Il castello
Adelina era convinta che anche le piante si ammalassero di tristezza. Ogni mattina, dalla finestra della sua camera, controllava lo stato di salute del giardino badando a non farsi ingannare dalla stagione e dalla presenza del sole. Aveva notato che a volte il verde era scintillante, in altri momenti invece le piante sembravano tristi, s’incupivano sempre più in attesa che arrivasse a proteggerle la sera, e poi finalmente il buio della notte, apportatore del sollievo del sonno. Lei, invece, per dormire era costretta a bere una medicina disgustosa, che ormai non sortiva più alcun effetto. Allora rimaneva spesso affacciata alla finestra anche di notte, pure in quelle senza luna, quando non è che riuscisse a vedere molto, ma sentiva i fruscii nel parco della casa di cura: i gatti che scivolavano tra i cespugli di oleandri, la talpa intenta a scavare il terreno con le sue possenti unghie, il canto prudente di qualche uccello notturno, ma soprattutto il vento tra le foglie. Quando l’aria era ferma ascoltava il suono del mondo, un flebile ronzio che per lei altro non era se non il respiro del pianeta vivente. Ultimamente, però, non poteva più sentire la voce della notte. Le avevano bloccato la finestra da quando l’inverno precedente, per discorrere con un temporale, si era presa una polmonite. Il primario si era arrabbiato molto, ma lei non aveva nessuna colpa, era stato il temporale a spalancare la finestra. Anzi, Adelina aveva cercato di richiuderla, ma il vento non aveva voluto. Era davvero disperato, aveva bisogno di qualcuno che lo consolasse, e lei era rimasta tutta la notte ad ascoltare i suoi lamenti, a lasciarsi abbracciare, a condividere il suo pianto, che non smetteva mai di bagnarla con raffiche di lacrime gelate.
Adesso finalmente era estate, e il primario le aveva promesso che se fosse stata brava avrebbe fatto riaprire la finestra. E lei era stata brava: aveva preso le medicine senza fare capricci, anche se quei veleni le guastavano i pensieri mangiandosi i ricordi; un paio di volte era anche scesa in giardino sotto un sole maligno che le voleva bruciare i capelli.
Il primario era buono. Un giorno era riuscito a convincerla a pranzare con lui alla mensa insieme agli altri medici e infermieri, che osservavano stupiti il tavolo di quella insolita coppia. Lui aveva mangiato pochissimo, più che altro aveva parlato dell’amicizia che lo aveva legato per anni al padre di Adelina. A voce bassa aveva ricordato i meriti e le qualità di quel grande scienziato. Lei aveva mangiato tutto, per fare la brava e riavere la sua finestra aperta. Quel che diceva il primario le interessava poco: il padre era morto da tempo, così come suo fratello Daniele e la madre. Morti, proprio come tutti quelli che occupavano i tavoli della mensa, solo che loro ancora non lo sapevano. Continuavano a parlare, muoversi, mangiare, ma in loro la vita non scorreva libera, era come se l’avessero incapsulata in qualche osso o nascosta in una ghiandola. Ma soprattutto non avvertiva in quei corpi la misericordia che trasudava dalle piante del giardino, da ogni singola foglia, da ciascun fiore. Una misericordia sospesa sui rami, pronta a volare via al primo soffio per spandersi nel mondo degli uomini a ricordar loro di essere vivi.
Provò ad aprire la finestra, ma era bloccata con viti e grossi chiodi. Rassegnata, si sedette allo scrittoio per prendere carta e penna. Gabriele era ancora vivo, e anche Ernesto, ma lui era andato via da tanto tempo in cerca di pace. Povero Ernesto. Credeva davvero che bastasse fuggire dall’altra parte del mondo per dimenticarsi di se stessi?
Il foglio bianco, la penna tra le dita… tutto era pronto per iniziare a scrivere. Non le piaceva chiedere qualcosa per sé, non le era mai piaciuto, perché in fondo credeva di non meritarsi nulla da nessuno. Anche lì dentro difficilmente disturbava gli infermieri per delle richieste, ma gli orli delle maniche della vestaglia erano troppo consumati, e il tessuto, sui gomiti, era diventato talmente sottile che rischiava di lacerarsi. Doveva assolutamente scrivere al fratello.
“Caro Gabriele, scusami se ti disturbo ancora, ma mi occorrerebbe una vestaglia nuov…”
Smise di scrivere inorridita: vocali e consonanti tremavano come percorse da un terrore che le deformava. Con un lamento di sopportazione appallottolò il foglio e lo gettò via. Ne prese un altro, poi alzò gli occhi al cielo in cerca di un’invocazione, che non riuscì a trovare. Provò di nuovo, e ancora e ancora. Vocali e consonanti continuarono a tremare fino all’ultimo foglio, ma senza mai confessarle che non era più capace nemmeno di scrivere una lettera.
Raccolse da terra il primo foglio che aveva iniziato a scrivere. Era tutto stropicciato. Con le mani lo stirò sullo scrittoio accostato alla finestra. Oltre i vetri fissò l’aiuola degli oleandri, che la convinsero a continuare la lettera. Che le vocali e le consonanti tremassero pure, che la prendessero in giro, tanto Gabriele era suo fratello, avrebbe capito perfettamente ogni singola parola.
Dopo il primo rigo fece una pausa per far riposare la mano. Guardò verso il giardino. Le ricordava la sua infanzia, le vacanze nella villa con i genitori e i fratelli. Da piccola saliva sugli alberi per strappare le ciliegie dai rami, ma di nascosto, perché la madre trovava sconveniente per una bambina arrampicarsi sugli alberi per mangiare frutta come una scimmia. Il padre, invece, la guardava da lontano divertito.
Riprese a scrivere. Le lettere vacillavano come la sua anima ammalata. Se almeno avesse potuto aprire la finestra, allora sì che la mano sarebbe ritornata ferma come quando strappava ciliegie. Bisognava aspettare che riaprissero la finestra, e di notte sarebbe volata via per tornare al suo ciliegio. Gabriele le avrebbe portato la vestaglia e le pantofole nuove, così il primario, vedendola elegante e in ordine, le avrebbe certamente fatto riaprire la finestra.
* * *
«Eh no, qui bisogna rompere il muro, cambiare i tubi… questo impianto come lo tocchi va a pezzi.»
