Nel ventre della balena
Dopo la morte di Gabriele, Anna aveva dovuto fare tutto da sola. Il figlio Aldo non era voluto rimanere nella villa ai piedi del Vesuvio. Da troppo tempo conducevano un vita di pura sopravvivenza, si vergognava di frequentare i vecchi amici, di farsi vedere in giro con gli abiti logori e le scarpe vecchie, così quando Gabriele era morto aveva preteso che la famiglia si trasferisse nell’appartamentino a Napoli, dove nessuno li conosceva, proprio quando la città iniziava a essere bombardata. Anna aveva acconsentito anche perché vendendo la villa avrebbero ricavato denaro sufficiente a vivere dignitosamente per qualche tempo. Purtroppo, però, aveva seguito i consigli di un avvocato, un conoscente di Gabriele, che si era occupato di tutto, ma proprio di tutto, compreso vendere villa, terreni, quadri, mobili, libri e tappeti per una miseria.
«È la guerra, mia cara signora Anna, la guerra… già siamo stati fortunati a trovare un compratore. Capirà… di questi tempi… ma ha voluto la villa così com’era, arredata, altrimenti non chiudeva la trattativa.»
Per mitigare lo sguardo ostile di Anna aveva aggiunto:
«Però sono riuscito a salvare la preziosa scrivania del professor Gualtiero e i due calamai di cristallo e argento. Proprio come aveva chiesto lei, cara Anna.»
Due dita grassocce si erano sollevate per sottolineare che effettivamente erano due i calamai scampati a quella razzia.
«Di più non sono riuscito a ottenere. Del resto ultimamente la villa era stata trascurata… addirittura mancavano molte tende…»
«Le abbiamo sfilate per fare le calze alle ragazze.»
Guardandolo fu certa di essere stata truffata: troppo compiaciuti erano i gesti con i quali l’uomo si aggiustava ora il bavero della giacca ora il nodo della cravatta, mentre se ne stava seduto sul divanetto del suo studio come uno che aveva finalmente mangiato a sazietà.
Cosa voleva ancora quella disgraziata? I soldi glieli aveva dati, no? L’aveva pure invitata ad accomodarsi sul divano e non alla scrivania, in segno di amicizia. Ora non le restava che andarsene, e invece rimaneva seduta a debita distanza a fissarlo. Le parole dell’uomo avevano un tono costernato, ma gli occhi erano felici. Quel delinquente doveva averci guadagnato non poco. Anna continuava a fissarlo in silenzio: magari ingenua, ma imbecille no. O forse sì, per aver pensato che tutti gli avvocati fossero onesti come lo era stato il marito. Era una donna del popolo, non conosceva quel mondo di gentiluomini e professionisti. Adesso però aveva capito che non era migliore del suo, anzi. Quell’omuncolo grassoccio, sudato, con i capelli impomatati, apparteneva al genere di persone che nelle guerre ci sguazzavano, approfittando delle disgrazie altrui per arricchirsi.
Aveva sbagliato, ma cosa avrebbe potuto fare? Vedova, con un figlio al fronte e due ragazze. I soldi della vendita della villa erano finiti presto. Fortunatamente avevano ancora quell’appartamentino in città, visto che gli altri erano stati venduti dal marito anno dopo anno per mantenere l’abituale tenore di vita. Abituale per lui che era figlio di signori, non certo per Anna, cresciuta a forza di privazioni. Almeno fosse vissuto fino a veder cadere Mussolini, invece era morto nel luglio di due anni prima. E, poco dopo il loro trasferimento in città, le bombe erano riprese. Era stata proprio una follia accontentare il figlio.
I figli. Era per loro che faceva la fila da due ore insieme a centinaia di persone davanti alla panetteria, che, chissà come, era aperta e rifornita. La città era nel caos più totale, da due giorni si combatteva contro i tedeschi con fucili, pistole, pietre. Tutto era iniziato quando quelli, dopo l’armistizio dell’8 settembre, avevano preso a rastrellare gli uomini per deportarli in Germania, al lavoro obbligatorio. Anna ignorava come tutto questo fosse cominciato, ma sapeva che era giusto difendere la propria gente, e se fosse stata più giovane avrebbe partecipato anche lei alla rivolta. Dicevano che gli americani erano vicini. Sì, ma quanto? Troppe cose che si dicevano erano risultate false. Dopo l’arresto di Mussolini si pensava che la guerra sarebbe finita, invece era continuata a fianco dei tedeschi. Dopo l’armistizio tutti erano convinti che finalmente sarebbe arrivata la pace, invece, ora che settembre stava finendo, la guerra si era diffusa vicolo per vicolo, strada per strada, piazza per piazza. Cosa potevano fare dei poveri napoletani male armati contro l’esercito germanico, lei davvero non lo sapeva. Ne era morta, di gente, soprattutto giovani. Povere quelle mamme, e povera anche lei, che nemmeno sapeva dove fosse finito il figlio Aldo.
La fila si snodava nella piazzetta come un serpente attorcigliato su se stesso. Stranamente, però, nonostante la fame e la disperazione, era ordinata, nessuno litigava o provava a fare il furbo. Erano la paura e lo sfinimento a disciplinarla. Se ne stavano con gli occhi bassi, stretti l’uno all’altro a fremere come un sol corpo a ogni eco di cannonata, a ogni raffica di mitra, a ogni scoppio. Alcune esplosioni erano lontane, altre vicine, troppo.
Anna, come gli altri, aveva paura, ma come loro aveva dei figli che digiunavano da giorni. La notizia dell’inaspettata apertura della panetteria aveva scosso il quartiere con la stessa forza delle bombe che cadevano dal cielo. Alcuni erano accorsi così come si trovavano, in pantofole, in pigiama. Davanti a lei c’era un signore con la barba fatta solo su metà viso. Tutti con i volti scavati dai digiuni, gli occhi infossati dal terrore, i corpi consumati dalle malattie. Più delle bombe e della fame Anna temeva il tifo petecchiale, che copriva il corpo di macchie rosse e nauseabonde crosticine, causava febbre alta, forti dolori e portava alla morte i fisici più debilitati. Così li aveva ridotti la guerra: delle larve umane. Lei nemmeno si guardava più allo specchio, non ne aveva bisogno, le facce degli altri erano ritratti fedeli della sua condizione. Forse anche per questo nella fila ognuno stava fermo, muto, la tessera del razionamento stretta tra le mani come un santino protettore.
