeteva.

Ho superato la soglia della dimora de~ mediatore. Avan zando nella penombra cercavo, chissà perché, di non far m more. Marianne ha sollevato le tapparelle e mi sono trovato nel salone inondato di luce. Tubi, lastre marmoree, poltrone di quelle che si plasmano intorno al corpo di chi vi si adagia.

Alle pareti, pannelli multicolori, incomprensibili, forse qua dri di idoli, planimetrie, paesaggi ameboidi. Spaesati in tanto invadente risalto, ecco i Seurat, i Nimt e gli altri fiori rari di cui avevo sentito parlare. In un angolo, un bar ben prowisto.

Mi sono servito.

Ho notato uno stereo col disco inserito. Ho messo in moto Ritmi tribali, tamburi e unatmosfera new wave. Ho spento immediatamente. Sulletichetta: See J~ngle.

« E il mediatore? » ho chiesto a Marianne. « ~ fuori Roma? »

« No » mi ha risposto con determinazione. « Deve tornare da un momento allaltro. »

Niente commenti, da entrambe le parti.

Sono passato in uno dei corridoi laterali, con una succes sione di specchi, di ogni dimensione, tutti in vario modo de formanti. La mia testa si espandeva per subito ridursi a una fessura o farsi a pera: devono essere destinati al personale di servizio. Quando ho aperto la porta di fondo, ho visto che dava sulloffice. Abbiamo rifatto il cammino e imboccato il corridoio di destra. Qui non cerano specchi, ma immagini sacre. Alcune esprimevano pessimismo religioso, altre reli giosa intransigenza. Marianne mi seguiva passo passo. Ora ero io, in un certo senso, a farle strada.

Ho individuato la camera degli sposi.

Mi ha sorpreso il letto. Oltre che spazioso, è rotondo. I letti non regolamentari mi danno unidea di licenziosità. De gli stridi, un colpo sordo, mi hanno spinto a sollevare lo sguardo e mi sono accorto di una lastra ovale di vetro, che affaccia la stanza al cielo. Lo stormo dei rondoni si è fermato un istante, poi è fuggito via. Da un po, nessuno era salito a togliere gli escrementi dei volatili, che proiettavano deso lazione.

Mi sono ricordato che Marianne ha un sacro terrore dei fulmini e dei temporali e che, quando dormivamo insieme in alberghi privi di tapparelle o persiane, si metteva la ma scherina.

« Come riesci a prendere sonno? »

Ha alzato le spalle.

Ho continuato il giro della villa. Notando, nei punti stra tegici, lumi di Tiffany: cristallo piombato a forma di libel lula. Un timer ne regola laccensione; di giorno si spengono e riprendono la vigilanza al tramonto. Per chi avesse in ani mo profanazioni, resta da superare oltre al muro di cinta, la cancellata a mannaia e lArgo schizofrenico anche quel lillusione che il luogo abbia uninteriorità domestica sempre sveglia nei suoi illuminati sentimenti.

Complicati orologi, a forma di meduse e pitoni attorciglia ti, assommano il loro ticchettìo, a smentire che il tempo ab bia il passo leggero. Nelle stanze, le ore marciano come trup pe. La biblioteca mostra scaffali di quercia inglese che rico prono le pareti laterali; di inglese, nientaltro, nemmeno gli elisabettiani dobbligo. Sotto un paralume anchesso Tiffany, il tavolo da biliardo, una delle poche cose che abbia dimen sioni regolari. Di fronte, la rastrelliera delle stecche e una vetrina con fucili da caccia e pistole. Un secondo bar e una dozzina di pipe: strano, non avevo mai notato che il media tore fumasse la pipa.

Ho guardato con più attenzione negli scaffali. Il classico, come stile sia di conoscenza che di arredamento, allArgo schizofrenico è decisamente bandito. A meno di non far rien trare nel genere una serie di memorie intonse, e rilegate in pelle, di ignoti parassiti della Versailles prerivoluzionaria.

Tutti presenti i volumi in cui il padrone di casa si è imbat tuto nel corso delle sue amministrazioni delegate in case edi trici. Per lo più, manuali di vela. Mancano solo le mie fole padane. Ma nessuna traccia anche di Rudolf Kassner.

Cè una camera dei tesori. Sottovetro, distese di Kruger rand, le monete doro che i sudafricani coniano per chi vuole investire.

Dominata da un grande lume dottone, sempre munito di timer e dalle fattezze del robot (spandeva una vaga rassomi glianza tra Boris Karloff e Bela Lugosi)t la stanza del piccolo Simone. Con lettino spaziale Ufo di invenzione giapponese.

Il bambino mi ha salutato muovendo la mano con una ma linconia molto europea e terrestre.

Lesplorazione era terminata.

Le conclusioni che potevo ricavarne erano: IArgo schizo frenico, nel suo insieme, apporta una variante al convinci mento di Freud, secondo il quale “le imperanti leggi della logica il principio di non contraddizione non hanno alcun peso nellinconscio; esso potrebbe essere chiamato il regno dellillogico”. Daccordo. Ma ciò che Freud non poteva cono scere era linconscio manageriale. Esso fa caso a sé e va per fettamente daccordo con un tipo di logica: la sua. Dove trionfa il più avanzato principio di contraddizione.

Tutto vi oscilla tra artificio e funzionalità, lontano dai due estremi per impossibilità di scelta, alla stregua delle lampade a timer, la cui luce piove, appunto, neutra. La casa del me diatore è lopposto della mia, non tanto per le proporzioni e la ricchezza, quanto per il gusto delle cose, da me predi lette, qui neglette. Esse mi circondavano ignorando che, die tro di loro, esistevano laboriose storie di uomini, epoche in cui i re e i buffoni erano ricorsi agli oggetti con qualche scin tilla creativa.

Ma un comune legame cera. Quale? La sensazione che ci fosse mi aveva accompagnato fino a quel momento, senza pre cisarsi. Le vidi: sembravano aspettarmi, familiari e c~nfor tanti. Crepe, incrinature, soluzioni di continuità sulle super fici. Era lintegrità stessa delle cose messa in discussione. Mi rendevo conto che anche i metalli vili e i materiali sintetici, come i prodotti artigianali di un prestigioso passato, cono scono le infrazioni delle battaglie domestiche. La guerra, ben ché ne progredisca la tecnologia, distrugge sempre al mede simo modo. Certo, a rimarginare le ferite, dovevano essere chiamati, allArgo schizofrenico, specialisti di unalta chirur gia che il mio amico restauratore di Via dei Giubbonari non conosce. Ma lo stile di Marianne, il suo tocco dirompente, mi facevano festa come vecchie conoscenze.

Passavo il dito sulle crepe. Per un momento, lei si è rasse renata.

