Ico e i Pinguini

Di tanto in tanto i tre figli maschi di Gualtiero sentivano il bisogno di riconoscersi come fratelli. In genere ognuno era preso dai propri studi o dai passatempi preferiti, ragazze comprese. Si dedicavano poco l’uno all’altro, e nessuno di loro badava molto alla più piccola della famiglia, Adelina, che finiva per passare le giornate con la madre o affacciata alla finestra della sua stanza. Del resto il grande appartamento in città consentiva una convivenza all’insegna della discrezione: fin da piccoli ognuno aveva sempre avuto la sua camera dove dormire, studiare, leggere o oziare. Il salone grande era destinato alle ricorrenze speciali, quello più piccolo ai quotidiani appuntamenti di pranzo e cena, ai quali Gualtiero pretendeva fosse presente tutta la famiglia, specialmente la moglie. La signora Tecla, però, lasciava malvolentieri la sua stanza di lettura, nella quale trascorreva gran parte del giorno sui libri o a ricamare in compagnia di Adelina, e dove spesso s’intratteneva con gli altri figli in lunghe conversazioni. Li riceveva come se andassero a farle visita nel suo personale mondo, diverso da quello in cui tutti loro vivevano.

Se il professore era all’università, i tre fratelli condividevano lo studio paterno per consultare la biblioteca di famiglia, ma quell’ambiente austero non li spingeva a chiacchierare o scherzare tra loro. Quando volevano sentirsi davvero fratelli, si inventavano qualcosa da fare insieme. Fuori casa, però.

Quella mattina di giugno il mare era calmo, azzurro. Ernesto aveva invitato Daniele e Gabriele a fare un giro in barca nel golfo. Per lui, iscritto al circolo dei canottieri, era un gioco manovrare quella snella barca di legno leggero. Stavolta, però, era stranamente taciturno. Remava con ritmo regolare girandosi ogni tanto all’indietro come per controllare quanto fosse distante il Vesuvio, che con la sua potente mole sbarrava la baia. I fratelli si erano seduti di fronte sulla panchetta di poppa. La costa ormai era abbastanza distante, ma ancora nessuno parlava. Fu Daniele a rompere il silenzio.

«Se dovevamo starcene zitti, potevamo rimanere a casa a studiare.»

Gabriele abbassò la testa. Non era stata sua l’idea della gita in barca, toccava a Ernesto rispondere. E poco dopo il fratello, senza interrompere la voga, si rivolse a Daniele con durezza.

«Non sei capace di apprezzare il silenzio. Devi sempre riempirti di parole da dire, ascoltare o scrivere. Ma quando troverai un po’ di pace?»

«Io sono in pace, sempre.»

«Come no? Si vede benissimo, anche adesso…»

«E smettetela voi due! Siamo venuti per distrarci un po’ e subito cominciate a litigare!» sbottò Gabriele, il terzo dei figli di Gualtiero, certamente il più calmo e riflessivo. Sentiva che Ernesto li aveva portati in mezzo al mare per qualche motivo particolare, fin dall’inizio era apparso strano. In genere, quando uscivano insieme, era lui che contagiava con la sua allegria; ora, invece, sembrava triste e cupo quasi quanto lo era di solito Daniele.

Un piroscafo solcava l’orizzonte verso est e anneriva il cielo con la sua nuvola di vapori. Ernesto soppesò la rotta della nave stabilendo che era diretta all’isola di Ischia.

«Chissà se anche quest’estate papà vorrà portarci alla villa. Spero proprio di no: la campagna mi annoia, preferirei di gran lunga…»

Sicuramente non di questo Ernesto voleva parlare. Gabriele lo interruppe.

«Mamma non glielo permetterà, stavolta ha deciso che almeno a luglio andremo al mare, come due anni fa. Riuscirà a spuntarla con la buona motivazione che sfruttiamo troppo poco la villetta di Ischia.»

Ernesto lasciò che fossero i sapienti colpi dei remi nell’acqua a continuare la conversazione. Scrutava davanti a sé, oltre i fratelli, che distribuivano gli sguardi tutt’intorno, preoccupati del suo silenzio. Li ignorava cercando di scorgere sulla costa qualche particolare della città, ma non riusciva a distinguere nulla di familiare. Ormai ogni cosa gli appariva straniera in quel golfo che pure lo aveva visto nascere. Anche quei due seduti a poppa gli sembrarono dei perfetti sconosciuti capitati chissà come sulla sua barca. Avrebbe fatto meglio a non portarli con sé, il viaggio sarebbe stato lunghissimo. C’era da attraversare il Mediterraneo per raggiungere Gibilterra e, una volta arrivati lì, proseguire oltre, fino a New York. Remata dopo remata. Fossero stati ancora bambini lo avrebbero certamente seguito, come avevano sempre fatto in ogni gioco, perché, anche se li separavano uno e due anni, era pur sempre il fratello maggiore. Ma lui adesso di anni ne aveva ventiquattro, e anche loro erano cresciuti, avrebbero trovato folle quel viaggio. Diede un colpo di remi talmente forte che si ritrovò quasi sdraiato sulla barca, poi cominciò:

«La settimana prossima parto per l’America. Ho già il biglietto della nave e dei contatti con un’università di New York.»

Daniele accavallò le gambe e ci appoggiò i gomiti per meglio ammortizzare il beccheggio della barca.

«Bene. E cosa farai? Insegnerai latino a mandriani e pellerossa? E ti sei laureato col massimo dei voti, hai pubblicato una mezza dozzina di saggi per fare questo? Davvero geniale.»

«Sei pieno di pregiudizi. Mandriani e pellerossa… laggiù il mondo sta concentrando tutto quanto di buono e di cattivo, di saggio e di folle, di giusto e sbagliato che ha. Non hai la minima idea di cosa sia, e soprattutto di cosa sarà l’America.»

«Già, dimenticavo, tu sai sempre tutto. Io, invece, come il buon Socrate, so di non sapere, e lui, proprio per questa sua massima, era considerato il più saggio dei Greci. Che dici, Gabriele, ci sarà un Socrate in America?»

Gabriele non aveva voglia di scherzare, ma di capire.

«Mamma e papà lo sanno?»

«Lo sapranno. In ogni caso ho già deciso. Qui ormai mi sento uno straniero.»

«Anche con noi?

Un remo si piantò nell’acqua per rendere più agevole la virata. Quando la prua puntò la città, i due remi ripresero a lavorare insieme cercando di riempire il silenzio.

Gabriele e Daniele sapevano che il fratello, una volta presa una decisione, non tornava mai sui suoi passi. Sarebbe partito, lasciandoli da soli nell’enorme casa dove ognuno aveva le sue stanze, i suoi spazi, la sua solitudine.

* * *

Soltanto alla macchina del caffè capitava di incontrare qualcuno dei cinque giovani che occupavano la stanza di fronte alla loro. Sempre impettiti, in completo nero, camicia bianca e cravatta: i Pinguini li aveva battezzati Lucia. In genere lei e Daniele si limitavano a salutarli, invece l’Iconoclasta a ogni occasione li metteva in croce. Anche stavolta non voleva mollarlo, quel Pinguino alto, pallido, biondo, in attesa del suo caffè. Ico lo chiamava l’Elfo, ed era la sua vittima preferita.

