La mangiacarte
Il professor Gualtiero si stava togliendo cautamente le bende dagli occhi. Sulla scrivania aveva poggiato una candela e la sua pistola. Ormai si era abituato alla mancanza della vista, non era stato difficile trovare con la mano la pistola che da sempre dormiva nel cassetto centrale. Per accendere la candela, invece, aveva avuto non poche difficoltà, ma alla fine c’era riuscito lasciandosi guidare dal calore di un fiammifero sulle dita che tenevano fermo lo stoppino.
Era il 24 marzo del 1896, questo il professore lo sapeva bene, anche se non poteva leggerlo sul calendario. Erano trascorsi poco più di venti giorni dalla sconfitta dell’esercito italiano ad Adua, laggiù, in Africa, dove i guerrieri di Menelik II avevano massacrato migliaia di soldati del tenente generale Baratieri. Il professore, grande estimatore di Garibaldi e Mazzini, non nutriva alcuna simpatia per qualsiasi forma di colonialismo, tuttavia era rimasto turbato al pensiero che tanti giovani connazionali erano stati trucidati nella lontana Abissinia.
Gualtiero aveva iniziato con la professione di medico, ma presto si era appassionato alla chimica, che insegnava ormai da molti anni all’università. Il giorno seguente alla notizia del disastro di Adua gli era parso naturale mettere il suo genio al servizio della nazione per preparare una nuova polvere da sparo più potente e micidiale. Solo che agitazione e rabbia non vanno d’accordo con la scienza. Troppo coinvolto emotivamente, era venuto meno ad alcune regole del rigido protocollo per gli esperimenti. La chimica, però, non tollera le distrazioni, e la miscela di polveri gli era esplosa in faccia danneggiando i suoi occhi. I colleghi dell’università lo avevano curato con devozione, ma non erano sicuri del buon esito delle terapie. Gualtiero aveva deciso: se, tolta la fasciatura, non avesse scorto la luce della candela, si sarebbe fatto saltare le cervella.
L’orologio a pendolo aveva appena battuto le tre del pomeriggio. Sentì il vento frusciare fra le tende. Doveva trattarsi del maestrale, che nel primo pomeriggio arrivava puntuale sul golfo di Napoli. Le città di mare erano tutte più o meno deludenti, pensò il professore. Una sottile schiera di case affollate ad ammirare il panorama azzurro come le prime file di un teatro, mentre quelle di dietro nemmeno lo scorgevano mai, il mare, che in ogni caso era del tutto indifferente a quegli inerti spettatori di pietra. Ma forse, rifletté, questi pensieri amari nascevano dall’impossibilità di affacciarsi per godersi lo spettacolo.
Quando cadde l’ultima benda il buio che lo attanagliava da settimane rimase ostinatamente chiuso. Prese la pistola e l’accostò alla tempia. Fu in quell’istante che un leggero chiarore ondeggiò in fondo al tunnel nero. Ripose l’arma nel cassetto con cautela, affinché per sbaglio non partisse un colpo. Tirò un sospiro di sollievo. Voleva chiamare subito la moglie, ma il primo nome che gridò fu quello di Daniele, il più bello, intelligente e fragile dei suoi figli.
* * *
«Fa freddo stamattina, eh, Daniele?»
Ormai il barista gli dava del tu e lo chiamava per nome. Il caffè non era male, e Nanni ne era consapevole: tolse la tazzina vuota dal banco con un sorriso compiaciuto, anche se insolitamente sbrigativo. Ogni mattina, prima di andare al lavoro, si fermava proprio in quel bar a prendere il caffè. Nanni scambiava sempre volentieri due chiacchiere con i clienti, ma non quel giorno, e, forse per questo, Daniele uscì dimenticandosi di salutare. Controllò il cellulare, si infilò in macchina e imboccò la strada che dalla piazzetta del paese si tuffava giù a valle.
Erano troppo basse, quelle nuvole, tanto da rimanere impigliate tra le rovine del castelletto che dal culmine della collina vigilava sul borgo di pietra viva. Strana la nebbia di nuvola: a tratti è fittissima, poi di colpo si dissolve per concentrarsi poco più avanti. È che le nuvole mica sono abituate ad atterrare. Smarrite, cercano di riprendere quota liberandosi dagli impicci di antenne, alberi, lampioni… ma così si stracciano in lembi che svengono sulle strade.
I trattori ringhiavano per scacciare la foschia. O almeno questo sembravano voler fare gli uomini alla guida, insaccati nei giacconi per resistere al freddo bagnato della mattina. Acceleravano più che potevano, divorati dalla smania di andare a cogliere le olive strappandole a ciocche dagli alberi. È così che si fa l’olio buono: si sale sulla scala e si lavora tra i rami per far cadere le olive nelle reti stese intorno al tronco. Devono venir giù ancora vive, quelle cadute anzitempo non sono sincere, si sono contaminate a contatto con il terreno.
La nebbia si squarciò all’improvviso su due cavalli inchiodati in mezzo alla strada. Daniele li scansò con la prontezza del cuore, che era scattato in allarme. Quello grosso, una femmina, col mantello marrone, al centro della carreggiata, proteggeva con la sua mole il puledro chino a brucare l’erba sul ciglio della strada. Avevano avuto fortuna a capitare tra due banchi di nebbia, altrimenti non sarebbe riuscito a evitarli. La cavalla, presuntuosa come tutti i fortunati, si voltò lanciandogli un’occhiata distratta. Non era la prima volta che madre e figlio scappavano dal recinto per andarsene a gironzolare lungo la via che dalla collina degli olivi portava a fondovalle. Un giorno Daniele aveva aspettato un bel po’ che alcuni uomini robusti, a furia di bestemmie e urla, tirassero via quei due, fermi lì in mezzo, proprio oltre lo stesso tornante, il più stretto e pericoloso.
Al mattino presto le auto saettavano giù per il nastro d’asfalto tutto curve. Gente che doveva andare al lavoro in città, già esasperata al pensiero del traffico in agguato nella pianura. Un interminabile treno di lamiere e fari in lento cammino verso la capitale, metro dopo metro, giorno dopo giorno, anno dopo anno.
Proprio una merda, la vita da pendolare. Per cancellarne anche solo il pensiero Daniele sistemò meglio le spalle larghe nel sedile del suo vecchio, ma sempre potente coupé. Controllò nello specchietto retrovisore se quei fili bianchi sulle tempie fossero andati via insieme alla nebbia, che era rotolata giù dalla collina a cancellare i campi. In fin dei conti aveva quasi quarant’anni, era normale avere qualche capello bianco.
