Quattro giganti
Ernesto amava New York, ma non quando faceva così caldo. Per lui la città assumeva il suo vero volto in autunno, quando gli alberi di Central Park si accendevano di colori esortando i passanti a camminare più svelti, spinti dall’inconsapevole speranza che pioggia e freddo purificassero le strade, i palazzi e le loro indaffarate esistenze. Era convinto che le stagioni fredde aiutassero gli umani a raccogliersi in se stessi e a essere meno superficiali e sbrigativi. L’estate, invece, era tutta una smania di sfuggire al calore, che rende a ognuno meno tollerabile persino il proprio corpo. E quell’agosto del 1963 era davvero bollente.
Nei quasi sessant’anni passati in America, il professor Ernesto aveva evitato di frequentare qualsiasi bar o ristorante italiano. Eppure le sue ex mogli avevano cercato più di una volta di trascinarlo in uno di quei locali che avrebbero dovuto ricordargli le sue origini. Una dopo l’altra, tutte e quattro ci avevano provato, magari pensavano che fosse la nostalgia per la sua terra la causa di quel carattere distaccato, ma lui, in realtà, non aveva mai patito per la lontananza dal suo Paese. Ultimamente, però, una pioggia tiepida di ricordi gli cadeva addosso ogni giorno, gocce di memorie di quando viveva ancora in Italia, a Napoli.
Una dopo l’altra, le sue ex mogli avevano anche tentato di convincerlo ad avere un figlio, ma lui non aveva mai voluto nemmeno parlarne, e almeno un paio dei suoi matrimoni erano falliti proprio per questo.
Gli piaceva, quel bar con ombrelloni e fioriere, trovava che le sedie e i tavoli di vimini avessero qualcosa di vacanziero. Ma soprattutto si poteva bere un vero espresso all’italiana. Il proprietario era un americano che aveva imparato quando era cameriere a Little Italy, proprio in uno di quei posti dove lui non era mai voluto andare. Aveva sentito dire che in alcuni di quei locali sul piattino c’era anche una scorzetta di limone, ricordo di quando gli italiani arrivavano in massa, come anonimi emigranti. Delle società umanitarie li accoglievano a Ellis Island con un piatto caldo e un caffè, per poi lavare le stoviglie disinfettandole con il limone.
Lui in America c’era arrivato in prima classe, con una nave di lusso e una considerevole somma in danaro. Come bagaglio aveva bauli pieni di libri e vestiti eleganti, valigie di pelle e lettere di presentazione scritte da autorevoli docenti di lingua e letteratura latina, tuttavia aveva faticato non poco a togliersi di dosso l’etichetta di “mangiaspaghetti” dalle bizzarre velleità intellettuali. Fortunatamente il pragmatismo americano prevedeva che l’unica verità accettabile consistesse nell’utile, e anche un po’ di latino poteva sempre servire. Con ogni probabilità un giovane, brillante studioso discendente degli antichi Romani poteva fare al caso loro, dal momento che l’America aveva bisogno di radici e memorie antiche per sorreggere la sua giovane, per quanto già imponente, storia.
Vuotò la tazzina festeggiando così il suo ottantaduesimo compleanno. Una bella età, nella quale si smette di fingere di essere immortali. Non è che avesse mai creduto seriamente di esserlo, ma aveva sempre fatto in modo di pensare il meno possibile all’unico evento certo nella vita di ogni uomo. Il tempo era volato, inutile negarlo. Era rimasto l’ultimo della famiglia. I fratelli erano morti da moltissimi anni, però c’erano dei nipoti, e forse, a quel punto, dei pronipoti. I figli dei figli di Gabriele.
Gli pareva di ricordare che il fratello avesse avuto due o tre figli. Dopo la sua morte, nel 1941, non aveva più ricevuto notizie, tranne, alla fine della guerra, una lettera della vedova, che lo informava sui nipoti. Uno, di nome Aldo, era un ufficiale dell’esercito. Anche Gabriele era stato nell’esercito, tenente di cavalleria durante la Prima guerra mondiale, e prima di fare l’avvocato aveva pensato di continuare la carriera. Evidentemente in famiglia si sentiva il bisogno di trovare un ordine, nel caos personale e in quello del mondo, inquadrandosi in una realtà strutturata gerarchicamente secondo regole rassicuranti.
Ernesto, invece, aveva scelto l’America, dove si viveva giorno per giorno perseguendo obiettivi concreti. Trovava straordinaria quella nazione pervasa da un’etica protestante che considerava il successo, soprattutto economico, non una possibile colpa, come voleva la morale cattolica, ma il segno della benevolenza di Dio. Anche se le preghiere di ringraziamento per questa forma di benevolenza divina avevano finito per essere rivolte soprattutto ai soldi, e i soldi erano diventati la principale religione dell’intero Paese.
Il bar affacciava su un viale dal sapore europeo lungo il quale, però, scivolavano quelle che a Ernesto sembravano gigantesche automobiline da giostra, tutte pinne, cromature e luci. Non avevano nulla delle austere sorelle europee, erano più giovani, spensierate e ottimiste. Forse troppo. Ai tavolini accanto la muta, ma solidale presenza di altre persone, che cercavano di ignorare l’afa concentrandosi sul giornale. Il suo, invece, ancora ripiegato vicino alla tazzina del caffè, ostentava in prima pagina una foto del presidente. Tutti amavano Kennedy. Bello, giovane e ricco. Un uomo nel quale l’intera America voleva riconoscersi. L’anno prima aveva risolto la crisi dei missili a Cuba evitando lo scoppio di una Terza guerra mondiale, ma il pericolo di un conflitto nucleare era nei pensieri di molti.
Alcuni degli avventori del bar li conosceva di vista. New York è una città troppo grande, si finisce per fare vita di quartiere: il giornalaio, il bar o il fruttivendolo erano punti di riferimento familiari per uno che, come lui, ormai viveva da solo. I pochi amici superstiti non li vedeva più da anni: da quando aveva cambiato quartiere aveva cambiato anche amicizie e abitudini.
Il cameriere, con quei capelli rossi e la carnagione di latte, doveva essere un irlandese. Poggiò il caffè sul tavolino, come chi assolve frettolosamente a una grave dimenticanza, e sparì. Ernesto guardò la tazzina sorpreso: per chi poteva mai essere quel secondo caffè? Troppo complicato chiedere spiegazioni, troppo alto il rischio di creare imbarazzo. Gli americani amano essere precisi sul lavoro, e si agitano quando non ci riescono.
Un ricordo volò fuori dalla tazzina insieme all’aroma del caffè. Quando viveva a Napoli e andava al bar con Gabriele e Daniele, si divertivano molto a quell’abitudine tutta partenopea di lasciare un caffè “sospeso” per qualche sconosciuto che non poteva permettersene nemmeno una tazzina. Era una curiosa forma di carità di quella città disperatamente e a volte mortalmente vitale.