Poi è arrivato il mediatore.

Si è controllato, esclamando: « Lospite è sempre lospite ».

Una frase alla Rudolf Kassner. Tuttavia, dal tono, ho capito la svista della mondinamondana. Perché cercare, in me, lErode di Marianne? Era già 11, il re di Giudea.

Mi ha imposto: « Siediti! ».

Ho obbedito.

Impassibile, Marianne seguiva la scena. Si sarebbe potuto dire: mai tanta crudezza, in lei. Ma, dal suo sguardo, ho colto al volo un altro tipo di ferocia: della curiosità, quando si aggira in situazioni estreme. Ne era oggetto il mediatore, non io. Anche lui ha afferrato quello sguardo. E pur ignorando, da sacrilego naif, la storia sacra, vi riconosceva la Mariamne che, stando ai fatti, metteva in riga Erode. Non poteva con cedersi passi falsi. Solo la falsità della camminata con cui mi aggirava.

Pensavo di veder entrare qualche Egon o Joachim. Non è avvenuto. Il mediatore mi ha puntato come, il giOr#O del IEspace, aveva affrontato il velame.

« E adesso » ha detto « il nostro ospite ci racconterà una delle sue fole da demente. »

Ci siamo guardati con Marianne.

« Raccontagliela » mi ha pregato, implacabile. « E per be ne. » Ha aggiunto qualcosa, senza parole, con un lampo sar castico. Ho capito che dovevo raccontare la più lunga fola del Po.

Ho scelto quella del Moscati. ~ Moffa Balufii cera anche il Moscati, che ripeteva: «Io sogno quello che voglio sogna re, e dunque sono più forte di Macalone, che arriva dalle Sacche e nelle piazze piega i metalli con la forza degli occhi.

Macalone, che è saltimbanco e Strione, vola sopra la testa della gente, benché pesi un quintale. Ma io sono meglio di lui, perché dico: adesso sogno uno storione che fila da ga lante dietro la storiona, e giù che lo sogno. E ancora: adesso sogno mio padre morto, e gli spiego cosa avrebbe dovuto sapere per non morire, questo mio povero padre, perché cè chi non sa che qualche volta basta sapere per scansare la morte, che in fondo è ignorante, come tutti quelli a cui non importa che lumanità cambia, come laria si fa più chiara o più scura, e ti accorgi di essere già a marzo o novembre”.

Detta cosl, sembra semplice. Ma, in realtà, non cè fola che meglio consenta, al barcaro illuminato dalla malvasia nel le veglie, di tirar mattina con impensabili varianti. Ir~fatti, quando mai si finisce di vedere dentro i sogni di uno? Le veglie, a volte, duravano dalle prime stelle al primo sole. Ben ché non avessi bevuto malvasia, io ero più in vena dun bar caro. Ho raccontato superbamente. Come mai nella mia vita.

Peccato che non sia stato registrato.

Alle due di notte, il mediatore era ancora lì che ascoltava la fola del Moscati. In maniche di camicia. Sbottonato. Cereo.

Ha tentato di intervenire. Ma quando ci provava, Marianne gli diceva:

« Hai avuto una buona idea. Nelle fole è imbattibile. La sciami vedere come va a fìnire. »

Ho smesso solo quando si è fatto giorno.

Il mediatore dormiva in una delle poltrone che si plasma no intorno al corpo di chi vi si adagia. E forse sognava coi sogni senza fondo del Moscati.

Abbiamo riabbassato le tapparelle. Marianne mi ha fatto strada tra gli argo schizofrenici, imbestialiti oltre misura per essere stati costretti, anchessi, a passare la notte in bianco, facendo la guardia a una fola. Prima che calasse la cancellata a mannaia, ci siamo detti: « A domani ».

Ho camminato a lungo, senza meta.

Al Re Polacco erano felici.

Ho detto agli amici della statua del Re. In breve, nel cuni colo di destra cera una ressa. Tutti volevano guardare attra verso il foro aperto da Marzio. Il barbaglio doro illuminava, via via, i profili tesi.

« ~ un dito! »

a Io vedo anche un occhio! »

« Guardate la mano. Fa un gesto! »

« Quale gesto? »

Sono stati ore a tentare di decifrare il gesto del Re. Da domani, entreranno in azione i tecnici Io e Marzio siamo stati vivamente complimentati.

Ci siamo seduti da una parte, di fronte alla grata del cuni colo di sinistra. Io penso sempre alla stessa cosa. Togliere la grata, mettere piede in quel regno segreto dove si aggirano malviventi di ogni risma. Gli affanni sarebbero finiti. Si spac cherebbe, una volta per tutte, questa maledetta lastra di ghiac cio, dove continuo a muovermi col cuore stretto.

Ho avuto, oltre a Eurte, altri maestri di curiosità. E ne parlo a Marianne. Molto ho appreso dai poeti di questo desiderio, e ho saputo ricambiarli con la mia stessa curiosità inesauri bile per il loro genio.

Il Re Polacco è il luogo ideale dove rileggerli, riascoltalne le musiche.

Nelle opere dei grandi curiosi, esiste il progetto di una so cietà nuova, di un nuovo tipo di uomo. Lho sempre indivi duato anche da un semplice segno. Nel guanto di Rabelais, orlato doro, che mi figuravo sotto una bifora del convento di PuySaintMartin, con la penna accanto, ho rawisato lhar monia mundi della curiosità. Nelle parole di Amleto, il suo spazio (“Ci sono più cose in cielo e in terra…”) ma anche il limite che consiste, da parte del principe, nel volersi impa dronire del dubbio. Se è vero che il sogno è soltanto unom bra, quellombra delle cose che è la curiosità, come le cose lo sono a volte di lei, mai porrà in discussione il proprio essere.

Né si lascerà sedurre dalla conclusione: “Morire per dormire.

Nientaltro… Dormire, forse sognare”.

La curiosità sogna, infatti, nel cuore sveglio della vita.

Ho già avuto modo di accennare allHidalgo che, incurio sito dalla pietas, sulla Sierra Morena concede libertà a San cho. E poco potrei aggiungere, a quanto è stato detto, sulla mente mobile di Mozart, se non ribadire la sua insofferenza per abati, luogotenenti della Polizia, intendenti dei piaceri del Re.

Arlecchino intorno al quale volteggiano le Colombine. Che rubino che canta. “Ricerco un bene fuori di me, non so chil tiene, non so cosè…”. Come poteva essere più lumi nosamente espresso il bene della curiosità?

Che lungo elenco e che sublime scuola ramificata nel tempo!

Vorrei soffermarmi su Paul Léautaud.