Gli olivi ai lati della strada se ne stavano buoni buoni, ognuno abbastanza distante dall’altro. Sono alberi bassi e larghi, gli olivi, con radici che si estendono in orizzontale: se fossero troppo vicini si ucciderebbero l’un l’altro rubandosi il nutrimento di terra e sole.
Il campanile della chiesetta abbandonata segnava la base della collina. Subito dopo c’erano le prime, timide palazzine, condomini diversi per forma e colore, ma tirati su con la stessa economia di materiali. La capitale si faceva sempre più vicina, presto il cemento avrebbe ingoiato anche quegli olivi. Peccato, lì ogni cosa era ancora chiara, ben distinta. Niente quartieri addossati gli uni agli altri, ma un castelletto che da più di mille anni dominava una manciata di case di pietra, al cui riparo si dipanavano destini apparentemente prevedibili. Una piccola comunità alla quale soltanto dopo due o tre generazioni una famiglia forestiera aveva pieno diritto di appartenenza.
Daniele era diventato bravo a evitare il traffico. Piegava per stradine segnate da buche più profonde che larghe, poi arrivava allo stazionamento degli autobus. Uno di quegli asmatici dinosauri blu partiva prestissimo dalla città per portare fin lì i pochi che facevano il percorso opposto ai pendolari. Lucia lo stava aspettando, puntuale come sempre. Salì in macchina rabbrividendo.
«Altro che autunno, sembra inverno pieno! Stamattina a Roma sui marciapiedi c’era addirittura del ghiaccio. Capirai, a quell’ora… Dovrei decidermi anch’io a trasferirmi quaggiù, vicino all’ufficio, ma figurati se mio marito lascia la città…»
Invece Daniele lo aveva fatto. Quando avevano cambiato sede, il primo anno aveva provato a fare su e giù con la macchina, ma la tigre nera, come molto tempo prima l’aveva battezzata Barbara, non gradiva l’andatura a passo d’uomo fra i gas di scarico. Poi, una volta, per festeggiare il compleanno, il comandante aveva invitato lui, Ico e Lucia in un ristorante in un paese in cima a una collina di olivi. A Daniele era piaciuto quel borgo medievale stretto intorno al suo castelletto diroccato. Ci si arrivava salendo una serie di tornanti fino a una piazza sorvegliata da un soldato di bronzo, che dalla Prima guerra mondiale ancora indicava con la baionetta un invisibile nemico.
L’aveva colpito l’avviso di una casa in affitto sulla collina di fronte a quella del borgo antico. Da lì alla nuova sede dell’ufficio ci volevano non più di una ventina di minuti, da spendere in mezzo al verde. Il prezzo non era caro, e poi in città, ormai, che ci stava a fare?
«Ieri in televisione c’era il mio mito! Che uomo affascinante! Che voce calda, sensuale… un attore stupendo! Eh, se le sue ammiratrici sapessero quello che so io…»
«Lucia, vacci piano con queste cose.»
«Che male c’è se uno s’informa qui e là?»
«Il male è che da noi proprio non si può.»
Lucia aveva ancora una risata fresca. Da giovane aveva vinto delle gare importanti nella corsa sui quattrocento metri, poi gli anni erano passati veloci, mentre la pista aveva preso a scivolare sempre più lenta sotto i suoi piedi, e si era rassegnata a trovarsi un lavoro qualsiasi. Il suo corpo aveva capito di non dover più vincere alcuna gara, così le spalle si erano rilassate un po’, le gambe avevano accettato il passare del tempo impigrendo i muscoli e gli occhi neri avevano perso ogni scintillio. Solo quando sorrideva il suo sguardo tornava come doveva essere stato da giovane.
La collega trafficava sul cruscotto per accendere la radio. Amava la musica, che per Daniele cominciava al mattino con lei, spariva durante il giorno – perché al lavoro non si poteva ascoltarla –, tornava nel tardo pomeriggio, quando la riaccompagnava all’autobus.
La tigre nera si arrestò all’ingresso. Il cancello era aperto, ma la sbarra non voleva saperne di lasciarli passare. La targhetta attaccata al muro recitava con ostentazione: “Lavorazione carta”. Non era vero, si producevano coriandoli, ma non aveva importanza. Tanto, non era vero nemmeno quello.
Dal vetro del gabbiotto Mario, il guardiano, li salutò con il solito sorriso svogliato. Arrivavano sempre in anticipo, quei due rompiballe, e a lui toccava montare in servizio un quarto d’ora prima. Schiacciò il bottone con una manata. La sbarra si alzò controvoglia. La tigre nera entrò a muso basso per andare a piazzarsi all’inizio del parcheggio ancora vuoto.
* * *
«Allora, come va?»
Daniele nemmeno rispose. Era un’eternità che aspettava seduto al tavolino di quel bar, e dopo un’ora e mezzo di traffico per coprire i trenta chilometri dall’ufficio fino a lì. Proprio lui dovevano mandare a ritirare quel pacco?
Faceva freddo, ma Marco, in giacca, camicia e cravatta, teneva il cappotto sul braccio. Il grigio lucido del vestito conteneva a stento i suoi muscoli – era un fanatico di palestre e arti marziali. Si sedette scodellando sul tavolino un pacco giallo con la pancia gonfia.
«Ecco, con questo fateci un bel po’ di coriandoli.»
«Non potevate mandarlo, come al solito? Sta pure per piovere, figurati il traffico… mi ci vorrà una vita per tornare a casa.»
«A casa un cazzo! Prima consegni questo in ufficio, poi vai dove ti pare. Ma solo dopo. Va bene?»
Se andava bene? Ma sì, andava bene, andava bene tutto. Daniele prese il pacco e lo fece scivolare sulle ginocchia in un fruscio di foglie secche. Ma che, Marco ci passava il lucido su quella testa rasata? Non avevano nient’altro da dirsi. Per farglielo capire accennò ad alzarsi.
«Bel collega che sei. Non mi offri nemmeno un caffè?»
Rimanere avrebbe significato lasciarsi sfottere ancora da quel demente che lo aveva chiamato “collega” con sufficienza. Marco era un vero duro, o almeno pensava di esserlo solo perché era un militare, mentre Daniele un semplice impiegato del ministero. E poi quel cafone nemmeno si era scusato del ritardo, perché mai avrebbe dovuto offrirgli un caffè? Oltretutto era stato lui a dargli appuntamento in quel bar di lusso dove anche un caffè costava un capitale. Se ne voleva uno, che se lo pagasse.