Lo pseudoidraulico, robusto com’era, riempiva il minuscolo bagno di mattonelle bianche. Si mise a fissare la piccola finestra, che di luce ne dava poca, ma sembrava ipnotizzarlo.
Daniele andò a sedersi sulla sedia a dondolo lasciandolo da solo a contemplare il bagno. Telefonò in ufficio per trasformare il ritardo in una giornata di permesso. Quello che gli aveva mandato Biagio non era un vero idraulico, era riuscito a trovare solo un lontano parente.
«Ha le mani d’oro, sa aggiustare di tutto. Fa il contadino, ma prima della pensione lavorava alla fabbrica delle ceramiche, quella vicino alla chiesa in fondo alla…»
«Non ha importanza dove lavorava, me lo mandi subito! Dai rubinetti non esce niente, stamattina non ho potuto nemmeno lavarmi.»
Aveva riattaccato con la speranza che qualcuno riuscisse ad aggiustare il bagno il più presto possibile, perché era incapace di uscire di casa senza farsi la doccia. Invece lo pseudoidraulico era arrivato dopo un paio d’ore. Sui sessant’anni, un cappellino di lana marrone calato fino alle sopracciglia, era entrato armato di una logora cassetta degli attrezzi e di un sorriso enigmatico. In un primo momento Daniele aveva pensato che volesse sfotterlo, ma presto si era reso conto che quella era la sua espressione naturale, anche quando aggrottava le sopracciglia per intimorire i rubinetti.
«Bisogna trovare i pezzi. Non è facile, perché ora i tubi li fanno più sottili, di plastica. Questi sono ancora di metallo… si deve rompere il muro, stuccare, riattaccare le mattonelle… Per quando le serve il lavoro?»
«Per oggi. Faccia il minimo indispensabile, per il resto vedremo. Mi basta che funzioni.»
Doveva essere proprio difficile, forse impossibile, perché lo pseudoidraulico prese una sedia e si piazzò di fronte a Daniele.
«Per prima cosa ci vorrebbe una buona tazza di caffè, poi una bella sigaretta, anche se sono anni che non ne tocco una. Almeno così mi faccio una scopata in più e campo meglio.»
Scopare? Quel caprone? E con chi? Con la moglie, visto che portava la fede.
Il tizio guardò la macchinetta del caffè sul fornello e sospirò. Poi fu distratto da qualcosa.
«Senti?»
Anche lui passava dal lei al tu, Daniele ormai ci si era abituato.
«Zitto, zitto… senti? Tiritì tiritì tiritiritì. Dev’essere sul pino qui fuori. Adesso gli sta rispondendo un altro. Chissà cosa si stanno dicendo. Sono strani, gli uccelli: chiassosi, ma intelligenti. A giugno nel mio campo ho trovato un nido con quattro uova. L’avevano costruito su un ramo basso, e già questo è raro, ma addirittura avevano usato un pezzetto di plastica. Plastica, capisci? Quella sottile delle buste. Che le devo dire… staranno imparando a usare qualsiasi cosa per costruire i nidi. Magari tra cento anni li faranno tutti di plastica o mischiando pietrisco e rametti. Insomma, costruiranno delle vere casette sui rami.»
Guardò oltre le spalle di Daniele, verso il pino con occhi e naso.
«È bello alto quest’albero… io invece è una settimana che lavoro per abbassare i miei olivi.»
E come si fa ad abbassare un olivo? L’uomo lesse la domanda negli occhi di Daniele intuendo che quello, di piante, non ne capiva niente.
«Lo poti in alto e lasci crescere i rami di sotto. Se lo vuoi alzare, fai il contrario. Così a poco a poco, anno dopo anno, la pianta si abbassa o si alza. Su una pianta bassa ci lavori meglio con il rastrello elettrico, fai prima. Da queste parti le facciamo tutti basse. In certi posti, invece, fanno crescere anche in cima dei rami pesanti, che poi si piegano, così alla fine un olivo sembra un salice. Però devi lavorarla da piccola, una pianta, se passa troppo tempo c’è poco da fare. Hai visto quell’olivo… quello grosso, dopo la curva grande che scende giù? Hai capito quale?»
Quella strada era piena di curve grandi e piccole segnate da un olivo, ma annuì, purché lo pseudoidraulico si decidesse ad aggiustare la doccia.
«È un gigante, avrà non so quanti secoli. Hai poco da abbassare o alzare: ormai è così e basta.»
«Secoli? Può vivere tanto un olivo?»
«Hai voglia! Quello lì sai quanta gente avrà visto nascere e morire… Per questo ce l’hanno con gli alberi: in confronto a noi, sono immortali.»
«Chi ce l’ha con gli alberi?»
«La gente ce l’ha con gli alberi. Non tutti, si capisce, ma molti sì. Ce l’hanno con gli alberi, ma mica lo sanno.»
Daniele alzò gli occhi al cielo. A sua volta lo pseudoidraulico ebbe un altrettanto esplicito gesto d’insofferenza: sbatté le mani sulle cosce poderose che gli gonfiavano i jeans. Credeva che quel tipo fosse più intelligente, e invece bisognava spiegargli proprio tutto. Si tirò il berretto fin quasi sugli occhi per non far scappare le idee dalla testa.
«L’uomo ha troppa paura della morte. Per questo distrugge quello che dura più di lui: alberi, montagne, mari… Contro la morte non puoi fare niente. Quando arriva arriva, meglio non pensarci. Se invece uno ci pensa, allora diventa cattivo o debole. Se diventa cattivo passa la vita a pensare solo ai cazzi suoi e a fottere gli altri, se è debole si piange sempre addosso e può anche diventare matto. Molti alla morte ci pensano in vecchiaia o se sono malati, ma se non sanno camminare sulla terra ci pensano a tutte le età. E allora la paura della fine li fa diventare cattivi. È che non sanno camminare sulla terra.»
«No, eh?»
«No. Camminano sulle ruote delle macchine, degli autobus, dei treni… sulle strade, i marciapiedi… mai sulla terra nuda, quella che affonda sotto i piedi, umida e grassa. Su quella ci camminano in pochi, e raramente.»
«E questo è male.»