«Insomma, cosa combinate tutto il giorno nel vostro stanzone? Siamo colleghi, no? A noi puoi dirlo.»

Alla parola “colleghi” l’Elfo aveva sorriso imbarazzato continuando a guardare impaziente la macchina del caffè, poi Lucia e infine Daniele.

«Si sa quello che facciamo: trasferiamo su computer i documenti che voi poi eliminate.»

«Questa è la versione ufficiale, ma in realtà cosa fate nascosti lì dentro?»

«Riclassifichiamo documenti, li cataloghiamo… a volte, se necessario, facciamo delle analisi per stabilirne con certezza la provenienza…»

«Analisi? Devo farne diverse: colesterolo, glicemia, globuli rossi, bianchi, verdi, gialli…»

«Ico! E basta!»

A Lucia non piaceva quando l’Iconoclasta faceva il cattivo, ma lui cattivo lo era davvero, anche se solo per principio. La prima volta che aveva incontrato Daniele lo aveva squadrato severo. Era così che guardava gli altri, come se volesse ricordare alle loro coscienze il peccato originale di essere venuti al mondo. La testa china da un lato, lo sguardo sprofondato dentro gli occhiali con la spessa montatura nera, non diceva niente, guardava e basta. I capelli grigi formavano un’unica massa con la barba, che lasciava scoperti solo il naso e gli occhiali. Trasandato perché stanco di essere stanco, Ico non si occupava molto della sua persona. Preferiva non tagliare quasi mai capelli e barba, e le sue unghie erano sempre sottolineate da falci di luna scure. Da ottobre ad aprile copriva vestiti lisi e sgualciti con un impermeabile che in origine doveva essere stato beige. Da aprile a ottobre, invece, era una sahariana, provvidenzialmente nera, a celare camicie e pantaloni sempre consunti, ma più leggeri. Lucia l’aveva battezzato l’Iconoclasta per via di quell’aria allucinata da fanatico religioso, ma poi, conoscendolo meglio, aveva optato per il diminutivo Ico. Per lui andava benissimo, per lui andava bene tutto, anche se, solo per il gusto della polemica, dava sempre a intendere il contrario. In realtà qualsiasi cosa gli scivolava addosso lasciando aloni di unto sui vestiti, e quel che proprio non poteva filare via si annodava nella barba. Nulla lo scuoteva più di tanto, tranne i Pinguini. L’Elfo, poi, era insopportabilmente cortese. Ico era magro come lui ma basso, gracile, con quelle spalle che gli cascavano di dosso insieme all’impermeabile. Odiava i Pinguini perché prima del loro arrivo era lui il mago del computer. Nevrotico com’era, riusciva a registrare con precisione maniacale i faldoni in arrivo, le quantità di coriandoli che producevano e persino i tempi di lavoro. Il comandante gli aveva affidato la posta elettronica dell’ufficio insieme a qualsiasi altra faccenda riguardasse internet. Nei Pinguini aveva creduto di trovare dei colleghi esperti in informatica come lui con i quali confrontarsi, ma loro lo avevano snobbato, ritenendo le sue competenze in materia troppo datate. Anzi, le avevano definite “domestiche”, poco adatte al lavoro.

Finalmente l’Elfo ebbe il caffè e sparì dietro la porta del suo ufficio.

«Poveri stronzi, si sentono dei padreterni. Soldatini in borghese da quattro soldi. Riclassificano, fanno analisi… Macché! Stanno chiusi lì dentro a giocare con internet. Esplorano e inventano siti, controllano mail, si inseriscono in gruppi di discussione per orientarli. Se serve, distorcono qualche verità scomoda inventando false notizie, calunnie, balle da mettere in rete. Non hanno ancora capito che, pur essendo militari, se sono qui dentro è perché li hanno destinati a una carriera di merda. Li fanno lavorare su robetta: dossier per screditare questo o quello, depistare qualche indagine imbarazzante, sostenere o distruggere qualcuno o qualcosa. Le menzogne serie si fabbricano chissà dove, mischiando un po’ di verità a tonnellate di bugie, fino a quando ciò che era vero diventa falso e viceversa. Per quei lavori, però, ci vogliono veri specialisti, loro sono soltanto dei poveri stronzi.»

«Non puoi sentenziare sempre su tutto e tutti! Certe volte sei insopportabile!»

Lucia tornò nella sua stanza senza nemmeno prendere il caffè. L’Iconoclasta la guardò andar via con indifferenza. Estrasse dalla tasca un malconcio pacchetto di sigarette e se ne accese una, anche se lì non si poteva. Persino il comandante ogni tanto andava a fumare. Ico, invece, fumava dovunque. Quando apriva la porta della sua stanza ne usciva una nuvolaglia che si portava appresso appiccicata agli abiti, puzzava di fumo in maniera intollerabile. Lucia e Daniele non ci facevano più caso, anche perché quel loro strano lavoro li aveva abituati a non fare caso a nulla.

La pausa era finita, ma ce ne sarebbero state altre prima della fine della giornata. Già alla prossima Lucia e Ico si sarebbero rappacificati. Dalla stanza di Daniele arrivava il tutump-tutump di un meccanismo lento. Che strano, ormai non lo sentiva quasi più, il rumore della vecchia mangiacarte che ora lo stava richiamando al dovere.

Il suo tavolo da lavoro gli si rivelò all’improvviso come una specie di altare pagano dove attendevano di essere sacrificate pile e pile di fogli. Il secchio di plastica grigia gli faceva l’occhiolino da sotto il tavolo, ma lui rimaneva immobile ad ascoltare il ticchettio dei tacchi di Lucia. Com’era finito lì dentro? E cos’è che faceva? Eliminava vecchie scartoffie segnate da qualche traccia di verità. Assurdo… e pensare che tutto era iniziato anni prima con una marea di faldoni abbandonati in una stradina romana. Li avevano trovati una mattina riversi sul marciapiede, con le bocche spalancate a vomitare carte. Documenti riservati alla mercé di chiunque. Visti i timbri di ministeri e forze dell’ordine, gli spazzini avevano chiamato la polizia, che era arrivata insieme ai fotografi dei giornali. Quel mucchio di carte era stato presidiato per un paio di giorni da agenti in divisa. Non si capiva da dove venissero, chi li avesse scaricati lì e perché. Probabilmente una disputa tra uffici riservati, un rimpallarsi responsabilità e competenze, fino a quando qualcuno si era stufato e aveva voluto mettere letteralmente la questione in piazza. Dopo quella volta si erano decisi ad attrezzare in fretta dei centri per la distruzione dei vecchi documenti, e Daniele era stato tolto dagli archivi per essere destinato a quel nuovo, ancor più noioso lavoro. Proprio il comandante l’aveva voluto nella sua squadra, non ne poteva più di vedere il figlio del suo generale aggirarsi tra i polverosi scaffali dell’archivio. Credeva davvero si trattasse di una missione delicata che avrebbe accelerato la carriera di tutti.