Una polvere biancastra si era depositata sui vestiti. In un primo momento Anna aveva pensato fosse farina uscita dalla panetteria, ma ora si mischiava agli echi delle esplosioni. Capì che si trattava della polvere dei calcinacci, ultimi respiri di palazzi smembrati a suon di cannonate. Ogni strada mostrava le ferite di innumerevoli bombardamenti: edifici crollati, campanili azzoppati e ovunque cumuli di macerie. Da troppo tempo erano spariti i sorrisi e nessun canto improvvisato si azzardava più a vincere il silenzio dei vicoli avvolti nella sera.
Lo stretto ingresso della panetteria li ingoiava uno per volta, lentamente. Come formichine affamate, pensò Anna, in fila per prendere anche una sola briciola. Non ci sarebbe stato pane a sufficienza per tutti, ma nessuno lasciava il proprio posto. Lei meno che mai. Doveva rimanere per i suoi figli, che ormai erano ridotti tutti pelle, ossa e occhi. La più grande aveva trovato lavoro come dattilografa in una fabbrica, laggiù in periferia. Ci andava ogni mattina, partendo all’alba nonostante le bombe. Era la maggiore delle femmine, doveva aiutare la famiglia. Poi, una notte, durante un bombardamento a tappeto, avevano raso al suolo l’intero quartiere della fabbrica. Gli americani facevano così, si distinguevano dagli inglesi, che invece, forse avendo meno aerei e bombe, giravano e rigiravano nel cielo come pazienti calabroni, fin quando non calavano in picchiata a colpire solo l’obiettivo che avevano scelto.
“Adesso vai, Anna, vai pure…”
Aveva chiuso gli occhi per la stanchezza e all’improvviso aveva sentito la voce di Gabriele. Era la frase con la quale di solito la congedava dopo averla presentata ai suoi ospiti. Ufficialmente quel congedo era da attribuire alla gelosia del marito per la bella signora Anna, ma lei aveva sempre saputo che in realtà l’avvocato si vergognava di quella moglie popolana. Quando alla villa venivano grandi professoroni, amici o colleghi del marito, doveva eclissarsi prima possibile, mentre loro si rinchiudevano nello studio. Gabriele non la considerava all’altezza del suo mondo. Avrebbe dovuto sposare quella gran dama con la quale lo avevano visto in giro, soprattutto al circolo nautico. Una mattina Anna l’aveva aspettata proprio sotto la casa di lei. Sapeva come fare, da ragazza ne aveva viste di donne, nei vicoli, trascinare per i capelli quelle svergognate che volevano rubare mariti e fidanzati. Ma quando l’aveva avuta davanti aveva perso ogni baldanza: somigliava troppo, nell’aspetto e nei modi, alla madre di Gabriele, che aveva incontrato solo quel giorno, quando era venuta a cercare il figlio senza neanche dire chi fosse.
L’ignara amante di Gabriele, uscita dal portone, si era trovata di fronte quella popolana bella e furente. Non si erano mai incontrate, ma per quel misterioso intuito delle donne si erano riconosciute subito. La signora l’aveva guardata sorpresa, poi aveva accennato un saluto. Anna stava per schiaffeggiarla a suon di parole, ma la sua rivale sorrideva con le labbra e con gli occhi, come si fa con una vecchia amica. Poi aveva fatto cenno di sì ed era andata via, non prima di averla rassicurata con uno sguardo che firmava un muto giuramento. Anna sentiva che quella bella signora non avrebbe rivisto mai più Gabriele. Non aveva avuto paura della moglie del suo amante, ma soggezione sì. Quella donna sarebbe stata davvero la sposa ideale per l’avvocato; lei, invece, avrebbe dovuto continuare a fargli da cameriera e amante.
“Adesso vai, Anna, vai pure…”
Andarsene, e perché? Dopo tutta quell’attesa, lasciare la fila e tornare a casa senza nemmeno un tozzo di pane per i figli? Neanche a parlarne. Non capiva perché continuava a sentire dentro di sé la voce del marito.
“Adesso vai, Anna, vai pure…”
Nella sua mente la frase aveva perso il tono gentile e suadente con il quale il marito la invitava a eclissarsi. Ora suonava accorata, e più passava il tempo più assumeva toni allarmati. A parte qualche fissazione da gran signore e la scappatella con la bella dama, Gabriele era stato un buon marito e un ottimo padre. Si erano voluti bene, loro due, sempre. Non le aveva fatto mancare nulla, meno che mai il suo affetto, e lei aveva ricambiato con mille attenzioni.
A un tratto le sembrò che il silenzio fosse diventato assoluto, come se quelle persone ormai stessero aspettando solo la morte, anzi, fossero già morte e attendessero mestamente il loro turno per entrare nell’aldilà varcando l’angusta porta della panetteria.
“Adesso vai, Anna, vai pure…”
Le sue gambe si stavano muovendo. Non poteva farci nulla, stava lasciando la fila. Piangeva per la rabbia, ma avanzava un passo dopo l’altro sottomessa a una forza irresistibile che la trascinava via dalla piazzetta. Era una sciagurata: non avrebbe portato niente a casa, niente. Doveva essere impazzita, perché continuò, metro dopo metro, oltre il primo angolo, e poi ancora lungo la strada di casa. Nemmeno piangeva più. Stava facendo quel che le aveva chiesto il marito. Si era sempre fidata dell’intelligenza di Gabriele, che capiva in anticipo quel che gli altri nemmeno avrebbero mai sospettato; doveva fidarsi anche ora. Procedeva a passi esitanti, con lo sguardo a terra, come una ladra che teme di essere scoperta da un istante all’altro.
Il boato maligno non lasciò scampo. Chissà da dove proveniva quella cannonata che aveva centrato la piazzetta cospargendola di brandelli umani. Nessuno si salvò. Nessuno tranne Anna, che quando sentì l’esplosione era ormai a distanza di sicurezza, davanti al portone di casa.
* * *
«Questa è la casa. Si capisce, bisogna metterla a posto, ma piano piano, un sasso alla volta, una tegola dopo l’altra… Invece le piante stanno bene.»