Lavventura umana e letteraria di questo scrittore francese, morto nel 56 e ignoto a molti, è tra le più singolari. Poeta dellamore fisico e sostenitore, come Proust (che non volle mai leggere), dellincomunicabilità amorosa, fu delizioso, con ciso, originale senza spavalderia e sincero senza enfasi. Non oltrepassò mai i confini di Francia e si mosse poche volte da Parigi, magari per recarsi a trovare lamante, Madame Cays sac, battezzata Il Flagello.

Al Re Polacco mi porto il suo Journal L¡ttéraire. E ringra zio la sorte di aver messo questo clown dello spirito sul mio cammino, in un momento cruciale: nei primi anni Sessanta quando, cronista di nera al “Messaggero”, rincasavo notte tempo in una cupa stanza della Pensione Valadier.

Ieri, ci sono tornato con Marianne. Non lavevo più rivista.

Ero emozionato.

Ricordo quando lodore del sangue risse, omicidi, suici di mi restava addosso. Ma non appena entravo nel mio buco e accendevo la luce, ecco i libri di Léautaud lievitarmi incontro dal tavolino addossato a una finestra insidiosa di 202 20~

spifferi, gonfi per le orecchie che andavo facendo alle pagine.

Mi sedevo, sfogliavo a caso.

Leggevo: “Quando mi occupo di una cosa, preferisco lal tra. Credo che morirò senza avere scelto”. Aforismi graf~anti mi deliziavano con quello che ritengo debba essere il carat tere di uno scrittore: scorbutico e partecipe.

Nel sapermi ignorato dallumanità, si insinuava la certezza del giorno che anche di me si sarebbe detto: «Chi lha visto, non lo dimentica più, tanto il suo aspetto e la sua intelli genza sono insoliti”. Gli occhiali di tartaruga mi pesavano sul naso, ma io mi figuravo di portare le lenti con le sottili stanghette di metallo da cui Paul scrutava il mondo: subito, il peso della montatura svaniva, gli occhi cessavano di bru ciarmi, per farsi aguzzi, limpazienza di spiare li sollecitava.

Anche la tetra Via Valadier subiva metamorfosi. Assumeva i contorni del Faubourg SaintJacques, di Rue des Martyrs, delle strade limitrofe a Place Pigalle, battute dalle prostitute per cui Léautaud aveva rispetto. Se egli fu, come dicono, un misogino, anchio lo sono; senonché la misoginia di quelluo mo, solo tormentato, è unaltra menzogna. Diciamo che le sue idee e fantasie mi confermavano, nelle notti della Pensione, che io sarei stato principalmente un curioso delle donne: defi nizione che mi attribuisco con amabilità, non sussistendo nul la che racchiuda, con più perfezione della donna, lessenza soggettiva e oggettiva della curiosità, persino nellerrore e nella delusione.

Unebbrezza di superiorità mi spingeva ad alzarmi e ad aggirarmi. Attraverso di essa, non mi apparivano più una prigione, da cui era impossibile evadere, le pareti nude, la gabbia dei canarini senza canarini, il piumino macchiato dalle eiaculazioni di chissà chi, il lavabo a cui mancava sempre il sapone.

Le affinità con Léautaud!

Anche la mia infanzia esigeva una volontà di vendetta e dinnocenza. Paul era nato a Parigi dagli amori irregolari di una piccola attrice, Jeanne Forestier, che lSnì per sposare un medico di Ginevra, e di Firmin, crudele ed egoista, che dovette smettere di recitare per un difetto di pronuncia. Pen savo a Moretta e alla sua tenacia nellessere il difetto di pro nuncia di mio padre.

Trascurato da Firmin, il ragazzo Paul aveva labitudine di rifugiarsi sotto il tavolo da pranzo, in compagnia di cani e gatti. Io mi ero rifugiato sotto gli spaventapasseri di Eurte, con gabbiani e serpi.

Le differenze. Léautaud non si fece mai rinchiudere nella gabbia coniugale (lo legò, per qualche anno, solo Blanche, ma a causa dellamore di entrambi per gli animali). Io ero certo che mi sarei lasciato imprigionare. Paul, inoltre, credeva sal damente nel principio: “La prima patria che abbiamo quag giù è la vita. Secondo me, niente vale il sacrificio della vita.

Niente! “.

Io non la penso così.

Avrei avuto, comunque, avventure curiose e strane (agget tivi su cui i critici di Léautaud insistono), molte amanti, no nostante il mio carattere che ne avrebbe disperso i rapporti fra rotture e riconciliazioni. Ma chi sarebbe stata la mia Blanche, che lo scrittore aveva chiamato Virago? Quando sarei morto, chissà se nel mio vestito avrebbero trovato, co me in quello di Paul, un astuccio con due fotogra~e: una dellamante preferita, laltra di una sconosciuta giovane e nu da, coi capelli sul viso per non farsi riconoscere; sul retro, una calligrafia incerta, senza ~rma: “Se mi capitasse di andar mene, non parlare di me, mai. Nessuno deve sapere e nem meno sospettare che ti ho amato. ConseNa questo ricordo in te, come un segreto”. Quale compagna avrei scelto io, per legare il ricordo della mia persona, celata metaforicamen te sotto molti panni, allidea della nudità splendente?

Uscivo dalla stanza come i gatti prediletti da Léautaud, che li descrive con maestrla strusciarsi contro le sordidezze dei vicoli. I gatti hanno unironia che li induce a vedere, an 204 20S

che in un cartoccio, una prova generale della creazione. Con la sua prospettiva catacombale, la di~icoltà di affondare nel sonno, la Pensione Valadier si dimostrava alla prova dei fatti un harem della vita.

Metterci piede significava diventare, non cera scelta, o un vizioso o un eunuco.

La Pensione era stata ricavata ponendo tramezzi nelle camere troppo vaste, come se ne trovano nei vecchi appartamenti ai Prati. La tenutaria aveva allestito scomparti dove sostavano coppie per lo più illegittime, spesso clandestine, alle quali si aggiungevano sposi in viaggio di nozze che, dopo qualche giorno, ripartiVano per i loro paesi e cittadine di provincia.

Io ero lunico pensionante che, di clandestino e forse di illegittimo, non avesse che la compagnia delle sue immede simazioni.

Sapevo tutto di ogni coppia, comprese le meno abitudina rie. Di quel campionario umano, registravo consuetudini e pratiche intime con una facilità di cui per primo mi sorpren devo. Si creava, nelle mie veglie, una comunione di esalta zioni e angosce che trovavano ragione per me nei libri, per gli altri in ciò che chiamavo, con unastrazione che era un modo per sentirmi affine, la lettura e la rilettura dei corpi.

Finché il sonno non arrivava con lo sferragliare dei tram mentre, nelle fessure, lame di sole si sostituivano agli spifferi.