Mesi e anni si erano duplicati uno con l’altro. Mai nulla di nuovo nei vecchi uffici in città affacciati sul fiume. Lucia e Ico erano i colleghi anziani, lui il ragazzo del gruppo. Poi avevano trasferito la sede vicino alla collina degli olivi, ma per il resto non era cambiato niente. Meglio non pensarci e riprendere a lavorare.

Il primo faldone aveva un’insolita copertina color crema, il dorso verde prato e i lacci marroni. Sembrava provenire da un archivio privato più che da un deposito ministeriale. Sulla copertina il titolo era scritto in bella grafia: “Solo 1964”. “Solo”? E gli altri anni che fine avevano fatto?

«Allora, Daniele, me li dai gli scarti di verità di questo porco mondo?»

Nessuno gli badò più di tanto e Ico rimase sulla soglia con in faccia un ghigno che avrebbe dovuto essere un sorriso.

«Sentite: adesso prendo il secchio e il serbatoio della mangiacarte, li vado a svuotare, li riporto e andiamo a pranzo. Ma non in pizzeria, oggi andiamo dal cinese!»

Lucia assentì con compiaciuta sufficienza. Il cinese era il suo ristorante preferito tra i tanti del centro commerciale, ma il più detestato da Ico. Ogni giorno pranzavano in quel mastodonte del consumo piazzato fuori dalla città. A Daniele sembrava un immenso mausoleo perennemente visitato da una folla di pellegrini consumatori. Loro, invece, non andavano lì per fare acquisti, ma per pranzare. Ogni giorno, tutti e tre intorno alla stessa tavola apparecchiata, come una famiglia.

* * *

Uomini in tuta mimetica sghignazzavano e si lanciavano richiami da battaglia. Un grosso animale, più lupo che cane, si lisciava il pelo strusciandosi contro le gambe del padrone, ma con un atteggiamento prudente, come se temesse da un istante all’altro, tra una carezza e una moina, una cameratesca sberla. Il gruppetto occupava il centro della piazza, proprio sotto la statua del soldato. Radunati intorno a un pick-up irto di fucili, parevano quasi aspettare che il soldato scendesse dal piedistallo di marmo per unirsi a loro. Forse erano gli stivaloni, le tute mimetiche a far sembrare quegli uomini enormi, in ogni caso i fucili e il maiuscolo cane non promettevano niente di buono.

La mattinata della piazza era sospesa in una bolla di tempo, persino il vento evitava di disturbare i capannelli che occupavano le solite postazioni. I credenti indugiavano davanti al sagrato della chiesa, gli uomini fumavano sulla soglia del bar di Nanni, le donne si attardavano dal fruttivendolo tenendo d’occhio un nugolo di ragazzini che complottava fitto fitto intorno a un pallone.

Un cielo pallido di nuvole illuminava svogliato la pianura fino alle montagne lontane. Tra i campi verdi e marroni lavati dalle piogge spuntava qualche tetto rosso rassegnato all’arrivo di altra acqua; aspettavano tranquilli, tanto c’erano gli olivi a impedire che la collina andasse in giro per la valle a cercarsela da sé, l’acqua.

Era sabato e per Daniele niente tutump-tutump, niente fascicoli polverosi, niente caffè bruciacchiato della macchinetta, niente di tutto questo, almeno fino a lunedì. Nessuno, però, si decideva a sbloccare la mattinata. Lo fece lui, dirigendosi a passo calmo verso il gruppo in tuta mimetica. Il padrone del cane, con la barba che gli spuntava anche dal colletto della casacca, lo squadrò nel tentativo di riconoscerlo, poi ci rinunciò e diede il segnale ai cacciatori, che salirono sul pick-up. Il cane fu l’ultimo a balzare a bordo, mentre il veicolo era già in moto. Quelli seduti nel cassone rimarcavano euforici gli scossoni della strada sbranata dalla pioggia. Andavano a cercare cinghiali nei boschi poco lontani.

Spariti i cacciatori, i ragazzini iniziarono chiassosi la loro partita a pallone, mentre i fedeli, richiamati dalla campana, entrarono in chiesa per la messa. Anche il gruppo delle donne si sciolse, come ubbidendo a un tacito accordo. L’aveva sbloccata Daniele, la giornata, anche se nessuno se n’era accorto. L’avrebbe fatto comunque, perché aveva bisogno di un barbiere. Nanni gli aveva assicurato che quello vicino alla piazza era davvero bravo.

Non ci volle molto per trovarlo: era l’unico negozio in uno slargo lastricato di pietra antica occupato da una costruzione bassa senza porta. No, la porta c’era, ma priva di insegna. Entrò in un locale angusto, con un’unica poltrona di fronte allo specchio. Aveva visto altri ambienti del genere, ingabbiati nella spoglia provvisorietà di una provincia che stava diventando periferia metropolitana. Il pavimento di mattonelle beige faceva a cazzotti con un portaombrelli azzurro elettrico e una tenda gialla che copriva una parete. Nient’altro, eccezion fatta per un paio di sedie addossate al muro. Il ragazzo e il vecchio che le occupavano erano affaccendati intorno a un cestino. Alzarono lo sguardo accennando un saluto e subito ripresero a trafficare.

«Questo è buono… questo buttalo.»

«Non è buono?»

«Ti dico buttalo. Sennò tienitelo, anzi mangiatelo, così finisci all’ospedale o direttamente al cimitero.»

Il ragazzone seguiva ansioso la cernita dei funghi che il vecchio con il camice bianco selezionava con fare professionale.

«Di’ la verità, questo l’hai trovato su un legno marcio, eh?»

Un tronchetto di fungo lungo una ventina di centimetri, nero, gonfio, frastagliato dalla base alla cima. Sembrava velenoso solo a guardarlo. Il ragazzone assentì con aria colpevole.

«Mi scusi un minuto» disse il vecchio rivolgendosi a Daniele. «Sistemo questo bestione e sono da lei.»

Prese un sacchetto di carta, ci infilò dentro un po’ di funghi e lo mise nel cestino.

«Quelli nel sacchetto sono buoni, gli altri no. Comunque, se non ti fidi, portali all’ufficio sanitario. Non imparerete mai. Prendete di tutto, con avidità, senza criterio.»

Il viso del ragazzo era coperto di brufoli. Grosso, grasso e unto, chissà in quale porcile fisico e mentale sarebbe tornato a grugnire. Daniele non aveva nessuna voglia di scoprirlo. Prima di uscire il grassone ringraziò deluso.

«Aspetta! Ricordati che chi le suona, anche se grande e grosso, prima o poi le prende. Comportati bene!»

L’altro uscì con la coda bassa.

«Che ci vuole fare, sono ragazzi: cominciano con le parole e finiscono per venire alle mani. Più sono ignoranti e più sono maneschi. Quel bestione ieri sera ha pestato un ragazzino alla sala giochi. Mah… Cosa posso fare per lei? Io sono Giovanni.»

La mano tesa, il sorriso intatto, un volto giovanile.

«Avrei bisogno di tagliare i capelli.»

Il barbiere lo guardò rassicurante prima di sistemarlo sull’unica poltrona e avvolgerlo in un asciugamano fresco di bucato.