Gli occhi di Agostino si illuminarono a guardare i suoi alberi, che svettavano orgogliosi delle loro forme scultoree. In paese tutti sapevano che era un maestro nella potatura, dicevano che gli olivi li faceva diventare belli come fiori.
Daniele, seduto sul muricciolo del patio, si chiedeva come fosse possibile piantare alberi in file tanto ordinate.
«Questo campo è davvero bello, sembra un giardino.»
«Sì, ma le piante, come le bestie, non è che devono piacere, devono fruttare, per dare il pane… e la resa varia da pianta a pianta, da stagione a stagione. Qui in collina, sulla mia terra, rende il 12, il 15 per cento, a volte anche di più.»
«Il 15 per cento di cosa?»
Agostino lo guardò perplesso.
«Il 15 per cento per quintale: cento chili di olive danno quindici litri d’olio. Ogni pianta produce una cinquantina di chili di olive, ma può darne anche molti di meno o di più, dipende da quanto è grande l’albero, da come è stata la stagione, da quando le raccogli, da come le raccogli, e pure dal frantoio dove le porti. Quest’anno la terra è stata avara, ma il prossimo ce ne saranno tante da piegare i rami. Un anno va bene, quello dopo va male. Non lo so perché, ma è sempre stato così. Quando ero bambino gli anziani dicevano che dipendeva da come si raccoglievano le olive. È un’arte anche quella, sa? C’era chi usava una canna sottile per colpire con delicatezza i rami senza scorticarli, altrimenti la pianta, a furia di frustate e non di carezze, rischiava di diventare sterile per l’anno successivo, oppure le prendeva delicatamente con le mani, ma ormai non lo fa quasi più nessuno. Adesso si usano i rastrelli elettrici o gli scuotitori dei rami che, però, sono un terremoto per le piante.»
L’uomo si chinò per raccogliere un’oliva dal pavimento, la pulì strofinandola sulla manica del maglione e la lanciò lontano.
«Meglio restituirla alla terra, diventerà concime. È pure sporca. L’olio si corrompe se non nasce nel pulito, puzza di marcio. Eh, ci vogliono fatica e coraggio per lavorare la terra. È un lavoro pesante, e il guadagno non è sicuro. Magari ti sei fatto prestare i soldi dalla banca per il trattore, sgobbi da mattina a sera e una gelata ad aprile ti ammazza le piante. Oppure d’estate s’incendia la campagna, l’olivo ti si brucia davanti agli occhi come una torcia e tu non puoi farci niente, solo startene lì a strapparti i capelli. Può anche capitare che arrivi la mosca olearia… può capitare di tutto. L’unica cosa sicura per un contadino è la fatica, il resto è affidato a Dio e alla voglia di lavorare. Se non hai l’uno e l’altra, è meglio che cambi mestiere.»
Ce ne volevano di soldi per risistemare quella casa. Non era grande, ma si dovevano riparare le colonne del patio, rimettere un bel po’ di tegole, rifare il bagno, la cucina, cambiare gli infissi, i pavimenti… I soldi sul conto di Daniele erano troppo pochi, avrebbe potuto provare a chiederli alla madre.
L’ultimo rendiconto della banca gli era arrivato proprio il giorno dopo aver visto quel cartoncino con la scritta “Vendesi” sul tronco di un olivo. Gli era parso strano che la terra e gli alberi si vendessero come le case di città, attaccando il cartello “Vendesi” con sotto un numero di telefono. Quel cartello era comparso all’improvviso in uno sperduto sentiero di campagna. Ormai la tigre nera si era rassegnata ad andare contro la sua natura e percorrere viottoli sconnessi più adatti a un fuoristrada che a un coupé con il muso basso, ma doveva pur assecondare le manie del padrone, che sempre più spesso la costringeva a cimentarsi su sterrati pieni di buche e sassi. Le era capitato di arrendersi di fronte a cumuli di detriti e sfasciumi, soprattutto materiale edilizio, portati nel cuore della campagna per risparmiare i soldi della discarica. Più di una volta era arretrata di fronte a minacciosi bidoni che trasudavano una melma maleodorante, o a pile di sacchi ammalati di polvere giallastra.
Agostino era davvero imponente. Il suo profilo squadrato ricordava a Daniele quelli dei legionari scolpiti sui bassorilievi sparsi per la capitale. Doveva essere l’ultimo veterano delle legioni imperiali. Dopo decenni di duro servizio aveva ricevuto il congedo e la terra affinché potesse invecchiare in pace. Il potere è generoso con i suoi servitori, o almeno sa fingere bene di esserlo. La vita media di un soldato romano era breve, il congedo e la terra arrivavano poco prima della morte.
«Gli olivi rendono bene se hai migliaia di piante, una vera e propria azienda, di quelle che prendono pure le sovvenzioni. Ora sono in pensione, ma per mantenere la famiglia e questi alberi ho dovuto fare il meccanico. Il terreno non è molto, se tutto va bene puoi tirare fuori qualche centinaio di litri l’anno. Che tradotto in soldi, tolte le spese del frantoio, quelle per i concimi, per i raccoglitori, per il trattore, vuol dire praticamente niente. È già tanto se non ci rimetti. Chi glielo fa fare a prendersi una rogna come questa?»
«E a lei, chi glielo ha fatto fare?»
Le foglie si misero a frusciare nel vento cercando di spazzare via quella domanda indiscreta.
«Vieni, vieni con me.»
Anche Agostino passava dal lei al tu, ma Daniele finalmente aveva capito: il tu voleva dire che ti stavano parlando da amici, il lei che a tratti non si fidavano ancora di te. Lo seguì tra gli alberi. Un uccellino gli atterrò tra i piedi, e un istante dopo scappò via.
«I pettirossi sono curiosi, ti seguono albero dopo albero. Una volta c’erano moltissime varietà di uccelli, poi qualche bestia di contadino ha esagerato con i pesticidi avvelenando piante e animali. Sono sparite anche le lumache e le coccinelle. Solo di cornacchie ne sono rimaste tante. Quelle mangiano le uova dai nidi degli altri, prima o poi vedrai che resteranno soltanto loro.»