Mi inoltravo tra amori incontinenti, dif~cili, maniacali; il corridoio si snodava in mezzo a donne fuggite o cacciate di casa, inseguite o che inseguivano evasioni, che non si erano mai mosse da Roma o erano approdate alla Pensione dopo avventurosi viaggi; uomini che le illudevano e, in prevalenza, le maltrattavano.

Perché soggiomavo alla Valadier? Prendevo a pretesto che la tenutaria una padana, di Sermide mi chiedeva una pi gione irrisoria, e la sua stramberia mi piaceva (Sermide è nota per unindustria di orologi da torre; ebbene, uno tro neggiava nella sala da pranzo, con le aste ferme verso il sof fitto). In realtà, trovavo stimolante che il via vai mi coinvol gesse e insieme mi lasciasse estraneo.

Quando uno degli amanti andava in bagno, qualche porta restava socchiusa. Intravedevo schiene di donne in attesa, oppure maschi che fumavano con lo sguardo in aria. Cono scevo, a sazietà, i riti da cui provenivano colpi sordi e pic cole grida. Non era dunque per eccitarmi a un turpe esercizio del sesso che percorrevo il tracciato soffocante della Pensione, dove lampadine schermate rischiaravano i numeri di metallo affissi sulle porte, ricordandomi lobitorio urbano che il me stiere di cronista mi costringeva a frequentare.

Spiavo, ascoltavo, immaginando un irreale labirinto attra verso i mondi postribolari o le gaie strade parigine come Léautaud li aveva r_arrati. Quegli orfani di un asilo decente evocavano grandi infami e femmine folli sul palcoscenico di unEuropa che viveva la sua sontuosa decadenza. Erano mo menti in cui riuscivo nello scopo che sempre dovrebbe pro porsi il curioso in stato di grazia: cambiare il senso delle cose, oppure asservirlo. Infatti asservivo alla nostalgia di una Parigi che mai avevo visitato, ma che pure mi pareva racchiu desse~la vita che mi era mancata gli amanti stanchi o che si possedevano rabbiosamente, nelle luci che, dagli abatjour, si diffondevano sui letti.

Léautaud avrebbe detto: “So dove non sono”.

In altri casi, il benessere fantasioso non riusciva a preva lere sul malessere con Cui unumanità accatastata mi faceva da parte. Come avrei potuto cambiare con limmaginazione la realtà delle camere contrassegnate dal numero cinque o sette o nove? In questultima, un uomo sui cinquantanni, calvo, sospettoso anche a tavola o davanti al televisore, infie riva sulla compagna, che piangeva in continuazione. Laffer rava per i capelli, sbattendola contro la parete. Una parola si scandiva dietro la porta: a Fogna! ».

Léautaud cessava di venirmi in soccorsQ, restava lalibi di un ragazzo già violentato dalla Roma di ogni giorno, soltanto testimone dellabiezione altrui. ~ allora che ho capito come la curiosità, essendo un desiderio superiore, può venire ucci sa dal basso.

Svoltavo verso il fondo. Andavo dove sentivo giusto che andassi, per identificarmi non più con le fantasie, ma col po sto più avvilente. Cera un unico bagno. Una lampadina span deva un biancore di ghiaccio sulle piastrelle corrose. Spe gnevo la luce, lasciando la porta accostata, e mi appostavo sul bordo della vasca. Al chiaro di una finestra che dava su un cortile interno, le sensazioni si sdoppiavano tra inerzia e allarme.

Dalla mia camera, avevo udito le donne entrare in bagno, per farsi docce o bidè. Forse aspettavo il loro arrivo, o forse no. Aspettavo, semplicemente.

Gli uomini entravano col sesso sempre nascosto. Chi non portava i calzoni del pigiama o gli slip, teneva asciugamani alla vita. Accendevano e, vedendomi, si scusavano tornando sui loro passi. Con le loro compagne, era differente. Solo po che badavano a coprirsi. Esse contavano sulla rapidità con cui si poteva raggiungere il bagno, oltre che sulla connivenza carnale degli ospiti della Pensione, coinvolti nella medesima clandestinità. Qualcuna si affacciava nuda. Scoprendomi, le teste si sollevavano di scatto, ma allo sconcerto seguiva una sia pur impercettibile complicità.

Allopposto degli uomini, non facevano subito marcia in dietro. La complicità imponeva un tempo. Vi leggevo lespe rienza che abitua certe donne ai sotterfugi e ai falsi equivoci, con la convinzione che ovunque esistono maschi in malafede, e linnocenza è un disguido. Era questo a renderle cosi pa drone del proprio corpo da ignorarne leffetto esibizionistico.

Scrutavo seni sudati; sessi dove immaginavo le penetrazio ni appena sublte; piedi scalzi o infilati nelle pantofole e nelle scarpe coi tacchi alti. Alcune apparivano molto pallide, altre arrossate; su altre ancora, evidenti, i lividi. Si andava dalla viziosa vitalità alla frustrazione, alla spavalderia frequente nelle amanti clandestine. E lo si capiva dagli occhi, che scin tillavano di malizia o erano appannati o di una lucentezza vicina alle lacrime; dalle labbra esangui o alonate di rossetto; dal modo di portare le spalle.

Mai più linferno dei rapporti intimi avrebbe buttato alla superficie un tale campionario, affinché io ne avessi dimostra zione completa di comè una donna dopo che lamore cessa di essere brutalità e squallore. Se prima il corridoio e il bagno mi avevano richiamato lobitorio ora, in unaltra ottica de formata, mi vedevo raggiunto da lane. Benché, oltre la por ta, la vita spremesse i suoi succhi e inventasse i giochi della procreazione.

Alla Pensione Valadier, la mia curiosità subl gli alti e i bassi più violenti, e le sue possibilità di supremazia furono messe a dura prova.

Racconto a Marianne che, con una delle ragazze, si creò uno strano legame.

Aveva un volto geometrico, gli occhi grigi. Mi guardò sen za imbarazzo, fin dalla prima volta.

« Mara >~ si presentò, af~iancandomi sul bordo della vasca.

Poi, con un cenno al compagno rimasto in camera: « Ma lui mi chiama la foresta. Perché sono istriana, di Pola. Un po matta come tutte le istriane. Quelli un po matti sono sempre degli stranieri, dei foresti ».

Sapeva che facevo il giornalista.

« A mio modo, anchio ho studiato. E mi piace leggere. »

Mara capl distinto le ragioni per cui aspettavo nel buio.

Prendemmo confidenza come accade con la panchina di un parco, un albero in aperta campagna, un sentiero. Essi diven tano familiari a emozioni che, in genere, restano inespresse.

Mara si sedeva con me, accendendosi la sigaretta, come si sceglie sempre quella panchina, si infila quel sentiero.