«È male sì. Se sei abituato a camminare nei campi, a fermarti quando sei stanco per bere un goccio d’acqua o per guardarti intorno, allora senti i piedi piantati nel terreno. Sei attaccato alla terra, come gli alberi, e come loro non pensi alla morte, senti la vita che hai davanti in quel momento, e te la godi tutta. Gli olivi vengono dalla terra, la terra da Dio e lui nessuno sa da dove viene. Sono le stagioni a decidere quando nascere, crescere, moltiplicarsi, morire, per poi ricominciare daccapo, magari lontano, dove il vento ha trasportato un seme. È un cerchio che non deve spezzarsi mai.»
Daniele accavallò le gambe e concentrò lo sguardo sulla punta delle scarpe.
«Be’, adesso mi tocca andare a cercare questi benedetti tubi. Lascio la cassetta con i ferri. Ci metto poco. Al ritorno ti trovo qui, no?»
Lo pseudoidraulico si alzò per uscire. Daniele si staccò dalla sedia con uno scatto di reni.
«Aspetti, prima ti faccio un caffè.»
Anche lui, senza accorgersene, era passato dal lei al tu.
Era ormai sera quando lo pseudoidraulico andò via con il suo sorriso disincantato e la logora cassetta degli attrezzi. Dopo la doccia Daniele provò ad accendere quello strano camino sistemando dei legnetti sotto due ciocchi di olivo sospesi su due alari. Come aveva visto fare alla gente del paese, appallottolò delle pagine di giornale e le disseminò tra i rametti. Quel sottobosco di carta e legno si incendiò subito e insidiò con la fiamma i due ciocchi. Ora bisognava controllare che anche loro prendessero fuoco. Nell’attesa spostò la sedia a dondolo davanti al camino.
Un ciuffo di chioma del pino con occhi e naso riempiva il piccolo oblò sopra il fornello a gas. Ormai non conosceva solo quello, di albero, cominciava a distinguerne molti altri: i mandorli, con i loro fiori bianchi che provavano a sbocciare già a febbraio; i tigli, che esplodevano in una profumata matassa di foglie; i cedri del Libano, che puntavano in alto il loro tronco agile aggettivato da sparuti rami. Poi c’erano i ligustri dal fusto snello, invidiosi dei possenti olivi con le foglie piccole ma verdissime. Pareva impossibile che una pianta così robusta partorisse foglie e frutti tanto piccoli. I rami, invece, erano poderosi, ostinati. I due ciocchi nel camino resistevano, convinti di fare ancora parte di un albero vivo, che continuavano a proteggere rispondendo al fuoco con minacciosi scoppiettii.
Le fiamme cominciavano a riverberare nella sera della stanza. Sentì scivolare al suo fianco una presenza affettuosa e fragile, come quella di Francesco nelle domeniche in cui Barbara gli concedeva di vederlo. Un silenzio carico di attese per gite e viaggi che puntualmente si arenavano davanti a un gelato al tavolino di un bar.
La silenziosa presenza gli saltò sulle gambe: era Sfinge. Quel gatto continuava ad andare e venire a suo piacimento. Quasi sempre era intento a leccarsi, raramente pareva accorgersi di Daniele. Un pomeriggio se l’era trovato a miagolare disperato davanti al portoncino di casa. Non ci aveva badato più di tanto, ma la stessa scena si era ripetuta il giorno dopo e quello dopo ancora. Miagolava e lo fissava supplicando. All’inizio gli aveva lasciato del cibo in una scodella davanti al portoncino, il gatto, diffidente, mangiava veloce e subito spariva. Poi si era insinuato gradualmente all’interno: prima una zampa, la testolina, infine un giorno se lo era ritrovato disteso sul letto a imitare una sfinge. Doveva essere entrato insieme a lui, ma Daniele non se n’era nemmeno accorto.
Adesso Sfinge voleva le coccole. Le pretendeva con gli occhi verdi attraversati dalle pupille strette dei felini, altrimenti si sarebbe trasformato in una tigre e lo avrebbe divorato. Se fosse stata femmina, l’avrebbe chiamata Barbara. Mentre lo carezzava, chissà perché, gli venne in mente il mitico professor Gualtiero, un antenato di cui il padre gli parlava in continuazione. Uno che aveva speso tutta la vita a cercare nella scienza una formula che gli permettesse di dare un senso alla propria vicenda umana, come avevano fatto per secoli i suoi avi. Tutti delusi dal proprio tempo, e tutti convinti che solo grazie alla scienza, all’arte, alla giustizia e al dovere l’umanità sarebbe diventata migliore di quello che era. Animato come loro da una fede laica nell’uomo del domani, aveva consumato l’intera esistenza a lavorare per i posteri. Che senso aveva? In ogni caso lui non c’entrava niente con tutte quelle storie. Gli andava benissimo campicchiare con la vita che si ritrovava, purché fosse riuscito a conquistare un po’ di tranquillità.
A ogni carezza Sfinge socchiudeva gli occhi.
* * *
Sprofondato nella poltrona, il comandante emergeva a stento dalla scrivania. Il colletto della camicia aperto, la cravatta allentata, Daniele non lo aveva mai visto in quelle condizioni. Era sempre ordinato, stretto nella compostezza di chi è così abituato a portare una divisa da sentirsela addosso anche quando è in borghese.
Dopo aver salutato senza ricevere risposta, Daniele gli si sedette di fronte. Il silenzio continuava ad aleggiare nella stanza inseguito dagli occhi incerti del comandante. La quiete forse precedeva lo scoppio di un temporale. Pioggia a raffica, obliqua, dalla quale non può salvarti nessun ombrello. Ma per quanto tenesse la testa bassa, non arrivava nemmeno una goccia. Brutto segno. Anche il generale a volte lo mortificava con un lungo silenzio più micidiale di un urlo. Però quell’uomo molle e grassoccio accasciato nella poltrona, con i capelli bianchi arruffati e lo sguardo perso, non era certo suo padre. Quel silenzio doveva finire.
«Mi ha fatto chiamare?»
Il comandante si riscosse dal suo sgualcito torpore, si alzò e cercò d’infilare la pancia nei pantaloni. In genere la teneva ben nascosta sotto la giacca, per questo Daniele non l’aveva mai notata più di tanto, ma ora sembrava un pallone che l’uomo non riusciva a insaccare nella cintura.
«E chi se ne frega! Chi se ne strafrega!»