«Devo consegnarlo in ufficio, no? Se parto adesso arrivo alle otto, e forse trovo ancora il guardiano.»
«Allora sbrigati. Fatti firmare la consegna con l’orario preciso. Stavolta niente casini, mi raccomando.»
Finalmente Marco andò via. Di spalle la sua figura non quadrava, c’era qualcosa di strano. A guardarlo bene, quel corpo stretto nel completo grigio che si allontanava rapido sembrava spezzato all’altezza della vita. Il busto pareva precedere le gambe. Di pochissimo, ma le precedeva. L’andatura impettita, il culo troppo all’indietro… qualcosa, qualcuno, a un certo punto della sua vita lo aveva spezzato in due.
Per tornare a casa ci volle più del previsto. Era tardi quando si ritrovò su per i tornanti della collina degli olivi. Vento e acqua avevano stampato un manto di foglie arrugginite sull’asfalto. I fari arrivavano a illuminare anche le curve più strette, senza però riuscire a rendere più chiari i pensieri di Daniele. Era ancora frastornato dai colori della città: il rosa delle fioriere del bar nell’elegante via del centro; l’oro delle foglie cadute dai platani; l’argento delle stufe da esterni vicino ai tavolini all’aperto, che scaldavano clienti coi volti levigati e gli occhi sicuri ma cordiali. Gente di successo e fortunata che ovunque nel mondo si sente a casa propria.
Daniele, invece, si sentiva a casa solo quando arrivava davanti alla botte piazzata per strada, fuori dall’ingresso della sua cantina. Stava lì a impedire che qualcuno parcheggiasse ostruendone l’ingresso. Glielo avevano affittato così, quel piccolo appartamento, con l’uso della cantina. Che utilizzo ne poteva fare, poi… era piena di attrezzi arrugginiti: martelli, vanghe, seghe. Biagio, il proprietario, gli aveva anche mostrato un falcetto, spiegandogli che un tempo la lama si affilava a colpi di martello per renderla tagliente come un rasoio. Interessante, ma lui che se ne faceva di quel disastrato museo di archeologia rurale?
Prima di richiudere lo sportello dell’auto si riempì i polmoni dell’aria della sera, che provava inutilmente a fargli festa. Entrato in casa, si accorse che il freddo lo stava aspettando anche lì dentro. Accese la luce sperando riscaldasse un po’ l’ambiente. Però una ritinteggiata a quelle quattro pareti avrebbe potuto dargliela, Biagio. Il caminetto era piccolo e forse non aveva un tiraggio sufficiente, anno dopo anno il fumo doveva aver coperto i muri di un giallognolo simile a quello della nicotina. Che razza di camino. Alto da terra quanto la cucina a gas che lo affiancava, più che a combattere il gelo doveva essere servito a cucinare. Inutile cercare si accenderlo. Optò per la più pratica stufa elettrica, poi si sedette sulla sedia a dondolo senza togliersi il giaccone. Non se lo toglieva mai subito, nemmeno al ristorante o a casa di qualcuno, come se stesse ancora decidendo se rimanere o andarsene.
Quell’unica stanza aveva una sola vera finestra; sulla destra, addossato al muro, c’era il letto con una larga testiera di legno; in mezzo alla camera, il tavolo con le sedie. Tutto era vecchio, non antico: quei mobili dovevano essere lì da generazioni. Biagio, però, aveva aggiunto un tocco di modernità con un anonimo armadio a due ante, un piccolo televisore, una sedia a dondolo di metallo brunito e l’angolo cottura con un frigo basso e tarchiato. Comunque a Daniele quella minuscola casa andava bene così com’era, soprattutto perché si entrava da una scaletta in pietra. Un ingresso indipendente era l’ideale. Niente vicini di pianerottolo, nessun forzoso buongiorno, nessuna chiacchiera sulle condizioni del tempo o sul costo della vita. E poi affacciava sulla villa comunale, piena di alberi e fontane.
Il vento penetrava ronzando dagli infissi marci della finestra. Si sistemò meglio sulla sedia a dondolo. No, Marco non gli era mai andato giù: era uno di quei bambini che diventano feroci per salvarsi dalla troppa paura e feroci rimangono per sempre.
Si alzò a spiare dalla finestra oltre le foglie del pino appiccicato ai vetri. Alla luce dei lampioni le cime degli alberi più lontani sembravano criniere di animali feriti. Da un mese si andava avanti a vento e pioggia. Erano alberi sempreverdi, alti, forti, questo sì, ma esposti a ogni raffica. Qualche sera prima ne aveva sentito uno lamentarsi in fondo alla villa. Un cigolio di legno straziato che era continuato per ore, sempre più disperato, fino a cessare di colpo poco prima dell’alba.
Gli alberi continuavano a dimenarsi per attirare la sua attenzione. Accese il televisore alla ricerca di film di fantascienza, gli unici che vedeva fino alla fine. Del resto si trattava di alberi, mica di persone. Però, una volta tornato a sedersi, a forza di dondolarsi si dimenticò del televisore. Era incredibile quanto quei colossi oscillassero al vento come giunchi. Piegarsi per non spezzarsi era la prima cosa che gli avevano insegnato, fin dal giorno del suo arrivo, quando aveva scelto di relegarsi in cima a un cocuzzolo con un solo giornalaio e cinque bar, tanti quante erano le chiese disseminate qui e là. Vai a capire perché tante chiese e tanti bar in quel paesino aggrappato a una collina.
Era come se lo avessero mandato in esilio insieme a tutto l’ufficio. La vita gli stava sfuggendo di mano, precipitava per un piano inclinato senza fine, e non poteva farci niente. Poi, notte dopo notte, gli alberi più vicini, con le radici attaccate alle fondamenta della casa, gli avevano asciugato i sogni dagli incubi, mentre le foglie, mattina dopo mattina, avevano respirato i suoi malumori dissipandoli nell’aria. Non riusciva a spiegarsene il motivo, ma dopo qualche settimana era diventato meno insofferente, più calmo. Gli alberi lo stavano guarendo dalle inquietudini che teneva sepolte dentro; non sapeva come, ma lo stavano facendo. Quel pino, poi, che dalla villa si specchiava nella finestra, aveva pure gli occhi e il naso: due nodi del tronco equidistanti da un mozzicone di ramo. Come gli alberi dei cartoni animati. Incredibile, ma era proprio così.