Gli alberi lasciarono spazio a una piccola radura recintata. Tre cani bianchi vennero loro incontro facendo le feste. Caprette, galline e oche si aggiravano tranquille nel recinto. Dei gatti sparsi sull’erba osservavano la scena con indifferenza.
«Devo pensare anche a tutti loro. Li vedi questi cani come sembrano giocherelloni? Due mesi fa hanno ucciso una volpe che era entrata nel recinto delle galline. L’anno scorso hanno cacciato via addirittura un cinghiale.»
I cani smisero di scodinzolare e spinsero con i musi un gatto rosso contro la rete del recinto, bloccandolo.
«La vedi? Questa è il capo branco dei gatti. È femmina, ma è un fenomeno.»
I cani stavano per perdere la pazienza con la gatta, che subiva indifferente i loro attacchi giocosi. Il cane più grosso la prese in bocca ringhiando minaccioso, e pure gli altri due sembravano essersi arrabbiati. La gatta non reagiva, mentre le caprette si erano avvicinate al recinto per capire cosa stesse accadendo.
Daniele guardò Agostino temendo che i cani divorassero quel batuffolo di peli, ma l’uomo sembrava divertirsi.
«Hai visto come fa? È coraggiosa, furba: sa che se prova a reagire a suon di graffi i cani se la sbranano. Invece lei fa finta di niente e intanto pensa a come cavarsela.»
La gatta sgusciò con calma serafica dalla bocca del cane. Poi, ignorando platealmente gli altri due, si infilò in un buco della rete e raggiunse le capre. Lì si fermò seccata a leccarsi il pelo, lasciando i tre cani oltre il recinto ad annusare l’aria perplessi.
«Gli animali sono come gli uomini: anche cani e gatti alla fine vanno d’accordo se hanno tutto quello che serve.»
Il braccio di Agostino indicò un punto tra gli alberi dove stava tramontando il sole.
«È laggiù che devo andare a campare, in mezzo al cemento della città, sopra l’asfalto. Finché ho potuto ho fatto di tutto per non abbandonare le mie piante. Da piccolo, quando non c’era scuola, schizzavo dal letto alle quattro del mattino per venire con mio nonno in campagna. Passavo giornate intere a guardarlo curare gli alberi, lassù, sulla scala, che allora mi sembrava altissima. Quando sono cresciuto e lavoravo come meccanico, aspettavo con ansia la domenica per tornare tra gli olivi. Anche mio figlio l’ho portato qui fin da bambino, ma poi lui e la moglie sono andati a vivere in città. Mi vogliono con loro, così, con la vendita del terreno e la pensione, li posso aiutare a pagare il mutuo di quella gabbietta di cemento che chiamano casa. È mio figlio, si è sposato, aspettano un bambino… posso dirgli di no? Però, vendere la terra… mio nipote verrà su come una pianta senza radici. Sono tempi difficili, il vento tra i palazzi di città se lo può portare via al primo soffio. Oggi il mondo va così. Non è colpa di nessuno, puoi solo avere compassione per te e per gli altri. Io ho scelto di avere compassione anche per gli alberi. Gli olivi, poi, somigliano molto agli uomini. Alcuni hanno la chioma tanto arruffata e confusa da ricordare la capigliatura di un matto, altri, avviliti, tengono i rami bassi, come braccia abbandonate sui fianchi. Quelli più orgogliosi li alzano verso il cielo come se volessero toccarlo. Ogni albero ha la sua storia: qualcuno è malato, un altro è cresciuto troppo gracile, e ce ne sono anche molti feriti dal tempo o dall’incuria.»
Agostino sospirò.
«Adesso devo andare da mio figlio. Tra poco sarà sera, mi tocca guidare fino a Roma e col buio ci vedo poco. No, non si alzi, rimanga ancora. Tanto non ci sono porte o cancelli da chiudere. Si guardi bene intorno, pensi a quello che le ho detto. Il numero di telefono ce lo siamo dati… fammi sapere con comodo. Arrivederci.»
Sparì tra i filari di alberi.
I pettirossi dovevano essere uccelli davvero curiosi. Forse era lo stesso di prima quello che ora cinguettava invisibile tra le foglie. Daniele si sedette ai piedi di un olivo e si tirò su il bavero del giaccone. Un debole vento fresco stava ravvivando il verde tutto intorno a lui. Appoggiò la schiena al tronco. Quanti alberi dovevano essere stati abbattuti per fabbricare tutta quella carta che lui da anni riduceva in briciole?
* * *
Ico indugiava a infilare la moneta nella macchina del caffè, e con la coda dell’occhio teneva sotto controllo la porta dei Pinguini. In genere a quell’ora facevano una pausa, ma da giorni non riusciva a beccarli. Si appostava nel corridoio in attesa che arrivassero, loro, però, dovevano aver imparato i suoi orari di pausa. Per il momento c’erano solo lui, Daniele, la cravatta avvinghiata all’attaccapanni e la macchina del caffè.
«Tu guarda se si decidono a venire fuori… ma quanto ci mette questo bidone a pisciare un caffè! Su, forza, che ho da fare!»
Sghignazzava sottovoce lanciando occhiate alla porta dei Pinguini. Preso il bicchierino, rimase immobile come chi aspetta un brindisi.
«Ottimo ’sto caffè!»
Poi, ammiccando, invitò inutilmente Daniele a fare come lui: camminare da fermo nel corridoio. Prima forte, poi più piano, scandendo con la mano libera la ritmica dei finti passi.
Quella messinscena si spense nel nulla. Guardò di nuovo la porta e tese l’orecchio… niente.
Il bicchiere di plastica volò nel cestino dei rifiuti. Non lo aveva nemmeno bevuto, quel caffè, forse perché colpevole di non aver stanato i Pinguini. Infilò un’altra moneta nella macchina.
«Allora, cos’è questa storia dell’agricoltore?»
«Olivicoltore, non agricoltore.»
«Olive, rape, peperoni… è lo stesso! Che c’entri tu con questa roba? Sei impazzito o cosa?»
A Daniele non sembrava una follia. Del resto anche il comandante gli aveva consigliato di cambiare lavoro.