«Che taglio preferisce?»

«Faccia lei.»

Daniele si ritrovò seduto con indosso quello spropositato bavaglio bianco a chiedersi chi e perché spostasse l’identico specchio da un barbiere all’altro. Quel rettangolo splendente che gli rimandava immagini e pensieri doveva per forza essere lo stesso di sempre, altrimenti come faceva a sapere tutto di lui? Dal barbiere è diverso: non sono soltanto rapide occhiate a una faccia da radere nel bagno di casa, in fretta, appena sveglio, ma un muto dialogo con l’uomo nello specchio, che ogni volta ti chiede età, umore, sentimenti. Chiunque è costretto a pensare a se stesso, se si trova per una mezz’ora di fronte alla sua immagine. Alcuni per evitare di farlo iniziano a chiacchierare. I barbieri lo sanno, per questo hanno sempre qualche argomento pronto: lo sport, il tempo, le donne, la politica… Però quel Giovanni, intento a lavorare la testa del nuovo cliente, per il momento taceva. Finalmente ruppe il silenzio.

«Lei è nuovo del paese, vero? Mi pare di aver sentito dire che è ingegnere. O sbaglio?»

Sbagliava, ma era un modo come un altro per scoprire che lavoro facesse. Gli avevano attribuito tutti i mestieri al bar di Nanni, in piazza, dal giornalaio. Anche stavolta, come sempre, rispose con un cenno di diniego.

«Non è ingegnere? Allora di cosa si occupa?»

Quell’uomo gli ispirava fiducia.

«Sono impiegato al ministero della Difesa.»

«La Difesa!»

Il barbiere sbarrò gli occhi nello specchio e mollò le forbici saettando verso la tenda gialla, dalla quale apparve lo scheletro di quella che era stata un’insegna al neon con la scritta “Barbiere”. Non rimaneva che l’ossatura in metallo con le lettere cave, il gas illuminante doveva essere scappato via facendo esplodere la scritta.

«Vede questa? Stava sopra l’entrata. L’altro ieri sera, verso l’ora di chiusura, un ragazzaccio l’ha strappata e l’ha buttata in mezzo alla strada. “Ahò!” gli ho fatto, e quello mi si è aggrappato al collo gridando che mi ammazzava se continuavo a strillare. Poi un suo compare lo ha trascinato via. Mai visti prima, nessuno dei due.»

Per non pensarci rimise l’insegna dietro la tenda, mentre le forbici luccicavano sulla mensola nel tentativo di richiamare la sua attenzione.

«Gente di fuori, saranno stati drogati, chissà come sono capitati qui. Sono due notti che non dormo. Ogni tanto mi affaccio sulla porta per vedere se becco quel delinquente, e se lo becco è la volta buona che mi metto nei guai. Solo a pensarci mi torna il sangue alla testa. Alla mia età devo stare attento con le emozioni, non sono più un ragazzo.»

Un ragazzo no, ma l’espressione del volto fino a un minuto prima era quella contenta di un bambino alla prima recita a scuola. Riprese a far cinguettare le forbici.

«Qui una volta cose del genere non succedevano, ma ormai il male arriva dovunque. Che ci vuole fare… sono i tempi che viviamo.»

Giovanni continuò a lavorare e Daniele a chiedersi di chi fosse quel volto nello specchio che emergeva dall’asciugamano bianco.

Un giorno di molti anni prima l’asciugamano intorno al collo gli era parso un lenzuolo funebre, e il camice del suo barbiere in città quello di un medico in procinto di compiere un’autopsia. In fin dei conti, però, cos’era successo? Niente di particolare, tutto sommato: l’ennesima discussione con il padre. Daniele doveva capire qual era il suo dovere di figlio. Da generazioni in famiglia tutti erano dei grandi studiosi. Il generale di lauree ne aveva prese due, col massimo dei voti e tanto di lode, il figlio non sarebbe stato da meno. In realtà avrebbe voluto che Daniele intraprendesse la carriera militare, come lui e il nonno Aldo, che aveva resistito due settimane nutrendosi di uva, mentre attraversava avventurosamente le linee tedesche per andare al Sud, a combattere con gli alleati nel nuovo esercito italiano nato dopo l’8 settembre.

Il generale sapeva che il figlio non aveva nessuna intenzione di indossare una divisa. In alternativa gli aveva prospettato gli studi giuridici, per i quali Daniele, però, non nutriva alcun interesse. Allora, una domenica mattina, si era seduto alla scrivania che da Gualtiero era arrivata fino a lui ed era tornato alla carica cercando di convincerlo a provare il concorso da ufficiale.

«Cosa credi, che fare il militare significhi marciare nelle parate al suono della fanfara? Non è così semplice. Che ti piaccia o no, ogni cosa del mondo nasce dal caos e dalla necessità, quindi bisogna continuamente mettere ordine. E anche noi dobbiamo dare il nostro contributo per rispondere alle esigenze della nostra storia, della nostra gente, anche se a volte, per adempiere a questo compito, dobbiamo difenderla pure da se stessa. Soprattutto in tempo di guerra. Eh sì, nessuno l’ha capito, ma siamo già in guerra, e da un pezzo. Se ne accorgeranno, se ne accorgeranno presto. È una guerra diversa dalle altre, parcellizzata, subdola, a tratti invisibile. Si sposta per il mondo innescando conflitti solo apparentemente locali. Focolai isolati, incendi che anno dopo anno si stanno avvicinando sempre di più. Prima o poi le fiamme arriveranno qui, e allora sarà a noi che chiederanno di domarle.»

Daniele, dritto di fronte a lui, le mani in tasca, pareva non volesse cedere di un millimetro. Non sapeva con chi fossero in guerra in quel preciso momento. Per quanto ne capiva lui, era il mondo intero a essere in perenne guerra con se stesso. Poi, però, un giorno si era ritrovato di fronte allo specchio di un barbiere a cercare di capire cosa stesse facendo della sua vita. Qualcosa di decisivo: una prima parte era finita, una nuova stava per iniziare, tutto qui. Peccato si trattasse della vita di un altro che, pur di accontentare il padre, aveva compilato come un automa i moduli per il concorso da ufficiale. Lo specchio del barbiere non ci aveva trovato nulla di strano. Del resto, come tutti gli specchi, era capace di riflettere, non di pensare. Nei mesi successivi Daniele aveva studiato come un sonnambulo, e come un sonnambulo aveva distribuito a casaccio le crocette sul primo test, quello che veniva corretto in automatico dal computer. Si era divertito non poco leggendo i risultati: aveva comunque risposto correttamente a un discreto numero di domande, anche se la sua prova era stata del tutto insufficiente a ottenere il punteggio minimo per proseguire le selezioni. La prima volta che il padre gli aveva rivolto la parola era stato mesi dopo.

«C’è un concorso al ministero. Per archivista. Cerca di superare almeno questo.»

A Daniele non dispiaceva affatto trovare un lavoro qualunque, pur di congedarsi dalla casa del generale. E stavolta il test era stato superato senza difficoltà.