Ci incontravamo verso le tre di notte, dopo il mio rientro dal giornale. Mi libe~avo dei vestiti, mi mettevo i calzoni del pigiama e andavo in bagno, facendo quel tanto di rumore per avvertirla. Udivo lo scatto della serratura, qualche camera più in là, parole sommesse col compagno: pretesti per raggiun germi.

Incontri brevi, logicamente. Se ne conservo unidea senza tempo è perché acquistavano un misterioso spazio, una fami liarità dispersa negli anni. Eppure, le confessioni di Mara era no di unestrema crudezza. Mi raccontava cosa avveniva, tra lei e il suo uomo, nella stanza contrassegnata dal numero quattro. Non la spingevano né la mia curiosità, né un suo proposito di provocarmi. Io stavo zitto. Mara sembrava par lasse a se stessa.

« Hai presente il finale della Dolce vita? La ragazza, con quella voce sulla spiaggia, e poi il pesce mostruoso? Io sono per metà la ragazza, per metà il pesce. Ma ormai la voce sè arrochita e i mostri non impressionano più. >~

« Credo che una donna… »

In realtà, non credevo niente. Cercavo che il discorso non cadesse. Ribatteva infatti: « Una donna serve alla fantasia.

Ma dovè finita, la fantasia, negli uomini~ Il loro cervello è buio. Violentano senza fantasia ~>.

Con Mara, la mia fantasia invece galoppava.

« Un tempo, almeno, erano dei fattucchieri. Oggi sono come un chirurgo che ti opera. Lavora sul tuo corpo, può ucciderti se vuole. Ma cosa spartisce con te? Solo il fatto meccanico che, alla fine delloperazione, tu sia ancora viva, e magari soddisfatta. Per la sua soddisfazione di tagliatore… »

« Perché tiri avanti così? Perché non cambi? »

a Avrai pure un libro nel cassetto, no? »

Lavevo. Anche più di uno.

« Continuo a inventarmi fughe che poi tengo nel cassetto.

Mettiamola in questo modo. »

Il compagno la chiamava dalla camera. Senza desiderio, annoiato. Una volta, non vedendola tornare, uscl e venne ver so di noi. Svelta, Mara girò la chiave e apri la doccia: guar dammo il getto dacqua trascinare sul fondo grumi di capelli, ciuffi dovatta, mentre lui scuoteva la maniglia e insisteva:

« Fammi entrare! ».

Ci vedemmo, in due o tre casi, anche di giorno. Dopo co lazione, al Bar Valadier. Ma non era come di notte.

« ~ tutto cosl allucinante che il guaio, per una come me, è che peggio fai, più ti accorgi ormai di rientrare nella nor ma. La norma è terribile. Solo gli uomini non lo capiscono.

Sessualmente, per esempio, nel loro intimo credono di essere degli anormali, e se ne compiacciono. Invece, non sono che ridicoli. Prevedibili mostri, tirati in secca come il pesce della Dolce vita. »

« Dunque » le chiedevo « uscire dalla norma, da questa nuova norma allucinante di cui parli, per te è impossibile? »

« ~ possibile solo in un modo. Non vedo altra soluzione. »

« Quale? »

« Ammazzarli… » Lo afEermò con calma, persino con una punta di sorriso. Ma capivo che diceva sul serio: « Ammaz zare un uomo. Almeno uno ».

Forse era foresta e folle. Certo, determinata. Alla sua sicu rezza, non seppi replicare. Testimone, ogni notte, di omicidi, anche i più assurdi, mi vedevo non meno foresto: specie alla logica umana.

Avevo spiato Mara quando ancora non ci parlavamo. E, avviati i nostri incontri, alla mattina aspettavo che uscisse col suo compagno dalla Pensione. Entravo quindi nella ca mera prima che arrivasse il personale delle pulizie. Mi sten devo sul letto. Fissavo gli asciugamani buttati a terra, spor chi di sperma e di rossetto. Spesso, di sangue.

Non sapevo de~nire lo stato danimo con cui insinuavo il mio corpo nei vuoti scavati dalle forme del suo. E poi mi al zavo, per scrutare le fotografie che la ragazza aveva infilato nella cornice dello specchio. La ritraevano in costume da ba gno. In una, appariva bambina. Dopo i delitti per Roma, al cronista di nera toccava il compito ingrato di farsi consegna re, dai familiari, unimmagine delluccisore e dellucciso. Mi pareva che il volto senza sorriso di Mara si collocasse, con temporaneamente, in entrambi i ruoli.

Una notte mi confidò:

« Io, due uomini, ho già cercato di ucciderli. Il primo, a sedici anni. Uno slavo. Passavo lestate in una casa di monta gna. Cera una vallata derba cosl alta che una persona a ca vallo ci scompariva. Mi piaceva camminarci dentro, facendo mi largo col falcetto. Lontano dagli occhi che mi sentivo ad dosso, perché il mio corpo era già formato. Sopra di me, non volavano che grandi farfalle. Allimprovviso, spuntò lo slavo.

Ci avevo scambiato qualche parola. Era un ragazzo molto bel lo. A tutte le donne piaceva. Quella mattina, portava un maglione bianco. Si mise a ridere e il lampo dei suoi denti non lho mai dimenticato. ~ davvero bellissimo, mi dicevo.

E stavo 11, ad ammirarlo, anche quando fece uscire il cazzo dai calzoni e tentò di violentarmi… »

Mara si concentrò. Sembrava che il racconto si fosse bloc cato.

« Ammiravo anche il suo cazzo. Bellissimo, ripeteva come unaltra da me. E lasciai che mi violentasse. Finsi di opporre resistenza. Ma lo desideravo. Con tutta me stessa. O meglio, una Mara teneva impugnato il falcetto, mentre laltra si la sciava fare… Finché le due Mara non tornarono una sola e io capii che avevo voluto quella violenza per il movente di ucciderlo. Un colpo col falcetto, e mi sembrò di avergli taglia to la gola. Dalla bocca, non gli uscivano più né parole né lamenti di piacere, solo sangue. Me lo tolsi di dosso e restai a ~ssarlo. Muori, gli ripetevo, senza paura, né odio. Muori…

Ma non riusciva a morire. Mi guardava soffrendo orribilmen te, come a pregarmi di dargli un altro colpo di falcetto e finirlo. Fuggii. Lo trovarono. Si salvò. E mi salvai anchio, per via della violenza… Aveva, sulle spalle, akre violenze carnali. ~

Non sapevo se crederle. Appariva sincera.

« Ti dirò che è stato peggio la volta con un vecchio. Al lora, con i miei, ci eravamo trasferiti in Italia. Sul Piave.

Avevo diciottanni. Non ti succederà niente, mi diceva il vec chio. Ridendo, anche lui. Era coperto di rughe, di un colore terreo, gli occhi sparivano come nella corteccia di un albero.