«Buono quello! È fuori di testa. Ha rispolverato la divisa, che nemmeno gli va più, per girare tutti i giorni da un ufficio all’altro del ministero. Dico io: datti pace, no? Goditi la pensione e vaffanculo! Potessi andarci io, in pensione! Mi mancano ancora sei anni di questo strazio.»
Vuotò il bicchierino in un sorso. Per un attimo Daniele si era illuso che quel secondo caffè fosse destinato a lui. Ico stava nervosamente cercando le sigarette nelle tasche dell’impermeabile.
«E dài! Lo sai che il fumo arriva nella nostra stanza e Lucia…»
«… rompe i coglioni, lo so. Ma tanto quella rompe sempre i coglioni.»
In realtà Lucia era l’unica persona con la quale Ico si confidava. Quell’uomo era pieno di guai: la moglie ammalata, il figlio che a trent’anni ancora non sapeva cosa fare di se stesso. Lui, poi, lo avevano tolto dal servizio militare attivo perché si era beccato un esaurimento nervoso di quelli seri e lo avevano sbattuto a marcire negli archivi del ministero.
Ico aspirava la sigaretta con avidità. Fumava sempre troppo e troppo velocemente, come se volesse liberarsi di una fastidiosa incombenza da assolvere a ogni costo. Secondo Daniele nemmeno gli piaceva, lo faceva per rabbia.
La montatura spessa degli occhiali e la forfora che velava le lenti nascondevano il suo sguardo. Daniele lo salutò sbrigativamente lasciandolo nel corridoio a succhiarsi l’ennesima sigaretta.
Nel suo ufficio non c’era nessuno. Avrebbe voluto chiedere a Lucia un consiglio sulla faccenda dell’olivicoltore. Il registro verde era sul tavolaccio, quello nero appeso al chiodo del muro, il suo, il rosso, sul davanzale della finestra. Registri di carta nell’era dei computer… quell’ufficio era tutto un controsenso. Adesso che era vuoto, poi, sembrava la sagrestia di una chiesa di paese sconsacrata da anni. Avevano abbandonato i registri dei matrimoni, delle nascite e dei funerali. Tanto quell’angolo di mondo era finito, lì nessuno più si sposava, nasceva o moriva. Solo la mangiacarte dava segni di vita lampeggiando impaziente col suo ombelico luminoso.
Stava per chiederlo alla mangiacarte cosa ne pensasse dei suoi progetti di olivicoltore, ma si trattenne. Decise che era arrivato il momento di andare a cercare Lucia. Attraversò il corridoio, ma trovò solo la cravatta impiccata all’attaccapanni. Non rimaneva che provare nell’ultima stanza, quella del sancta sanctorum: il magazzino.
Ogni volta che digitava il codice sul display, si meravigliava che il moderno congegno di sblocco della porta funzionasse davvero. Pareva impossibile che in quella sgangherata fabbrica di coriandoli ci fosse tanta attenzione alla sicurezza. C’era anche il monitor delle telecamere di sorveglianza nella guardiola di Mario, che però ci metteva davanti un televisore sintonizzato su un canale di quiz. L’impero stava crollando. Il soldato di guardia al confine con la terra dei barbari, ritto sulla torre con scudo, elmo e lancia a proteggere il sonno dei suoi compagni, sarebbe scappato al primo assalto senza neppure combattere.
La porta si sbloccò con uno scatto secco ingoiandolo in quello che gli era sempre sembrato lo scuro ventre di una balena. Da anni il magazzino fungeva da deposito ai detriti cartacei più o meno riservati della burocrazia nazionale. Stavolta, però, non c’erano cartelline pronte per il patibolo. Spiccava nella penombra, in fondo, lo scrittoio illuminato da una lampada. Lucia era seduta a esaminare dei fogli. Daniele si avvicinò per distinguere meglio la sua voce distorta dal rimbombo da caverna.
«Da tre giorni non arriva più un fascicolo, una busta, un pezzo di carta qualsiasi. Eppure dagli elenchi di Ico risulta che ne dovevano mandare, di roba.»
Inutile cercare una sedia, lì dentro. L’unica disponibile la occupava lei.
«Il comandante non firma più le bolle di consegna e i corrieri tornano indietro. Nessuna firma, nessuna consegna. Meglio, così lavoriamo di meno.»
Per nulla soddisfatta del chiarimento di Daniele, Lucia continuò a spulciare gli elenchi.
«Non è solo questo. È che ormai non hanno più bisogno di noi. Quello che doveva sparire è sparito, il resto è finito nei computer, così lo possono cambiare quando e come vogliono.»
Ma non c’era proprio niente su cui sedersi? Una cassa vuota abbandonata accanto allo scrittoio. Era leggera, spostarla fu facile. Lucia lasciò cadere gli elenchi, tolse gli occhiali e si prese il volto tra le mani tendendo verso i lati la pelle del viso. Guance e occhi erano tanto tirati verso l’alto da ringiovanirla. Così doveva essere stata da ragazza, con quei grandi occhi neri dal taglio orientale, gli zigomi sfuggenti, l’espressione di curiosità per il mondo e i suoi abitanti.
«Fra poco lo chiuderanno, questo posto, ne sono sicura, e tu, io e Ico ci perderemo di vista. All’inizio, magari, ci vedremo per i fatti nostri, ogni tanto. Poi ognuno ha i suoi casini, allora ci sentiremo per telefono, ma più di rado. Speravo… mi ero illusa che saremmo rimasti insieme per sempre.»
Daniele la ascoltava con una smorfia di dubbio.
«Non fare quella faccia. Le illusioni servono, sono indispensabili. Ognuno ha la sua: la famiglia, i figli, l’amore, il successo, le lotterie, la fede in qualcosa o in qualcuno… senza nemmeno un’illusione vivi male. Prima o poi arrivi a vedere il mondo come un gigantesco sasso calciato nell’universo che per puro caso si è riempito di vita.»
Il tono di Lucia era insolitamente amaro. Forse perché il ventre di una balena ti tiene prigioniero e non ispira ottimismo, ma per vincere la paura ti fa parlare.