Il vento premeva sui vetri avvicinando e allontanando quel gigante, che si piegava fin quasi a entrargli in casa in cerca di salvezza. Un albero che chiedeva aiuto… meglio spogliarsi e andare a letto. Viveva o no in un paese mezzo contadino? Dunque anche lui doveva andare a dormire con le galline. Afferrato il pigiama, si liberò dei vestiti a occhi chiusi per fare il più presto possibile.
Il gelido impatto con le lenzuola ebbe l’effetto terapeutico di una doccia fredda che congela i pensieri. Spense la luce. Adesso bisognava dormire. Però non era facile, con il fragore delle foglie in allarme. Non era l’ideale per conciliare il sonno, ma non poteva mica raccontarsi una favola. Una volta Francesco gli aveva detto che era bravo a leggergli le favole. Un’estate, in un albergo a picco su una costiera arginata da un mare compatto. Qualche giorno di vacanza prima di riportare il figlio a Barbara. Daniele gli aveva letto Il piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry. Francesco si era immedesimato molto: allora aveva otto anni e con i suoi occhi chiari e i capelli biondi somigliava un po’ al giovanissimo protagonista ritratto sulla copertina. Alla fine aveva chiesto perché il piccolo principe era dovuto morire per il morso di un serpentello. Daniele gli aveva spiegato che non era veramente morto, ma doveva tornare al suo lontano asteroide, dalla sua rosa, e per far questo doveva lasciare il nostro pianeta.
«E non poteva farlo volando su un gabbiano?»
Il balcone della stanza era spalancato sul mare, incassato tra le pieghe rugose della costa mediterranea. Il piccolo principe, seduto in mezzo al letto con il libro spalancato sulle gambe, guardava il padre in attesa di una risposta.
«Sarebbe stato troppo facile, e poi anche le favole più belle hanno un po’ di amaro, altrimenti si perderebbero dentro di noi.»
Francesco aveva fatto cenno di sì con la testa, mentre con la mano accarezzava il piccolo principe ritratto sulla copertina.
Fu il ricordo di quel giorno con suo figlio a far scivolare Daniele nel primo sogno nascosto dietro le palpebre.
* * *
«Quel pacco era classificato urgente, avresti dovuto portarlo in ufficio ieri, non stamattina.»
La stanza del comandante, come tutto e tutti in quel posto, era RA: Ridotte Attitudini. Una scrivania misera, poltroncine da ambulatorio, un armadio appoggiato alla parete che sembrava stesse lì per sostenerla, invece era pieno di registri verdi, rossi, neri. Gli unici colori della stanza erano chiusi nel mobile, tutti lì a disposizione del comandante per i periodici controlli di consegna, trattamento e chiusura pratica. Ogni operazione doveva essere firmata e timbrata dagli addetti. Migliaia di firme e timbri su verbali che probabilmente attendevano solo il loro turno per finire in una mangiacarte magari uguale alla loro, piazzata chissà dove.
Consegnarlo ieri in ufficio? E chi ci avrebbe trovato alle dieci di sera? Giusto i cani di Mario che, finito il servizio, si rintanava nella sua casa alle spalle della guardiola. Ci pensavano gli allarmi e i cani a fare la guardia, lui doveva pur dormire, no?
«Non farò rapporto per riguardo alla memoria del generale.»
“Per riguardo alla memoria del generale…” Daniele se lo ricordava bene il comandante in divisa scattare sull’attenti appena entrava in casa loro. Un giovane sottufficiale collaboratore del generale, del grande generale, che ogni tanto si ricordava anche di avere un figlio.
«Mi dispiace, il genitale non c’è.»
La prima volta che aveva risposto così al telefono aveva sedici anni. Si era sbagliato, quel cambio di vocale e consonante era stato un classico lapsus freudiano, ma in seguito aveva continuato a sbagliare di proposito. Si divertiva a sentire le pause imbarazzate dall’altra parte del telefono. Avevano capito bene? Quella voce da ragazzo aveva detto proprio genitale? Non era possibile. In ogni caso meglio non approfondire. Quando chiedevano del “signor generale” si trattava di sottoposti, e quindi lui poteva più pomposamente rispondere che “il signor genitale” in quel momento stava riposando. Raramente qualche ufficiale di alto grado chiedeva imperioso chi fosse a parlare. In questi casi, un po’ meravigliato, Daniele rivelava di essere il figlio del generale, stavolta detto bene, e l’altro subito assumeva un tono rispettoso.
«Lo so, lo so che qui… insomma… non è che si faccia un lavoro appassionante, ma tutti i compiti sono importanti, anche i più umili. La logistica, poi, è fondamentale per qualsiasi esercito, fin dai tempi di Cesare.»
Logistica? Che c’entrava la logistica con quello scalcagnato baraccone sperduto nella campagna? Lo sapevano Lucia, Mario, l’Iconoclasta, i giovani Pinguini. Lo sapeva anche il comandante. Anzi, lui conosceva meglio di tutti la ragione per cui erano stati sbattuti laggiù: RA. Niente di ufficiale, ma di fatto quelli che stavano lì avevano qualcosa di sbagliato: erano bloccati da una malattia, da un lutto, o feriti a morte dalla vita o da se stessi. Pure il comandante era uno dalle Ridotte Attitudini. Ma ormai la sua carriera era arrivata da un pezzo al limite massimo, non gli restava che aspettare la pensione.
«Bene, abbiamo chiarito tutto. Adesso scusami, ma ho tanto da fare.»
La scrivania, come al solito, era quasi vuota, abitata sulla destra da un telefono affiancato dalla foto di famiglia con la cornice d’argento. Daniele si alzò docilmente senza dire nulla, perché in fin dei conti quell’uomo grassoccio coi baffi bianchi e l’aria paciosa non gli era mai stato antipatico. Era solo un naufrago che, come loro, si era rassegnato a sopravvivere su una zattera ingombra di scrivanie e fascicoli. Una zattera ancorata a pochi metri dalla riva di un mare piatto nel quale, però, nessuno aveva mai la voglia o il coraggio di tuffarsi per tornare sulla terraferma.
Nel corridoio, a parte la cravatta, non c’era nulla, nemmeno una sedia. Era rimasta solo quella, a righe rosse su fondo blu, impiccata a un pomello dell’attaccapanni in malinconica attesa del padrone. Chissà quando era stata dimenticata lì. Oppure era stata abbandonata apposta per festeggiare il trasferimento a un altro incarico. Mario gli aveva detto che ai tempi d’oro c’era una lunga fila di cravatte sull’attaccapanni. Ormai, però, a eccezione del comandante e dei Pinguini, la cravatta non la portava più nessuno. Tanto dovevi togliertela subito, altrimenti la punta poteva finire negli ingranaggi della mangiacarte che, ronzando maligna, avrebbe rischiato di strozzarti. Certo, non ci riusciva, ma dopo dovevi cercare di disincastrarla, buttando via tempo e anche la cravatta.