Poi, per leccitazione che gli stavo procurando, la pelle si fece più liscia, lo sguardo tornò vivace. Adesso mi diceva: voglio fare lamore con te, poco poco, ma voglio farlo. »

Mara mi ~ssava. Come Moretta, a volte.

« …anche il ~enile era decrepito e un torrente scorreva sot to le pietre. Così, quando lui mi sdraiò, mi sembrò di spro fondare dentro quel rumore. Di andar giù, allinferno. E che il vecchio fosse sbucato dallaldilà. Ecco come capitò: e gli feci tutto ciò che mi chiedeva. Finché non smise di chie dere. Non aveva più neanche la forza di una parola. Di dire basta. Respirava con una gran fatica. Ma continuai a fargli ciò che ora desideravo io. Lo stavo ammazzando come avevo tentato di ammazzare lo slavo. Se non fosse arrivata gente.

Prima che entrassero, ebbi il tempo di vedergli negli occhi la fessura acquosa che è la morte. Non so se ti è mai capitato di notarlo: è cosl che la morte comincia…

Lo notavo ogni giorno.

« Mi nascosi. E anche il vecchio lo salvarono. Quando tor nò dallospedale, io passavo apposta davanti al fienile, perché lui sedeva al sole e non aveva il coraggio di alzare la testa, però la mia ombra lo s~orava, dandogli un brivido, e sapeva cosa signi~cava quellombra. »

« Uccidere un uomo, a che ti porterebbe? »

« i~ difficile da dire. »

Cercò di mettere a fuoco il suo proposito omicida: « Sa rebbe come quel giorno, sempre sul Piave… Andavo a fare il bagno tra i massi. Le cascate nascondevano ogni rumore umano. Incontrai il cervo che dicevano della fola e nessuno aveva mai visto. Si abbassò per bere e, accanto alla sua, apparve la testa della femmina, con occhi neri e lucenti, poi un cerbiatto piccolo piccolo, che scese nellacqua e ven ne a trovarsi a mezza strada tra me e la madre. Quando questa volle controllare dovera, il suo sguardo cadde sul mio corpo. La cerva si irrigidì e mi studiò domandandosi se fossi un sasso o un animale in grado di muoversi. Teneva le orec chie dritte e in una cera un foro, certamente di un proiettile, attraverso il quale passava la luce… Restammo a guardarci e io smisi di respirare, per farle credere che ero davvero un sasso. Stavo rendendo felice una creatura, la vita, apparendo una pietra, sentendomi una pietra ».

Mara tornò a fissarmi:

« Mi sentirei cosl, dopo… Capisci? »

« Morire » le dissi. « Anche tu. »

a No. Diventare ciò che la vita vorrebbe che fossi. Un fos sile. Ma dopo essermi vendicata. »

Lultima notte, concluse:

~ Diamoci la mano. Domani mi tocca partire. »

Quando fu sulla porta, si girò:

« Fammi gli auguri. »

Sapevo a cosa servivano, quegli auguri. Al sogno di ucci dere un uomo. Glieli feci.

Capitolo decimo

Stiamo in terrazza, da me.

Marianne, stanotte, non è tornata nel forteto del media tore. Ha rimesso piede nel nostro appartamento. Lordine perfetto in cui ha ritrovato le sue cose, non lha sorpresa.

Le ha dato, piuttosto, un senso di pace. Si è confrontata con le fotografie. Le sollevava, ci rifletteva. Un tempo, mi avreb be fatto molte domande. Ora, si aggirava in silenzio. Non avevo bisogno di seguirla. Ne immaginavo i movimenti, cosl come riconoscevo, dalluna allaltra stanza, il suo passo. Il passo della curiosità.

La notte è pulita. Roma, più illuminata del solito. La guar diamo, piacevolmente seduti. La cervafiore ci fa compagnia.

« Cè stato un periodo della mia vita » le dico ~ che il caso mi aiutava. Ero un privilegiato del caso. Ciò che desideravo, lo avevo. Fantasticavo Eurte, e finivo per frequentarla. Fan tasticavo Parigi, Léautaud, i miei cari maestri. E finivo a Pa rigi, sulle loro tracce. »

Perché questo meccanismo si è bloccato? Perché non av vengono più quei piccoli prodigi?

« Lo vuoi tu » mi risponde.

Ma non me ne fa una colpa. Né cerca di stimolarmi in alcun modo. Usa, soltanto, la sua estrema attenzione di testimone.

A Marianne non nascondo nulla. Nemmeno che una volta andavo per il mondo, lo descrivevo (descrizioni apprezzate), mentre, in questi tre anni, ho deciso di sbagliare. Intuivo esattamente la realtà entro la sua cornice, ma la cornice la spostavo altrove o la lasciavo sul vuoto; nulla accade per capriccio, ma quel capriccio io lo trovavo. Liquidavo la realtà altrui come liquido la mia: con lucidità, per il puro piacere di farlo Cosi ho ottenuto due scopi: adeguarmi agli istinti bugiardl della nostra società; ottenere un ponderato discre dito dal giornale, dove ormai sono un tollerato, in nome dei rispettabili trascorsi e dellanzianità di servizio.

Mi lasciano in pace. Nessuno mi spedisce più come un pac co per il mondo, che non ha certo bisogno delle mie descri zioni. Alla fine del mese, vado e ritiro quel tanto che mi ba sta. E mi basta sempre meno.

Le racconto, dunque, di quando non erano passati che pochi mesi dalle notti della Pensione Valadier il “Messag gero” mi promosse da cronista a inviato speciale. Comincia rono i miei viaggi: Parigi fu la prima destinazione.

E i primi passi, ripeto, sulle tracce di Léautaud.

Chiedevo nelle portinerie. Mi rispondevano, con sospetto:

« Malo non cè più. »

A volte, unindicazione:

~ Rue de… »

Riprendevo la caccia. Cercavo Malo che, mi assicuravano, era stata lultima amica di Léautaud. Aveva ventisei anni nel 52, dunque, soltanto sedici. Qualche biografo sostiene che, fino alla morte, lo scrittore fu innamorato di due donne contemporaneamente.

Mi aggiravo per Parigi alternando i sempre nuovi indirizzi di questa Malo nomade ai luoghi praticati da Paul. Ecco le strade dove, come il padre Firmin, si lasciava seguire dalla banda dei suoi gatti; o visitava le amanti; o se la prendeva con gli agenti perché certe sue faccende non erano ~conve nienti alla pubblica via”; o si recava, dabitudine, alla sede del Mercure de France, alla tipografia delle Nouvelles.