Il cinguettio delle forbici lo riportò al presente. Lo specchio di Giovanni gli restituì un mezzo sorriso motivato dal ricordo della sua mancata carriera militare, ma anche dal pensiero che il giorno dopo sarebbe stato domenica. La domenica scelta da Barbara per incontrarsi.

* * *

Quella doveva essere una stazione, ma allora perché somigliava a un aeroporto? L’avevano costruita in alto, per dominare i binari, neanche fossero piste di atterraggio: un gigantesco hangar con pareti di vetro e pavimenti di marmo. Poi probabilmente si erano accorti dell’errore e avevano cercato di riempire il vuoto con negozi, bar, ristoranti, addirittura una farmacia. Quasi tutti quegli esercizi avevano ancora le saracinesche abbassate, pochi erano già aperti in ansiosa attesa dei futuri clienti. Non c’era quasi nessuno, la struttura era stata inaugurata da poco, non funzionava a pieno regime, ma già qualche treno veniva ogni tanto ad annusare le banchine. Barbara, sempre curiosa delle novità, aveva voluto vederlo proprio in quella incompiuta voliera per viaggiatori forse per dare un ulteriore senso al loro incontro.

Seduti l’uno di fronte all’altra in una delle tante sale d’attesa, qualcosa dovevano pur dirsi, anche solo per cancellare l’atmosfera di estraniazione di quelle poltrone desolatamente vuote. Alla ragazza in uniforme del banco informazioni non pareva vero di avere un po’ di compagnia in quella stazione di un pianeta ancora disabitato.

«Stai bene con i capelli tagliati così.»

Evidentemente Giovanni il barbiere, oltre ai funghi, conosceva anche il suo mestiere. Barbara era ancora bella, e la bellezza lo metteva in soggezione. Di lei aveva amato soprattutto le labbra carnose, disegnate apposta per baciare. Capelli, occhi e pelle color della sabbia donavano al suo corpo una morbidezza pastosa. Come tutte le persone davvero attraenti, non sfoggiava mai la sua bellezza, la viveva con disinvoltura, a volte con autoironia, come quando gli aveva confessato quell’unico difetto nascosto.

«Ho una tetta strabica. Vedi? Il capezzolo sinistro gira verso l’esterno portandosela appresso.»

Era la prima volta che la vedeva nuda, e quel dettaglio stonato non lo aveva colpito più di tanto. Lo aveva meravigliato, invece, un lampo nel suo sguardo, che si era fatto inquieto e ostile proprio quando stavano per fare l’amore. Occhi così duri, freddi… ce ne voleva per addolcirli. A furia di carezze era riuscito a riacchiappare le corde della sua anima una per una, fin quando lei lo aveva accettato con un lungo sospiro.

Avevano vissuto a casa di lei per un paio d’anni, poi, inaspettato, era arrivato Francesco e si erano sposati. Ne era passato di tempo da quando si erano conosciuti. Quanto? Quasi dodici anni, proprio come quelli della sua auto.

«Bella macchina, sembra una tigre nera. Che cos’è?» gli aveva detto una volta, per strada.

Ma esisteva una tigre di quel colore? E soprattutto, come faceva un’auto ad assomigliarle? In ogni caso era semplicemente un coupé, ma era bastata quella domanda di Barbara perché decidesse di comprare, con i soldi del padre, un’auto della stessa marca, modello e colore. Il vecchio stava già male, e parecchio. Infatti aveva accettato subito di fargli quel regalo eccezionale.

Daniele sospettava che era stata proprio la morte del padre a far scappare Barbara. Più che di lui doveva essere stata innamorata della sicurezza del generale, del suo potere, ma anche della serenità di sua moglie, dell’atmosfera di solida affidabilità che si respirava in quella casa. A volte capita che qualcuno, in cerca di un passato diverso, si innamori di una famiglia e la adotti come propria legandosi a un componente qualsiasi. Dopo la scomparsa del generale nulla era stato più come prima. Lei aveva atteso fin quando il bambino aveva iniziato a camminare bene e subito dopo aveva lasciato Daniele, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Così, nello spazio di un anno, lui aveva perso il padre e dovuto rinunciare a moglie e figlio.

Dopo Barbara, Daniele non aveva più cercato una vera compagna. Negli ultimi anni solo occasionali comparse. L’ultima era stata una trentenne sposata, proprietaria di un negozio di abiti. La storia era durata una settimana: il tempo tra l’acquisto di un paio di pantaloni e l’attesa delle modifiche della sartoria. E lei? Lei stava con qualcuno? Meglio non chiedere.

Decisamente si trovava in una stazione per universi paralleli. Barbara era lì, ma non poteva nemmeno toccarla: sarebbe stato come toccare con un’estranea. Eppure la gonna corta copriva a stento le gambe accavallate e la camicetta bianca era sbadatamente sbottonata fino al reggiseno. Gli occhi le brillavano sfidando il mondo, ma a parte la ragazza delle informazioni, non c’era nessuno. Estrasse dalla borsa un modulo già compilato. Ah sì, doveva firmarlo anche lui. Erano lì per quello, no? Si erano separati senza mai divorziare, lasciando la faccenda in sospeso, come per congelare la decisione definitiva. Però se lei voleva portare con sé il figlio in quel viaggio in Argentina, aveva bisogno dell’autorizzazione del padre. Bene, ma perché non approfittare dell’occasione per trascorrere una giornata tutti e tre insieme? E poi che ragione c’era di preparare i documenti un mese prima della partenza?

Barbara teneva il modulo tra le mani senza dire niente. Sembrava avesse da riferirgli qualcosa di talmente importante da non riuscire a trovare le parole giuste. Magari qualcosa di grave o definitivo, come la faccenda irrisolta del divorzio. Probabilmente aveva voluto vederlo in quella stazione per avere a disposizione una pratica via di fuga da qualsiasi imbarazzo. Più semplicemente, doveva aver scelto di incontrarlo lì soltanto perché le novità la incuriosivano. Ma certo, doveva essere proprio così. Barbara non aveva mai smesso di meravigliarsi per le cose del mondo, e il mondo l’aveva ripagata donandole bellezza e fortuna per qualsiasi attività intraprendesse. Nel corso degli anni aveva aperto un ristorante, poi una boutique, infine un’agenzia di viaggi. Tutte iniziative di successo che di volta in volta aveva ceduto quando era sopraggiunta la voglia di cambiare. Ma forse non era solo fortuna. Riusciva a coinvolgere tutti, clienti compresi, con la sua vitalità, e più lavorava, più sembrava contenta. Apparentemente svagata e leggera, in realtà preferiva nascondere la profondità nel posto più segreto e impensabile, la superficie.

Un tramestio di passi in fondo allo sterminato corridoio centrale: oltre la parete di vetro della sala d’aspetto un bambino cercava d’inseguire la madre che correva appesantita da un borsone alla ricerca delle scale per scendere giù, al suo binario. Daniele si aspettava che dai negozi, dai bar, dalle biglietterie uscissero schiere di dipendenti e commessi per premiarli come primi passeggeri di quel pomeriggio. Invece non si vide nessuno, e i due sparirono giù per una scala mobile come se non fossero mai esistiti. Alla fine Barbara parlò.