«Lo so, possono anche essere pericolose, le illusioni. Bisogna saperle scegliere bene. Mia madre mi raccontava di aver trascorso un’intera settimana a cucire bandierine. Insieme alle sue amiche era alle prese con aghi e fili, mentre uno studente che abitava nel palazzo portava loro stoffa colorata e biscotti. In quei giorni tutta Roma cuciva bandiere. Bisognava farlo, per esporle a ogni balcone e a ogni finestra, in occasione del grande evento. Si riunivano le famiglie, gli amici, i vicini per aiutarsi a fabbricare le bandierine. Tutti insieme, in allegria, come in una festa.»
S’interruppe per sorridere.
«Lo studente dei biscotti poi divenne mio padre, pensa tu. Il gran giorno finalmente arrivò e loro due si ritrovarono a correre da una strada all’altra per non perdersi nemmeno un istante del corteo di auto.»
«Che giorno era?»
Lucia lo guardò sorniona.
«Era il giorno della visita di Hitler a Roma. Tutti erano euforici, e chi non lo era rimaneva nascosto in casa. Ma mia madre aveva sedici anni, che ne poteva sapere di quello che sarebbe successo? Come gli altri era convinta di andare incontro a un avvenire glorioso. Le illusioni fanno presto a trasformarsi in incubi, bisogna stare attenti. Inventati una strabiliante illusione e milioni di persone ti seguiranno invasate per rifondare un impero scomparso da millenni, far rinascere una razza eletta mai esistita, risistemare il mondo con un nuovo dio o un’altra ideologia. Gli uomini sanno che sono sogni, chimere, ma ne hanno un bisogno assoluto. Altrimenti dentro di loro, quando sono troppo tristi, trovano solo il vuoto.»
Le mani abbandonarono il volto restituendogli la sua vera età.
A Daniele non piaceva che facesse quei discorsi. Per lui Lucia era l’immagine della vitalità. Era lei che mandava avanti l’ufficio, era lei l’unica a conoscerne tutti i meccanismi. Riusciva a salvarti una giornata con una parola, uno sguardo, un sorriso. Ora, invece… Forse solo nel ventre della balena era se stessa. Magari una volta uscita da lì sarebbe tornata quella di sempre.
«Avrei bisogno di una bella sigaretta, ma tu non fumi. Ico certamente ne ha. Però, con tutte le prediche che gli faccio sul fumo, non posso certo chiedergliela.»
Una sigaretta? Lucia? Intercettò il mio sguardo perplesso.
«Fumo, sì, fumo da quando ero ragazzina. Non lo sa nessuno, ho sempre fumato di nascosto. Quando ero giovane per non farmi vedere dai miei genitori, poi dall’allenatore. Per forza: non è che le sigarette aiutino a vincere le corse. Da adulta l’ho nascosto a mio marito perché avevo faticato non poco a farlo smettere di fumare, e infine a mia figlia, per non darle il cattivo esempio. Me ne concedo due o tre al giorno, non di più, chiusa nel bagno, ferma a un angolo di strada, sul balcone. Non te l’aspettavi, vero? Lucia è saggia, Lucia non può fumare, nemmeno un paio di sigarette al giorno.»
«Certo che puoi, solo che…»
«Solo che non rientra nell’illusione Lucia. E il fumo non è stata la mia unica debolezza. Ma di questo non voglio parlare.»
Seguì con lo sguardo un fantasma che attraversava lento il fondo del magazzino. Anche loro due in quel momento erano fantasmi, pallidi simulacri di quel che erano stati prima di incontrarsi nel ventre della balena.
Cosa poteva chiedere a quella Lucia tetra e pessimista? Se faceva bene a lasciare quell’assurdo lavoro per mettersi a fare l’olivicoltore? Gli avrebbe risposto certamente di no. Si alzò sussurrando un saluto.
E adesso, dopo aver riesumato il suo vecchio portatile per cercare su internet tutto ciò che riguardava l’olivicoltura, a chi avrebbe potuto chiedere un consiglio? Perché il punto era proprio quello: aveva bisogno di chiedere a un essere umano e non a un monitor.
In fondo al corridoio l’Elfo spiccava su tutti per via dell’altezza. Come gli altri alzava e abbassava la testa seguendo l’indice di Ico. Chissà cosa s’era inventato stavolta per prenderli per il culo. Non lo voleva nemmeno sapere. Superò il gruppetto a passo svelto sentendosi sul collo lo sguardo interrogativo del collega.
Uscì nel piazzale. La guardiola di Mario era vuota. Pure lui in quei giorni non era mai al suo posto. Benissimo. Il comandante non c’era, il guardiano neppure, Lucia era depressa, Ico cazzeggiava con i Pinguini, la mangiacarte era ferma perché di lavoro non ne aveva più, e lui costeggiava il muro esterno dell’ufficio in cerca di qualcuno a cui chiedere consiglio.
Almeno si fosse deciso a piovere! Amava la pioggia. L’acqua normalmente se ne sta distesa nei fiumi, incastrata nei laghi, appoggiata sul mare, ma era straordinaria quando cadeva dal cielo. Invece stavolta un denso manto di nuvole se la teneva ben stretta.
Seguendo il tunnel grigio di asfalto, muri e cielo arrivò alla gabbia dei cani di Mario, non lontana dal suo gabbiotto. Neri i dobermann, blu e gialla la tuta del guardiano: un po’ di colori, andava già meglio. Tuono e Fulmine erano seduti buoni buoni a osservare il padrone. A Daniele dedicarono un unico, sincrono sguardo. Strano, in genere si avventavano contro la rete mostrando denti troppo lunghi per musi così affilati. Tuono e Fulmine non erano certo nomi originali, ma d’altra parte Mario non andava famoso per la fantasia. Era poco più in là, chino sul suo orticello. Qualche volta Mario gli aveva venduto pomodori, insalata e altri ortaggi di stagione. Eccezionali, nulla a che vedere con quelli comprati al supermercato. Profumati, saporiti e fragranti come mai Daniele avrebbe sospettato.
L’olio glielo procurava Biagio, la frutta Nanni. Era tutta roba che producevano anche per se stessi, senza usare schifezze chimiche. Del cibo non poteva certo lamentarsi, lì almeno si mangiava sano. Spesso portava a Francesco quei cibi genuini, che il figlio sembrava apprezzare molto. Figurarsi… che poteva farsene un bambino di buste di insalata e pomodori?