Quandera scomparsa la trattoria allangolo di Rue de Con dé con Rue de lOdéon? Ricostruivo, con limmaginazione, la Gare du Luxembourg; Place Médicis, dove lo scrittore por tava le amiche a mangiare le paste; Rue de Sèvres con la sua Sgualdrina, Rue de Dauphine con la.sua Signora; il rione Martyrs e lAvenue Trudaine, invasa dalle cavallerizze del Circo Fernando. Salutavano gli spettatori, lanciando appun tamenti.

Battevo quelle strade anche la notte, tra le bo~tes, i bar coi banconi a ferro di cavallo e i piccoli alberghi in cui, sempre chiedendo di Malo, mi trovavo con uomini di malaffare. Mi informavo in bottegucce con le porte a vetri, il campanello che risuonava; scoprivo le segretezze, tutte francesi, dei retro bottega.

Come, muovendomi tra le camere della Pensione Valadierj mi ero figurato perso per i labirinti parigini, ora, spiando negli alberghi di infima categoria, nei cortili e nelle scale im mersi nello squallore, mi rivedevo nel sordido corridoio ro mano. Persino i numeri civici richiamavano quelli, di metallo, affissi sulle porte dalla tenutaria. E cosl la Senna, se mi ap poggiavo alle spallette dei ponti, insinuava lo stesso ansioso conflitto della Via Valadier: commettere un peccato imper donabile; essere, noi stessi, una violazione.

Capitai, infine, in una costruzione periferica dallintonaco azzurro, circondata da un giardinetto. Era un mattino di lu glio, caldissimo. Molte rampe, poi lappartamento di Malo.

Avevamo preso un appuntamento telefonico. La porta era accostata. Anche nel soggiorno, si respirava un buon odore di campagna. Sopra il caminetto, un veliero in miniatura; alle pareti, quadri con velieri. Un attaccapanni di bambù. Calze e vestiti qua e là.

Lei non si vedeva. Ma il soggiorno dava su una veranda da cui una scaletta saliva in terrazza. La chiamai: udii, da lassù, la sua voce.

Malo prendeva il sole, seduta su una stuoia. Portava un cappello di paglia e, da quel che mi pane, nientaltro. Stava mangiando. Sollevò la testa con un lampo ironico degli occhi, di un celeste appannato dal piacere del cibo. Aveva il viso tondo, il corpo di unopulenza passiva, spalmato di crema.

« Dammi quellasciugamano! » mi ordinò.

Se lo infilò volgarmente tra le cosce. Scusandosi con non curanza: « Fa un caldo feroce. A casa mia, ho tutto il diritto di stare in libertà ».

Poi, senza preamboli:

« Paul era un persecutore. Mi voleva e mi perseguitava.

E io provavo piacere nellessere costretta a cedere. Se era cattivo? Dipende. Qualche volta, come quando faceva il cri tico teatrale. Anche le mie, daltra parte, erano recite. Lui, le pretendeva. »

« In che senso? ~

« Paul aveva lossessione della seduta erotica. Le nostre lo erano in senso letterale. Mi obbligava a sedere: come sto ora, con te. Mi guardava. Quasi che, al posto mio, ci fosse una fotografia oscena. »

Stavano uscendo certi lati della grande amica, di cui Léau taud aveva mitizzato lidea, facendone risaltare con sarcasmo gli aspetti di quella “contraddizione” femminile che restava, per lui, un male fatale.

« Non ne parlo con disamore, bada. ~ qualcosa di diverso.

Pur senza toccarmi, Paul otteneva il suo scopo: diventare il mio specchio, una parte di me, che mi tormentava. Che an cora, dopo anni, mi tormenta e mi esalta. Non saprei definire altrimenti quel sentirmi una copia vivente delle sue fantasie. »

Malo non aspettava le mie domande.

« Spesso, restava fino allalba. Finiva per addormentarsi.

Allora, mi comportavo come lui diceva di aver fatto col pa dre, quando mi parlava della sua agonia. Ossia, vedendolo addormentato sul divano, prendevo una lampada e mi awi cinavo, per scrutarlo io, ora, nella smorfia del suo dormire, simile alla smorfia di uno che muore… Un modo di vendicar mi. Gli occhi del persecutore erano finalmente chiusi. Li im maginavo chiusi per sempre. E mentre non poteva più veder mi, facevo, su di me, ciò che avrebbe preteso da sveglio… »

Ebbe un sorriso di superiorità.

« Paul ripeteva: amo la vita che si distrugge, momento per momento, sotto i miei occhi. Ebbene, davanti alle sue palpe bre calate, mi toccavo il corpo con gesti osceni. Mi mastur bavo con il gusto crudele che lui metteva nel guardarmi. Op pure, sola a sopportare una situazione assurda, scoppiavo a piangere. Perché restava il burattinaio che tirava i fili, anche dormendo, io il burattino. »

Un invincibile clown spirituale, laveva definito Cocteau.

« Mi chiamava “la mia Sharazàd”. »

Pensavo alle donne che aveva chiamato Flagelli, Virago, Pantere.

« Invece, con me, era lui Sharazàd. Rimandava la sua mor te, di notte in notte, lasciandomi intuire ogni volta una storia diversa. Gliele leggevo nello sguardo, le sue storie. »

« E i suoi libri, li hai letti? »

« Si. Qualcuno. »

« Ti pagava? »

« Per cosa? »

« Perché ti lasciassi guardare, perché… »

« No. »

« Léautaud sosteneva che suo padre cambiava una donna a notte. E lui, in questo strano modo di far lamore con te, ti era fedele? >~

« I suoi occhi mi erano fedeli, si. E non stanchi, ma vivi, come quelli di un fanciullo assetato. Eppure sapeva che io, invece, di uomini ne avevo tanti. Per amante fisso, uno che suonava in una boite e rientrava verso le cinque del mattino.

Non dava importanza alla presenza di Paul. Si buttava sul letto vestito. Cosi, erano in due a dormire. E io sveglia, che mi tormentavo per non riuscire a prendere sonno. »

« E non si confidava? Con le parole, intendo. »

a Qualche volta… Quando il padre gli mise nel letto (Paul aveva diciassette anni, ma ignorava il sesso) una giovane ca meriera, perché imparasse. E Paul, nel dormiveglia, scambiò la peluria della donna per il pelo di un gattino, limitandosi ad accarezzarla… Chissà se gli era accaduto realmente, ma sapeva raccontarlo cosi bene. Era il più sincero bugiardo che abbia mai conosciuto. »

a Credi che sia stato un buon amante? »

a Da vecchio si, con gli occhi. Gli occhi non conoscono la sessualità monotona. A differenza del membro. A Paul, luso del membro deve aver procurato molta noia. Succede, a chi ha avuto un padre, al contrario, vizioso del proprio membro. »

Era unosservazione acuta.

a Lo pensi tu, Malo, o te lo diceva lui? »

a Me lo diceva lui… »

Restò a riflettere. Con un sorriso meno sprezzante.

a Era una bestia, Paul. Lunico cane e lunico gatto che abbia davvero amato, gli stavano dentro. Perciò era tanto litigioso, anche con se stesso. Cane e gatto non possono che azzuffarsi… E credo si sia divertito, sinceramente, una sola volta. Quando fu dato per morto durame la guerra, e sui giornali lesse tutto ciò che gli altri pensavano di lui. Cose feroci, come puoi immaginare. La falsa notizia della morte, devessere stata una sua trovat~a. Era capace, di simili colpi di testa. »

a E quando mori sul serio? »

Non mi rispose.