La mangiacarte, la macchina per eliminare i documenti, era l’unica sopravvissuta di un plotone di divoratrici di carta che in passato riempivano quello stanzone. Impiegava dieci secondi a ridurre una pila di venti fogli in briciole simili a coriandoli. Rapporti, segnalazioni, dossier finivano nel suo serbatoio, che poteva contenere chili e chili di coriandoli di parole. Anche se non era più giovane faceva bene il suo lavoro. Ingoiava i fogli a pacchetti per masticarli senza darsi il tempo di digerirli. Era nera, con un ombelico verde sulla pancia, un led che avvisava di quanto avesse sempre fame. Le prime macchine che Daniele aveva usato nell’ufficio in città affettavano i fogli in strisce sottili, poi erano venute quelle che li sminuzzavano in pezzetti grandi quanto coriandoli. Si diceva che gli ultimi modelli riducessero la carta in polvere in due secondi, ma loro non avevano mai fatto richiesta di quegli aggeggi. Per il lavoro che c’era, la vecchia mangiacarte era più che sufficiente, così per i funzionari del ministero Daniele, Lucia e Ico erano diventati quelli dei coriandoli, anzi, “i coriandoli”.
«Allora, che voleva il comandante?»
Lucia, in piedi davanti a uno smisurato tavolaccio di legno, guardava esitante Daniele. Era lei il vero motore dell’ufficio. Aveva già preparato le pagine in paziente attesa. Disciplinate come soldatini, le venti torrette di venti fogli ciascuna aspettavano di essere sacrificate alla superiore ragion di Stato. A coprire ogni pila il foglio bianco della riservatezza. Ormai Lucia avrebbe potuto farlo a occhi chiusi, quel lavoro. Uno dopo l’altro distribuiva in venti mucchietti. Operava velocemente, cominciando da sinistra, risma dopo risma, e scorrendo lungo il tavolaccio fino al bordo opposto. Poi punto e a capo. Ricominciava metodica e inarrestabile come una di quelle vecchie macchine per scrivere. Al ticchettio dei tasti aveva sostituito quello dei tacchi, al ding di fine corsa del carrello un sospiro di compiacimento. Infine posava su ogni blocchetto il foglio bianco della riservatezza, per evitare di sbirciare, anche involontariamente, la prima delle pagine da distruggere.
La stanza della mangiacarte, più che un ufficio, sembrava un aborto di bunker. Una striscia di finestra schermata da una grata attraversava la parete ad altezza occhi. La postazione di Daniele era confinata in un angolo, con un tavolo alto, tipo quelli da disegno, sopra il quale squartava i fascicoli. Bisognava operare in piedi, per non dimenticarsi di fare in fretta e bene, ma non prima di aver firmato e annotato sul registro rosso il giorno, l’ora e il minuto di apertura di ogni fascicolo.
I gusci vuoti dei faldoni finivano in un secchio di plastica sotto il tavolo, in attesa di essere a loro volta sbriciolati. Questo, però, era compito dell’Iconoclasta, addetto a distruggere anche le foto che Daniele staccava dai fascicoli.
«Insomma, nemmeno ti degni di rispondere? Si può sapere che ti ha detto il comandante?»
«Niente, le solite cose…»
Anche se era di spalle, Daniele si accorse che Lucia lo stava guardando. Il picchiettare dei tacchi riprese prima esitante, poi inarrestabile. Lucia non ubbidiva alla regola di prendere un foglio a caso e depositarlo su una risma. Prima li raggruppava a seconda del formato e della qualità della carta, caratteristiche che ormai riconosceva al tatto. Aveva voglia Daniele a mescolare, come da prassi, le pagine dei diversi fascicoli piazzandole in un unico mucchio sull’orlo del tavolaccio, lei le ricomponeva con un’arte perfezionata negli anni, distribuendole in base all’età. Le vecchie con le vecchie, perché più riottose a entrare nella bocca della macchina, bisognava prima schiacciarle un po’. I fogli giovani, invece, si appiattivano l’uno sull’altro con baldanzosa incoscienza, infilandosi quasi da soli nella bocca della mangiacarte. Intanto Lucia canticchiava, chiacchierava al cellulare con la figlia, parlava del più e del meno con Daniele, senza, però, mai alzare gli occhi dal tavolaccio. Poi trascriveva sul registro verde l’avvenuta eliminazione del fascicolo, annotava il numero di protocollo e firmava.
Lucia al tavolaccio, Daniele nel suo angoletto: queste erano le postazioni, sempre le stesse. Le pause erano scandite dal periodico arrivo dell’Iconoclasta, dalla conseguente consegna del materiale di scarto con tanto di timbro finale su un terzo registro nero e poi, finalmente, qualche minuto di sosta nel corridoio.
Daniele era curioso di aprire il famoso pacco, per capire non solo perché avessero evitato di spedirlo con il camioncino del ministero, ma anche la ragione per la quale Marco, invece di convocarlo nel suo ufficio in città, aveva voluto incontrarlo in quel bar, come se non fosse una consegna ufficiale.
Che bastardo! Come orario di consegna aveva scritto le dieci, mentre glielo aveva dato nel tardo pomeriggio. Scemo lui che aveva firmato senza controllare. Ovvio che il comandante si era incazzato! Magari aveva creduto che avesse portato in giro tutto il giorno un pacco classificato urgente. Mah… meglio non pensarci. Con il taglierino squarciò il plico, e dalla fenditura da taglio cesareo fuoriuscì una massa di pagine ingiallite. Controllò che non ci fossero foto, nastri, DVD. Era tutta carta vecchia. L’avrebbe mescolata a quella giovane del fascicolo precedente. Lucia avrebbe avuto di che divertirsi.