Mai aveva gridato così. Di solito era disciplinato anche nella collera, adesso, invece, masticava parole senza riuscire a pronunciarle. Finalmente ingoiò il turbine di frasi affastellate nella gola, poi, sgonfiandosi con un lungo respiro, si afflosciò sulla poltrona.
«Qui ormai ci sono solo cartacce: verbali di multe prescritte, documenti di trenta, quaranta, mille, un milione di anni fa! Rapporti di questura scritti ancora a mano, pensa un po’… a mano! Fondi di archivio senza nemmeno più una data! E da dove vengono? Da amministrazioni remote nel tempo e nello spazio! Carte tanto riservate quanto un rotolo di carta igienica! È da un pezzo che hanno smesso di mandarci roba importante: trascrizioni di intercettazioni più o meno autorizzate, rapporti riservati, vecchie liste di gente da tenere sotto controllo…»
Quindi la pensava come loro, ma non l’aveva mai confessato a nessuno. Anzi, fino a quel momento aveva sempre pontificato sulla massima importanza della loro “missione”. E invece ora, all’improvviso, pareva avesse scoperto la verità.
«Ogni tanto mandano ancora qualcosa di decente, come quel pacco che ti ha dato Marco la settimana scorsa, ma capita di rado. Pensa: arriva un plico sigillato, lo faccio eliminare in fretta e furia e firmo! Già, perché sono io a firmare decretando la fine di chissà quali segreti. Io e solo io. Così, se un domani scoppia un casino, sono l’unico coglione che ci va di mezzo! Io, lo stronzo che ha eseguito un ordine verbale dato per telefono! Ti rendi conto che non ho neppure un bigliettino di riscontro per tutti gli ordini che mi hanno dato? E questo perché, come ogni buon militare, so che il mio dovere è obbedire. Sono responsabile anche di quel che combinano i Pinguini, come li chiamate voi. Ma se non so nemmeno cosa fanno, sempre chiusi nella loro stanza! Che gran coglione che sono stato. Per anni ho distrutto secchiate e secchiate dei loro rifiuti senza neanche avere il tempo di sentirne la puzza.»
Daniele, invece, qualche volta l’aveva sentita, quella puzza. Tra un mare di scartoffie consumate anche dall’aria, ogni tanto gli erano capitati fogli ancora freschi, tenuti come si deve, pieni di storie inquietanti che poco o nulla avevano a che fare con certe versioni ufficiali di stragi, omicidi, sparizioni… Erano storie così poco realistiche da sembrare inventate, invece erano la verità. Né lui né Lucia o Ico avevano mai avuto il tempo o il coraggio di leggere uno di quei dossier per intero, ma qualche occhiata l’avevano data. Così avevano capito che esisteva una storia vera diversa da quella che squadre di invisibili Pinguini sceneggiatori inventavano per il pubblico. Aveva ragione Ico: il trucco era mescolare un briciolo di verità a una massa di bugie, fin quando quello che era vero diventava falso e viceversa. Un lavoro da professionisti, che però col tempo risultava di qualità sempre più scadente, quasi che ormai non si preoccupassero nemmeno di mentire in modo credibile. Se tutti si bevevano quelle evidenti balle, voleva dire che anno dopo anno, scandalo dopo scandalo, strage dopo strage, si erano assuefatti alla menzogna, disinteressandosi alla verità. Questo in ufficio lo sapevano bene, ma nessuno ci trovava nulla di strano, meno che mai lui, Lucia e Ico.
«Ti sei mai chiesto perché non la mandano direttamente all’inceneritore, tutta quella roba?»
Se lo era mai chiesto? Se lo chiedevano tutti! Daniele lo aveva domandato proprio a lui, al comandante, quando aveva iniziato quello strano lavoro. Ricordava anche la risposta: era indispensabile aprire i fascicoli e controllare rapidamente che non ci fossero finiti dentro incartamenti estranei. E che significava? Come si faceva a controllare in pochi minuti centinaia di pagine senza leggerle? Si poteva, si poteva, bastava un po’ di buona volontà e metodo, si era sentito rispondere.
«Te lo dico io il perché: l’alibi della burocrazia. Devono essere sicuri che a ogni passaggio della carta da eliminare ci sia un timbro, una firma, testimonianze di valutazione scrupolosa. I documenti devono sparire, sì, ma non distrutti dal primo usciere di passaggio. Vanno selezionati da personale qualificato, sotto la diretta e vigile responsabilità del dirigente del servizio. In questo caso io. Deve rimanere agli atti la prova di un iter rigoroso, un percorso certificato tra divisioni, dipartimenti, sezioni e nuclei. In realtà, quel che sembra un ordine perfetto è un labirinto che finisce nel nulla, decorato di timbri, firme e numeri di protocollo, sempre a garanzia del rispetto della norma. Ma di quale norma? Quella di scaricare, in caso di problemi, tutta la responsabilità su un povero cristo dimenticato in un angolo del labirinto. Uno come me. E ora? Ora, dopo una vita di servizio inappuntabile, dico i-nap-pun-ta-bi-le, ora ecco qua!»
Il comandante aprì un cassetto, ne estrasse una busta stropicciata e la sbatté sulla scrivania.
«Leggi, leggi pure.»
Il ministero, grato per il servizio reso, annunciava la messa a riposo del comandante a partire dal 1° dicembre. Ma al 1° dicembre mancavano una ventina di giorni.
«Si sono pure dimenticati di farmelo sapere per tempo. Forse perché avevo chiesto una proroga in attesa di un nuovo incarico, nella speranza che alla fine qualcosa di decente me l’avrebbero pur fatta fare. Ormai credevo che avessero accettato la mia richiesta, invece qualche idiota l’avrà dimenticata chissà dove, ed ecco che mi mandano al diavolo senza nemmeno avvisarmi per tempo.»
Daniele poggiò la lettera sulla scrivania.
«Be’, se vuole la passo nella mangiacarte.»
Le sopracciglia del comandante s’incurvarono fino a creare un arco minaccioso che, però, a poco a poco si sollevò a disegnare una capannina con dentro due occhi acquosi.
«Bravo! Poi troviamo il modo di far sparire pure la fotocopia o il file, però senza mettere né timbri né firme. Sarà come se non fosse mai esistita, quella lettera, e io rimarrò in servizio altri mille anni. Ci vorrebbe proprio! Davvero!»