Carità e giustizia. Per Baruch Spinoza erano queste, oltre alla conoscenza di Dio, le sole due strade che portavano l’uomo alla letizia. I suoi studenti non capivano perché Ernesto propinasse loro pagine e pagine in latino del Trattato teologico-politico del filosofo olandese vissuto nel XVII secolo, preferendole a quelle di un autore classico. Aveva fatto questa scelta per dimostrare come il latino a quei tempi fosse ancora parlato in tutte le università. Era la lingua internazionale del sapere umanistico e scientifico, come ora l’inglese, il linguaggio mondiale degli affari.
Considerava Spinoza uno dei maggiori filosofi del suo tempo, un santo laico finito a fare il tornitore di lenti nella sua piccola bottega. Quel lavoro, nel quale era maestro, godeva di grandissima considerazione, ma le sue qualità di pensatore avrebbero meritato ben altro. Gli era anche stata offerta una cattedra all’università di Heidelberg, ma aveva rifiutato, temendo che l’impegno accademico avrebbe potuto limitare la sua libertà di pensiero. Accettava di buon grado, quindi, la sua condizione sociale, convinto che le ricchezze, la fama e il piacere dei sensi non portassero l’uomo alla felicità, ma anzi accendessero sempre nuovi desideri, determinando una catena di eterne insoddisfazioni. La vera letizia si raggiungeva solo nella conoscenza di Dio. Un Dio che non pretendeva preghiere o obbedienza, non giudicava né assolveva, non prometteva la vita eterna. Certo era meno consolatorio della comune idea di Dio, ma per Ernesto era molto più plausibile. Per queste e altre convinzioni, Spinoza era stato maledetto dalla comunità ebraica alla quale apparteneva, che, pur nella tollerante Olanda, lo considerava un eretico. Ernesto ricordava bene quell’implacabile maledizione che doveva colpire Baruch continuamente, senza lasciargli mai un attimo di respiro. Una maledizione vera, per iscritto, non come quella della sua famiglia, di cui parlava spesso suo padre. Il professor Gualtiero raccontava che si sarebbe cancellata quando, a uno dei membri della famiglia, fosse arrivata una buona notizia a lungo attesa, ma non scritta su carta, e nemmeno riferita a voce. In pratica mai, se non in sogno.
A Ernesto la maledizione di Gualtiero sembrava più che altro la condizione psicologica nella quale erano vissuti non pochi membri della sua famiglia, che per secoli avevano inseguito mirabolanti imprese pur di dare un senso alle loro esistenze inquiete. Proprio come il padre Gualtiero, che aveva sacrificato ogni cosa allo studio della chimica, o il fratello Daniele, che si era suicidato perché convinto di non essere all’altezza di alcuna impresa. Convinzione che aveva spinto anche la dolcissima Adelina a tenersi fuori dal mondo, fino a morire in una clinica per malati mentali stroncata da un’inguaribile tristezza dell’anima. Lui, invece, era andato via presto da tutto ciò, si era lasciato alle spalle la famiglia insieme al suo Paese, che si avviava verso l’incubo della Prima guerra mondiale e poi del fascismo. Aveva scelto di rinascere nel nuovo mondo abbandonando il vecchio al suo destino, e non se n’era mai pentito. Del resto il pentimento era inutile anche per Spinoza, che non credeva in alcun libero arbitrio. Per lui le cosiddette scelte in realtà erano il frutto obbligato di una misteriosa catena di eventi.
Il secondo caffè, confinato sul bordo opposto del tavolino, aspettava di essere bevuto. Ernesto decise che lo avrebbe lasciato lì dov’era, già pagato, come facevano i napoletani: un caffè per Baruch o per chiunque altro ne avesse avuto bisogno. Appoggiò meglio la schiena alla sedia di vimini, poi chiamò il cameriere. Non sarebbe stato facile spiegargli la faccenda del caffè “sospeso”, invece il presunto irlandese capì subito, divertendosi molto all’idea di un caffè pagato per uno sconosciuto. Quello sul tavolino ormai era freddo, ma il ragazzo assicurò Ernesto che ne avrebbe servito uno bello caldo e forte al primo che ne avesse fatto richiesta. Intascò i soldi del conto e quando, non senza fatica, quell’anziano cliente si alzò per andarsene, gli sorrise. Avrebbe voluto stringergli la mano, ma non sarebbe stato professionale.
Ernesto si avviò verso casa. Il suo passo era più incerto del solito e non solo per colpa dell’età. All’improvviso capì di essere vissuto troppo a lungo nella dimenticanza di se stesso e delle proprie radici.
* * *
Daniele si svegliò e si alzò di scatto, ma una vertigine lo costrinse a sedersi sul letto, mentre uno stormo di pensieri si levava in volo riportandolo in un istante alla realtà. Alla poca luce che filtrava dalla finestra l’orologio segnava le dieci meno dieci. Proprio oggi doveva svegliarsi così tardi! Proprio oggi che stava per venire lei a ispezionare la casa, e c’era ancora, c’era ancora da… da… c’era solo da lavarsi e vestirsi. Si era svegliato tardi perché aveva passato la sera e buona parte della notte a lustrare quel microscopico appartamento.
Dopo la telefonata di Barbara era scappato dall’ufficio piantando lì il lavoro ed era corso al negozio di detersivi su in paese. Ne aveva presi di ogni tipo: lucidanti per piastrelle, saponi solidi e liquidi, una scopa nuova. Aveva anche trovato un set di guanti di plastica sottile più adatti a un chirurgo che a una massaia dilettante.
Non lo avrebbe mai immaginato, ma tra giornali, vecchi vestiti, scatole vuote di cibo, bottiglie di plastica rinsecchite, ne aveva accumulata di roba da buttare. Relitti di vita quotidiana che nel tempo si erano acquattati sopra l’armadio, appiattiti sotto il lavello, stipati nei cassetti. Qualche vicino certamente lo aveva visto andare e venire nella notte come un forsennato tra la casa e i bidoni della spazzatura: la carta qui, la plastica al centro, l’umido… vaffanculo l’umido! Sgombrata quella minidiscarica che a sua insaputa si era impossessata della casa, aveva iniziato a pulire con una spazzola le mattonelle della cucina. «Solo in questo modo vengono bene, strofinando mattonella per mattonella, rigo per rigo.» Così diceva e faceva Pasquina, la cameriera devota per decenni alla famiglia del generale. Li aveva serviti fino a quando era morta di colpo. Il suo zelo l’aveva freddata mentre era a terra carponi a pulire con la spazzola mattonella per mattonella, rigo per rigo. A lui però non era successo. Verso mezzanotte, dopo la cucina, aveva attaccato a cuor più leggero il bagno, ma lì il problema era la sconcia piaga grigiastra tra le piastrelle. D’accordo, era stato lui a dire allo pseudoidraulico di fare un lavoro provvisorio, ma adesso bisognava rimediare. Mettendo qualcosa sulla parete. Un poster. Un poster dentro la doccia? No, non avrebbe funzionato. Meglio tenere la tendina chiusa. Era improbabile che Barbara ispezionasse anche lì dentro!