Per lo più erano pagine scritte a macchina. Abituato a esaminarle velocemente per emendarle da eventuali puntine o foto, aveva acquisito la capacità di catturare al volo qualche particolare. Una frase saltò fuori da quello che sembrava il verbale di un interrogatorio: “Allora piange in modo deplorevole”. Che voleva dire “piangere in modo deplorevole”? E come doveva essere un pianto? Educato, dignitoso, sommesso? Che razza di aggettivo: deplorevole! Era un rapporto vecchio di almeno mezzo secolo. Una sola foto in bianco e nero di una donna bruna, sui trent’anni, lo sguardo rassegnato, forse colpevole, perché i capelli lisci che le cadevano sulla fronte le davano un aspetto trasandato, da criminale, ma poteva anche essere quello disperato di una innocente. Prima di gettarla nel secchio si convinse che doveva essere stata lei a piangere in modo deplorevole. Niente, non c’era alcun motivo apparente che giustificasse la riservatezza nella consegna di quel pacco, e quello sarebbe diventato il giorno del pianto deplorevole. Ogni giorno era segnato da una riga o da un’immagine, relitti di storie destinate a finire nel trituratore della mente di Daniele prima ancora che in quello della mangiacarte, soprattutto perché non gli si incollassero addosso disturbandogli il sonno.
* * *
Parcheggiata la tigre nera accanto alla botte, Daniele sentì il bisogno di fare due passi. La via dove abitava formava un anello intorno alla villa comunale. Da un lato il muro di cinta, con gli alberi che si affacciavano sulla strada; dall’altro i giardini di qualche villetta di gente di città. Le vedeva quasi sempre chiuse, perché i padroni venivano nei fine settimana a respirare l’aria pulita della campagna. Solo un paio erano abitate tutto l’anno, ma da chi, proprio non lo sapeva. Era la zona più panoramica e appartata del paese, dominava la collina che si opponeva con il verde degli alberi a quella vicina, bianca e grigia della pietra del castelletto e del suo borgo. Le due si fronteggiavano da sempre, ma evitavano di guardarsi, se non da punti alti e solitari.
Aveva calcolato in poco meno di un chilometro la lunghezza del viale, un cerchio il cui inizio e fine per lui era segnato dalla botte davanti alla cantina. In macchina durava troppo poco, le idee non andavano al di là del parabrezza. Tutt’altra cosa a piedi. Passo dopo passo, la mente aveva il tempo di scaricarsi. In alcune mattinate di domenica l’aveva consumato più volte, quel giro. Il cammino era rotto da salite e discese, un ottovolante di umori e pensieri che pian piano si disperdevano nell’aria leggera.
Cominciava a far buio presto. La sera stava scolorando le cime degli alberi, quando vide che sulla porta della cantina spiccava una massiccia chiave di ferro adatta al portone di un palazzo nobiliare. Dall’interno rumori di oggetti spostati: qualcuno stava rovistando. Qualcuno che possedeva una chiave identica alla sua. Non poteva essere che il padrone di casa.
Alla debole luce della lampadina che penzolava dal soffitto Biagio, basso e massiccio, armeggiava con un seghetto a motore ansimando come un cinghiale.
«Buonasera! Questo arnese non ne vuole sapere di funzionare!»
Continuava a tirare con rabbia la cordicella dell’avviamento, ma il seghetto rimaneva muto.
«Devo tagliare un po’ di rami a un olivo, il vento dei giorni scorsi li ha mezzi spezzati, ma ho prestato la sega grande a un amico… chissà quando me la restituisce. Mi sono ricordato che in cantina c’era questo coso… ma è ridotto male. Ho provato a metterci la miscela, a pulire la candela, ma ’sto bastardo non ne vuole sapere.»
Scrollando le spalle irrobustite dal lavoro della campagna, Biagio si fermò di botto: il suo inquilino aveva un’aria contrariata.
«Che, ho fatto male a venire nella mia cantina?»
«No, ma magari la prossima volta che viene nella “mia” cantina mi avvisi. Chissà che non possa esserle di aiuto. Permette?»
Daniele non sopportava alcun tipo d’invadenza, e poi quello gli aveva affittato la cantina insieme alla casa, no? Finché pagava, casa e cantina erano sue, nessun altro poteva andarci. La verità era che nei paesi, se non sei uno di loro, sembra ti facciano un favore a tollerarti, come se l’intero abitato, compresa l’aria che respiri, fosse di loro proprietà.
Si avvicinò per sfilargli il seghetto dalle mani. Tirò più volte con forza la cordicella, fino a quando la lama prese a ruggire in un frastuono ammorbato dal gas di scarico. Non era rassicurante quella lama che tagliava l’aria davanti al naso già corto di Biagio. Spense la sega e la restituì all’uomo, che rimase immobile nel silenzio. Daniele infilò le mani nelle tasche dei pantaloni, mentre l’altro si attardava a dissipare il gas di scarico con la mano libera. Guardò il seghetto, poi Daniele, infine balbettò una specie di ringraziamento e si avviò all’uscita. Si fermò indeciso davanti alla grossa chiave nella toppa.
«Questa te la lascio, così ne ha due, caso mai… Ma attenzione, non ce ne sono altre. Buona… buonasera.»
Daniele richiuse la porta, seccato anche dal fatto che in paese tutti passassero continuamente dal lei al tu. Non aveva ancora capito se per ignoranza o per abitudine. In ogni caso quella del seghetto non era stata una buona mossa. Biagio avrebbe sparso la voce che il forestiero al quale aveva affittato la casa era un mezzo matto, visto che per far partire il seghetto a momenti gli tagliava il naso!
All’inizio ne aveva incrociati di sguardi quando passava per la piazza. Occhiate di curiosità, ma anche di ammonimento. Erano soprattutto i vecchi a squadrarlo con un’aria da questura. Quel forestiero era da solo, forse era lì per rubare le loro donne o per nascondersi da chissà quale misfatto. Erano rimasti contadini diffidenti, anche se ormai vestivano e si muovevano come la gente di città e molti di loro ci andavano a lavorare ogni santo giorno, a Roma.
Eppure ultimamente gli era parso che le cose stessero migliorando, in quel paesino aveva ritrovato una parte di sé persa chissà dove. Quando aveva deciso di trasferirsi aveva pensato che fosse un posto speciale. Tutte storie. Era un paesello come gli altri. C’erano lo scemo del villaggio, il tizio colto, il farmacista, il postino, il prete. C’erano gli uomini, quelli giusti e quelli sbagliati, come dappertutto. E come dappertutto c’era del buono e della merda. Solo che lì la merda, almeno, la trovavi spiaccicata in mezzo al verde di un campo, mentre in città poteva capitarti di pestarla su un marciapiede senza nemmeno l’erba a disposizione per pulirti. La differenza era tutta lì. Per consolarsi pensò a Barbara e Francesco. Lei l’avrebbe vista quel fine settimana, anche se da sola.
«Permesso?»
La porta si aprì litigando con i cardini.