Tanto valeva tornare a casa e lasciare che quella banda di matti se la sbrigasse da sé. Invece doveva rimanere: il lavoro, per quanto assurdo, è pur sempre lavoro. Poco male, su al paese non succedeva mai niente di nuovo. Ormai aveva imparato come andavano le cose: sempre allo stesso modo. A maggio e giugno i trattori trascinavano stancamente i bidoni con i pesticidi da dare alle piante, la “medicina”, come la chiamavano loro. Qualcuno ne usava troppa, infischiandosene delle dosi riportate sui contenitori, rischiando così di ammorbare terra e aria. Molti non davano nulla alle loro piante o si limitavano a irrorare gli olivi con la poltiglia bordolese, un rimedio meno aggressivo. Bisognava darla prima della fioritura. A luglio spargevano il concime, facevano prendere aria alla terra con le zappe e nelle giornate più afose innaffiavano. Agosto era dedicato alla spollonatura, l’eliminazione di quegli spuntoni legnosi che venivano su prepotenti dalle radici e dalla corteccia. A settembre iniziavano a riparare le reti da stendere sotto gli alberi per raccogliere le olive e lavavano le cassette che le dovevano contenere. Da novembre a gennaio si faceva la raccolta, poi veniva il tempo della potatura, quindi arrivava la primavera e si ricominciava daccapo.
Scartando i cani, non rimaneva che chiedere a Mario. Era un rituale, quello della richiesta di consigli: gli serviva a chiarire con se stesso cosa volesse davvero. Però, in fin dei conti, uno che aveva un orto, di campagna ne doveva pur capire qualcosa, no?
* * *
Dalla strada arrivava l’irregolare risacca delle auto. Barbara nemmeno l’avvertiva più: per lei era soltanto una delle voci amiche della città, come i clacson, che le ricordavano di non essere da sola. Addirittura le sirene, quando squarciavano l’aria, riuscivano a essere rassicuranti, testimoniando che qualcuno si sarebbe occupato di lei anche in caso di estremo bisogno. Persino gli sbuffi del camion della spazzatura in piena notte non erano un fastidio, ma la conferma che tutto andava come sempre.
Quello che invece proprio non le piaceva era vedere che nessuno si affacciava alla finestra o usciva sul balcone. O tutti avevano sempre da fare, oppure nessuno s’interessava di cosa stesse accadendo oltre le mura di casa.
Uscì sul terrazzo. Niente, balconi e finestre deserti.
Giù, il solito anello punteggiato di auto, satelliti artificiali catturati dalla gravità del centro della piazza. Ogni tanto qualcuna riusciva a sfuggire alla forza di attrazione, ma subito veniva sostituita da un’altra. Un moto circolare dettato dalle leggi di fisica e dal traffico cittadino, che solo a tarda sera iniziava a sgranarsi, fino a spegnersi nella notte.
Faceva freddo. Barbara rientrò accompagnata dal rumore dei tacchi sul parquet. Ma perché i tacchi in casa? Stava diventando come Daniele, sempre pronto ad andare via. Si lasciò cadere sul divano. Tra poco più di un’ora sarebbe dovuta andare a prendere Francesco in piscina. Lo aveva iscritto a un corso perché imparasse a nuotare bene, ma soprattutto per tenerlo lontano dai vari computer, smartphone, videogiochi. A preoccuparla di più non era il tempo che il figlio passava davanti a un monitor – questo ormai lo facevano tutti i bambini –, ma il fatto che le pagine web, le trasmissioni televisive che guardava, e persino i videogiochi, si basavano su matematica e scienze, tutte le scienze, dalla biologia all’astronomia. Una volta, dopo aver visto un documentario per ragazzi sull’origine dell’universo e la velocità della luce, aveva fatto al computer uno strano disegno, coloratissimo, una serie di fantasmagoriche esplosioni su uno sfondo nero. A Barbara era piaciuto molto e gli aveva chiesto cosa rappresentasse. Lui, senza distogliere lo sguardo dal computer, le aveva risposto che il tempo in realtà era solo un lampo, stiracchiato per miliardi di anni da un universo che doveva correre a una velocità tale da immobilizzare la durata di quell’attimo. Un minimo rallentamento avrebbe spento per sempre quell’istante iniziale oscurando ogni cosa, mentre tanti altri lampi avrebbero continuato a esplodere dando vita a infiniti universi, in un continuo gioco di fuochi artificiali.
Francesco era anche capace di fare a mente calcoli complicati. Socchiudeva gli occhi mentre le manine sembravano spostare invisibili colonne di numeri. Il risultato era sempre esatto. A lei, però, tutto questo non sembrava normale. Le maestre, entusiaste, le ripetevano che il bambino era un piccolo genio della matematica, ma quelle vedevano la cosa dal loro punto di vista.
Uno psicologo l’aveva rassicurata: non c’era nulla di preoccupante, almeno non per il momento. Piuttosto aveva chiesto di lei, dei suoi rapporti sentimentali, di Daniele… insomma, caso mai il problema non era nel bambino, ma nei genitori. Il fatto era che a Francesco mancava una famiglia. Anzi, forse ne aveva troppe. Da quando si era lasciata con Daniele, di compagni, bella e giovane com’era, ne aveva avuti diversi. In genere aveva cercato di tenere suo figlio fuori dalle sue storie, ma non sempre era stato possibile.
«Voglio andare per un po’ a casa di mio padre.»
Aveva detto proprio “padre”, non “Daniele” o “papà”. Il tono non era quello del capriccio di un bambino; al contrario, aveva l’autorevolezza di una richiesta meditata a lungo, tanto da essere ormai ineludibile.
Fino a quel momento Barbara aveva creduto che Francesco si fosse abituato ad avere un padre sfuggente, confuso tra i tanti che lei gli aveva proposto. Invece non era così. Il suo timore, però, era che avesse scelto il meno adatto, anche se quello naturale e legittimo. Daniele era troppo impegnato a badare a se stesso per interessarsi veramente a qualcun altro. Sì, per essere intelligente lo era, e pure bello, anche per questo se n’era innamorata. Ma soprattutto aveva qualcosa che catturava. Quel qualcosa che gli aveva consentito di farla sentire finalmente una donna. Né prima né dopo di lui era mai riuscita ad avere un vero orgasmo. Non sapeva perché, ma era così. Daniele le aveva detto di non avere nessuna speciale abilità di amante, ma che era stata lei a consentirgli di superare la barriera delle sue resistenze. Forse era vero: ma allora perché non aveva mai più consentito a nessuno di oltrepassare quella barriera?