Aveva fatto tutto quello che aveva potuto. Sollevato da questa considerazione, andò ad aprire la finestra. Sicuramente l’albero era ansioso di vedere quanto splendente fosse diventata la casa. Invece no. Al pino con occhi e naso non gliene importava nulla degli sforzi di Daniele, era troppo occupato a far discorrere le foglie con il sole della bella giornata. Deluso, si guardò intorno con severità. Aveva fatto un buon lavoro. Piatti e bicchieri scintillavano, il pavimento sembrava nuovo, nel bagno una gigantesca spugna doveva aver cancellato ogni ombra di sporco.
Si risedette sul letto, tanto era ancora sfatto, proprio come lui. Barbara sarebbe arrivata per le undici, mancava ancora un’ora. Il giorno prima la sua telefonata lo aveva interrotto mentre cercava di fare da paciere fra Ico e Lucia. Quel matto dell’Iconoclasta aveva chiamato Marco per dirgli che lì intorno si erano accampate delle persone sospette, dei misteriosi uomini di colore. Detto fatto, quell’altro imbecille aveva inviato auto e agenti che li avevano trascinati via, pure donne e bambini, senza dar loro nemmeno il tempo di capire cosa stesse succedendo. Poi era saltato fuori che si trattava di un paio di famiglie residenti da anni nel paese che, avendo perso casa e lavoro, si erano accampate lì con delle tende di fortuna.
«Povera gente. Non gli hanno concesso nemmeno un minuto per raccogliere le loro cose.»
«Non farla tanto tragica, Lucia. Avranno portato quei quattro straccioni in un centro di accoglienza…»
«Straccioni? Sono esseri umani, e poi guarda che sembravano molto meno straccioni di te.»
«Io uno straccione? Uno straccione! Come ti permetti!»
Proprio allora Daniele era volato a comprare quel campionario di detersivi. Di certo Barbara sarebbe stata implacabile. Stavolta non poteva fallire.
Lo sguardo, però, finì sul soffitto. Giallognolo. Era schifosamente giallognolo, tale e quale alle pareti, che quello stupido camino a mezz’aria aveva affumicato nel corso degli anni. Ritinteggiare la casa? Non c’era tempo. Era stata una fatica inutile. Pulire e ripulire per tutta la notte e dimenticarsi di quella patina giallastra. Ora era un bel casino. Il generale diceva che la vita era un continuo affrontare problemi, il segreto era risolvere quelli possibili e dimenticare gli altri. Inutile preoccuparsi per qualcosa di irrimediabile, non era un comportamento da uomini. E già, faceva presto, lui. Comunque, forse aveva ragione.
Almeno il pigiama era a posto, di un azzurro bello pulito. E che c’entrava? Mica doveva accogliere Barbara in pigiama. Cacciò un urlo di rabbia, si spogliò in fretta e s’infilò nella doccia dando le spalle alla ferita tra le piastrelle.
Scendendo le scalette di casa, come sempre guardò la vallata oltre la strada. Tra il verde degli oliveti si alzavano lenti fumi bianchi. Modeste cannonate di eserciti ottocenteschi. Ma perché qualcuno avrebbe dovuto sparare nella vallata, e per giunta con vecchi cannoni? No, era l’aria che ristagnava tra gli alberi, ancora appesantita dall’umidità della notte. Le fumate macchiavano la campagna fino alle pendici dei monti. Contò almeno una ventina di quelle nuvolette bianche.
«Oggi è la giornata buona.»
Biagio gli si era avvicinato. La giornata buona per cosa? Per affrontare l’ispezione di Barbara?
«Qui ormai di contadini veri ce ne sono pochi. Chi è impiegato, chi operaio, chi dottore, ma tutti hanno un pezzetto di terra che coltivano quando possono. Ogni santo giorno vanno e vengono dalla città, hanno sempre fretta. Però oggi è sabato, non devono andare al lavoro, e soprattutto non piove, è la giornata ideale per bruciare le erbacce. Si sono decisi tutti nello stesso momento.»
Il sole stirava le nuvolette di fumo, collegandole le une alle altre fino a formare una soffice coperta di foschia, sotto la quale riposava la valle. I due scesero insieme verso la piazza. E di che si poteva parlare con Biagio, se non di olivi? Era il periodo della raccolta, ogni avvenimento, anche un incontro casuale, poteva risultare propizio o nefasto: un gesto di amicizia, dunque, era sempre di buon augurio. Anche Daniele aveva bisogno di un po’ di fortuna, almeno per quella giornata. Attraversarono la piazza tra una selva di sguardi di approvazione: il forestiero passeggiava con Biagio, anzi, andavano a prendersi un caffè.
Nel locale pieno di clienti, Nanni il barista era alle prese con una discussione di quelle serrate. Il viso rosso per la foga, i gesti nervosi nel servire, ogni cosa tradiva la passione nel difendere la sua tesi contro quella di un giovane che ridacchiava rigirando il cucchiaino nel caffè. Con quella faccia abbronzata di sicuro era un contadino, perché solo loro e i ricchi potevano permettersi un’abbronzatura naturale tutto l’anno. Biagio, incuriosito dalla contesa, si appoggiò con un gomito al bancone: era semplice diceria o verità il fatto che un cerchio di rovi potesse salvaguardare la salute di una pianta? Anche Daniele indugiava a consumare il suo caffè per capire i termini della questione. I contadini di un tempo erano convinti che i rovi tenessero lontani parassiti e malattie dagli alberi. Non c’era una spiegazione logica, Nanni lo ammetteva, ma poteva giurarlo, era proprio così: gli olivi protetti alla base da una corona di rovi non si ammalavano mai. L’altro negava qualsiasi validità a quella tesi, ma il silenzio nel quale cadevano le sue battute di scherno rivelava che i più erano convinti delle salvifiche proprietà dei rovi. A quel punto o la faccenda finiva lì, oppure lo sconfitto si sarebbe vendicato iniziando a sfottere Nanni su questioni personali teoricamente segrete. Ma in una piccola comunità i segreti di ognuno sono gli argomenti preferiti di tutti. Lo scherzo si sarebbe trasformato in offesa, la discussione in lite, anche feroce. I due si fissarono negli occhi. Fu l’avversario di Nanni ad abbassare per primo lo sguardo, e le voci del bar ripresero a scorrere sollevate.
La fragranza dei caffè si mischiava alle parole profumate dai dolci che riempivano la vetrinetta. Erano torte al cioccolato, alla crema, alle fragole, destinate a feste, compleanni e a Daniele, per dargli la certezza che quel giorno sarebbe andato tutto bene.
Usciti dal bar, Biagio si accese con calma una sigaretta. La fumava godendosi l’aroma del tabacco boccata dopo boccata. Il suo era un piacere, non un rito nevrotico, come per Ico.
«Devo andare in campagna, ma ci vediamo presto. Uno di questi giorni ti porto alla mia terra, così vedi com’è bella.»