«Forse non dovevo andare in cantina senza avvisarla. Forse ti sei, diciamo, arrabbiato…»
Alla luce cruda della lampadina il viso di Biagio era una mappa di rughe su una pelle rosicchiata dal freddo e dal sole. Sollevò una bottiglia verde smeraldo all’altezza degli occhi di Daniele.
«Non è olio novello, ma è fatto a regola d’arte. È roba della mia terra. Ne avevo una bottiglia in macchina. Ho pensato di dargliela così… per andare d’accordo come prima.»
Prima quando, se dopo la firma del contratto si erano incrociati un paio di volte per caso e si erano a stento salutati? Salutati… un cenno, mezza parola…
«Vedrai che ti piacerà. L’anno passato ha piovuto molto, non ci sono state gelate in inverno e neppure siccità in estate. Qualche temporale sì, ma a una pianta robusta come l’olivo, se è sana, il peggiore dei temporali porta via giusto qualche rametto.»
Passò la mano sul legno della porta.
«Eh, qua mi toccherà dare una verniciata e cambiare i cardini. Se lei vuole, si capisce. Be’… arrivederci. Magari qualche volta, se ci incontriamo in piazza, ti offro un caffè al bar di Nanni. Lui sì che lo fa buono.»
Stavolta fu Daniele a borbottare un ringraziamento, al quale l’altro rispose con un ciao ciao della mano mentre usciva dalla cantina. Anche il peggiore dei temporali a quell’uomo non avrebbe portato via che qualche sospiro. A lui, invece, in quel momento era come se fossero rimasti solo gli occhi per ammirare il verde intenso dell’olio nella bottiglia e la mano per reggerla.
* * *
Il professor Gualtiero in Sicilia, sua terra d’origine, non ci andava più da anni. Da giovane si era trasferito a Napoli, capitale del regno borbonico, per intraprendere gli studi che lo avrebbero fatto diventare prima medico e poi un grande chimico. Proprio come suo padre, proprio come i suoi antenati, che avevano scelto di interessarsi di cure, farmaci e scienza. Era così da secoli, e così sarebbe stato fino alla fine dei tempi.
La famiglia del professore era sempre stata benestante. I giardini di agrumi, i mulini, i frantoi e le case, laggiù in Sicilia, avevano assicurato a tutte le generazioni un’agiatezza che aveva loro permesso di dedicarsi alla conoscenza attraverso la ricerca scientifica. L’unico problema che si presentava a ogni nuovo capofamiglia era quello di scegliere un amministratore capace e possibilmente onesto. Gualtiero, però, non doveva aver scelto l’uomo giusto: le rendite non erano più quelle di una volta. Troppo impegnato per trasferirsi laggiù a occuparsi dei suoi interessi, aveva deciso di vendere tutto e investire il patrimonio in titoli di Stato, nella villa di campagna e in una serie di immobili acquistati nel Napoletano e dati in affitto. Ma le proprietà rendevano meno di quel che si sarebbe aspettato. La chimica non sbagliava mai, i chimici, evidentemente, qualche volta sì.
Cercò di scacciare quei pensieri molesti con un gesto della mano. Forse era la vecchia minuta di quella lettera spalancata sulla scrivania a inquietarlo. L’estate lo spinse a raggiungere il balcone, ma oltre il velo di foschia riuscì a stento a distinguere la cima del Vesuvio sospesa sul nulla. Il caldo aveva appesantito il respiro del mare impedendogli di salire verso il cielo, e l’aria si era addensata in una bruma malaticcia gonfia di sale che cancellava il golfo. La sua vista non era più così buona dopo l’incidente della polvere da sparo, eppure da allora erano passati anni… Qualcosa decisamente non andava, e non solo nei suoi occhi, ma nel mondo intero. Già lo scandalo della Banca Romana aveva cancellato da tempo tutte le speranze sue e degli altri patrioti risorgimentali che si erano battuti per un Paese unito, civile e dal grande futuro. A poco più di vent’anni dalla proclamazione di Roma capitale, sogno dei tanti che avevano lottato ed erano morti per l’unità d’Italia, un miserabile intreccio fra politica, banche e affari aveva dimostrato come una parte importante della classe dirigente fosse più dedita ai propri interessi che a quelli del Paese, fino ad arrivare a rubare i soldi dello Stato. Quanti ideali finiti nello squallore della corruzione e del malaffare… L’Italia si affacciava ben tristemente al ventesimo secolo che, invece, sul piano tecnico e scientifico prometteva meraviglie. Ma erano promesse che avrebbero riguardato altri. Lui cominciava a invecchiare sul serio, mentre tutto stava cambiando troppo in fretta. Non sapeva come sarebbe stato quel futuro che già correva con la velocità dei motori a scoppio e dell’elettricità, mentre l’essere umano appariva lo stesso di sempre, con le sue sorprendenti grandezze e le irrimediabili miserie. Per la prima volta in vita sua dubitò che la scienza avrebbe risolto tutti i mali del pianeta. Anzi, c’era il pericolo, come sosteneva il figlio Daniele, che ne avrebbe creati di nuovi e più gravi.
Daniele ed Ernesto avevano scelto di intraprendere studi umanistici, mentre Gabriele si era dedicato alle discipline giuridiche. Per la prima volta da secoli nessuno in famiglia si sarebbe interessato di scienza. La figlia Adelina, poveretta, non faceva altro che rimanere attaccata alla madre, con la quale condivideva crisi di malinconia a volte strazianti. Il professore era convinto che un giorno si sarebbe trovata una spiegazione scientifica al fatto che non solo le caratteristiche fisiche, ma anche quelle mentali, si trasferivano da un genitore al figlio, e capito anche perché a volte la catena s’interrompeva. C’era da sperare in un nipote, o magari un pronipote, o addirittura un discendente più lontano. Gualtiero scosse la testa e tornò a sedersi alla scrivania per meditare sulla minuta della sua lettera.
La porta dello studio si aprì di scatto. Era Daniele. Nemmeno si era premurato di chiedere permesso prima di entrare. Il professore ebbe un moto di disapprovazione, ma poi sorrise all’elegante figura di quel figlio così giovane e impetuoso. Dalla madre aveva ereditato la bellezza del volto, l’aspetto slanciato, le mani da pianista e gli occhi densi di nero; dal padre la voce gentile, ma potente.
«Sei un grande scienziato, ma lascia perdere la letteratura, non fa per te. Mi hai chiesto un parere sincero, no? Questo è il mio parere, e questo è il tuo libro.»