«Perché te ne stai lì senza dire niente?»

E cosa avrebbe dovuto dire che lei già non sapesse fin dal momento in cui lo aveva lasciato?

«Dove devo firmare?»

Barbara alzò gli occhi al cielo sconsolata. Daniele non aveva una penna, lei sì. Gliela sbatté sul tavolino insieme al modulo. A quel punto non vedeva l’ora di andarsene.

Mentre il ticchettio dei tacchi la trascinava via insieme al modulo debitamente firmato, a lui venne voglia di tornarsene subito a casa. Invece non lo fece. Imboccò un’altra porta messa a disposizione da quella domenica aliena e si ritrovò a passeggiare in un pianeta-città racchiuso nella sera.

C’erano poche auto a rincorrere la fine della giornata nella capitale. Daniele camminava lento per le stradine del centro, sfiorava residenze maestose e silenti, abituate da sempre a far da testimoni, di giorno a complotti dissimulati in incontri conviviali, di notte a liberatori festini addobbati con seni e cosce nudi. Erano tutte così, con molte entrate secondarie, quelle dimore monumentali che mostravano con superbia le rughe dei secoli. In certe vie si avvertiva con forza il sapore del potere e del cinismo, suo inseparabile compagno. Era un sapore che trovava anche in altre capitali… solo che a Roma era più antico e denso. I palazzi ufficiali, invece, se ne stavano tirati a lucido, con i loro ingressi trionfanti di bandiere al vento e guardie impettite. Tutta scena. Era all’interno delle spesse mura delle antiche case patrizie che avvenivano gli incontri decisivi, nascevano compromessi, si chiudevano patti segreti. Dopo, a cose fatte, venivano i comunicati, i congressi, i dibattiti pubblici. Questo Daniele lo aveva scoperto molto tempo prima ascoltando di nascosto qualche conversazione del padre.

“La democrazia costa, non tutti possono permettersela.”

Così il generale aveva commentato con un suo collega la notizia dell’ennesima guerra civile in Africa.

“Che vuoi dire? Che solo i popoli ricchi possono permettersi la democrazia?”

“No, nemmeno loro, ma almeno possono fingere di averla. Tanto alla fine tutto rimane sostanzialmente com’era, come è sempre stato e sempre sarà: una piccola élite domina con le buone o le cattive uno sterminato gregge di pecore.”

Dalla sua stanza Daniele aveva sentito bene il colloquio tra il generale e un suo collega chiusi nel salotto di casa. Così, a dodici anni, aveva scoperto la vera fede democratica del padre, che con lui non parlava mai in maniera del tutto sincera. Non sapeva ancora che il generale aveva appena ottenuto un incarico in un servizio d’informazione, entrando così nell’anticamera di quella piccola élite che contava davvero.

Ora, però, era inutile girare alla ricerca di un portoncino che si spalancasse all’improvviso restituendogli il padre con lo sguardo stanco, ma compiaciuto, di chi ha accesso alle vere stanze del potere. Uno sguardo molto diverso da quello che aveva annunciato la malattia. Quel giorno Daniele si era sentito chiamare da una voce deformata, una richiesta di aiuto balbettante, un urlo confuso. Sembrava provenire dall’interno di una maschera che si muoveva sul volto del padre sfigurandone i tratti, facendo traballare i tessuti, aprendo e chiudendo gli occhi in un grottesco ammiccamento. Su quel viso non c’era più nulla dell’inflessibile militare: era solo un uomo azzannato dal dolore, e quell’uomo era suo padre. Per questo lo aveva baciato sulla fronte prima di chiamare l’ambulanza.

Lampioni a luce calda, piante fiorite all’ingresso delle boutique, passanti dall’incedere disteso in una stradina che profumava di fragrante benessere. L’entrata del ristorante era discreta, annunciata da una porta in legno stagionato, come quello delle botti che si usano per i vini di pregio.

Il locale era senza alcun dubbio lo stesso di quando il generale ci portava la famiglia. Apparentemente non era cambiato nulla. Non la clientela di uomini ingessati in completi grigi o blu, accompagnati da donne troppo pettinate e ridanciane. Una casta di potenti brontosauri attaccata al proprio ristorante per l’eternità, mentre fuori vulcani e maremoti cambiavano la morfologia del pianeta. Di giovani non ne aveva mai visti molti, lì dentro: troppo caro il menu, troppo seriosa l’atmosfera. Da bambino ogni tanto aveva incrociato lo sguardo di qualche annoiato coetaneo come lui prigioniero delle buone maniere. A Daniele il modo di stare a tavola glielo ricordava il generale. Un impercettibile lampo negli occhi e il tovagliolo finiva steso sulle gambe, mentre i gomiti si stringevano al massimo affinché coltello e forchetta sfiorassero appena la pietanza. Avevano sempre la stessa espressione, gli occhi grigi del generale, che biasimassero o, raramente, lodassero: ammonitori e distanti.

Un cameriere gli porse il piatto quasi scusandosi della momentanea invadenza. Un attimo di doverosa attesa, poi sparì facendo i primi passi all’indietro. Un cerchio di gamberi convergeva con le code al centro indicando sei ostriche adagiate su foglie di lattuga. Il cuoco si era dato da fare per inventarsi quella composizione, peccato che somigliasse al mesto soggetto di una natura morta; colpa della luce debole, ma soprattutto di quell’aria da fine impero che faceva precipitare il locale in un tempo stantio.

Ci avrebbe messo un filo d’olio, su quei gamberi, per restituirli alla condizione di cibo. Sollevò l’ampollina. Eh no, il verde era pallido, nulla a che vedere con l’inchiostro color smeraldo dell’olio di Biagio.

«Qualcosa non va, signore?»

Era arrivato il maître.

«È troppo trasparente per essere un vero extravergine.»

Il maître si teneva a rispettosa distanza premendosi il menu sul torace. Quel cliente era passabile. Il tono della voce gentile, le mani curate e sottili, la figura slanciata ne denunciavano la probabile appartenenza a un ceto sociale medio alto. La sua disinvoltura dimostrava una certa dimestichezza con i ristoranti di tono, ma non era uno degli avventori abituali, non aveva nemmeno lasciato il giaccone al guardaroba.

«Capisco, signore. Lo faccio cambiare subito.»

«Non importa, me ne porterebbero uno uguale.»

«Come vuole, signore.»

Daniele trovò quel tipo affabile, e decise di scambiare due chiacchiere con lui. Ormai sapeva tutto sull’olio: Nanni, Biagio e gli altri ne parlavano sempre.

Il piatto di mare era freddo, dunque poteva aspettare. Spiegò al maître che i mesi ideali per la raccolta erano gennaio e febbraio, non novembre e dicembre, come credevano tutti. E che pianta straordinaria era l’olivo! Resistentissima, non aveva bisogno di interventi particolari, tranne, ogni tanto, un po’ di concime alla base del tronco. Posando finalmente l’ampollina sul tavolo ritornò sulla questione della raccolta a febbraio. Il punto cruciale della lavorazione dell’olio era uno soltanto: separarlo dall’acqua. A febbraio ci aveva già pensato la natura ad asciugarle.