Rimasto solo, Daniele si sedette sulla panchina vicino al monumento del soldato. Di fronte, la vallata respirava ancora nuvole di fumo, ma più rade. Mancava poco all’appuntamento. Ispezionò con la mente ogni angolo della casa. Aveva fatto un buon lavoro, peccato per le pareti ingiallite dal fumo.
Per evitare che Barbara perdesse tempo a cercare la casa le aveva dato appuntamento in piazza, davanti al soldato di pietra. Quando la vide, lei aveva già parcheggiato. Era in forma splendente, anche se gli occhiali da sole le cancellavano lo sguardo. I pantaloni fasciavano le curve armoniose dei fianchi, un giubbotto di pelle stretto da lacci ammorbidiva la figura esaltando i seni accoglienti. Gli anni non si erano ancora stancati del suo corpo.
Volle visitare il borgo antico, ammirò il panorama dai bastioni superstiti del castello. Al ritorno non parlò molto. Si limitava a rispondere, sorpresa ma gentile, a tutti quei buongiorno che i paesani dispensavano a chiunque incontrassero per strada. La casa la trovò carina, specialmente per quell’albero con naso e occhi affacciato alla finestra a curiosare dentro. Le piacquero anche lo strano camino sospeso a mezz’aria e il colore paglierino delle pareti, davvero particolare.
«L’hai fatta tinteggiare tu con questa sfumatura di giallo?»
«No, ci ha pensato il camino.»
Lei rise: Daniele non aveva capito che lo stava prendendo in giro. Lui le voltò le spalle per posare il giaccone sul letto. Sentì una mano leggera addomesticargli la schiena. A Barbara era sempre piaciuto carezzargli la schiena dritta. Tutto sommato il generale aveva fatto bene a esigere che dormisse fin da piccolo su un letto durissimo.
«Insomma, non è che sia una reggia, ma se piace a te, piacerà anche a Francesco.»
«A Francesco non credo interessi molto la casa, vuole stare un po’ con te.»
Era fatta. Barbara aveva dato il suo beneplacito. Daniele si sedette sulla sponda del letto e cominciò a illustrare il programma per la visita di Francesco. Forse era da approvare anche quello. Lei ascoltava con un’ombra di sorriso sulle labbra, ma sembrava pensierosa, mentre si aggirava per la stanza. Si tolse il giubbotto e lo appoggiò sulla sedia a dondolo.
«Prima un bel giro al borgo, fin su al castello.»
Lei annuiva mentre si slacciava i polsini della camicia. Non aveva perso l’abitudine di tirarsi su le maniche. Eppure non è che facesse tanto caldo. Era una mattinata di sole, ma pur sempre di un novembre inoltrato.
«Poi lo porto in un ristorante qui vicino dove si mangia benissimo.»
Barbara era d’accordo su tutto, continuava ad annuire e a girovagare per la stanza. Mai lo aveva visto così vivo nei gesti, nelle parole… sembrava anche più giovane e bello. Evidentemente vivere in quel paesino isolato lo aveva costretto a incontrarsi con se stesso.
«Magari si fa vivo pure il gatto. A Francesco piacciono?»
«Tu… tu… ti sei preso un gatto?»
«No, cioè sì… in pratica è lui che ha deciso di vivere con me, ma sparisce per giorni e non si sa mai quando riappare.»
Uno alla volta Barbara stava liberando i bottoni della camicia, che si aprì sul petto lasciando svettare orgogliose le coppe del reggiseno. Si avvicinò alla finestra e, prima di chiudere le imposte, chiese scusa all’albero: non era il caso che continuasse a sbirciare dentro.
* * *
Non è che dovesse per forza leggerlo in cantina, quel libro, per giunta alla luce fioca della lampadina sospesa al soffitto, ma forse quel luogo ingombro di relitti di legno e ferro era il posto giusto per leggere un manoscritto più che centenario. Molte volte il generale gli aveva parlato del grande professor Gualtiero, che aveva voluto scrivere la storia sua personale e degli antenati, da sempre medici e speziali. Un uomo al cui confronto anche il nonno di Daniele, l’avvocato Gabriele, sembrava uno qualunque, eppure, oltre che un principe del foro, era stato un grande antifascista che per rimanere coerente con le sue convinzioni aveva sacrificato la propria esistenza e quella dell’intera famiglia.
Daniele era ancora troppo giovane quando il padre gli aveva mostrato il manoscritto. Non era riuscito a decifrare che poche righe, poi aveva lasciato perdere, anche perché allora tutto quello che gli proponeva il generale era da scartare. Ma quella mattina aveva telefonato alla madre che, come al solito, lo aveva bonariamente rimproverato di non andare mai a trovarla. Soprattutto, era da tanto che non vedeva Francesco, il suo unico nipote. Mentre lei parlava, a Daniele sembrava di sentire dal cellulare il profumo di pulito della tovaglia ricamata sulla tavola. Quella donna era sempre stata capace di curare con amore ogni dettaglio, dai fiori freschi per la casa alle posate, ai piatti, agli asciugamani. A tutto era capace di dare un tono di rassicurante buon gusto borghese. Era un’ottima pianista, ma il generale esigeva un servizio di moglie a tempo pieno, così gli anni del conservatorio erano rimasti un bel ricordo di gioventù. Un ricordo che si riaccendeva ogni volta che suonava per il marito, per il figlio o per gli amici. Daniele non aveva mai dimenticato un Natale di tantissimi anni prima, quando si era esibita al circolo ufficiali davanti a una platea di uomini in divisa accompagnati dalle loro signore: il salone immenso, il silenzio rotto dalle note del piano, il luccicare di mostrine e stemmi.
Certo che gli avrebbe prestato i soldi, se davvero voleva comprare un’azienda agricola. Erano già suoi, lei si limitava a conservarglieli. Quando Daniele le aveva chiesto un consiglio, la madre si era messa a ridere.
«Sei sempre lo stesso: chiedi consigli a tutti, solo che poi decidi di testa tua. Hai già stabilito cosa fare, ma ancora non te lo sei detto.»
Era la madre, lo conosceva fin troppo bene. Aveva posto, però, due condizioni. La prima era che leggesse finalmente il libro di quel Gualtiero, come aveva sempre desiderato il generale. Sì, ma dov’era finito? Quando lei gli aveva parlato della borsa di pelle marrone, si era ricordato vagamente di una serie di carte e cartacce chiuse in una borsa che il padre gli aveva affidato poco prima di morire. L’aveva messa da qualche parte in cantina. La seconda condizione era più complicata da rispettare. La scrivania. Doveva andare a prendersela. Gualtiero l’aveva lasciata a Gabriele e, figlio dopo figlio, era arrivata al generale. Adesso apparteneva a lui, che avrebbe dovuto, un domani, lasciarla a Francesco. Ma se era un pezzo da museo…
«Non da museo, Daniele, è un pezzo di famiglia, e Francesco non rimarrà per sempre un bambino, crescerà anche lui. I due calamai d’argento, invece, li tengo ancora un po’ con me.»