Rideva con la mano sulla bocca come un bambino che l’ha detta grossa. Poi, riprendendosi la lettera, fissò Daniele e la risata si spense.
«Al ministero gira voce che vogliono chiudere questo baraccone. Anche se non fosse vero, corri il rischio di diventare un cestino dei rifiuti come me. Sei ancora giovane, cambia vita, vai via da qui. Tuo padre diceva che se un uomo perde i suoi sogni, perde anche la dignità. Trova un sogno dentro di te, uno qualunque, e inseguilo fino in fondo.»
Il guaio era che Daniele di sogni non ne aveva nemmeno uno, tranne forse quello di tornare con Barbara e Francesco. L’aveva capito proprio nell’ultimo incontro con lei in quella stazione talmente grande e deserta da sembrare finta. Finto, era tutto finto, come il legno della scrivania del comandante e le rose di plastica nel vaso sulla finestra.
Invece di andare nel suo ufficio uscì sul piazzale per sincerarsi che il mondo fosse ancora come lo aveva lasciato. Non lo trovò cambiato rispetto a qualche minuto prima. Una macchia scura gli attraversò gli occhi costringendolo a guardare in alto. Gli storni volavano fitti nel cielo, muovendo le ali in modo frenetico. Ce n’erano tantissimi lassù a disegnare nell’aria geometrie cangianti; una nuvola nera che diventava losanga, poi ellisse, si allargava e restringeva in improvvise virate nel tentativo di dar vita a una figura stabile. Daniele non riusciva a capire se seguissero la direzione di un capo o decidessero tutti insieme, all’improvviso, quale forma inventarsi per stupire l’uomo fermo nel piazzale. Chissà qual era il vero scopo di quelle continue false partenze. Qualcuno gli aveva detto che era una tattica per confondere falchi e altri predatori. Di sicuro gli storni, di energie da spendere, dovevano averne più che a sufficienza. Li aveva visti spesso aggirarsi in squadriglie sulla collina del paese, volteggiare instancabili tra i rami degli alberi alla ricerca delle olive scampate alla raccolta. A volte riuscivano a trovare un oliveto abbandonato e allora, chissà come, arrivavano all’improvviso dai quattro angoli del cielo.
A forza di acrobazie il volo degli storni disperse i pensieri di Daniele, che tornò in ufficio con l’animo sollevato.
La mangiacarte lampeggiava impaziente: Ico non aveva vuotato il serbatoio. Lo avrebbe portato lui in magazzino per scaricarlo nel cassonetto giallo. A fine settimana un camion sarebbe venuto a prendere quella massa biancastra per portarla in una fabbrica vera, dove l’avrebbero trasformata in carta riciclata. Gli autisti della ditta all’inizio chiedevano come mai producessero carichi tanto modesti di carta da macero, poi una volta Ico, abbassando la voce, aveva spiegato che era una faccenda di contributi statali e politica. Loro avevano annuito complici e non avevano mai più fatto domande. A volte il risvolto ecologico del suo strano lavoro dava a Daniele un’effimera consolazione.
* * *
Già dalla salita che portava alla piazza era evidente che doveva essere successo qualcosa di grave. La tigre nera aveva dovuto fermarsi davanti a un muro di persone. Era rimasta così, incerta sul da farsi, annusando la folla senza voce, poi aveva ringhiato sommessamente, fin quando Daniele l’aveva lasciata nell’unico spazio libero: davanti al benzinaio. Tanto era chiuso, doveva essere salito in piazza anche lui.
Scendendo dall’auto aveva sbattuto troppo forte la portiera. Dall’alto della salita la prima fila di statue si era voltata in un unanime sguardo severo. L’unica era andare a piedi in piazza per scoprire il motivo di quel silenzio immobile.
C’erano tutti. Nanni, fermo davanti all’entrata del bar, lo salutò con un mezzo sorriso subito cancellato da un finto colpo di tosse. Il postino, con il suo giubbotto fosforescente, teneva il casco per la cinghia, ma forte, come per paura che rotolasse via in cerca del motorino. La fioraia, con un fazzoletto viola davanti alla bocca, sussurrava qualcosa a un vigile che scuoteva sconsolato la testa, mentre lo pseudoidraulico li guardava con partecipazione. Biagio se ne stava confinato in un angolo.
Daniele rimase incastonato ai margini di quella ressa che di bocca in bocca accennava alla medesima storia. Brandelli di frasi si sgretolavano nell’aria.
«Troppo giovane… due figli piccoli… brava moglie… male improvviso… tragedia…»
Un uomo, doveva essere il marito, abbracciava a uno a uno i compaesani sul sagrato della chiesa, i capelli sciupati dal vento. Il silenzio era assoluto. Solo ai margini della calca ogni tanto qualcuno sgattaiolava fuori per salutare un amico o scambiare una parola. Gli altri, tutti gli altri, tacevano a labbra serrate. Guardavano la ragazzina bionda sui dodici anni che, imitando il padre, stringeva una mano dopo l’altra, rispondeva a ogni bacio, a ogni abbraccio, ignorando il fratello più piccolo, che voleva andarsene. Con tutti quegli abbracci, baci e condoglianze l’intero paese, ma soprattutto suo padre e sua sorella, stavano decidendo che la madre davvero non sarebbe mai più tornata. Questo pensava il bambino, o almeno così si immaginava Daniele.
La piazza era gremita come nelle occasioni speciali. Nel microscopico mondo del paese erano molte le occasioni speciali: un matrimonio, un battesimo, un litigio, una festa. La vita tutta era un’occasione speciale, compresa l’ultima, la morte. Daniele avrebbe dovuto intuirlo già da prima. Salendo per la strada che porta al paese aveva superato un trattore con il rimorchio pieno di rami. Non un olivo, perché per loro non era tempo di potatura, non ancora. Doveva trattarsi di un’altra pianta, ma quale? Non aveva molta importanza, prima o poi bisogna potarlo, un albero, così che possa respirare libero per vivere la sua lunga esistenza. Qualcosa, qualcuno, deve pur morire perché tutto il resto continui a vivere, anche se quella donna era molto giovane, i figli troppo piccoli. Pure sul trattore Daniele aveva visto dei rami ancora giovani, apparentemente sani. Stavano lì per errore o per imperscrutabile sapienza del potatore.