La luce piatta del pomeriggio entrava dal balcone illuminando sciattamente le pareti, che all’improvviso le sembrarono troppo bianche. Doveva assolutamente comprare un quadro, il più colorato possibile. Non era vero che tutti reagissero allo stesso modo davanti a un colore. Dipendeva da tanti fattori: la capacità di coglierne le sfumature, i ricordi che quel colore evoca, il gusto personale. Daniele, una domenica mattina, mentre guardavano il figlio che sgambettava dietro una palla in un parco della città, aveva indicato il cielo oltre le foglie di un albero e le aveva detto che il verde e l’azzurro non stavano bene insieme, stonavano. Era come dire che il pianeta era dipinto male. Nemmeno fosse stato un alieno capitato sulla terra. E quali accostamenti di tinte avrebbe preferito? Magari nessuno. Magari avrebbe preferito un mondo più cromaticamente ordinato in bianco e nero, com’era il suo in certe giornate ingrigite dal pessimismo, nelle quali si chiudeva sotto un’invisibile cappa. Invece a Barbara un bel colore per strada o indosso a qualcuno mitigava anche il più nero dei giorni.
Da qualche parte dovevano esserci le sigarette, chissà dove le aveva messe. Quell’improvvisa voglia di fumare le era venuta per non ammettere che in pratica stava facendo la stessa vita della madre, riservando a Francesco il destino che era toccato in sorte a lei. Come sua madre, era alla continua ricerca di qualcuno che la facesse sentire se stessa, dimenticandosi troppo spesso di avere un figlio. Strano, ma a volte da adulti si finisce per fare gli stessi errori di cui siamo stati vittime da piccoli. Per lei le famiglie erano fatte apposta per frantumarsi il più presto possibile, tranne quella di Daniele. Eppure lui ci si era sempre sentito un prigioniero ammalato. La sua era una malattia antica e senza nome. Per Barbara era causata dalla cappa invisibile che lo divideva dal resto del mondo impedendogli di percepire appieno colori, suoni, sentimenti. Tutto gli arrivava attutito, come proveniente da un lontano universo gemello. Anche il padre soffriva dello stesso male, e forse anche i suoi antenati, di cui aveva sentito parlare dalla moglie del generale. Aveva capito che in quella famiglia da generazioni erano alla ricerca di qualcosa di assoluto e grandioso che riscattasse la loro inquieta condizione di semplici mortali. Vivevano come se si sentissero obbligati a portare a termine strabilianti imprese da consegnare ai posteri, ma poiché ogni vita ha un tempo limitato, si illudevano di allungarlo con un tacito patto affidato al sangue, consegnando il compito alle generazioni successive. Daniele aveva rinunciato a tutto ciò, ma forse sentiva questa scelta come un debito non onorato, una colpa che gli impediva di vivere il suo tempo decentemente. Diceva che le strane storie della sua famiglia lo interessavano poco; però, quando aspettavano Francesco, aveva proposto di chiamare il bambino Gualtiero, come il leggendario antenato. Lei lo aveva escluso: dove stava scritto che uno, per meritarsi di vivere, dovesse avere delle capacità particolari? C’era poco da fare: per Barbara l’essere umano era troppo limitato, e se anche riusciva a diventare il migliore in un determinato campo, per il resto rischiava di eccellere soltanto in vanità ed egoismo.
Tra loro due all’inizio era andato tutto bene: lei riusciva a tenerlo legato al suo tempo e lui riusciva a viverlo pienamente, ma poi era arrivato Francesco. Barbara si era sentita investita del ruolo di madre, mentre Daniele, dopo la morte del generale, era scivolato in una cupa depressione. Per forza il loro rapporto aveva cominciato a deteriorarsi: giorno dopo giorno lei gli donava i suoi colori, che lui assorbiva come un’insaziabile spugna, ma intanto si vedeva sempre più sbiadita, fino a non riconoscersi in quello spettro che la guardava deluso dallo specchio.
Il balcone era rimasto aperto e le tende svolazzavano verso l’interno diffondendo il freddo nella stanza. Avrebbe dovuto alzarsi per chiuderlo, invece si rincantucciò sul divano. Il telecomando dello stereo era in bilico sul bracciolo. Lo lasciò lì dov’era, limitandosi a premere un tasto. Le note della Scozzese, la Sinfonia numero 3 di Mendelssohn, iniziarono a mescolarsi all’aria fredda.
Daniele, ne era certa, non avrebbe mai immaginato che lei ascoltasse anche la musica classica. Tutto sommato l’aveva sempre giudicata una donna carina, divertente, ma leggera leggera. Non poteva sapere che la musica la riconciliava con il mondo. Quei suoni sbattevano in faccia al creato la capacità degli uomini di strappare all’universo una piccola parte del suo misterioso linguaggio.
Chissà se Daniele aveva mai sospettato che anche questi erano i pensieri di Barbara. Non glieli aveva mai confidati, e lui non si era mai preoccupato di conoscerli. La loro storia era destinata a finire sin dall’inizio.
Lasciato Daniele, però, non aveva passato nemmeno una giornata senza pensare a lui. Forse perché era il padre di suo figlio o forse perché era l’unico uomo che, almeno per un po’, era riuscito a farla sentire donna. In ogni caso ultimamente le sembrava cambiato. Aveva la sensazione che si stesse risvegliando dal suo lunghissimo sogno in bianco e nero.
Il freddo era davvero troppo. Si alzò decisa per chiudere il balcone. Prima di andare a prendere Francesco sarebbe passata all’agenzia, anche se non ce n’era bisogno. Aveva fatto bene ad assumere Marilena, quella ragazza era bravissima. Del resto non aveva mai sbagliato nella scelta dei suoi collaboratori. Con gli uomini, invece, le scelte quasi mai si erano rivelate felici, e se qualche volta lo erano state, se n’era accorta troppo tardi. Ma a questo si poteva sempre rimediare. Forse.