A lui quell’enorme scrivania di legno intarsiato a volte ricordava un’elegante bara, dov’erano seppelliti sogni e illusioni di intere generazioni. Una specie di vaso di Pandora della famiglia, da evitare assolutamente di aprire. Meno che mai voleva che fosse Francesco a correre quel rischio. Già si era allarmato qualche anno prima, quando lo aveva portato dalla nonna. Il bambino, vista la scrivania, aveva esclamato tutto contento:
«Quella è mia!»
No, per la scrivania niente da fare, almeno per il momento. Invece aveva promesso che avrebbe letto il manoscritto di Gualtiero.
Non era stato facile ritrovare la borsa di pelle marrone, ma alla fine c’era riuscito. Dentro c’era una vecchia foto, il ritratto di un uomo austero seduto su una sedia con accanto, in piedi, una bella donna dallo sguardo malinconico. Sul pavimento s’intravedeva un tappeto, ma le pareti erano nude e sembrava che quella coppia scaturisse dal nulla. Probabilmente, trattandosi di una foto d’epoca, doveva essere stata scattata nello studio di un pioniere della fotografia. Sul retro c’era una data ormai illeggibile accompagnata da due nomi scritti a mano. Si trattava proprio del professor Gualtiero e della moglie Tecla. Il suo antenato, con barba e baffi curati, elegante nel vestito con panciotto sul quale spiccava la catena dell’orologio, appariva compiaciuto. Lei, invece, pareva quasi seccata dal dover stare in posa accanto a quell’uomo che la teneva per mano come a evitare che abbandonasse la scena. Aveva trovato anche una lettera ingiallita indirizzata a un non meglio identificato “Illustre professore”, nella quale Gualtiero chiedeva con ferma gentilezza che fine avessero fatto degli studi di chimica che gli aveva spedito. Saltò fuori pure un vecchio articolo di giornale che parlava del professore, e si domandava come fosse possibile che la scienza si fosse dimenticata di un uomo di tanto valore. In un’altra lettera, tutta spiegazzata, scritta con mano tremante, una certa Adelina chiedeva al fratello Gabriele di procurarle una vestaglia e delle pantofole. Infine, avvolto in un panno, trovò il manoscritto. Fortunatamente era abbastanza breve: un centinaio di fogli a righe scritti a metà, come un lunghissimo tema scolastico.
Si era seduto su una sedia sgangherata e, sbuffando, aveva iniziato a leggere, così, giusto per provarci. Non era facile decifrare quella scrittura ordinata ma piena di svolazzi. Comunque continuò a leggere con tanta attenzione da non accorgersi del tempo che fuori dalla cantina continuava a scorrere per conto suo. Tra quelle pagine, secoli di storia della sua famiglia andavano ricomponendosi come le tessere di un mosaico fatto dei racconti del professor Gualtiero e di quelli che Daniele aveva sentito in casa fin da bambino. Ora soltanto capiva che nessuno dei discendenti del grande professore, compreso il generale, si era mai sentito veramente degno di lui. Ciò che rimaneva di quel tratto di storia familiare era affidato a qualche lettera, a un paio di foto e a quel libro scritto a uso e consumo della famiglia. Il resto, tranne i due calamai e la scrivania, era andato perso, cancellato dalle crisi, dalle guerre, dal tempo. Però erano rimaste le persone, i discendenti del professore, non geniali quanto lui, ma dignitose, silenti comparse che forse inconsciamente si passavano il testimone in attesa che qualcuno prima o poi riuscisse almeno a uguagliare le capacità di Gualtiero.
Aveva ragione Lucia: ogni esistenza ha bisogno di uno scopo, un fine, anche se si tratta di semplici illusioni. Dopotutto avere un amore, un sogno, una fede fa la differenza tra vivere e sopravvivere. Gli alberi, quelli sì che possono campare senza trovarsi una motivazione, mentre per gli uomini è troppo complicato accettare il naturale ordine delle cose. Gli uomini hanno sempre bisogno di trovare uno scopo alto alla propria vita, giusto o sbagliato che sia.
Man mano che leggeva gli veniva in mente la naturale inclinazione di Francesco per la matematica e le scienze. Chissà se gli avrebbe mai fatto leggere quel manoscritto. Forse no: aveva paura che lo responsabilizzasse troppo, gravandolo di un compito che non gli spettava. Il mondo era pieno di gente infelice per essersi scelta un obiettivo troppo lontano dalle proprie capacità, e a volte dalla propria natura. D’altra parte, chiuso in quella cantina, grazie alla lettura di quelle pagine si sentì radicato nel mondo. Aveva scoperto di avere delle insospettate radici familiari robuste come quelle dei suoi alberi, abbastanza forti per resistere alle tempeste, ai periodi di siccità o a quelli di gelo.
Avrebbe dovuto leggere quel manoscritto quando il generale glielo aveva proposto la prima volta. Il generale… il padre.
Erano proprio grandi, quelle onde. Daniele allora era tanto piccolo da scomparire quasi nel suo canottino, mentre il padre lo trascinava tra la spuma e il vento salato. A un certo punto il generale si era girato e aveva sorriso nel vedere il figlio felice. A lui, però, era parso di scorgere delle lacrime sul suo volto. No, erano le gocce di un’onda che gli si era frantumata addosso. Di lacrime, suo padre, ne aveva avuta una sola, molto tempo dopo, lenta sulla guancia, quando Daniele era stato bocciato per la seconda volta di fila, al liceo. Quel giorno pure la madre aveva pianto e lo aveva abbracciato, ma con distacco. Non erano stati i genitori migliori del mondo, ma a modo loro lo avevano amato. Nemmeno Barbara era stata la migliore compagna possibile, ma anche lei lo aveva amato, e forse lo amava ancora. E lui? Lui non aveva mai amato nessuno sul serio, nemmeno se stesso, se ne accorgeva solo ora. Per Francesco, però, provava amore, di questo era sicuro. Sì, ma lo amava da lontano, con circospezione. Non andava bene così. Doveva stargli vicino e condividere con lui il tempo, le emozioni, il respiro, prima che fosse troppo tardi.
L’ora di cena era passata da un pezzo quando richiuse il manoscritto nella borsa di pelle marrone. L’avrebbe portata a casa, non poteva più lasciarla in cantina.
* * *
La mangiacarte, imboccata da Lucia, ingoiava i fogli con metodica dedizione, mentre Ico guardava Daniele con più scetticismo del solito.
«Tu ti sei bevuto il cervello. Vuoi davvero metterti a fare il contadino?»
Lucia cancellò la domanda di Ico con una sua.
«Ma poi, perché?»
Fu il lampeggiare della mangiacarte a suggerirgli una risposta.
«Per compassione.»
«Compassione?»
Nemmeno Ico aveva chiaro il concetto. Entrambi lo guardarono, indecisi se sbalordirsi o preoccuparsi.