«Tocca a noi.»
Giovanni il barbiere aveva bussato sulla spalla di Daniele, che lo seguì senza chiedersi il perché. Man mano che la marea riconosceva il barbiere si divideva rispettosa per lasciarlo passare. Anche Daniele godeva di quel privilegio. Strinse la mano al vedovo. Nei suoi occhi non lesse nessuna domanda: chi fosse, a che titolo stesse lì a fargli le condoglianze… nemmeno la bambina gli prestò attenzione. Il piccolo, invece, che da vicino dimostrava nove, dieci anni, sollevò il capo per guardarlo con un lampo di gratitudine negli occhi. Gratitudine per cosa? Quel bambino non somigliava a Francesco, eppure è proprio a suo figlio che pensò. Lo immaginò fermo sul sagrato di una chiesa ad aspettare qualcuno che non sarebbe tornato mai più.
Dopo il funerale, senza un motivo preciso, accompagnò a casa Giovanni: quel giorno le sue forbici avrebbero riposato. Dalla piazza presero per una ripida scalinata che sembrava portare in cielo, e che invece dopo quel primo tratto scoppiava in un dedalo di viuzze medievali. Il borgo doveva essere rimasto sostanzialmente lo stesso di mille anni prima, quando per quelle stradine passavano solo uomini e carretti trainati da muli. Se ne fregava, quel labirinto di case di pietra, delle meraviglie del terzo millennio, concentrato com’era a dominare la vallata con testardaggine, chiuso in un tempo scandito dalle campane delle chiese. Finestre e balconi aperti testimoniavano di case abitate, ma gli uomini erano assenti. Forse avevano seguito il funerale fino al cimitero, o si erano dissolti, in modo che loro due potessero percorrerlo in pace.
Ogni tanto lo sguardo si perdeva nel buio di qualche anfratto, interrotto poco più in là da un muro. Gli sembrò di sentire un odore di grotte marine. Qualcuno gli aveva detto che in un tempo remoto le cime di quelle colline erano isole emerse dal mare. Quell’umidità salmastra doveva essere rimasta lì da allora.
Il barbiere continuava a salire senza dire niente. Anche Daniele taceva: aveva la gola secca. Da qualche parte, gli pareva di ricordare, doveva esserci una fontana. Nanni gli aveva raccontato che il borgo era nato sulla soglia del primo millennio. Una rocca costruita sulle rovine di un tempio profano avrebbe protetto tutti gli abitanti della valle, in cambio dell’acqua che avrebbe portato ogni giorno fin lassù.
Giovanni si fermò davanti a un portone incassato nella pietra. Infilò la chiave nella toppa, ma senza aprire.
«Se vuole entrare… le offro un caffè.»
«No, grazie. Preferisco fare altri due passi fino al castello.»
Giovanni esitava, poi parlò senza voltarsi.
«Quella povera donna doveva stare più attenta.»
«A cosa?»
«A essere troppo generosa. Ci sono persone, specialmente donne, che hanno la capacità di donare molto, senza riserve. Ha visto? Tutto il paese ha partecipato al suo funerale. La voce della folla non faceva che ripetere quanto fosse stata perfetta la sua vita e di quanto amore avesse riempito il marito e i figli. Dicevano fosse sempre serena, allegra.»
Scosse la testa.
«Nessuno è sempre felice. Se una persona lo fa credere agli altri è perché non vuole vederli tristi. Decide di tenere per sé ogni pena. Prima o poi, però, la pena può diventare troppo forte, tanto da spezzare la vita che la accoglieva. Allora tutti si meravigliano e si chiedono perché la morte abbia preso proprio quella vita così presto e così all’improvviso.»
Salutò con un cenno della mano e imboccò svelto la porta di casa. Daniele riprese la salita pensando alle parole di Giovanni, che aveva cercato una spiegazione a qualcosa di reale, ma da sempre inaccettabile.
Del castello rimanevano in piedi una torre diroccata e i bastioni. Si affacciò a quello che dava sul tramonto. La pianura era circondata da altre colline, e più oltre una cintura di montagne s’interrompeva per accogliere il sole fino al mattino seguente. Peccato che Francesco non fosse lì a godere di quel panorama. Ogni volta che Daniele faceva o vedeva qualcosa di bello si rammaricava che il figlio non fosse con lui. Del resto si frequentavano così poco. Il bambino aveva sempre da fare con la madre: la piscina, la scuola, gli amici… spesso, però, lo sentiva per telefono. Forse era meglio, perché gli raccontava molte più cose di quando si vedevano, quasi che la presenza fisica del padre lo mettesse in soggezione. Anche Daniele era più naturale al telefono. Ora che ci pensava, la sua era più che altro una paternità telefonica. Pure con la madre Daniele comunicava soprattutto per telefono. Il cellulare disciplinava i suoi rapporti familiari, come se abitasse in un altro pianeta raggiungibile solo attraverso l’etere.
Salì su una pietra per togliere i piedi dalle erbacce che riempivano il camminamento, ma anche per guardare il più a lungo possibile il sole che affondava all’orizzonte.
* * *
All’avvocato Gabriele i mappamondi erano sempre piaciuti, ma quello nello studio era il più bello che avesse mai visto: un globo sorretto da un piedistallo di legno che sembrava spuntare dal parquet. Era lì da quando anni prima il professor Gualtiero si era trasferito nella villa di campagna. Un reticolo di meridiani e paralleli evitava che i mari e i continenti si disperdessero nello spazio. C’erano l’avorio degli oceani, il verde delle pianure e il marrone delle montagne. Si distinguevano anche le sottili linee dei confini delle nazioni, ognuna con la sua capitale scritta in maiuscolo. Le città principali erano evidenziate da piccoli cerchi, dentro i quali vivevano milioni e milioni di persone, ma di loro sul mappamondo non c’era traccia. Gabriele fece ruotare il pianeta per passare dalle Americhe all’immenso mare dell’emisfero australe, puntato da una miriade di isole. Così andava bene, quello era il mondo che avrebbe voluto: rare, minime, fertili terre emerse dall’oceano e, su una di queste, lui, la moglie, i figli e la villa con il giardino.