Restai un mese a casa di Malo.

In attesa di definitive sistemazioni, proseguo nel mio inven tario insieme a Marianne. Manoscritti a parte, ci imbattiamo in altre presenze che nemmeno io supponevo.

Tante cartelline anche per le fotografie. Specifico date e circostanze. Mi trovo di fronte a me stesso bambino. Aria intelligente, sguardo dignitoso, se si considera che il soggetto, già allora, batteva solitudini e veniva indotto a inventari.

Marianne mi fa notare che, stranamente, assomiglio a Si mone. Glielo lascio credere. Ma non cè paragone. Del resto, una madre non può capire quanto deleterie siano le tracce geneticomanageriali. Convengo che persino i vecchi squadri sti padani, come mio padre, erano meglio dei mediatori.

Spuntano le scolaresche delle elementari e delle medie.

Confuse alle foto dei miei successi. Di scrittore, di regista.

Allinferno! Eccomi li, con quel sorriso: troppo Correggio, troppo poco Parmigianino. Colpa del volto, che non corri sponde al carattere. I padani scivolano sulla propria faccia come sulla esse: Mussolini, che sdrucciolava sulla parola fa scismo, fu salvato dalla calvizie. Coi capelli, avrebbe avuto laria di un qualsiasi mediatore.

E ancora io, nei miei viaggi per il mondo, circondato da gialli, mulatti, e negri dal sorriso bellissimo.

E il Po, le feste.

Una fotografia mi mostra con uno storione che sembra un missile. Tengo il piede sulla preda, con un arpione in mano.

Ad arpionarlo, per la verità, è stato il magrolino che si spor ge dalla mia spalla sinistra. Chi frugherà qui, nel futuro, cre derà che sia io il capitano Achab, che ha catturato il suo astuto e feroce Moby Dick. i~ lunico merito, non mio, che mi attribuisco. Nelle altre didascalie, mi sono attenuto scru polosamente al vero.

Ma chi sarà lIshmael che, sopravvissuto a questo Pequod che è la mia vita, ne racconterà la storia non scritta? ~ per 220 221

lui che vado catalogando, mettendo ordine. Sarà Marianne?

i~ possibile.

Anche schedare le fotografie delle mie donne, mi fa pia cere. Le tenevo nascoste. Cè un cassetto segreto, nel mio ta volo di lavoro: chissà cosa ci custodiva il vecchio prete di Mantova, che mi vendette il tavolo. Memorie di femmine, scommetto, come me. I segreti, in fondo, sono sempre gli stessi. Specie quando, anziché angeliche figure, il ripostiglio porta dipinte amazzoni scatenate.

Marianne è molto incuriosita dal Catalogo delle mie curio si~à. Mi chiede notizie. Le rispondo. Mentre lascio che ne sfogli i capitoli. Compresi quelli che si riferiscono alle donne di cui già ho fatto cenno: Le più sorprendenti, Le grandt amanti, Le Sanseverine, Le gelose, Le più intelligenti, Le fa 2)olose, Le oscene, Le misteriose, Le donne dei miei via~gi, Le mte attrici…

Lintelligenza di Silvana Mangano. Specie nel decifrare i se gni della femminilità, propria e altrui. Qualcuno lha fatta passare, banalmente, per curiosità omosessuale. Può darsi che questa curiosità ci fosse. Ma a sollecitare lenigmatica attrice, aspra e intollerante col marito, e con chi non le andava, era ben altro.

~ la donna che più mi ha ricordato la Dama dellermellino.

Quando mi ospitava nella sua villa di Cap Martin, o a Villa Catena, a Roma, la sensazione di muovermi nella casa di Calle Samuel Levi, a volte mi turbava. Con la luce che batteva, oltre che sulle mani di Silvana, sul bastidor, il telaio totem.

Le donne, per la Mangano, erano la tela di Penelope: un mezzo, anche ironico, per sfuggire aHa tirannide maschile e a una vita, di esteriorità e di affari, che molti volevano im porle.

Gli uomini, che cercavano di compiacerla senza capirla, assomigliavano alle caricaturas tan absurdas del Greco.

La vedevo accarezzare, di preferenza, quelle che la psica nalisi chiama le “carmelitane della nevrosi”: le donne condi zionate da uninfanzia infelice, che ricercano la sofferenza sot to varie forme; le “rinunciatarie” di Freud. Le sue carezze erano, sl, bisessuali. O meglio, esprimevano il conflitto tra lio maschio e lio femmina. Come quando Eurte faceva pas sare le dita sullo stemma con le croci greche che avvolgeva il corpo del barcaro ucciso dallo Storione Reale, per scongiu rare lidea della morte, così Silvana cercava, da una parte, di allontanare dalle amiche lidea della rinuncia, riportandole con forza virile allimpulsività, dallaltra divideva una tristez za che era anche sua.

Una volta, lho sorpresa mentre copriva con uno scialle le spalle di Marianne, che sedeva infreddolita in giardino, e mi è parso che quel freddo lo allontanasse da sé.

Le mani della Mangano, capaci come poche del gesto ma gico, sono le sole che posso avvicinare a quelle di Eurte.

Gliele toccavo. Le stringevo. Era più di un atto sessuale.

E lei lo sapeva.

Non esitava a sfiorare lo scandalo e si metteva sempre in gioco. Perciò veniva esasperata dal dogma altrui e dal culto della reputazione. Ricordo quando le raccontai il contrasto tra Jung e Freud:

a Mio caro Jung, mi prometta di non abbandonare mai la teoria della sessualità. ~ la cosa fondamentale. Lei mi capi sce, bisogna farne un dogma, un bastione. »

« Un bastione? E contro chi? »

« Contro la marea di fango delloccultismo. »

Freud ebbe un sogno. Jung cercò di analizzarlo. Aggiunse che avr~ebbe potuto far meglio se Freud avesse fornito qual che particolare sulla sua vita privata.

E Freud, sorpreso, diffidente:

« Non posso certo mettere in gioco la mia reputazione. »