«La compassione, secondo Agostino, è l’unico sentimento che abbia senso su questo incasinato pianeta.»
«Agostino? Sant’Agostino?»
«No, Lucia, Agostino e basta. È un contadino costretto a vendere il suo oliveto. Secondo lui la compassione è l’unico modo per resistere ai cambiamenti, al variare dei sentimenti. Nulla sul nostro pianeta dura per sempre. Gli alberi lo sanno e restano ben inchiodati alla terra sopportando così tutte le avversità. Credo che ne abbia compassione proprio per questo.
Ico non poté fare a meno di sghignazzare.
«Compassione per gli alberi… e perché non per i sassi, le lumache, i pidocchi? Ma che compassione e compassione! La natura o la domini o ti domina.»
Lucia continuava a ingozzare la mangiacarte senza badare alle parole di Ico. Erano passati due giorni da quando lui aveva fatto portare via quei poveracci accampati vicino all’ufficio, ma era ancora taciturna, come se all’improvviso avesse scoperto un lato oscuro del collega che nemmeno sospettava. Sentiva che qualcosa si era spezzato tra loro tre. Ico era molto più incattivito di quanto avesse mai immaginato, Daniele voleva lasciare il lavoro per mettersi a coltivare olivi, e lei cosa avrebbe dovuto fare? Chiedere il trasferimento o aspettare che chiudessero quell’assurdo ufficio-coriandoli? La mattina, quando Daniele andava a prenderla alla fermata dell’autobus, a stento lei rispondeva al suo saluto, non accendeva nemmeno più la radio. Si raggomitolava sul sedile tenendosi stretta con le braccia. Anche Ico era cambiato. Si era presentato al lavoro con i capelli tagliati, la barba spuntata e un nuovo impermeabile, anche se dello stesso colore di quello di prima. Aveva deciso di dimostrare a Lucia di non somigliare a uno straccione qualsiasi. Infatti adesso sembrava uno straccione ripulito, però aveva sempre le unghie a lutto, la forfora sugli occhiali e le scarpe impolverate. Il comandante era tornato al suo posto, calmo e ordinato come sempre. Al ministero avevano controllato la pratica e gli avevano concesso una proroga di qualche mese.
Dalla fabbrica dei coriandoli non era mai stato facile capire che tempo facesse fuori. Daniele, accostandosi il più possibile al finestrone, riuscì a scorgere tra le sbarre una striscia di cielo azzurro. Sembrava che il tempo tenesse. Rimase lì fin quando la voce di Ico pretese attenzione.
«E allora? Ve ne state zitti? Ah, ho capito, avete sentito anche voi la voce che qui stanno per chiudere. Meglio così, magari ci metteranno a fare qualcosa di meno deprimente.»
Lucia si schiarì la voce.
«E non ci chiedono nemmeno cosa ne pensiamo o che mansioni vorremmo svolgere. Ci trattano come cose, eppure noi abbiamo dei diritti, siamo in un Paese democratico.»
Ico scoppiò in una delle sue risate giallastre di nicotina.
«Democratico? La democrazia non esiste! Dovunque qualcuno la fa da padrone e tutti gli altri sono schiavi. È la storia che si ripete: re e servi della gleba, patrizi e plebei. Ci illudiamo di essere liberi e padroni di noi stessi, e invece non contiamo niente. Tu, poi, proprio tu parli di democrazia! Ti sei mai resa conto di che lavoro fai, per cosa ti pagano? Ah già, dimenticavo, eliminiamo le prove delle loro merde proprio per salvaguardare la democrazia che ci rende liberi. Liberi di che? Di berci tutte le fesserie che ci raccontano! Siamo solo liberi di consumare. Più sei in grado di consumare, più diritti hai. Noi, con lo stipendio da fame che ci danno, di diritti ne abbiamo pochi, anzi, quasi nessuno. Chiaro come il sole, altro che chiacchiere!»
Finito di parlare, ne approfittò subito per prendere le sigarette dalla tasca.
«Se vuoi fumare, per favore, vai fuori dall’ufficio.»
Il tono di Lucia non ammetteva replica. Ico le lanciò un’occhiataccia, tanto lei era di spalle, e uscì a passo insolitamente svelto. La mangiacarte assisteva alla discussione con il suo ombelico verde acceso, giusto per sincerarsi che nessuno la spegnesse all’improvviso.
«Signori, signori: su su, al lavoro, prego, al lavoro.»
Il comandante si era affacciato prudentemente alla porta.
«Stiamo lavorando, non vede?»
Mai Lucia gli aveva risposto così bruscamente. Lui ritirò la testa perplesso e sparì nel corridoio.
«È tornato nuovo di zecca. Ha avuto la sua elemosina di proroga e questo lo rende felice. Non ha capito che tra poco chiuderanno l’ufficio e lo sbatteranno fuori comunque. In ogni caso quel matto di Ico non ha tutti i torti. Una volta pensavo che la democrazia servisse a impedire che gli uomini diventassero schiavi di qualche padrone, ma qui ho capito che il rischio non è di ridiventare schiavi, ma di essere trasformati in automi e avere tutti gli stessi pensieri impressi nel cervello, le identiche paure inculcate giorno per giorno e i soliti sogni prefabbricati. È uno schifo. Per favore, mi passi il registro verde?»
Daniele glielo passò senza dire niente. Avrebbe dovuto replicare con un incoraggiamento, una battuta qualsiasi, tanto per sdrammatizzare, ma decise che era meglio lasciar perdere. Però un caffè glielo andava a prendere volentieri. Non lo aveva chiesto, ma non lo avrebbe rifiutato. Si trattava pur sempre di una gentilezza.
Il corridoio era deserto, a parte la cravatta in perenne attesa del padrone. La sfilò dall’attaccapanni, era arrivato il momento di adottarla. Dopo averla scrollata per cacciar via la polvere, se la infilò dalla testa mantenendo il nodo originario. La macchina del caffè, nella sua livrea grigia e gialla, lo accolse con i soliti misteriosi brontolii interni. Gli servivano tre monete. Tanti ne voleva di caffè: uno per Lucia, uno per Ico, il terzo per sé. Il primo bicchierino comparve con poco clamore, poi due spruzzi di zucchero, il piscio del caffè e infine la bacchettina di plastica che serviva da cucchiaino. Ancora un caffè da prendere tutti insieme prima di separarsi forse per sempre.
Il resto della giornata scivolò su Daniele senza fare né danni né regali. Nemmeno il giorno dopo accadde nulla di particolare, fin quando si trovò di fronte a quattro giganti di acciaio che sudavano stretti l’uno accanto all’altro. Erano i torchi del frantoio. Due giovani si davano da fare tra la macina e le pompe. Le ruote della macina riducevano le olive in una poltiglia umida infilata, poi, tra i dischi dei quattro torchi, che la pressavano talmente forte da sprizzare olio. La lavorazione continuava fra tubi e vasche, fino ad arrivare a un rubinetto proprio di fronte a Daniele, fermo a contemplare il filo d’olio denso e dorato che finiva in un bidone azzurro. Ogni tanto uno dei due operai allentava o stringeva il rubinetto per regolare il flusso. Nonostante la giovane età, sembravano sicuri del fatto loro.