Invece non era così. Il mappamondo non rappresentava più il mondo com’era stato ai tempi di Gualtiero, e nemmeno com’era fino a qualche anno prima. Hitler aveva ormai conquistato quasi tutta l’Europa, e quel somaro di Mussolini, dopo l’iniziale indecisione, gli era andato dietro prevedendo una vittoria veloce e facile, col bel risultato di trascinare un Paese impreparato in una folle guerra. Almeno era quello che Gabriele pensava, anche se ultimamente stava perdendo fiducia nelle sue capacità di lettura della realtà. In quel luglio del 1941 le truppe dell’asse stavano vincendo su tutti i fronti. Gli sembrava di essere l’unico “disfattista”, come dicevano loro, l’unico a non credere nell’immancabile vittoria.
Prima di tornare alla scrivania che era stata del padre, Gabriele si accese una delle settanta sigarette giornaliere pensando con gratitudine alle due figlie più piccole, che si divertivano a fabbricargliele con il tabacco, le cartine e l’apposita macchinetta. Costava meno che comprarle già confezionate. Del resto non solo ai pacchetti di sigarette aveva dovuto rinunciare. Molte erano state le privazioni per lui, ma soprattutto per la famiglia. Alcune, come il palco al teatro San Carlo di Napoli, erano di poca importanza e per certi versi volute. L’avvocato era stato l’unico a non scattare in piedi quando un buffone in divisa fascista era salito sul palcoscenico e aveva invitato il pubblico ad alzarsi per applaudire all’ennesima, effimera impresa del regime. Gabriele era rimasto seduto ignorando gli sguardi inquieti della moglie e dei figli che, plaudenti e dritti in piedi, cercavano di nasconderlo alla vista degli altri, ma la silente protesta era stata notata. Qualche giorno dopo si era presentato alla villa un graduato della milizia, figlio di una donna che aveva servito a casa loro e che era rimasta molto affezionata alla moglie di Gabriele. Al saluto fascista del giovanotto l’avvocato, in piedi davanti alla scrivania, le mani in tasca, aveva risposto con un secco «Buongiorno». Abbassato lentamente il braccio teso nel saluto romano, il miliziano gli aveva detto, non senza imbarazzo, che era meglio se lui e la sua famiglia avessero rinunciato al teatro. Per sempre. Gabriele aveva piantato gli occhi grigi in quelli tondi e piccoli del giovanotto. Non poteva più, come un tempo, regolare a suon di duelli le dispute con chi, nella furia del dibattito politico, gli mancava di rispetto. Era un ottimo spadaccino e quelli erano stati gli ultimi duelli di un Ottocento che allungava la sua ombra sul nuovo secolo. Si trattava di duelli ormai rari e vietatissimi dalla legge, anche se “al primo sangue”. Li vinceva tutti, solo una volta era tornato a casa con una leggera ferita alla mano. Ora, però, le mani era costretto a tenerle nascoste.
«Sa perché esistono le tasche?»
Gli aveva dato apposta del lei, e non del voi, come prevedeva una delle tante, assurde direttive del fascismo. L’altro aveva scosso la testa.
«Perché con le mani in tasca, come le tengo io in questo momento, un uomo si sente meno solo.»
«Ah…»
«Ci sono anche altri vantaggi. Vi si possono tenere i pugni chiusi, stretti stretti, buoni buoni, così si evita di fare del male a qualcuno. Capisce?»
Il miliziano si era irrigidito nel tentativo di assumere una postura marziale e non aveva replicato. Senza salutare, aveva girato i tacchi e se n’era andato.
Da tempo Gabriele aveva dovuto rinunciare anche al circolo e agli amici. Alcuni, socialisti moderati come lui, erano finiti al confino, altri, per evitare la rovina, si erano iscritti al partito fascista; altri ancora si erano rifugiati, per lo più in Francia. Ma quel che gli pesava di più era l’impossibilità di continuare a patrocinare cause in tribunale. Nessuno osava più farsi rappresentare da un avvocato antifascista, quindi addio anche alle buste che i clienti appoggiavano discretamente sul bordo della scrivania. Spesso vi lasciavano più del previsto, qualche rara volta di meno. In ogni caso era convinto che un professionista non poteva essere tanto volgare da parlare di soldi. Erano loro a doversi informare su quale fosse l’onorario di un avvocato. Onorario che cresceva in ragione della bravura e della fama, e lui era molto apprezzato in tutto il foro napoletano.
La moglie da subito avrebbe fatto a meno della cuoca, delle cameriere e dell’automobile con tanto di autista. Ma l’avvocato non voleva che a causa sua la famiglia si privasse di nulla, così anno dopo anno aveva iniziato a vendere le proprietà che il padre Gualtiero gli aveva lasciato. Ormai rimanevano la villa e qualche appartamentino in città dato in affitto per pochi soldi.
Dalla marcia su Roma in poi Gabriele si era augurato che quell’abominio della ragione che era il fascismo finisse da un momento all’altro. Non era possibile che gli italiani continuassero a credere a lungo alle fandonie di quel buffone di Mussolini. Invece lo avevano fatto. Quindi via cuoca, cameriere e autista, basta con le villeggiature nella villetta di Ischia, addio anche alla carica di sindaco e alla vita sociale, perché i più consideravano imprudente frequentarlo.
Nella cittadina dove sorgeva la villa tutti conoscevano la famiglia di Gabriele fin dai tempi del professor Gualtiero. Forse anche per questo avevano creato una discreta rete di protezione intorno all’avvocato, che prima del fascismo era stato loro apprezzato sindaco eletto nelle liste dei socialisti riformisti. La stima che lo circondava impediva che venissero a picchiarlo o a umiliarlo con i manganelli e l’olio di ricino, ma in cambio doveva farsi vedere in giro il meno possibile, e non parlare con nessuno delle sue pericolose idee. Di fatto era stato condannato a una sorta di confino a casa sua e non su qualche isoletta sperduta, com’era capitato a molti. All’inizio andava spesso in città per incontrarsi segretamente con antifascisti liberali che si raccoglievano intorno a Benedetto Croce. Avrebbe voluto raggiungere in Francia gli amici che si erano dati all’antifascismo attivo, ma quella era stata l’unica volta che la moglie, Anna, gli aveva proibito qualcosa. Già si erano ridotti quasi in miseria, vivevano isolati e venivano additati come traditori: non poteva anche abbandonare i figli per seguire le sue follie. Sì, follie, perché per lei, cresciuta nell’indigenza, l’unica cosa saggia che un uomo potesse fare era pensare al benessere e alla sopravvivenza della propria famiglia. Il resto – ideali, sogni di giustizia –, era un lusso, roba da ricchi, e loro non lo erano più.