Alla copia della lettera si unì un blocco di fogli vergati da una grafia ordinata, ma in realtà non più chiara di un esercizio di chimica agli occhi di un profano. Il figlio aveva posato con mala grazia il manoscritto sulla scrivania e molte pagine erano saltate fuori dalla cartellina. Ora temeva una reazione dura. Il professore, invece, si carezzò la barba mentre guardava Daniele stretto nel vestito color crema e con già in testa il cappello bianco che lo avrebbe protetto dal sole nella passeggiata con i fratelli e gli amici.
Non si aspettava nulla di diverso da quel ragazzo. Per troppi anni aveva trascurato i figli, chiudendosi nel laboratorio dell’università o nello studio di casa per lavorare alle sue pubblicazioni. Mai li aveva portati con sé nei congressi a Parigi o a Londra, e quel libro scritto in vecchiaia non lo avrebbe avvicinato alla famiglia. Ormai era tardi. Troppe cose nella sua vita aveva fatto troppo tardi, compresa la decisione di sposarsi, per giunta con una donna molto più giovane, e avere figli in età ormai matura.
Daniele aveva perso ogni sfida nello sguardo, se ne stava immobile a osservare il padre seduto dietro la scrivania. Avrebbe voluto chiedergli scusa per la crudezza delle sue parole e magari abbracciarlo, come non faceva da tanto, ma il professore si limitò ad abbassare gli occhi e a pensare che certo non era bastato concedere ai figli di dargli del tu per essere un padre amorevole.
«Sei un valente letterato, mi fido del tuo giudizio. Del resto non ho mai avuto la velleità di diventare uno scrittore. Volevo solo lasciarvi questo libro con la storia della nostra famiglia e della mia avventura di scienziato. L’ho scritto per voi. Se volete, conservatelo, così un domani potrete farlo leggere ai vostri figli, che forse a loro volta lo custodiranno per consegnarlo ai loro discendenti.»
«E per quale ragione?»
«Perché voi, i vostri figli e i vostri nipoti sappiate sempre quali sono state le nostre radici e non vi perdiate mai nel rumore del mondo. Tuttavia, se credi che il mio libro non meriti attenzione, distruggilo: l’ho scritto principalmente per te. Scegli cosa farne. Te lo affido.»
Daniele raccolse con delicatezza il manoscritto dalla scrivania e uscì dalla stanza, ma non prima di essersi tolto il cappello a falda larga.
Rimasto solo, il professore riprese la minuta della lettera. Risaliva a più di trent’anni prima, come denunciava il giallognolo della carta. Non la rilesse, la conosceva a memoria. L’aveva scritta quando era ancora abbastanza giovane da credere fermamente nella sua genialità. Era indirizzata a un chimico di fama, col quale condivideva, a parte gli interessi scientifici, la passione politica risorgimentale. Gli rinnovava la sua altissima stima, e coglieva l’occasione per chiedergli se volesse degnarsi di fargli sapere se aveva ricevuto un suo lavoro di chimica. Nel malaugurato caso fosse andato perso, si sarebbe pregiato di inviarglielo di nuovo.
Gualtiero era molto stimato nell’ambiente accademico e godeva di un certo prestigio che, però, era rimasto ben al di sotto delle sue aspettative. Un semplice assenso del grande studioso gli avrebbe spalancato le porte di una fama imperitura. Invece l’illustre collega non gli aveva mai risposto. Il perché Gualtiero non lo aveva mai saputo, e non riusciva ancora a farsene una ragione. Aveva pensato di tutto: forse si era persa, oppure era stata dimenticata in un cassetto. Aveva anche immaginato il peggio, ovvero che il grande scienziato non avesse considerato i suoi lavori degni di una qualunque risposta. Addirittura si era ricordato di una sinistra leggenda che gli aveva confidato suo nonno: un’antica maledizione che condannava i membri della famiglia ad arrivare a un passo dal successo senza mai raggiungerlo. Oppure aveva ragione la moglie, convinta che nell’ambiente universitario dominassero l’invidia, il carrierismo e l’arroganza. Forse qualche collega aveva parlato male di lui al famoso scienziato, o magari il suo rifiuto di entrare nella massoneria gli aveva procurato troppi nemici. Non aveva nulla contro la massoneria – anche il grande Garibaldi ne aveva fatto parte –, ma col passare del tempo, come era successo anche nella politica, a galantuomini animati da ideali di libertà e giustizia si erano mischiati personaggi loschi e mediocri. Proprio uno di questi, un suo collega borioso quanto incompetente, gli aveva proposto di entrare a farne parte, e Gualtiero aveva cortesemente declinato l’invito. Per ripicca quel mascalzone era arrivato a mandare alcuni studenti a disturbare le sue lezioni, ma dopo due o tre volte quei giovani erano rimasti talmente entusiasti del professore da frequentare i suoi corsi disertando quelli del loro precedente insegnante. Però un giorno, alla fine di una lezione, aveva dovuto confessare a se stesso di temere che quella sua onestà intellettuale avrebbe finito per isolarlo, danneggiando anche il frutto delle sue ricerche. Aveva già visto molti studiosi scavalcarlo in fama e carriera: gente con pochi meriti ma molte amicizie, frequentatori assidui di salotti e anticamere di potenti. Pazienza, si era detto raccogliendo la borsa dalla cattedra; ma poi, dopo un istante di indugio, l’aveva rimessa dov’era e aveva annunciato agli alunni, che già si avviavano all’uscita, di voler aggiungere una postilla alla lezione. Ognuno di loro, con qualche perplessità, era tornato al suo posto.
«Signori, non dimenticate mai di essere giusti, leali e rigorosi, con voi stessi e con il prossimo. La scienza, ma anche l’arte, per loro stessa natura lo esigono. Forse la strada sarà ancora più in salita, ma non preoccupatevi se il successo non arriverà quando sperate e vi augurate, o se non dovesse arrivare mai. Per quel che mi riguarda, mi piace pensare che il mondo, nella sua immensa saggezza e follia, si prende ciò di cui ha bisogno se e quando gli necessita. Noi dobbiamo solo dare il meglio di noi stessi, nobili o modesti che siano il nostro lavoro, la nostra condizione sociale, le nostre capacità. Senza questo scopo credo che la vita sarebbe davvero poca cosa, e noi con essa.»
Gli era sembrato di aver detto fin troppo. Aveva preso di nuovo la borsa e, nel silenzio generale, era uscito dall’aula a passo svelto. Mentre si allontanava per il corridoio gli era giunto l’applauso dei suoi studenti.