«Più tardi vado al frantoio. Se vuole venga anche lei, così vedrai di che si tratta.»
Era appena tornato a casa dal lavoro quando Agostino si era fatto vivo con quella telefonata imprevista. Evidentemente pensava davvero che Daniele avrebbe potuto aiutarlo a non abbandonare la sua campagna. Magari era diventato uno di loro, un appassionato della terra.
Agostino cercava di dirgli qualcosa, ma il rumore della macina, mischiato a quello dei compressori, rendeva difficile qualsiasi comunicazione. Poco male. Non c’era bisogno di spiegare molto. Tutto era evidente, semplice.
Nel frantoio si lavorava duro: le cassette impilate l’una sull’altra erano tante, bisognava fare presto. Cassette da venticinque chili l’una, colme di olive dal verde pallido al nero, strappate con maestria dai rami e portate lì in tutta fretta prima che gli alberi se ne potessero accorgere.
Una sommessa emozione si trasmetteva dagli spettatori agli operai. Non era più tempo di riti contadini, ormai tutto era meccanizzato, ma gli uomini festeggiavano lo stesso, ringraziando in silenzio l’invisibile dio nascosto nei torchi, che ancora una volta li benediva con quelle prime gocce di olio. Se avesse potuto, Daniele le avrebbe raccolte per chiuderle in un’ampolla e conservarle come farmaco – un tempo si faceva così –, poi le avrebbe regalate a Francesco. Si limitò a partecipare al frastuono di macchine e battiti di cuori in attesa del primo filo d’olio degli alberi di Agostino: era venuto il momento delle sue olive. Su un bidone avevano messo un boccale di plastica. Il primo liquido che uscì dal rubinetto era pece. Agostino deglutì immobile. Il ragazzo chiamò il padrone del frantoio, che si avvicinò con calma, sicuro, vuotò il boccale, lo lavò sotto un getto di acqua e lo rimise al suo posto. Poi sganciò una parte della pompa e, aiutandosi con una spatola, raschiò via due o tre volte una sottile pasta scura, riavviò la pompa e girò con delicatezza una manopola.
Agostino, le mani strette ai fianchi, abbassò gli occhi. Forse stava pregando. La pompa s’inferocì senza sputare niente, poi si placò. Finalmente un filo color smeraldo prese a sgorgare, prima esile, ma sempre più robusto.
«Vedi un po’ com’è il tuo olio quest’anno.»
Il padrone del frantoio gli si era avvicinato trionfante per passargli il boccale, che lui portò lentamente alla bocca. La faccia di Agostino sparì dentro la plastica bianca, e quando ricomparve sulle labbra c’era un sorriso. Fece sì con la testa e ripassò il boccale al padrone del frantoio, ringraziandolo con gli occhi.
Quattro o cinque uomini in attesa del loro turno si congratularono con lui a suon di sorrisi e pacche sulle spalle. Era andata bene a lui, sarebbe andata bene anche a loro: quest’anno l’olio era davvero buono.
Daniele uscì a fumarsi una sigaretta come Agostino e gli altri, ma si ricordò che non ne aveva mai fumata una in vita sua e si avviò da solo per un viottolo. Il primo vero freddo dell’inverno era sceso sulla campagna insieme alla sera, pulendo il cielo. La luna calante garantiva che tutto si sarebbe svolto nel migliore dei modi. O almeno così gli aveva garantito Agostino, in macchina, mentre andavano al frantoio. Era l’unico modo per far sì che gli invisibili corpuscoli che si agitavano nei chicchi d’uva o nelle olive se ne stessero buoni buoni.
«Allora sarebbe meglio aspettare le notti senza luna.»
Pazientemente Agostino gli aveva spiegato che il buio assoluto non andava bene né per il vino, né per l’olio, né per gli uomini. Daniele aveva dovuto fare sette volte il viaggio dalla campagna fin lì con le cassette che gli premevano sulla nuca, una brusca frenata e si sarebbe ritrovato con le olive nel cervello. Pesavano, quelle cassette, aveva le braccia indolenzite, lo aveva aiutato a caricarle. La piccola utilitaria di Agostino era stipata, ma il trattore con il rimorchio gli si era guastato proprio la sera prima, e in quei giorni di raccolta nessuno poteva prestargliene uno.
Dal viottolo il ronzio lontano del frantoio percorreva la notte come una debole corrente elettrica. Dunque era cominciata così: qualcosa o qualcuno, oppure il caso, aveva preso tutto il nulla che c’era nell’universo, lo aveva pestato sotto le ruote di una gigantesca macina fino a renderlo un miscuglio di particelle, lo aveva infilato dentro dischi di luce e pressato con tutta la sua forza fin quando non ne era sgorgato un filo di vita. Era quello che aveva fatto anche con Daniele. Lo aveva schiacciato, torchiato e infine colato sul pianeta insieme alle vite di tanti altri. Tutta quella fatica anche per uno come lui, per farlo ritrovare una sera qualsiasi in un viottolo alberato finalmente in compagnia di se stesso, felice perché il giorno dopo sarebbe stato insieme al figlio. Era solo questo che contava davvero. Lo avrebbe portato a visitare il frantoio, gli avrebbe raccontato del professor Gualtiero, di Gabriele e degli altri della famiglia. Prima, però, gli avrebbe parlato di Lucia e Ico, di Nanni il barista, di Biagio il contadino, di Giovanni il barbiere e di Agostino, che gli aveva insegnato ad avere compassione degli alberi, forse sperando di riceverne in cambio un po’ di misericordia, giusto quel tanto che bastava per provare a vivere come un uomo. Ma come doveva vivere un uomo? Come Gualtiero, Gabriele e, per certi versi, il generale? Cercando di cambiare il mondo attraverso una scoperta scientifica, una battaglia civile o politica o facendo del proprio dovere una religione? Oppure provando, piuttosto, a cambiare se stessi, come stava facendo lui? Daniele mica lo sapeva, Francesco lo avrebbe scoperto da solo. Lui si sarebbe limitato a raccontargli tutte quelle storie come delle favole: alcune belle, piene di animali gentili, di alberi con occhi e naso, di macchine che mangiavano le carte; altre tristi, senza alcun lieto fine. Lieti o tristi che fossero, erano pur sempre racconti, e fin quando puoi raccontare qualcosa a qualcuno, vuol dire che sei ancora vivo. Proprio come si sentiva Daniele in quel momento: vivo e grato di esserlo.
«È andata bene per Agostino.»
Non si era accorto che gli altri lo avevano seguito lungo il viottolo. Tra poco sarebbe toccato alle loro olive ed erano in ansia, per questo si erano sentiti tanto generosi da parlare amichevolmente con un forestiero come lui. Gli offrirono una sigaretta. La infilò tra le labbra, gli sembrava scortese rifiutare. La fiammella di un accendino gli balenò sul volto. Fu un istante di luce, poi tornò il buio, appena rischiarato dal poco di luna che c’era. L’ideale per fare il vino, l’olio, ma anche per fingere di fumare insieme a loro.