«Anna, ma insomma, abbiamo fatto due figli e continui a chiamarmi avvocato e a darmi del voi!» aveva detto Gabriele, molti anni prima.
Aveva ragione, ma per lei quell’uomo apparteneva pur sempre a un’altra classe sociale, troppo distante dalla sua. Da quel momento aveva accettato di dargli del tu, ma nei suoi pensieri continuava a chiamarlo l’avvocato. Quando, al terzo figlio, ma solo dopo la scomparsa della madre Tecla, Gabriele si era deciso a sposarla, per lei era diventato “mio marito l’avvocato”. Anna apparteneva al popolo di Napoli, una città conquistata nel corso dei secoli da eserciti venuti da ogni parte d’Europa e dal mare. Numerose dominazioni erano arrivate e sparite, puntualmente sostituite da altre più o meno dure. Lei questo lo sapeva dai racconti della sua gente, a scuola non c’era potuta andare. Anche quel Mussolini prima o poi sarebbe andato via, sostituito da qualcuno migliore o magari peggiore di lui; i suoi figli, però, cosa c’entravano con tutto questo? L’avvocato era un uomo istruito, ma era anche un marito e un padre, e se con tutta la sua intelligenza non arrivava a comprendere che la famiglia è quello che veramente conta, glielo avrebbe fatto capire lei con la forza, la rabbia, la determinazione di una gatta che difende i suoi cuccioli.
Gabriele non era andato in Francia, ma aveva cominciato a fumare in maniera ossessiva, come per autodistruggersi. Non riusciva a darsi dell’illuso, era convinto che il fascismo sarebbe caduto, prima o poi. Magari presto, prestissimo. Anche se si sentiva come un eremita nel deserto mentre tutti osannavano il regime, non arretrava di un millimetro. Osservava con sarcasmo le famiglie che correvano in divisa alle adunate in piazza. I suoi stessi figli erano costretti a partecipare alle manifestazioni ginniche, o a vestirsi da pupazzi fascisti per andare a scuola. “Libretto e moschetto, fascista perfetto.” Che criminale idiozia!
Gabriele guardò i due calamai d’argento e cristallo sulla scrivania. Almeno quelli non aveva dovuto venderli, non ancora. Erano del padre, come la scrivania, i libri… Rabbrividì all’idea che tutte quelle cose, la villa stessa, finissero in una qualunque squallida asta di guerra. Poi spostò lo sguardo verso gli alberi del giardino. La frutta, per fortuna, in casa loro non mancava mai, mentre il fascismo e la guerra di Mussolini avevano provveduto a far sparire tutto il resto.
Il ritratto del padre era incassato fra gli scaffali della libreria. Lo sguardo di Gualtiero aveva la stessa espressione densa e malinconica di tanti altri uomini di genio immortalati in un dipinto o in una foto. Un muto messaggio che sembrava ripetersi identico di quadro in quadro, di foto in foto: se non ce la faremo a diventare migliori di quello che siamo, scompariremo dalla faccia della terra, e sarà come se non fossimo mai esistiti. Gabriele distolse gli occhi dal quadro e si accese una sigaretta. Non era stato all’altezza di quell’uomo. Da lui, però, aveva imparato a tenere fede alle proprie idee a qualunque costo, sempre.
Tra poco le figlie sarebbero venute a salutarlo, prima di andare a dormire. Ogni tanto, nonostante si sforzasse di nascondere le preoccupazioni per le sorti della sua famiglia, le maggiori vedevano i suoi occhi inumidirsi. Chi lo preoccupava di più era Aldo, il figlio maschio, che già prima della guerra aveva voluto intraprendere la carriera militare come ufficiale dell’esercito, e adesso era perso chissà dove, in quella guerra la più assurda e folle possibile. Morire per Mussolini? Ah no, questo mai e poi mai! L’unica speranza era che quell’orrore finisse presto. Il fratello Ernesto aveva avuto modo di fargli sapere dall’America che se gli Stati Uniti fossero entrati in guerra, con la loro potenza industriale avrebbero sepolto nazisti e fascisti sotto tonnellate di aerei, navi e carri armati. Sì, ma anche nella Prima guerra mondiale gli americani avevano indugiato a lungo prima di intervenire. Ernesto si diceva fiducioso, ma lui era sempre stato il più ottimista della famiglia.
Si accorse di aver acceso una sigaretta mentre l’altra fumava ancora nel posacenere. Ormai dei figli di Gualtiero erano rimasti solo lui ed Ernesto. Adelina era morta qualche anno prima. Meglio per lei, così non aveva conosciuto gli orrori della guerra e, peggio ancora, quelli del manicomio: non avrebbe potuto più pagarle la retta della clinica. L’ultima volta che la sorella gli aveva scritto era stato per chiedergli una vestaglia e delle pantofole nuove. A stento era riuscito a decifrare la calligrafia tremante con la quale aveva avanzato quelle modeste richieste, ringraziandolo mille e mille volte. Troppo sensibile, Adelina, per vivere in un mondo simile, troppo sottile la sua anima, tanto da stracciarsi a ogni soffio di vento.
Qualcuno suonò al campanello della villa. Per Gabriele non fu difficile indovinare di chi si trattasse: dell’unica persona che continuava a frequentarlo.
Carlo era un suo vecchio amico che, per fortuna di entrambi, faceva il medico, quindi poteva andare a fargli visita quando voleva. Ma l’ultima volta aveva proprio cercato di terrorizzarlo.
«I tuoi polmoni sono a pezzi, il cuore è affaticato, dormi e mangi troppo poco. Se continui a tormentarti così non credo ti rimanga ancora molto. Dico sul serio.»
«Mi basta campare fino a vedere la fine di Mussolini e del fascismo.»
«Te lo auguro. Ma stai attento… a tutto.»
Carlo, uscendo dalla villa, aveva richiuso il pesante cancello di ferro dietro di sé con troppa forza. Non sopportava l’idea di una tragedia che stava per compiersi, ma contro la quale nessuno poteva fare più nulla.