«Veramente, signore, se mi permette, le olive andrebbero raccolte proprio tra novembre e dicembre, altrimenti il tasso di acidità aumenta e il gusto, il profumo dell’olio, ne risentono.»

Il maître sapeva il fatto suo. Aveva ascoltato Daniele con pazienza professionale, ma il troppo era troppo. Alla fine, seppure con cortesia, aveva dovuto dire come stavano le cose.

Mentre parlava, Daniele si era accorto di avere un tono di voce idiota, ma voleva continuare lo stesso, anche se cominciava a sospettare che in paese qualcuno gli avesse raccontato un sacco di balle. Si giocò il tutto per tutto sulla storia della mosca olearia, almeno quella doveva essere vera. Cercò di rifarsi dissertando sul micidiale insetto che deponeva le uova nelle olive, in modo che le larve, crescendo, potessero nutrirsene.

I tappeti del ristorante assorbivano le sue parole, i camerieri andavano su e giù con i vassoi leggermente inclinati per non raccogliere le frasi di Daniele. Con naturalezza le lasciavano scivolare dagli orli argentati, evitando di portarle di tavolo in tavolo.

Stava subissando di chiacchiere quel povero cristo in piedi davanti a lui, che si sforzava di fingersi interessato. Forse era il caso di piantarla, ma decise di ricominciare con la storia della mosca olearia. Quella sera doveva parlare di qualcosa con qualcuno, per forza.

* * *

La tisana per il marito, la signora Tecla aveva voluto preparargliela personalmente. Di rado entrava in cucina, in genere solo per dare direttive alla cuoca o alle cameriere e controllare che non oziassero. Nella villa ai piedi del Vesuvio, non soltanto la cucina era più grande di quella della casa di città, tutto era più arioso. Per questo il medico aveva consigliato a Gualtiero di trasferirsi: la campagna avrebbe fatto bene al cuore e all’anima del vecchio professore. La signora Tecla era riuscita a convincerlo facendo leva sui suoi interessi: lì avrebbe avuto molta più tranquillità per lavorare alle sue ricerche e finalmente avrebbe potuto tenere gran parte dei libri nell’ampio studio tappezzato di scaffali. Quest’ultimo argomento aveva vinto le perplessità del professore, visto che ormai viveva circondato dai libri, che lo isolavano dal mondo. Tutti lì, a portata di mano, rilegati e schedati. Ogni volume sul dorso ostentava orgoglioso l’ex libris di famiglia.

La signora Tecla mise la tazza sul vassoio d’argento, poi s’incamminò verso lo studio sotto lo sguardo deluso della cameriera più giovane, che in quella stanza non aveva più potuto metterci piede da quella volta che, per rassettare, aveva messo in disordine le carte sulla scrivania.

Senza badare troppo alla moglie che posava il vassoio sulla scrivania, Gualtiero sorrideva sarcastico alle pagine del giornale.

«Giolitti, ancora e sempre lui.»

Dopo qualche anno di volontario esilio, dovuto ai sospetti di aver insabbiato lo scandalo della Banca Romana, Giolitti era tornato alla grande sulla scena politica. I suoi governi, con interruzioni più o meno lunghe, guidavano il Paese dagli inizi del nuovo secolo. In fin dei conti, pensava Gualtiero, anche Giolitti era un chimico, capace di piegare ai suoi voleri sia la destra storica che le diverse anime della sinistra, mischiando composti politici per ottenere le reazioni volute, aggiustando man mano con continui bilanciamenti le maggioranze che sostenevano i suoi governi. Aveva strizzato l’occhio ai socialisti più intransigenti allargando il diritto di voto a tutti gli italiani di sesso maschile, e intanto aveva accontentato i nazionalisti conquistando la Libia con la guerra italo-turca. Non aveva nemmeno mancato di accordarsi in segreto con i cattolici alle ultime elezioni dell’anno precedente. Ormai era appena iniziato il 1914 e Giolitti era riuscito a rimanere al potere più di qualsiasi altro presidente del Consiglio. Il suo trasformismo si basava sulle riforme e sulla certezza che molti politici erano ben disposti a cambiare casacca anche per motivi personali, quasi sempre camuffati da superiori interessi del Paese.

Per ora il sistema giolittiano reggeva, ma a lungo andare quella pur abile alchimia politica rischiava un’improvvisa implosione. Probabilmente, però, sarebbe prima esplosa l’intera Europa. Troppe polveriere sparse per il vecchio continente, nelle quali si andavano ammassando i moderni, micidiali arsenali inglesi, tedeschi, francesi, austriaci, russi… Forse proprio per questo a Parigi, a Vienna, a Londra non pensavano ad altro che a divertirsi. La massa è distratta, ma non stupida, sente quando si sta avvicinando la tempesta. E allora meglio divertirsi prima che i cieli precipitino sulla terra andando in frantumi come lastre di vetro.

«Medice, cura te ipsum…»

L’invito della signora Tecla sottrasse il professore ai suoi pensieri. Ripiegò il giornale e si aggiustò il panciotto rimettendo nel taschino l’orologio che penzolava dalla catenina.

«Mi curo… mi curo…»

Dalle porte finestre dello studio si scorgeva il giardino di alberi da frutto della villa. Così l’aveva voluto il professore: le piante ornamentali erano sì belle, ma sostanzialmente inutili.

La moglie gli sedette di fronte con la solita aria rassegnata, mentre controllava con lo sguardo che il camino fosse acceso. In segreto Gualtiero la chiamava “il mio bel salice piangente”. Era sicuro che Daniele avesse sempre patito della stessa malinconia della madre, così come Adelina, che non si era ancora maritata a causa di una forte fragilità di nervi, e adesso era in clinica per ristabilirsi da un’ultima, terribile, crisi di angoscia. Ernesto, lui era diverso. Anni prima per salvarsi dall’influsso negativo della madre era andato a vivere in America, dove Gualtiero non capiva cosa potessero farsene di un latinista. E da lì mandava lettere di ammirazione per quel Paese.

Ormai erano solo loro due. Gabriele viveva ancora nella casa in città, dove continuava a svolgere la professione di avvocato. Stava diventando un principe del foro e si interessava anche di politica. Giovane e idealista, si era persuaso che un socialismo riformista sarebbe stato la salvezza dell’umanità. Era troppo impegnato e raramente veniva a trovarli. La verità, pensava Gualtiero, era che la tristezza della madre aveva infettato i figli e forse, alla lunga, anche lui stesso, che stava vivendo una vecchiaia piena di acciacchi e malinconie.

La signora Tecla si guardava intorno. Chissà perché il professore aveva voluto spendere un patrimonio per far rilegare i libri in pelle pregiata. Nel marito non scorgeva più nessuna traccia dell’affascinante medico sicuro e geniale che molti anni prima l’aveva guarita da una grave malattia. Si erano conosciuti così, come medico e paziente. Ultimamente, invece, era lei a doversi prendere cura di lui.