* * *
La nebbia di nuvole velava la finestra nascondendo gli alberi della villa comunale. Daniele, specchiandosi nei vetri, dovette ammettere che ormai i suoi capelli erano diventati dello stesso colore di quella nebbia. Il tempo era scivolato via in un silenzioso soffio. Da diversi anni era stato trasferito al suo vecchio archivio in città, ma, pur di non lasciare la casa di Biagio, aveva preferito vivere da pendolare. Ne aveva fatti di giri in tutto quel tempo, la grande trottola azzurra di cieli e oceani, rimescolando a suo piacere destini e storia, miserie e guerre, speranze e rinascite. Girando girando aveva anche riportato il figlio di Agostino a occuparsi degli olivi del padre ormai scomparso. Daniele lo aveva aiutato economicamente a sistemare la casa e il podere. In cambio riceveva periodicamente lattine d’olio, ortaggi, frutta fresca e il diritto a considerare anche suoi gli alberi e la terra.
Quanto a loro tre, aveva avuto ragione Lucia: dopo la chiusura della fabbrica dei coriandoli avevano finito per perdersi di vista. Qualche telefonata, promesse di incontrarsi, poi ognuno aveva preferito dimenticarsi degli altri, piuttosto che essere messo al corrente degli allarmanti progressi della vecchiaia e dei ricordi di un’inattendibile memoria che ridisegnava il passato a seconda dell’umore del momento.
Barbara aveva continuato a entrare e uscire dalla vita di Daniele con l’inesplicabile regolarità che disciplina i transiti degli astri. Francesco, invece, man mano che cresceva, aveva scelto di trascorrere periodi sempre più lunghi con il padre. Almeno fino a quando aveva iniziato a vincere borse di studio che lo avevano portato all’estero, nelle migliori università del mondo. Era davvero intelligente, quel figlio, forse troppo, rispetto a lui, abituato com’era a ragionare in maniera intuitiva, senza metodo e disciplina.
Tornò a sedersi alla vecchia scrivania. Si mise a giocherellare con uno dei due calamai di cristallo. Chiudeva e riapriva il pesante coperchio d’argento, una calotta agganciata al calamaio che risuonava piena tonfo dopo tonfo. Doveva essere stato noioso per Gualtiero attingere ogni volta a quei calamai, formula dopo formula, libro dopo libro. Un lavoro enorme e complesso.
Il cassetto centrale era socchiuso. In un angolo in fondo intravide due foglioline di olivo. Stavano lì da quando, molti anni prima, alcune piante di Agostino si erano ammalate. Le aveva aggredite un fungo – “Occhio di pavone” si chiamava – che lasciava sulle foglie delle macchiette circolari sfumate di giallo e di verde, fin quando non le faceva cadere. Non aveva mai messo niente sui suoi olivi, non voleva usare quella roba, ma lasciare che vivessero dando frutti liberi da qualsiasi sostanza chimica. In fondo anche lui, quando stava male, prendeva delle medicine, e ultimamente capitava sempre più spesso. Aveva scelto quello che riteneva un rimedio meno aggressivo e inquinante: la famosa poltiglia bordolese, il miscuglio di solfato di rame e calce diluito in acqua. In paese dicevano che risaliva addirittura ai Romani, ma per quel che ne sapeva lui veniva usata da poco più di un secolo. Lasciava sulle chiome degli olivi un colore azzurrino che andava via presto.
Prese le foglie per osservarle meglio. “Occhio di pavone.” Strano modo di chiamare un fungo così dannoso, che lasciava i suoi marchi colorati sulle foglie mentre le distruggeva. Chissà, forse era un tentativo di esorcizzare il nemico, quasi per blandirlo purché se ne andasse. Un po’ come si fa quando si inventa un nomignolo per un ciclone, un capo nemico, una guerra.
Richiuse piano il cassetto. Dentro c’erano il manoscritto di Gualtiero, la lettera di Adelina, sbiadite foto di famiglia, ritagli di vecchi giornali. Carte consumate dagli anni, testimonianze di vite troppo diverse da come erano state immaginate. A queste cose si era aggiunta la stampa della mail di Francesco. Gliel’aveva mandata quella stessa notte, o quello stesso giorno – Daniele non si era soffermato mai molto sulla faccenda dei fusi orari. Gli bastava sapere che laggiù, a Sydney, erano dieci ore avanti. Francesco gli aveva scritto che, dopo mesi e mesi di silenzio, un importante professore, una specie di Einstein della fisica teorica, gli aveva mandato una mail nella quale, dopo essersi scusato per il ritardo, si profondeva in complimenti per le sue ricerche e lo invitava a collaborare con lui.
Una mail. Non ci aveva pensato: una buona notizia da tanto attesa, ma scritta su nessuna carta, da nessun inchiostro, e neppure riferita da alcuna voce, era quella che avrebbe liberato la famiglia dall’antica, presunta maledizione. Suo figlio aveva cancellato in un colpo solo tutti gli occhi di pavone dalle foglie dell’albero genealogico di famiglia.
Daniele aveva cercato inutilmente di convincere Francesco a non pretendere troppo da se stesso, a non sentirsi in dovere di seguire le orme di Gualtiero e dei suoi antenati. Non aveva obblighi con quel passato e nemmeno con il futuro, ma solo verso la propria vita e il proprio tempo. Era stato inutile, nemmeno Barbara era riuscita a fargli cambiare idea. Francesco aveva voluto provarci comunque, convinto che illusioni, utopie e sogni aiutassero a far nascere una scoperta scientifica, un’opera d’arte, o almeno un sentimento che desse un senso a quella breve, incomprensibile, a volte atroce, ma comunque preziosa singolarità che per lui era la vita.
Il pino con occhi e naso si avvicinò alla finestra per avvisare che il vento stava portando via la nebbia di nuvole. Di più non avrebbe potuto o saputo comunicargli, ma Daniele lo ringraziò lo stesso. Mentre si alzava ebbe la colpevole sensazione di essere più leggero, come se qualcuno lo avesse finalmente liberato da un peso intollerabile quanto un debito ereditato insieme alla vita. Non è che tutto questo avesse un senso particolare, pensò mentre prendeva il giubbotto, se non quello che ognuno riesce a dare alle cose, al mondo, alla propria vita.
Uscì di casa per andare a prendersi un caffè al bar di Nanni. Fatti pochi passi incrociò un gatto molto somigliante a Sfinge, forse un suo discendente, che lo guardò supplichevole miagolando piano. Doveva aver fame, anche Sfinge faceva così. Gli toccava riprendere a comprare il cibo per gatti. La nebbia di nuvole c’era ancora, ma andava diradandosi, mentre già da lontano la piazza risuonava di voci.