Il professore beveva la tisana tenendo la tazza con tutte e due le mani. Non voleva correre il rischio di farla cadere: ammirava quella finissima porcellana francese tanto sottile da risultare quasi trasparente. Ormai gli artigiani stavano cedendo il passo alle meno raffinate lavorazioni industriali, ma il loro patrimonio di conoscenza doveva continuare a vivere anche nella società moderna. Chissà che fine aveva fatto quella sua relazione al ministero dell’Istruzione nella quale auspicava la nascita di scuole che preparassero i giovani al lavoro specializzato nelle industrie, indispensabile per un Paese che volesse stare al passo con i tempi senza, però, perdere la creatività tradizionale delle sue produzioni.

La signora Tecla taceva. Avrebbe voluto confessare al marito di essere stata in città il giorno prima. Aveva preso da sola il treno che dalle pendici del Vesuvio portava a Napoli, cosa poco opportuna per una donna, e per la prima volta in vita sua aveva mentito a Gualtiero, dicendogli che andava in città con la cugina per far visita a un parente ammalato. In realtà si era presentata a casa di Gabriele, insospettita dal fatto che il figlio inventasse sempre mille scuse per non invitarli da lui. Da tempo la portinaia del palazzo l’aveva avvisata che qualcosa non andava: una giovane e bellissima donna la faceva da padrona in casa dell’avvocato.

Era stata proprio lei ad aprirle la porta. La signora Tecla per l’occasione aveva scelto il più sobrio dei suoi abiti da viaggio, uno grigio perla, e un cappello con la veletta leggera. Aveva salito le scale del palazzo con il cuore in tumulto: la portinaia le aveva appena raccontato che quella ragazza era una del popolo, che aveva fatto da cameriera all’avvocato, il quale, però, aveva finito per innamorarsene, accogliendola in casa come una moglie.

Occhi neri e brillanti, esaltati da una cascata di riccioli scuri che incorniciavano un volto da dea plebea. La pur modesta scollatura lasciava intravedere dei seni rigogliosi, e quel sorriso perfetto era sicuro della sua bellezza. La ragazza spontaneamente aveva fatto un inchino all’austera signora che aveva bussato alla porta. Intimidita da uno sguardo fermo e distante, era riuscita a chiedere solo con gli occhi cosa volesse quella donna che apparteneva a un mondo troppo lontano dal suo. Un mondo di gentildonne che aveva visto passare in carrozza o sedute ai migliori caffè della città, accompagnate dai loro uomini eleganti e compassati. Gente che sapeva di fresco e pulito anche nella stagione più calda.

La signora Tecla stava per chiedere del figlio, ma il suo sguardo era scivolato sul ventre gonfio della giovane: una gravidanza avanzata. Non era riuscita ad articolare parola, poi si era scossa e aveva chiesto scusa, doveva aver sbagliato piano. Mentre scendeva le scale aveva deciso che Gualtiero non avrebbe mai dovuto saperne niente. Aveva fatto bene, il figlio, a sparire, benissimo.

Il professore aveva quasi finito la tisana. Lo sguardo della moglie si era fatto improvvisamente duro. Stava pensando a Daniele. Era colpa del marito se si era suicidato. Ormai erano passati due anni, ma per lei era come se fosse successo il giorno prima. Lo avevano ritrovato nella sua stanza, riverso sul letto con quel buco scuro nella tempia. Disseminate dappertutto, le lettere di editori e critici ai quali non erano mai piaciute le sue poesie. Si era tolto la vita con la pistola del padre. Per lei era come se il marito stesso le avesse ucciso il figlio. Un padre troppo importante, esigente e distratto dai suoi studi per accorgersi di quanto quel ragazzo avesse bisogno anche solo di una semplice carezza. Alla chimica il professore aveva sacrificato tutto e tutti, compreso se stesso. Pure Adelina aveva patito quell’assenza, e Gabriele ed Ernesto, e lei stessa, ma lui non sembrava essersene mai accorto. Almeno fino al giorno del suicidio di Daniele. Da quel momento aveva quasi smesso di studiare la chimica, e forse anche di vivere. La signora Tecla non lo aveva nemmeno più visto tirare fuori la vecchia, famosa lettera all’illustre scienziato. Finalmente doveva aver capito il perché del silenzio del celebre collega. Gualtiero era stato uno studioso di grande valore, i cui manuali erano presenti in tutte le facoltà di chimica del regno, ma non era diventato il genio universale che avrebbe voluto. E quelle insistenti lettere, gli invii di libri non richiesti, dovevano aver finito per infastidire lo scienziato, la cui fama aveva ormai varcato i confini del Paese. Il problema, per la signora Tecla, era che Gualtiero, a dispetto della sua notevole intelligenza scientifica, si comportava come un povero ingenuo nella vita pratica. Mostrava con entusiasmo ogni suo nuovo lavoro ai colleghi aspettandosi che ne gioissero con lui. Invece aveva seminato invidia e rancore in tutti quelli che scambiavano il suo entusiasmo per presunzione o, peggio, per la volontà di umiliare le loro modeste capacità. Una convinzione che forse aveva portato qualcuno addirittura a rubargli il frutto delle sue ricerche. In una cosa il marito era davvero presuntuoso: non si preoccupava di stringere amicizie, alleanze, di frequentare i salotti importanti, né di cercare protezioni o favori, come se si aspettasse che un giorno o l’altro l’intera comunità scientifica avrebbe bussato alla sua porta per tributargli il dovuto riconoscimento. Anzi, quella era la vera sfida di Gualtiero, il vero peccato di superbia: pensare che il mondo potesse riconoscere il suo valore senza bisogno di alcun trucco, compromesso o servilismo. E più capiva come andavano le cose, più si ostinava a non provare altre strade da affiancare al merito. Era il modo in cui un uomo come lui scommetteva sull’esistenza di un dio che lui aveva cercato per tutta la vita nella strabiliante sapienza delle formule chimiche, che, però, si rivelavano tanto esatte quanto fredde. Allora, di tanto in tanto, scriveva lettere come quella che da anni teneva conservata nella scrivania, lettere indirizzate a uomini, ma in realtà destinate a un sempre più improbabile dio di verità e giustizia. Adesso, dopo la morte di Daniele, non si chiedeva più perché il suo merito non fosse stato riconosciuto adeguatamente, ma come un ipotetico dio avesse permesso che il figlio si togliesse la vita. E nemmeno su questo aveva mai ricevuto una risposta.

Il professore appoggiò la tazza sul vassoio, poi guardò di nuovo verso il giardino, ma non riuscì a mettere a fuoco gli alberi oltre la vetrata. Provò a sforzarsi, ma fu solo peggio.

«Non… non vedo le mani. Non le vedo! Tecla! Non vedo niente. È tutto buio!»

Proprio come quando la polvere da sparo gli era esplosa in faccia. Ma stavolta per Gualtiero non c’erano bende da togliere. Se almeno avesse visto una luce, anche flebile, in fondo a quel buio, come quella volta con la fiammella della candela, forse si sarebbe salvato.

La moglie scattò in piedi per andare ad abbracciarlo.

«La candela! Dov’è la candela?»

La signora Tecla non seppe mai se questa volta il marito avesse visto o meno la fiammella di una candela persa nel buio.